IL GRANDE MEAULNES

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IL GRANDE MEAULNES
Alain-Fournier
IL GRANDE MEAULNES
I LIOCORNI
La
gioia
di
leggere,
il
piacere
di
capire
Collana di narrativa diretta da
Attilio Dughera
“Ai giorni nostri, quando la letteratura è prossima a smarrire il proprio
indirizzo e il raccontare le novelle sta
diventando un’arte dimenticata, i ragazzi
sono i lettori ideali”.
Isaac Bashevis Singer
ALAIN-FOURNIER
IL GRANDE MEAULNES
Traduzione e note di
Sergio Calzone
Apparati didattici di
Roberto Morraglia
In copertina: Pierre Bonnard - Finestra aperta - 1912, olio su tela, Nizza,
Museé des Beaux-Arts
Apparato didattico: Roberto Morraglia
Redazione: Attilio Dughera
Impaginazione: C.G.M. s.r.l.
Progetto grafico: Manuela Piacenti
Computer to Plate: Data Pro s.r.l. - Torino
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Ristampa
543210
PRESENTAZIONE
DELLA
COLLANA
La collana “I Liocorni” è stata studiata con grande attenzione
per far crescere il piacere della lettura e contribuire in modo positivo
alla formazione culturale e letteraria, con la consapevolezza che
proporre dei testi di lettura a un pubblico di giovani è impresa davvero
ardua, innanzitutto perché un’esperienza negativa per un giovane può
essere decisiva e rischia di gettare un’ombra lunga sul suo futuro di
lettore o divenire addirittura la causa del suo allontanamento definitivo e irreversibile dal libro.
I testi che propone la collana sono tutti “classici”, che hanno significato, per motivi diversi, un momento importante nella storia della
letteratura e che, anche per questo, hanno una “tenuta” comprovata;
sono testi che, debitamente interrogati, continuano a dare molte risposte attuali e accattivanti. In tal modo, salvaguardando il piacere della
lettura, ci si può avvicinare a opere significative, a temi di grande rilevanza letteraria, ad autori non solo italiani ma di tutte le letterature,
ponendo così fondamenta ben salde per quell’edificio culturale che,
nel tempo, sarà destinato a consolidarsi.
Con lo sguardo rivolto al passato, recente ma anche molto
lontano, sono stati scelti quei testi di narrativa con un forte potere di
seduzione soprattutto per un giovane studente; essi, infatti, sono un
invito a percorrere gli universi della fantasia, in un mondo popolato
da creature fantasiose, come il liocorno, create dalla grande letteratura di tutti i tempi: un mondo molto lontano, che i ragazzi frequentano con gioia, di cui conoscono regole e leggi, modalità e caratteri e
in cui si muovono con grande disinvoltura e destrezza.
Spesse volte di questi testi gli studenti possiedono già una conoscenza “indiretta”, perché a loro si sono ispirati il cinema o la televisione,
che li hanno trasposti sul grande o piccolo schermo; si tratta così di
compiere un’azione a ritroso, per recuperare la fonte diretta, per andare
alla sorgente e potere appropriarsi in modo personale di un patrimonio
letterario a nostra disposizione, senza più accontentarsi di letture parziali
o già reinterpretate da altri. Questa operazione avrà il sapore della scoperta,
sarà ricca di piacevoli sorprese e avrà una grande valenza culturale.
ATTILIO DUGHERA
INDICE
■
INTRODUZIONE
9
1. La vita di Alain-Fournier
9
2. Il
•
•
•
•
grande Meaulnes
La trama
I temi
Il sistema dei personaggi
La struttura e le tecniche narrative
10
3. Bibliografia
• Opere di Alain Fournier
• Studi critici
18
L’apparato didattico
20
PARTE PRIMA
Capitolo 1 - L’OSPITE
23
Capitolo 2 - L’EVASIONE
35
Capitolo 3 - BUSSANO AL VETRO
47
Capitolo 4 - L’AVVENTURA
59
Capitolo 5 - LA TENUTA MISTERIOSA
67
Capitolo 6 - LA STRANA FESTA
77
Capitolo 7 - FRANTZ DE GALAIS
93
PARTE SECONDA
Capitolo 1 - L’IMBOSCATA
105
Capitolo 2 - LO ZINGARO A SCUOLA
115
7
Capitolo 3 - UNA DISPUTA DIETRO LE QUINTE
127
Capitolo 4 - LO ZINGARO SI TOGLIE LA BENDA
135
Capitolo 5 - ALLA RICERCA DEL SENTIERO PERDUTO
141
Capitolo 6 - LE TRE LETTERE DI MEAULNES
153
PARTE TERZA
Capitolo 1 - DA FLORENTIN
163
Capitolo 2 - UN’APPARIZIONE
177
Capitolo 3 - LA GITA DI PIACERE
191
Capitolo 4 - GENTE FELICE
203
Capitolo 5 - LA “CASA DI FRANTZ”
215
Capitolo 6 - IL QUADERNO DEI COMPITI MENSILI
227
Capitolo 7 - IL SEGRETO
243
■
LAVORIAMO SUL TESTO
259
■
LAVORIAMO SUL ROMANZO
317
8
INTRODUZIONE
■
1. La vita di Alain-Fournier
■
La vita di Alain-Fournier è breve, quasi priva di avvenimenti
importanti ma, ciò nonostante, davvero intensa. Nasce nel 1886 a La
Chapelle-d’Angillon, in Sologne, una regione della Francia centrale non
lontana dalla Loira. Il suo vero nome è Henri-Alban Fournier e soltanto
nei suoi scritti egli si firma con lo pseudonimo che lo rese celebre.
Entrambi i genitori sono insegnanti e il giovane Henri fa le sue
prime esperienze scolastiche proprio nelle classi elementari e medie
che essi preparano alle superiori. Frequenta poi il liceo Voltaire a
Parigi, ma il suo sogno è di diventare ufficiale di marina; si trasferisce per questo a Brest, in Bretagna, per preparare la sua ammissione
alla Scuola Navale.
Va però nel frattempo precisandosi la sua vocazione letteraria,
tanto che, rinunciando alla Marina, continua il liceo, prima a Bourges
e poi a Sceaux. Quest’ultima scuola è il luogo in cui si lega di una duratura amicizia con Jacques Rivière che diventerà un importantissimo
critico letterario e che, nel 1909, sposerà la sorella di Alain-Fournier.
Nel 1905 avviene un piccolo fatto, destinato però a segnare una
tappa fondamentale nella vita del futuro scrittore: visitando una mostra
a Parigi, il giorno dell’Ascensione, incontra lo sguardo di una ragazza
meravigliosa che egli descriverà, poi, nelle sue lettere a Rivière e, in
seguito, nel suo romanzo.
La giovane è al braccio di una donna più anziana: egli la segue
lungo le strade di Parigi, fino a che non scopre la sua abitazione, nel
boulevard Saint-Germain. Da quel momento inizia un vero assedio,
poiché egli non si allontana più da quel marciapiede, fino a quando
non ha l’opportunità di avvicinarla e di parlarle. La ragazza, che si
chiama Yvonne de Quiévrecourt ed è nata a Parigi l’anno prima di
Alain, è evidentemente colpita dall’intensità del suo interesse, ma è
9
a quel tempo già fidanzata e si sposerà in capo a due anni con un
medico di marina, secondo il volere del padre.
Gli anni successivi saranno per il giovane Henri un periodo di
studio e, poi, di servizio militare. Ma saranno anche gli anni in cui
egli cercherà di scrivere racconti che utilizzino i suoi ricordi adolescenziali e soprattutto l’amore per Yvonne.
Tornato dalla caserma, si impiega come redattore al Paris-Journal e ha una relazione con un’altra donna, che però finisce senza
lasciargli né rimpianti, né alcun particolare arricchimento sentimentale.
Nel 1910 inizia a scrivere Il grande Meaulnes e, per dedicarvisi
con più concentrazione, lascia il giornale, diventando segretario di
un uomo politico con la moglie del quale, Simone, attrice celebre,
egli avrà una complessa relazione che servirà anche a introdurlo nei
salotti letterari della capitale.
Nel 1913 Alain-Fournier incontra per l’ultima volta Yvonne,
ormai madre di due bambini, e ciò gli serve per prendere le distanze
dalla donna reale, in modo da poterla descrivere come donna ideale
nel suo romanzo. Nello stesso anno, infatti, Il grande Meaulnes è pubblicato, prima in rivista, sulla prestigiosa “Nouvelle Revue Française”, poi
in volume, sfiorando la vittoria nel più importante premio letterario
francese, il Goncourt.
Sembra la nascita di un nuovo, grande scrittore: egli porta a
termine un testo teatrale, La casa nella foresta, e inizia un secondo
romanzo, Colombe Blanchet, ispirato alla sua relazione con Simone.
Invece scoppia la Prima Guerra Mondiale: Henri-Alban è mobilitato
nell’agosto del 1914. Inviato al fronte come tenente di fanteria, esce
di pattuglia con i suoi soldati più volte, finché, il 22 settembre, nei
pressi di Verdun, è ucciso in uno scontro a fuoco con i tedeschi. Ha
appena ventotto anni.
Il suo corpo finisce in una fossa comune germanica e, per l’esercito francese, è ufficialmente “non ritrovato”. Soltanto nel novembre
del 1991 è identificato, tanto che i resti sono trasportati nel cimitero
militare di Saint-Remy la Calonne, in Lorena, dove ora riposano.
2. Il grande Meaulnes
■
• La trama
La tranquilla vita scolastica e familiare del giovane François
Seurel è messa a soqquadro dall’arrivo, in qualità di pensionante, di
10
Augustin Meaulnes, più grande di lui e di spirito irrequieto. Il nuovo
arrivato diventa ben presto uno dei personaggi più importanti della
agitata popolazione scolastica del piccolo centro della Sologne in cui
è ambientata la vicenda, tanto da meritarsi, da parte dei compagni
stessi, il soprannome di grande Meaulnes.
Poco prima di Natale, si annuncia la visita dei nonni di François
e il signor Seurel incarica uno degli studenti di guidare un modesto
carro, tirato da un mulo e preso a prestito, fino alla stazione ferroviaria, lontana alcuni chilometri, in modo da accogliere gli anziani
genitori con i loro bagagli. Tuttavia, nel corso di una conversazione
presso il fabbro del paese, Meaulnes apprende che sarebbe possibile
recarsi in una città più lontana e risparmiare tempo, accompagnando
gli ospiti lungo una strada più lunga, ma più diretta.
Mentre la vita scolastica scorre sonnolenta, Meaulnes non si
presenta alle lezioni, si fa prestare un calesse e una cavalla, e si lancia
nell’avventura di sorprendere tutti, portando i nonni di François a
destinazione prima del previsto.
Il viaggio si rivela presto molto diverso dal previsto: la cavalla
è lanciata al galoppo dall’irruente giovane; la regione gli è sconosciuta;
la velocità ne confonde ulteriormente la capacità di orientamento. In
breve, egli si trova fuori da ogni riferimento e incapace anche di ritornare sui suoi passi.
Cercando un rifugio per la notte, capita in una strana costruzione che è stata lussuosa e ora è quasi in rovina. Qui, con gran
concorso di carrozze d’epoca, si sta tenendo una curiosa festa in cui
è evidente che i bambini hanno il diritto di imporsi agli adulti.
Partecipando, il giorno dopo, ad una gita in battello, Meaulnes
incontra una fanciulla bellissima e misteriosa: cerca di parlarle, vi
riesce per brevi istanti ed apprende soltanto che si chiama Yvonne de
Galais.
Ormai innamorato e desideroso di corteggiare la giovane, egli
non ha tuttavia altra opportunità di avvicinarla. Scopre che la festa è
stata organizzata per l’imminente matrimonio del fratello di lei, Frantz,
ma, poiché i promessi sposi non sono arrivati, gli invitati iniziano a
ritirarsi.
Meaulnes non sa come ritornare verso il paese di partenza e
accetta un passaggio su una carrozza che, gli viene detto, è diretta
all’incirca in quella direzione. Mentre si sta così allontanando dalla
tenuta misteriosa, si ode uno sparo nel folto del bosco, ed egli vede
11
Capitolo 1
L’OSPITE
■
Si presentò a casa nostra una domenica di novembre
del 189…
Io continuo a dire “a casa nostra”, anche se in realtà
non ci appartiene più. Ce ne siamo andati dal paese da quasi
quindici anni e sono sicuro non ci ritorneremo mai più.
Abitavamo negli edifici del Corso Superiore di SainteAgathe1. Mio padre, che io chiamavo signor Seurel esattamente come gli altri alunni, vi dirigeva contemporaneamente
il Corso Superiore, dove si preparava il diploma di maestro,
e il Corso Medio. Mia madre invece insegnava nelle classi
elementari.
Si trattava di una lunga casa rossa, con cinque porte a
vetri sotto dei lunghi tralci di vite vergine, all’estremità del
borgo: un immenso cortile con portici e lavanderia, che si
apriva sul villaggio con un grande portone. Sul lato nord,
c’era la strada su cui dava un piccolo cancello e che portava
alla stazione, distante tre chilometri. A sud e dietro, campi,
giardini e prati si congiungevano con la periferia…
Questo è l’aspetto sommario della casa in cui fluirono
i giorni più tormentati e più cari della mia vita, casa da cui
nacquero e dove tornarono ad infrangersi, come onde contro
uno scoglio solitario, le nostre avventure.
1 Sainte-Agathe: località fittizia, dietro la quale l’autore nasconde Epineuil-leFleuriel, la località della Francia centrale (dipartimento dello Cher) dove
Alain-Fournier trascorse l’infanzia e che non smise mai di amare.
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Il puro caso che regola i “trasferimenti” degli insegnanti, una decisione di un ispettore o di un prefetto ci
avevano condotti là. Così, verso la fine delle vacanze, molto
tempo fa, un carro contadino, che precedeva le nostre cose,
ci aveva lasciati, mia madre e me, davanti al piccolo cancello
arrugginito. Dei monelli che rubavano le pesche nel giardino erano fuggiti silenziosamente attraverso i buchi della
siepe…
Mia madre, che noi chiamavamo Millie e che era
davvero la casalinga più metodica che io avessi mai conosciuto, era appena entrata in quelle stanze piene di paglia
polverosa, e subito aveva compreso con disperazione, come
del resto ad ogni trasloco, che i nostri mobili non ci sarebbero mai stati, in una casa così mal costruita… Era uscita per
confidarmi il suo sconforto. Mentre mi parlava, aveva ripulito dolcemente con il fazzoletto il mio viso di bambino annerito dal viaggio. Poi era rientrata per fare il conto di tutte le
aperture che avrebbe dovuto far chiudere per rendere abitabile l’appartamento… Quanto a me, con un grande cappello
di paglia a nastri, ero rimasto là, sulla ghiaia di quel cortile
sconosciuto, ad aspettare, a curiosare timorosamente intorno
al pozzo e sotto il capannone.
È così, almeno, che immagino oggi il nostro arrivo.
Poiché, ogni volta che voglio ritrovare il ricordo remoto di
quella prima serata di attesa nel nostro cortile di SainteAgathe, sono in realtà già altre le attese che mi tornano alla
mente: con le mani appoggiate alle sbarre del cancello, mi
vedo già spiare con ansia qualcuno che in seguito avrebbe
percorso la via maestra.
E se cerco di immaginare la prima notte che ho dovuto
passare nella mia mansarda, tra i granai del primo piano,
sono già altre le notti che ricordo: quelle in cui non sono
più solo in quella stanza, ma una grande ombra inquieta ed
amica va e viene lungo i muri. Tutto questo ambiente calmo
– la scuola, il campo di papà Martino, con i suoi tre noci, il
giardino invaso ogni giorno fin dalle quattro dalle signore
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in visita – è per sempre, nella mia memoria, agitato, trasformato dalla presenza di colui che rivoluzionò tutta la nostra
adolescenza e neppure fuggendo ci ha lasciato in pace.
Eppure eravamo in quel paese già da dieci anni,
quando Meaulnes arrivò.
Avevo allora quindici anni. Era una fredda domenica
di novembre, il primo giorno d’autunno che facesse pensare
all’inverno. Per tutto il giorno Millie aveva aspettato una
vettura che doveva venire dalla stazione per portarle un
cappello per la brutta stagione. Quella mattina era addirittura mancata alla messa; e fino al sermone, seduto nel coro
con gli altri bambini, io ero restato a guardare ansiosamente
dal lato delle campane, per vederla entrare con il suo
cappello nuovo.
Nel pomeriggio, fui costretto ad andare da solo ai
vespri2.
“Del resto”, mi disse lei per consolarmi, spazzolando
con la mano il mio vestito, “anche se fosse arrivato, questo
cappello, avrei dovuto senz’altro passare la domenica a riaccomodarlo”.
Spesso le nostre domeniche d’inverno trascorrevano
proprio in quel modo. Fin dal mattino, mio padre se ne
andava lontano, sul bordo di qualche stagno coperto di
nebbia, in barca, a pescare i lucci; e mia madre, chiusa fino
a notte nella sua camera buia, rappezzava i suoi poveri abiti.
Si rinchiudeva in quel modo per il timore che qualcuna delle
sue amiche, altrettanto povera e altrettanto fiera, potesse
sorprenderla. Io invece, finiti i vespri, restavo a leggere nella
fredda sala da pranzo, aspettando che lei aprisse la porta per
mostrarmi come le stava il vestito.
Quella domenica, una certa animazione davanti alla
chiesa mi trattenne là davanti. Un battesimo, nell’atrio, aveva
2 vespri: funzione religiosa celebrata nel tardo pomeriggio, alle diciotto, molto
seguita specie nelle comunità contadine.
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fatto sì che si radunasse un gruppetto di ragazzi. Sulla piazza,
parecchi uomini della borgata avevano indossato le loro
casacche da pompieri3; dopo aver formato i fasci4, intirizziti
e pestando i piedi, ascoltavano Boujardon, il brigadiere, che
si confondeva, cercando di spiegare la teoria…
Lo scampanio del battesimo si arrestò all’improvviso,
come una suoneria festiva che avesse sbagliato giorno e luogo.
Boujardon e i suoi uomini, l’arma a tracolla, portarono via
la pompa5 al trotto e io li vidi scomparire alla prima svolta,
seguiti da quattro ragazzini silenziosi che schiacciavano con
le loro grosse suole i ramoscelli sulla strada coperta di brina,
dove non osavo seguirli.
In paese, non c’era allora niente di più vivo del caffè
Daniel, dove sentivo montare, per poi placarsi, le discussioni
dei bevitori. E, rasentando il muro basso del grande cortile
che separava la nostra casa dal villaggio, arrivai, un po’
ansioso per il mio ritardo, al piccolo cancello.
Era socchiuso e vidi subito che succedeva qualcosa di
insolito.
In effetti, alla porta della sala da pranzo – la più vicina
delle cinque porte a vetri che davano sul cortile – una donna
dai capelli grigi, china, cercava di vedere attraverso le tende.
Era piccola e aveva in testa un antiquato cappellino di velluto
nero. Aveva un viso magro e sottile, ma sconvolto dall’in-
3 pompieri: si tratta del corpo dei Vigili del Fuoco che ha sempre goduto, e
ancora gode, in Francia, di grande popolarità. Nei piccoli centri è costituito
da volontari che vengono addestrati di domenica, quando sono liberi da
impegni lavorativi.
4 fasci: i pompieri hanno evidentemente deposto la propria attrezzatura,
zappe e asce, in un sol punto dell’improvvisato accampamento, appoggiando
gli attrezzi gli uni agli altri, a formare un fascio, proprio come fanno i soldati
con i loro fucili.
5 pompa: all’inizio del Novecento, la pompa per gettare acqua sugli incendi
era ancora costituita da un carro cisterna con un faticoso sistema di pompaggio a mano. Tale attrezzo era l’orgoglio di ogni corpo di Vigili del Fuoco e
veniva esibito durante ogni addestramento.
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quietudine; e non so quale apprensione, nel vederla, mi
bloccò sul primo gradino, davanti al cancello.
“Dove sarà finito? Mio Dio!”, diceva a bassa voce. “Era
qui insieme a me un momento fa. Ha già fatto il giro della
casa. Forse è scappato…”.
E, tra una frase e l’altra, dava tre colpetti appena percettibili sul vetro.
Nessuno veniva ad aprire alla visitatrice sconosciuta.
Millie, senza dubbio, aveva ricevuto il cappello dalla stazione
e, senza sentire nulla, in fondo alla stanza rossa, davanti ad
un letto disseminato di vecchi nastri e di piume stirate, cuciva,
scuciva, ricostruiva il suo mediocre copricapo… In effetti,
quando entrai nella sala da pranzo, immediatamente seguito
dalla visitatrice, mia madre apparve, tenendo con le due
mani sulla testa dei fili di ottone, dei nastri e delle piume
che non erano ancora perfettamente equilibrati… Mi sorrise
con i suoi occhi stanchi per aver lavorato fino a sera ed
esclamò:
“Guarda! Ti aspettavo per farti vedere…”.
Ma, scorgendo quella donna seduta nella poltrona
grande, in fondo alla sala, si fermò, sconcertata. Molto rapidamente si tolse il cappello e, durante tutta la scena che
seguì, lo tenne contro il petto, rovesciato come un nido,
nell’incavo del braccio destro.
La donna col cappellino, che teneva tra le ginocchia
un ombrello e una borsa di cuoio, aveva incominciato a dare
spiegazioni, muovendo leggermente la testa e facendo schioccare la lingua come una signora in visita. Aveva riconquistato
tutta la sua sicurezza. Anzi, poiché parlava di suo figlio, prese
un’aria superiore e misteriosa che ci lasciò interdetti.
Erano entrambi venuti in carrozza da La Ferté d’Angillon6, a quattordici chilometri da Sainte-Agathe. Vedova –
6 La Ferté d’Angillon: nella realtà, La-Chapelle-d’Angillon, paese natale di
Alain-Fournier.
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e molto ricca, da ciò che ci fece capire – aveva perduto il
minore dei suoi due figli, Antoine, morto una sera al ritorno
da scuola, per essersi bagnato con suo fratello in uno stagno
malsano. Aveva deciso di mettere il primogenito, Augustin,
in pensione da noi affinché potesse frequentare il Corso
Superiore.
Cominciò subito ad elogiare l’ospite che ci portava.
Non sembrava più la donna dai capelli grigi che avevo visto
curva davanti alla porta, un minuto prima, con l’aria supplicante e stravolta della chioccia che abbia perduto il pulcino
selvatico della covata.
Ciò che raccontava con ammirazione del figlio era
davvero sorprendente: gli piaceva farla contenta e a volte
poteva seguire il bordo del fiume, a gambe nude, per chilometri, pur di portarle delle uova di gallinelle d’acqua, di
anatre selvatiche, perdute tra le ginestre… Tendeva anche le
reti… L’altra notte, aveva scoperto nel bosco una fagiana
presa al cappio…
Io che non osavo più tornare a casa quando avevo uno
strappo nella camicia, guardavo Millie attonito.
Ma mia madre non ascoltava più. Fece addirittura segno
alla signora di stare zitta e, posando con cura il suo “nido”
sul tavolo, si alzò silenziosamente come per sorprendere qualcuno…
Sopra di noi, infatti, in uno sgabuzzino dove si ammucchiavano i fuochi d’artificio anneriti dell’ultimo Quattordici
Luglio7, un passo sconosciuto, sicuro, andava e veniva,
facendo tremare il soffitto; attraversava gli immensi granai
7 Quattordici Luglio: si tratta della festa nazionale francese, in ricordo della
presa della Bastiglia, il 14 luglio 1789, uno dei primi atti della Rivoluzione
Francese. In simili occasioni, si festeggia nelle strade, la mattina con una parata
militare o dei vigili del fuoco; il pomeriggio con grandi bevute; la sera con
balli in piazza. Al termine, quasi ogni paese e città di Francia offre ai cittadini uno spettacolo di fuochi d’artificio.
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tenebrosi del primo piano e si perdeva infine verso le camere
abbandonate dei supplenti, dove mettevamo a seccare il
tiglio8 e a maturare le mele.
“È già da un po’ che sento questo rumore nelle camere
al pianterreno”, disse Millie a bassa voce, “e credevo che fossi
tu, François, che fossi rientrato…”.
Nessuno rispose. Eravamo tutti e tre in piedi, con il
batticuore, quando la porta del granaio che dava sulla scala
della cucina si aprì; qualcuno scese i gradini, attraversò la
cucina e si presentò nell’entrata buia della sala da pranzo.
“Sei tu, Augustin?” disse la signora.
Era un ragazzone di circa diciassette anni. Subito, di
lui, non vidi, nell’oscurità che calava, che il suo cappello di
feltro da contadino calzato all’indietro e la sua blusa nera
stretta con una cintura, come le portano gli scolari. Potei
distinguere anche che sorrideva…
Egli mi intravide e, prima che qualcuno potesse chiedergli delle spiegazioni:
“Vieni in cortile?”, disse.
Esitai un secondo. Poi, siccome Millie non mi tratteneva, presi il mio berretto e andai verso di lui. Uscimmo
dall’uscio della cucina, nel portico che l’oscurità aveva già
invaso. Alla luce del crepuscolo, osservai, camminando, il
suo viso angoloso con il naso diritto e il labbro coperto di
peluria.
“Tieni”, disse, “l’ho trovato nel tuo granaio. Non ci
avevi mai guardato?”.
Teneva in mano una piccola ruota di legno annerito;
un cordone di razzi a brandelli le correva tutto intorno;
doveva essere stata il sole o la luna dei fuochi artificiali del
Quattordici Luglio.
8 tiglio: albero la cui infiorescenza è molto apprezzata in Francia anche ai
giorni nostri come materia prima per infusi rilassanti, normalmente bevuti
nel tardo pomeriggio, al posto del tè, o nel dopo cena.
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“Ce ne sono due che non si sono accesi: adesso gli
diamo fuoco”, disse con un tono pacato e con l’aria di qualcuno che spera di trovare qualcosa di meglio in seguito.
Gettò il suo berretto per terra e vidi che aveva i capelli
completamente rasati, come un contadino. Mi mostrò i due
razzi con le loro estremità di miccia di carta che la fiamma
aveva accorciato, annerito e poi abbandonato. Piantò nella
sabbia il mozzo della ruota, estrasse dalla tasca – con mio
grande stupore, poiché ci era stato formalmente proibito
possederne – una scatola di fiammiferi. Chinandosi con
precauzione, diede fuoco alla miccia. Poi, prendendomi per
mano, mi tirò energicamente indietro.
Un istante dopo mia madre, che stava affacciata sulla
porta insieme alla madre di Meaulnes, dopo aver discusso e
fissato il prezzo della pensione, vide sprizzare sotto il portico,
con un rumore di mantice, due fontane di stelle rosse e bianche; poté scorgermi, per lo spazio di un secondo, vestito del
loro scintillio, mentre, senza muovermi, tenevo per mano il
ragazzone appena arrivato…
Anche questa volta non osò dire niente.
E la sera, a cena, ci fu, alla tavola di famiglia, un compagno silenzioso che mangiava, la testa bassa, senza preoccuparsi dei nostri tre sguardi fissi su di lui.
Fino ad allora, non ero mai stato molto a correre per
le strade con i ragazzi del paese. Una coxalgia9, di cui ho
sofferto fin verso il 189…, mi aveva fatto diventare timoroso
e infelice. Mi vedo ancora inseguire gli scolari svelti nelle
stradine intorno a casa, saltellando miseramente su una
gamba…
Così non mi si lasciava molto uscire. E ricordo che
Millie, che era molto fiera di me, mi aveva ricondotto più di
una volta a casa, a suon di scapaccioni, per avermi incon-
9 coxalgia: o cossalgia. Infiammazione delle ossa dell’anca, dolorosa e invalidante.
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trato, mentre saltavo su un piede solo, in compagnia dei
teppistelli peggiori del villaggio.
L’arrivo di Augustin Meaulnes, che coincise con la mia
guarigione, fu l’inizio di una nuova vita.
Prima che arrivasse, quando la scuola era finita, per me
alle quattro incominciava una lunga serata di solitudine. Mio
padre trasportava il fuoco della stufa della classe nel camino
della nostra sala da pranzo; a poco a poco gli ultimi ragazzini ritardatari abbandonavano la scuola diventata fredda,
dove il fumo si avvolgeva in vortici. C’era ancora qualche
gioco, delle corse in cortile; poi arrivava la notte. I due scolari
che avevano spazzato la classe cercavano sotto il capannone
i loro cappucci e le mantelline, ed andavano via in fretta,
con il cestino al braccio, lasciando aperto il grande portone…
Allora, fino a quando c’era un po’ di luce, restavo al
fondo del municipio, rinchiuso nello stanzino degli archivi
pieno di mosche morte, di manifesti che sventolavano, e
leggevo seduto su una vecchia bilancia, vicino ad una finestra che dava su un giardino.
Quando faceva buio, i cani della fattoria vicina incominciavano a ululare e il vetro della nostra cucina si illuminava; così, alla fine, rientravo. Mia madre aveva incominciato
a preparare la cena. Io salivo tre gradini della scala del granaio;
mi sedevo senza dire niente e, la testa appoggiata alle sbarre
fredde della ringhiera, la guardavo accendere il fuoco nella
angusta cucina dove vacillava la fiamma di una candela.
Ma qualcuno è venuto a togliermi da tutto questo
piacere di bambino tranquillo. Qualcuno ha spento la
candela che illuminava per me il dolce viso materno chino
sul pasto della sera. Qualcuno ha spento la lampada intorno
alla quale noi eravamo una famiglia felice, alla sera, quando
mio padre aveva appeso le imposte di legno alle porte a vetri.
E costui fu Augustin Meaulnes che gli altri scolari chiamarono presto il grande Meaulnes.
Da quando egli incominciò ad essere pensionante da noi,
cioè dai primi giorni di dicembre, la scuola cessò di essere
31
deserta, la sera dopo le quattro. Malgrado il freddo della porta
a battenti, le grida degli spazzini e i loro secchi d’acqua, c’era
sempre in classe, dopo le lezioni, una ventina di allievi grandi,
sia della campagna, sia del villaggio, stretti intorno a Meaulnes. Ed erano lunghe discussioni, delle dispute interminabili
al centro delle quali io mi infilavo con inquietudine e piacere.
Meaulnes non diceva niente; ma era per lui che ad ogni
istante uno dei più chiacchieroni si portava al centro del
gruppo e, prendendo a testimone di volta in volta qualcuno
dei suoi compagni, che l’approvavano rumorosamente,
raccontava qualche lunga storia di razzie, che tutti gli altri
seguivano, la bocca aperta, ridendo silenziosamente.
Seduto su un banco, dondolando le gambe, Meaulnes
rifletteva. Al momento buono, anche lui rideva, ma dolcemente, come se si fosse riservato il fragore delle risate per
qualche storia migliore, conosciuta da lui solo. Poi, scesa la
notte, quando il chiarore dei vetri dell’aula non illuminava
più il gruppo confuso dei ragazzi, Meaulnes si alzava improvvisamente e attraversando il cerchio stretto intorno a lui:
“Andiamo, in cammino!”, gridava.
Allora tutti lo seguivano e si sentivano i loro schiamazzi
fino a notte fonda, nel borgo là in alto…
Mi capitava adesso di accompagnarli. Con Meaulnes,
andavo alla porta delle stalle dei sobborghi, all’ora in cui si
mungevano le mucche… Entravamo nelle botteghe e, dal
fondo dell’oscurità, tra due scricchiolii del suo telaio, il tessitore diceva:
“Ecco gli studenti!”.
Generalmente, all’ora di cena, ci trovavamo al Corso,
da Desnoues, il carraio, che era anche maniscalco. La sua
bottega era una vecchia locanda, con grandi porte a due
battenti che erano lasciate aperte. Dalla strada si sentiva stridere il mantice10 della fucina e si intravedeva talvolta al
10 mantice: strumento che, dopo essersi riempito d’aria, la soffia sul fuoco,
32
bagliore del braciere, in quel luogo buio e tintinnante, gente
della campagna che aveva fermato la vettura per conversare
un momento, altre volte uno studente come noi, appoggiato
alla porta, che guardava senza parlare.
E fu là che tutto ebbe inizio, circa otto giorni prima di
Natale.
per ravvivare la fiamma. Era tipico delle botteghe dei fabbri che dovevano
riscaldare il ferro fino a renderlo rosso, per poterlo sagomare a piacere.
33
era fuggito dal castello dei genitori senza che si potesse mai ritrovarlo
e la ragazza si è sposata. Questo spiega perché l’appartamento è
chiuso”.
Sono andato via. Dopo dieci passi i miei piedi sono inciampati
nel marciapiede e ho rischiato di cadere. La notte – era la notte scorsa
– quando infine i bambini e le donne hanno taciuto nei cortili per
lasciarmi dormire, ho cominciato a sentire correre le carrozze a cavalli
nella via. Non passavano che di tanto in tanto. Ma quando una era
passata, mio malgrado, aspettavo l’altra: il sonaglio, i passi del cavallo
che schioccavano sull’asfalto… E questo mi ripeteva: la città è deserta,
il tuo amore perduto, la notte interminabile, l’estate, la febbre…
Seurel, amico mio, sono veramente disperato.
AUGUSTIN
Lettera poco confidenziale, anche se lo sembrava!
Meaulnes non mi diceva né perché fosse rimasto così a lungo
silenzioso, né che cosa contasse di fare ora. Ebbi l’impressione che rompesse con me, perché la sua avventura era
finita, come rompeva con il suo passato. Ebbi un bello scrivergli, in effetti: non ricevetti più risposta. Una parola di felicitazioni soltanto, quando ottenni il Brevet Simple3. A settembre seppi da un compagno di scuola che Meaulnes era venuto
in vacanza da sua madre a La Ferté-d’Angillon. Ma dovemmo,
quell’anno, invitati da mio zio Florentin di Vieux-Nançay,
trascorrere da lui le vacanze. E Meaulnes ripartì per Parigi
senza che avessi potuto vederlo.
Al ritorno a scuola, esattamente verso la fine di novembre, mentre mi ero rimesso con un cupo ardore a preparare
il Brevet Supérieur, nella speranza di essere nominato
maestro l’anno seguente, senza passare dalla Scuola Normale4
di Bourges, ricevetti l’ultima delle tre lettere che abbia mai
ricevuto da Augustin:
3 Brevet Simple: il Diploma Inferiore.
4 Scuola Normale: cfr. nota 1 a pag. 141.
159
Passo ancora sotto quella finestra. Aspetto ancora, senza la
minima speranza, per pazzia. Al termine di quelle fredde domeniche
autunnali, nel momento in cui sta per fare notte, non posso decidermi a rientrare, a chiudere le imposte della mia stanza, senza
essere ritornato laggiù, nella strada ghiacciata.
Sono come quella pazza di Sainte-Agathe che usciva ogni
minuto sulla soglia e guardava, la mano sugli occhi, dal lato della
stazione, per vedere se suo figlio morto arrivasse.
Seduto sulla panca, battendo i denti, miserabile, mi piace
immaginare che qualcuno stia per prendermi dolcemente per il braccio… Mi volterei. Sarebbe lei. “Sono un po’ in ritardo”, direbbe
semplicemente. E tutta la pena e tutta la pazzia svanirebbero.
Entriamo nella nostra casa. La sua pelliccia è tutta gelata, la sua
veletta bagnata; porta con sé l’odore della bruma di fuori; e mentre
si avvicina al fuoco, vedo i suoi capelli biondi brinati, il suo bel
profilo dal disegno così dolce chino sulla fiamma…
Ahimè! Il vetro resta bianco per la tenda che c’è dietro. E se
la ragazza della proprietà perduta l’aprisse, adesso non avrei più
niente da dirle.
La nostra avventura è finita. L’inverno di quest’anno è morto
come la tomba. Forse quando moriremo, forse la morte sola ci darà
la chiave e il seguito e la fine di questa avventura fallita.
Seurel, ti domandavo tempo fa di pensare a me. Ora, invece,
sarebbe meglio dimenticarmi. Sarebbe meglio dimenticare tutto.
A. M.
E fu un nuovo inverno, tanto morto, quanto il precedente era stato vivo, di una vita misteriosa: la piazza della
chiesa senza zingari; il cortile della scuola che i ragazzi disertavano alle quattro… l’aula dove studiavo solo e senza gusto…
A febbraio, per la prima volta nell’inverno, la neve cadde,
seppellendo definitivamente il nostro romanzo di avventure
dell’anno passato, ingarbugliando tutte le piste, cancellando
le ultime tracce. E io mi sforzai, come Meaulnes mi aveva
domandato nella sua lettera, di dimenticare tutto.
160
■
PA R T E T E R Z A
Capitolo
Capitolo
Capitolo
Capitolo
Capitolo
Capitolo
Capitolo
1
2
3
4
5
6
7
-
DA FLORENTIN
UN’APPARIZIONE
LA GITA DI PIACERE
GENTE FELICE
LA “CASA DI FRANTZ”
IL QUADERNO DEI COMPITI MENSILI
IL SEGRETO
Alfred Sisley, Veduta di Moret-sur-Loing
Capitolo 1
DA FLORENTIN
■
Fumare sigarette, mettersi l’acqua zuccherata sui capelli
perché si arriccino, baciare le ragazze del Cours Complémentaire nei sentieri e gridare “cornuta” da dietro la siepe per
ridere della suora1 che passa, era la gioia di tutti i tipacci del
paese. A vent’anni d’altronde i tipacci di quella specie
possono emendarsi del tutto e diventano talvolta giovani
molto sensibili. Il caso è più grave quando il tipo in questione
ha una figura già vecchiotta e appassita, quando si occupa
delle storie losche delle donne del paese, quando dice di
Gilberte Poquelin mille sciocchezze per far ridere gli altri.
Ma, in fondo, il caso non è ancora disperato…
Era questa la situazione di Jasmin Delouche. Continuava, non so perché, ma certamente senza alcun desiderio
di superare gli esami, a seguire il Cours Supérieur che tutti
avrebbero voluto vedergli abbandonare. Nel frattempo, imparava con suo zio Dumas il mestiere di intonacatore. E presto
quel Jasmin Delouche, con Boujardon e un altro ragazzo
molto dolce, il figlio del supplente, che si chiamava Denis,
furono i soli allievi grandi che mi piacesse frequentare,
perché erano “del tempo di Meaulnes”.
C’era, del resto, in Delouche un desiderio molto
sincero di essere mio amico. Per farla breve, lui che era stato
il nemico del grande Meaulnes, avrebbe voluto diventare il
1 cornuta… suora: l’ordine della Carità impone alle sue suore una cuffia dalle
ali alte e simili ai palchi delle corna di un daino. Di qui l’appellativo oltraggioso.
163
grande Meaulnes della scuola: almeno rimpiangeva, forse, di
non essere stato il suo luogotenente. Meno ignorante di
Boujardon, aveva sentito, penso, tutto ciò che Meaulnes aveva
portato di straordinario nella nostra vita. E spesso gli sentivo
ripetere:
“Diceva bene, il gran Meaulnes…”; o, ancora, “Ah! il
gran Meaulnes diceva…”.
Oltre ad essere più uomo di noi, Jasmin, il vecchio
ragazzino, disponeva di tesori di divertimento che consacravano la sua superiorità rispetto a noi: un cane di razza mista,
dal lungo pelo bianco, che rispondeva al nome irritante di
Bécali e riportava le pietre che si lanciavano lontano, senza
avere una attitudine più netta per nessun altro sport; una
vecchia bicicletta comprata d’occasione e sulla quale Jasmin
ci faceva qualche volta salire, la sera dopo le lezioni, ma con
la quale preferiva far esercitare le ragazze del paese; infine
e soprattutto, un asino bianco e cieco che poteva essere attaccato a qualunque veicolo.
Era l’asino di Dumas, ma lo prestava a Jasmin quando
andavamo a fare il bagno allo Cher2, in estate. Sua madre in
quell’occasione ci dava una bottiglia di limonata che noi
mettevamo sotto il sedile, tra i calzoncini da bagno asciutti.
E partivamo, otto o dieci allievi grandi del corso, accompagnati dal signor Seurel, gli uni a piedi, gli altri arrampicati
sulla vettura trainata dall’asino, che poi si lasciava alla fattoria di Grand’Fons, nel momento in cui il sentiero dello Cher
diventava troppo accidentato.
Riesco a ricordarmi nei minimi dettagli una passeggiata di quel genere, in cui l’asino di Jasmin conduceva allo
Cher i nostri calzoncini, i bagagli, la limonata e il signor
Seurel, mentre noi lo seguivamo a piedi, stando dietro.
Eravamo nel mese di agosto e avevamo appena passato gli
2 Cher: fiume della Francia centro-occidentale, lungo 320 km. e affluente di
sinistra della Loira.
164
esami. Liberati di quella preoccupazione, ci sembrava che
tutta l’estate, tutta la felicità ci appartenessero, e camminavamo sulla strada, cantando senza sapere né che cosa, né
perché, all’inizio di un bel pomeriggio di giovedì.
Ci fu all’andata una sola ombra su quel quadretto innocente. Intravedemmo che ci camminava davanti Gilberte
Poquelin. Aveva la vita ben in risalto, una gonna semi-lunga,
scarpe alte, l’aria dolce e sfrontata di una bambina che
diventa ragazza. Lasciò la strada e prese un sentiero fuori
mano, per andare a cercare del latte, senza dubbio. Il piccolo
Coffin propose subito a Jasmin di seguirla.
“Non sarebbe la prima volta che la bacerei…”, disse
l’altro.
E si mise a raccontare su di lei e sulle sue amiche numerose storie scollacciate, mentre tutto il gruppo, per spacconata, si inoltrava nel sentiero, lasciando il signor Seurel continuare davanti sulla strada, nella vettura trainata dall’asino.
Una volta là, tuttavia, il gruppo cominciò a sgranarsi. Delouche stesso sembrava poco ansioso di affrontare davanti a noi
la ragazza che camminava svelta e non si avvicinò a più di
cinquanta metri. Ci fu qualche schiamazzo di galli e galline,
dei fischi galanti, poi tornammo sui nostri passi, un po’ a
disagio, abbandonando la partita. Sulla strada in pieno sole
bisognò correre. Non cantavamo più.
Ci svestimmo e ci rivestimmo nei saliceti aridi che fiancheggiano lo Cher. I salici ci proteggevano dagli sguardi, ma
non dal sole. I piedi nella sabbia e nella melma inaridita, non
pensavamo che alla bottiglia di limonata della vedova Delouche, che si stava rinfrescando nella fontana di Grand’Fons,
una fontana scavata nella riva stessa dello Cher. C’erano
sempre, sul fondo, delle erbe glauche e due o tre bestie
simili a degli onischi3; ma l’acqua era così limpida, così traspa-
3 onischi: piccoli crostacei che vivono sotto i sassi sommersi e che si appallottolano, per difesa, quando sono toccati.
165
rente, che i pescatori non esitavano a inginocchiarsi, le mani
sui bordi, per bervi.
Ahimè! Quel giorno fu come gli altri… Quando, tutti
vestiti, ci mettevamo in cerchio, le gambe incrociate alla
turca, per dividerci in due grezzi bicchieri senza gambo la
limonata raffreddata, a ciascuno toccava soltanto, dopo aver
invitato il signor Seurel a prendere la sua parte, un po’ di
schiuma che pizzicava la gola e non faceva che stimolare la
sete. Allora, a turno, andavamo alla fontana che avevamo
prima disprezzato e avvicinavamo lentamente il viso alla
superficie di acqua pura. Ma non tutti erano abituati a quelle
usanze da uomini dei campi. Molti, come me, non arrivavano
a togliersi la sete: gli uni perché non amavano l’acqua, altri
perché avevano la gola chiusa per la paura di mandare giù
un onisco, altri, ingannati dalla grande trasparenza dell’acqua immobile e non sapendo calcolare esattamente la superficie, vi si bagnavano metà del viso insieme alla bocca, e aspiravano acremente dal naso un’acqua che sembrava loro
bruciante, altri infine per tutte queste ragioni insieme… Non
aveva importanza! Ci sembrava, su quelle rive aride dello
Cher, che tutta la freschezza terrestre fosse racchiusa in quel
luogo. E ancora adesso, alla sola parola fontana, pronunciata
non importa dove, è a quella che ripenso.
Il ritorno si fece all’imbrunire, con spensieratezza
dapprima, come all’andata. Il sentiero di Grand’Fons che risaliva verso la strada d’inverno era un ruscello e d’estate un
vallone impraticabile, interrotto da buche e grosse radici,
che saliva nell’ombra tra grandi siepi di alberi. Una parte dei
bagnanti vi si inoltrò per gioco. Ma noi seguimmo, con il
signor Seurel, Jasmin e numerosi compagni, un sentiero
dolce e sabbioso, parallelo a quello, che fiancheggiava il
terreno vicino. Sentivamo parlare e ridere gli altri, vicino a
noi, sopra di noi, invisibili nell’ombra, mentre Delouche
raccontava le sue storie da uomo…
Sulle cime degli alberi della grande siepe crepitavano
gli insetti della sera che si vedevano, contro il chiaro del cielo,
166
mentre si agitavano intorno alle merlature del fogliame.
Talvolta ne precipitava uno, bruscamente, e il suo ronzio
diventava stridente all’improvviso. – Bella sera d’estate,
calma!… Era il ritorno, senza speranza ma senza desiderio,
da una povera scampagnata… Fu ancora Jasmin, senza
volerlo, che disturbò quella quiete…
Nel momento in cui arrivammo alla sommità del
pendio, nel punto in cui restano due grosse e vecchie pietre
che si dicono essere i resti di una roccaforte, incominciò a
parlare delle proprietà che aveva visitato e specialmente di
una tenuta semi abbandonata nei dintorni di Le VieuxNançay: la tenuta dei Sablonnières.
Con quell’accento dell’Allier4 che arrotonda vanitosamente certe parole e abbrevia con ricercatezza le altre,
raccontava di aver visto qualche anno prima, nella cappella
in rovina di quella vecchia proprietà, una pietra tombale
sulla quale erano incise queste parole:
Qui giace il cavalier Galois
Fedele al suo Dio, al suo Re, alla sua Bella
“Ah! Beh! Guarda!”, diceva il signor Seurel, con una
leggera alzata di spalle, un po’ imbarazzato dal tono che
prendeva la conversazione, ma desideroso tuttavia di lasciarci
parlare come degli uomini.
Allora Jasmin continuò a descrivere quel castello, come
se vi avesse passato la vita.
Più volte, ritornando da Le Vieux-Nançay, Dumas e lui
erano rimasti incuriositi dalla vecchia torretta grigia che si
scorgeva sopra gli abeti. C’era là, al centro del bosco, tutto un
dedalo di costruzioni in rovina che si potevano visitare in
assenza dei proprietari. Un giorno, un guardiano del luogo,
che avevano fatto salire sulla loro vettura, li aveva condotti nella
4 Allier: cfr. nota 1 a pag. 128.
167
strana tenuta. Ma dopo di allora avevano fatto abbattere tutto;
si diceva che non restasse altro che la fattoria e una piccola
casa di vacanza. Gli abitanti erano sempre gli stessi: un vecchio
ufficiale in pensione, mezzo rovinato, e sua figlia.
Parlava… Parlava… Io ascoltavo attentamente,
sentendo senza rendermi conto che si trattava di una cosa
da me ben conosciuta, quando all’improvviso, molto semplicemente, come si fanno le cose straordinarie, Jasmin si girò
verso di me e, toccandomi il braccio, colpito da un’idea che
non gli era mai venuta:
“Guarda un po’, ma dev’essere stato là”, disse, “che
Meaulnes – sai, il grande Meaulnes? – doveva essere andato…”.
“Ma sì”, aggiunse, poiché io non rispondevo, “mi
ricordo che il guardiano parlava del figlio di quella casa, un
eccentrico, che aveva delle idee straordinarie…”.
Non lo ascoltavo più, persuaso fin dall’inizio che avesse
intuito giusto e che davanti a me, lontano da Meaulnes,
lontano da tutta la speranza, si stesse aprendo, netto e facile
come una strada familiare, il sentiero della Tenuta senza
nome.
Tanto ero stato infelice, sognatore e chiuso in me stesso,
tanto divenni risoluto e, come si dice da noi, “deciso”, quando
sentii che dipendeva da me la soluzione di quella vera e
propria avventura.
Credo che fu proprio a partire da quella sera, che il
mio ginocchio cessò definitivamente di farmi male.
A Le Vieux-Nançay, che era il comune nel cui territorio sorgeva la proprietà delle Sablonnières, abitava tutta la
famiglia del signor Seurel e in particolare mio zio Florentin,
un commerciante da cui trascorrevamo qualche volta la fine
di settembre. Liberato da tutti gli esami, non volli attendere
oltre ed ottenni di andare immediatamente a trovare mio zio.
Ma decisi di non far sapere nulla a Meaulnes fino a quando
non fossi stato certo di potergli annunciare qualche buona
notizia. Per quale motivo, in effetti, strapparlo alla sua disperazione per rituffarvelo in seguito forse più profondamente?
168
Le Vieux-Nançay fu per molto tempo il luogo al mondo
che preferivo, il paese della fine delle vacanze, dove non
andavamo se non raramente, quando si trovava una vettura
da affittare per condurci là. C’era stato un tempo qualche
disaccordo con la branca della famiglia che abitava laggiù, e
per questo senza dubbio Millie si faceva tanto pregare ogni
volta per salire in vettura. Ma io, io non mi preoccupavo
affatto di quei dissapori!… E, appena arrivato, mi perdevo e
mi trastullavo tra gli zii, le cugine e i cugini, in un’esistenza
fatta di mille occupazioni divertenti e di piaceri che mi avvincevano.
Abitavamo da zio Florentin e zia Julie, che avevano un
ragazzo della mia età, il cugino Firmin, e otto figlie, di cui
le maggiori, Marie-Louise e Charlotte, potevano avere diciassette e quindici anni. Gestivano un grandissimo magazzino
a una delle entrate di quel paese della Sologne5, davanti alla
chiesa – un magazzino universale, dove si rifornivano tutti i
castellani-cacciatori della regione, isolati in quel territorio
sperduto, a trenta chilometri da qualunque stazione.
Quel magazzino, con i suoi banconi di drogheria e di
teleria, dava con numerose finestre sulla strada e, con la
porta a vetri, sulla grande piazza della chiesa. Ma, cosa strana,
sebbene abbastanza ordinaria in quel paese povero, il pavimento era di terra battuta in tutta la bottega.
Nel retro, c’erano sei camere, ognuna riempita di una
sola e unica merce: la camera dei cappelli, la camera del giardinaggio, la camera delle lampade… cos’altro? Mi sembrava,
quando ero bambino e attraversavo quel dedalo di oggetti da
bazar, che non avrei mai finito di guardare tutte quelle meraviglie. E, a quell’epoca ancora, trovavo che non ci fossero delle
vere vacanze, se non quelle trascorse in quel luogo.
La famiglia viveva in una grande cucina la cui porta si
apriva sul magazzino – cucina dove brillavano alla fine di
5 Sologne: cfr. nota 1 a pag. 69.
169
settembre delle grandi fiammate del caminetto, dove i cacciatori e i bracconieri che vendevano della selvaggina a Florentin venivano di primo mattino a farsi servire da bere, mentre
le bambine, già alzate, correvano, gridavano, si passavano le
une con le altre del “profumo” sui loro capelli lisci. Ai muri,
vecchie fotografie di vecchi gruppi scolastici ingialliti mostravano mio padre – ci voleva tempo a riconoscerlo in uniforme
– al centro dei suoi compagni della Scuola Normale…
Era là che trascorrevamo le mattinate; e anche nel
cortile, dove Florentin faceva crescere le dalie e allevava le
faraone; dove si tostava il caffè, seduti su delle scatole di
sapone; dove si estraeva dalle casse ricevute ogni sorta di
oggetti diversi, accuratamente impacchettati e di cui non
sapevamo sempre il nome…
Per tutta la giornata, il magazzino era invaso da contadini o da cocchieri dei castelli posti nei dintorni. Alla porta
a vetri si fermavano e sgocciolavano, nella nebbia di settembre, delle carrette, venute dal fondo della campagna. E dalla
cucina ascoltavamo quello che dicevano i contadini, curiosi
di tutte le loro storie…
Ma la sera, dopo le otto, quando con delle lanterne si
portava il fieno ai cavalli la cui pelle fumava nella scuderia
– tutto il magazzino ci apparteneva!
Marie-Louise, che era la più vecchia delle mie cugine
ma una delle più piccole, finiva di piegare e sistemare le pile
di panni nella bottega; ci incoraggiava ad andare a distrarla.
Allora, Firmin ed io, con tutte le ragazze, facevamo irruzione
nella grande bottega, sotto le lampade dell’albergo, girando
i macinacaffè, facendo delle prove di forza sui banconi; e
talvolta Firmin andava a cercare nei granai, poiché la terra
battuta invitava alla danza, qualche vecchio trombone, tutto
ossidato di verde6…
6 ossidato di verde: l’ottone, con cui è appunto costruito lo strumento a fiato citato,
a contatto con l’umidità sviluppa una caratteristica ossidazione color verde.
170
Arrossisco ancora all’idea che, gli anni precedenti, la
signorina de Galais fosse potuta venire a quell’ora e sorprenderci nel mezzo di quelle bambinate… Ma fu un po’ prima
del calar della notte, una sera del mese di agosto, mentre
parlavo tranquillamente con Marie-Louise e Firmin, che la
vidi per la prima volta…
Dalla sera del mio arrivo a Le Vieux-Nançay, avevo interrogato mio zio Florentin sulla proprietà delle Sablonnières.
“Non è più una proprietà”, aveva detto. “Hanno
venduto tutto e gli acquirenti, dei cacciatori, hanno fatto
abbattere i vecchi edifici per ingrandire i loro terreni di
caccia; il cortile padronale, adesso, non è più che una landa
di erica e ginestre. I vecchi proprietari non hanno conservato che una piccola casa a un piano e la fattoria. Avrai certo
l’occasione di vedere qui la signorina de Galais; viene lei
stessa a fare la spesa, sia in sella, sia in vettura, ma sempre
con lo stesso cavallo, il vecchio Bélisaire… È un curioso equipaggio!”.
Ero così scosso, che non sapevo più quale domanda fare
per saperne di più.
“Ma erano ricchi, non è vero?”.
“Sì. Il signor de Galais dava delle feste per divertire suo
figlio, un ragazzo strano, pieno di idee eccentriche. Per
distrarlo, ideava ciò che poteva. Faceva venire dei parigini…
ragazzi di Parigi e di altri luoghi…
“Tutte le Sablonnières erano in rovina, la signora de
Galais era vicina alla fine, ma ancora cercavano di divertirlo
e soddisfacevano tutte le sue fantasie. È stato l’ultimo inverno
– no, l’altro inverno – che hanno fatto la loro più grande
festa in costume. Avevano invitato per metà persone di Parigi
e per metà persone dalla campagna. Avevano comprato o
affittato una quantità di abiti meravigliosi, giochi, cavalli,
battelli. Sempre per divertire Frantz de Galais. Si diceva che
stesse per sposarsi e che si festeggiasse il suo fidanzamento.
Ma era davvero troppo giovane. E tutto si è rotto di colpo;
lui si è salvato ma non lo si è mai più rivisto… La castellana
171
è morta e la signorina de Galais è rimasta improvvisamente
tutta sola con il padre, il vecchio capitano di vascello”.
“Non si è sposata?”, domandai infine.
“No”, disse, “non ho sentito dire niente in proposito.
Saresti un pretendente?”.
Tutto sconcertato, gli confessai il più rapidamente e
discretamente possibile che il mio migliore amico, Augustin
Meaulnes, forse poteva esserlo.
“Ah!”, disse Florentin, sorridendo, “se non gli importa
del patrimonio, è un buon partito… Bisognerà che ne parli
al signor de Galais? Viene ancora qualche volta fin qui a
cercare dei piombini da caccia. Gli faccio sempre assaggiare
la mia vecchia acquavite”.
Ma lo pregai subito di non fare niente, di aspettare. Ed
io stesso non mi affrettai ad avvisare Meaulnes. Tante fortunate coincidenze accumulate mi inquietavano un po’. E quell’inquietudine mi imponeva di non annunciare niente a
Meaulnes, se non avessi almeno visto la ragazza.
Non attesi a lungo. L’indomani, un po’ prima di cena,
la notte incominciava a scendere; una nebbia fresca, più di
settembre, che di agosto, scendeva con la notte. Firmin ed
io, supponendo il magazzino vuoto di compratori per un
istante, eravamo andati a trovare Marie-Louise e Charlotte.
Avevo loro confidato il segreto che mi portava a Le VieuxNançay in quella data prematura. Appoggiati con i gomiti
sui banconi o seduti sul legno incerato, ci raccontavamo reciprocamente quello che sapevamo della misteriosa ragazza –
e ciò si riduceva veramente a poca cosa – quando un rumore
di ruote ci fece voltare la testa.
“Eccola, è lei”, dissero a voce bassa.
Qualche secondo dopo, davanti alla porta a vetri si
fermò lo strano equipaggio. Una vecchia vettura da fattoria,
con i pannelli arrotondati, con un piccolo portapacchi modellato, come non ne avevamo mai visti in quel paese; un vecchio
cavallo bianco che sembrava sempre voler brucare qualche
erba sulla strada, tanto abbassava la testa per camminare; e
172
sul sedile – lo dico con la semplicità del mio cuore, ma
sapendo bene ciò che dico – la ragazza più bella che ci sia
forse mai stata al mondo.
Mai vidi tanta grazia unirsi a tanta serietà. Il suo abito
le faceva la vita così minuta, che sembrava fragile. Un grande
mantello marrone, che si levò entrando, era gettato sulle sue
spalle. Era la più seria delle ragazze, la più fragile delle
donne. Una pesante capigliatura bionda cadeva sulla sua
fronte e sul suo viso, delicatamente disegnato, finemente
modellato. Sul suo colorito così puro, l’estate aveva posato
due macchie di rossore… Non notai che un difetto in tanta
bellezza: nei momenti di tristezza, di scoraggiamento o solamente di riflessione profonda, quel viso così puro si segnava
leggermente di rosso, come capita a certi malati gravemente
colpiti senza che lo si sappia. Allora tutta l’ammirazione di
chi la guardava lasciava il posto a una sorta di pietà tanto più
lacerante, in quanto più sorprendente.
Ecco almeno quello che scoprii, mentre scendeva lentamente dalla vettura e Marie-Louise infine, presentandomi
con spigliatezza alla ragazza, mi invitava a parlarle.
Le offrimmo una sedia cerata e lei si sedette, appoggiata al bancone, mentre noi restavamo in piedi. Sembrava
conoscere bene e amare il magazzino. Mia zia Julie, subito
avvertita, arrivò, e il tempo in cui parlò, saggiamente, le mani
incrociate sul ventre, scuotendo dolcemente la testa da contadina-commerciante coperta da una cuffia bianca, ritardò il
momento – che mi faceva tremare un po’ – in cui la conversazione sarebbe iniziata con me…
Fu molto semplice.
“Così”, disse la signorina de Galais, “sarete presto
maestro?”.
Mia zia accendeva sopra le nostre teste la lampada di
porcellana che rischiarava flebilmente il magazzino. Vedevo
il dolce viso infantile della ragazza, i suoi occhi blu così ingenui, ed ero tanto più sorpreso della sua voce così netta, così
seria. Quando smetteva di parlare, i suoi occhi si fissavano
173
altrove, non si muovevano più, aspettando la risposta, e si
mordeva un po’ il labbro.
“Insegnerei anch’io”, disse, “se il signor de Galais
volesse! Insegnerei ai piccoli, come vostra madre…”.
E sorrise, mostrando così che i miei cugini le avevano
parlato di me.
“Il fatto è”, continuò, “che i paesani con me sono
sempre gentili, dolci e servizievoli. E io li amo molto. Ma,
così, che merito ho ad amarli?…”.
“Mentre con la maestra sono cavillosi e avari, non è
così? Ci sono di continuo storie di portapenne perduti, di
quaderni troppo cari o di bambini che non imparano… Beh,
litigherei con loro e mi amerebbero ugualmente. Sarebbe
molto più difficile…”.
E, senza sorridere, riprese la sua espressione pensierosa
e infantile, il suo sguardo blu, immobile.
Eravamo tutti e tre impacciati per quella disinvoltura a
parlare di cose delicate, di ciò che è segreto, sottile, e di cui
non si parla bene che nei libri. Ci fu un istante di silenzio;
e lentamente iniziò una discussione…
Ma con una sorta di rimpianto e di animosità contro
non so che cosa di misterioso nella sua vita, la giovane donna
continuò:
“E poi insegnerei ai ragazzi ad essere saggi, di una
saggezza che conosco. Non trasmetterei loro il desiderio di
girare il mondo, come farete senza dubbio voi, signor Seurel,
quando sarete supplente. Insegnerei loro a trovare la felicità
che è molto vicina a loro, anche se non sembra…”.
Marie-Louise e Firmin erano interdetti come me.
Restammo senza parole. Ella sentì il nostro imbarazzo e si
fermò, si morse il labbro, abbassò la testa e poi sorrise come
se si facesse beffe di noi:
“Così”, disse, “c’è forse qualche bel giovanotto pazzo
che mi cerca in capo al mondo mentre io sono qui, nel
magazzino della signora Florentin, sotto questa lampada
con il mio vecchio cavallo che mi aspetta alla porta. Se
174
quel giovane mi vedesse, non vorrebbe crederci, senza
dubbio…”.
Nel vederla sorridere, l’audacia mi prese e sentii che
era tempo di dire, ridendo anch’io:
“E se fosse che, quel bel giovanotto folle, io lo conoscessi?”.
Mi guardò con vivacità.
In quel momento il campanello della porta suonò, due
brave donne entrarono con dei panieri:
“Venite in ‘sala da pranzo’, starete in pace”, ci disse mia
zia, spingendo la porta della cucina.
E poiché la signorina de Galais rifiutava e voleva andare
via subito, mia zia aggiunse:
“Il signor de Galais è qui e parla con Florentin, vicino
al fuoco”.
C’era sempre, anche nel mese di agosto, nella grande
cucina, una fascina di abeti che fiammeggiava e scoppiettava.
Anche là una lampada di porcellana era accesa e un vecchio
dal viso dolce, scavato e rasato, quasi sempre silenzioso come
un uomo prostrato dall’età e dai ricordi, era seduto vicino a
Florentin, davanti a due bicchieri di acquavite.
Florentin salutò:
“François!”, esclamò con la sua potente voce da
mercante ambulante, come se ci fossero tra noi un fiume o
parecchi ettari di terreno. “Ho appena organizzato una scampagnata sulle rive dello Cher per giovedì prossimo. Si caccerà,
si pescherà, si ballerà, si farà il bagno!… Signorina, voi verrete
a cavallo; è inteso con il signor de Galais. Ho sistemato
tutto…”.
“E, François!”, aggiunse, come se ci avesse appena
pensato. “Potrai portare il tuo amico, il signor Meaulnes…
È ben Meaulnes che si chiama?”.
La signorina de Galais si era alzata, improvvisamente
era diventata pallidissima. E, in quel momento preciso, mi
ricordai che Meaulnes, quella volta, nella strana proprietà,
vicino allo stagno, le aveva detto il suo nome…
175
Quando mi tese la mano, per andarsene, c’era tra noi,
più chiaramente che se avessimo detto molte parole, un’intesa segreta che la morte sola doveva infrangere e un’amicizia più emozionante di un grande amore.
Alle quattro, l’indomani mattina, Firmin bussava alla
porta della piccola stanza in cui abitavo nel cortile delle
faraone. Faceva ancora notte e feci molta fatica a ritrovare
le mie cose sulla tavola ingombra di candelabri di rame e di
statuette di santi tutte nuove, scelte al magazzino per arredare il mio alloggio, la vigilia del mio arrivo. Nel cortile,
sentivo Firmin gonfiare la mia bicicletta e mia zia in cucina
che attizzava il fuoco. Il sole si alzava appena, quando partii.
Ma la mia giornata doveva essere lunga: andavo prima a
Sainte-Agathe per spiegare la mia assenza prolungata e, proseguendo la mia corsa, dovevo arrivare prima di sera a La Fertéd’Angillon, dal mio amico Augustin Meaulnes.
176
Capitolo 2
UN’APPARIZIONE
■
Non avevo mai fatto lunghe corse in bicicletta. Quella
era la prima. Ma, da molto tempo, malgrado il mio cattivo
ginocchio, Jasmin, di nascosto, mi aveva insegnato ad andarci.
Se già per un giovane normale la bicicletta è uno strumento
molto divertente, che cosa non doveva sembrare a un povero
ragazzo come me, che fino a poco tempo prima trascinava
miseramente la gamba, tutto sudato, fin dal quarto chilometro!…
Dall’alto dei pendii, scendere e addentrarsi nel
profondo dei paesaggi; scoprire come in volo la lontananza
della strada che si scosta e fiorisce al tuo avvicinarti; attraversare un villaggio nello spazio di un istante e portarlo con
te tutto intero in un colpo d’occhio…
In sogno solamente avevo conosciuto fino a quel
momento una corsa così piacevole, così leggera. Persino le
salite mi trovavano pieno di vitalità. Poiché era, bisogna dirlo,
il sentiero del paese di Meaulnes che io bevevo in questo
modo…
“Un po’ prima dell’entrata del paese”, mi diceva Meaulnes, quando un tempo descriveva il suo villaggio, “si vede una
grande ruota a palette che il vento fa girare…”. Non sapeva
a che cosa servisse, o forse fingeva di non saperlo per stimolare maggiormente la mia curiosità1.
1 una grande ruota… la mia curiosità: si trattava probabilmente di una pompa
per estrarre acqua da un pozzo e azionata proprio da quel mulino a vento in
miniatura che era la “ruota a palette”, come del resto è detto poco più avanti
177
Fu solamente al declinare di quella giornata di fine
agosto che scorsi, mentre girava nel vento in un’immensa
prateria, la grande ruota che doveva pompare l’acqua per
una fattoria vicina. Dietro i pioppi del prato si rivelavano già
i primi sobborghi. Man mano che seguivo la grande curva
che faceva la strada per costeggiare il ruscello, il paesaggio
sbocciava e si apriva… Arrivato sul ponte, scoprii infine la
strada maestra del villaggio.
Delle mucche pascolavano, nascoste nei canneti della
prateria, e sentivo le loro campane, mentre, sceso dalla bicicletta, le mani sul manubrio, guardavo il paese in cui stavo per
portare una così seria notizia. Le case, in cui si entrava passando
su un piccolo ponte di legno, erano tutte allineate sul bordo
di un fossato che scendeva lungo la via, come tante barche che
stessero, con le vele imbrogliate, ormeggiate nella calma della
sera. Era l’ora in cui in ogni cucina si accende un fuoco.
Allora la paura e non so quale oscuro rimorso di venire
a scuotere tanta pace, incominciarono a togliermi tutto il
coraggio. Proprio per aggravare la mia improvvisa debolezza,
mi ricordai che la zia Moinel abitava là, su una piccola piazza
di La Ferté-d’Angillon.
Era una delle mie prozie. Tutti i suoi figli erano morti
e avevo soltanto conosciuto Ernest, l’ultimo tra tutti, un
ragazzo grande che stava per diventare maestro. Il mio prozio
Moinel, il vecchio cancelliere, l’aveva seguito dopo poco nella
tomba. E mia zia era rimasta completamente sola nella sua
bizzarra casetta, dove i tappeti erano fatti di ritagli cuciti, i
tavoli coperti di galli, galline e gatti di carta – ma dove i muri
erano tappezzati di vecchi diplomi, di ritratti di defunti, di
medaglioni contornati da capelli morti.
Con tanti dispiaceri e lutti, era la bizzarria e il buon
umore in persona. Quando scoprii la piazzetta in cui si
nel testo. Simili attrezzature sono ancora oggi usate nelle campagne, sia in
Francia, sia in Italia.
178
trovava la casa, chiamai ad alta voce attraverso la porta
socchiusa e sentii proprio all’estremità delle tre stanze in fila
lanciare un gridolino acutissimo:
“Ehi là! Mio Dio!”.
Versò il caffè sul fuoco – ma proprio a quell’ora doveva
fare il caffè? – e apparve… Inarcata all’indietro, portava una
specie di cappello-cappuccio-cuffia sulla cima del capo,
proprio sopra la fronte immensa e bitorzoluta, dove sembrava
di vedere una somiglianza con una donna mongola e anche
ottentotta; e rideva a piccoli colpi, mostrando ciò che restava
dei suoi denti molto minuti.
Ma, mentre la abbracciavo, mi prese in modo maldestro, frettolosamente, una mano che avevo dietro la schiena.
Con un mistero perfettamente inutile poiché eravamo
soltanto noi due, mi fece scivolare una piccola moneta che
non osai guardare e che doveva essere da un franco… Poi,
siccome feci cenno di chiedere spiegazioni o di ringraziarla,
mi diede uno spintone, esclamando:
“Va’, dunque! Ah! So bene che cos’è!”.
Era sempre stata povera, sempre indebitata, sempre
generosa.
“Sono sempre stata scema e sempre sventurata”, diceva
senza amarezza ma con la sua voce in falsetto.
Persuasa che i quattrini mi preoccupassero come era
per lei, la brava donna non aspettava che avessi respirato, per
nascondermi in mano le sue magrissime economie della giornata. E, in seguito, fu sempre così che mi accolse.
La cena fu tanto strana – contemporaneamente triste
e bizzarra – come lo era stata l’accoglienza. Sempre una
candela a portata di mano, ora la toglieva, lasciandomi
nell’ombra, e ora la posava sul tavolino coperto di piatti e di
vasi sbrecciati o crepati.
“A quello”, diceva, “i prussiani hanno rotto i manici,
nel ’70, perché non potevano portarlo via”.
Mi ricordai solamente allora, rivedendo quel grande
vaso dalla tragica storia, che avevamo cenato e dormito là,
179
un tempo. Mio padre mi portava nella Yonne2, da uno specialista che doveva guarire il mio ginocchio. Bisognava prendere
un treno espresso che passava prima di giorno… Mi ricordo
della triste cena di una volta, di tutte le storie del vecchio
cancelliere appoggiato coi gomiti davanti alla sua bottiglia di
vino rosé.
E mi ricordo anche dei miei terrori… Dopo la cena,
seduta davanti al fuoco, la mia prozia aveva preso mio padre
da parte per raccontargli una storia di fantasmi: “Mi giro…
Ah! Mio povero Louis, che cosa vedo? Una piccola donna
grigia…”. Passava per avere la testa piena zeppa di quelle
stupidaggini terrificanti.
Ed ecco che quella sera, terminata la cena, quando,
stanco per la bicicletta, mi fui coricato nella grande stanza
con una camicia da notte a quadri dello zio Moinel, venne
a sedersi al mio capezzale e cominciò con la sua voce più
misteriosa e più acuta:
“Mio povero François, bisogna che ti racconti quello
che non ho mai detto a nessuno…”.
Pensai:
“Bell’affare, eccomi terrorizzato per tutta la notte, come
dieci anni fa!…”.
E ascoltai. Scuoteva la testa, guardando dritto davanti
a sé, come se stesse raccontando la storia a se stessa:
“Ritornavo da una festa con Moinel. Era il primo matrimonio a cui andavamo entrambi dopo la morte del nostro
povero Ernest; e vi avevo incontrato mia sorella Adèle che
non avevo più visto da quattro anni! Un vecchio amico di
Moinel, ricchissimo, l’aveva invitato al matrimonio di suo
figlio, alla proprietà delle Sablonnières. Avevamo noleggiato
2 Yonne: dipartimento (cioè provincia) della Borgogna, nella Francia centroorientale. Deriva il suo nome dal fiume omonimo che lo attraversa, prima di
gettarsi nella Senna.
180
una vettura. Ci era costata molto cara. Ritornavamo sulla
strada verso le sette del mattino, in pieno inverno. Il sole si
alzava. Non c’era assolutamente nessuno. Che cosa vedo tutto
ad un tratto davanti a noi sulla strada? Un omino, un piccolo
giovane fermo, bello come il giorno, che non si muoveva,
che ci guardava venire avanti. Man mano che ci avvicinavamo,
distinguevamo il suo viso aggraziato, così bianco, così amabile
da fare paura!…
“Prendo il braccio di Moinel; tremavo come una foglia;
credevo che fosse il buon Dio!…
“Gli dissi:
“‘Guarda! È un’apparizione!’.
“Mi rispose sottovoce, furioso:
“‘L’ho ben visto! Taci, dunque, vecchia chiacchierona…’.
“Non sapeva che cosa fare; a un certo punto il cavallo
si è fermato… Da vicino, aveva un viso pallido, la fronte
sudata, un berretto sporco e dei pantaloni lunghi. Sentimmo
la sua voce, che diceva:
“‘Non sono un uomo, sono una ragazza. Sono scappata
e non ne posso più. Vorreste farmi salire sulla vostra vettura,
signore e signora?’
“L’abbiamo fatta salire subito. Appena seduta, ha perso
conoscenza. E indovina con chi avevamo a che fare? Era la
fidanzata del giovane delle Sablonnières, Frantz de Galais,
da cui eravamo stati invitati a nozze!”.
“Ma non ci furono nozze”, dissi, “perché la fidanzata è
scappata!”.
“Certo, no”, disse, tutta confusa e guardandomi. “Non
ci furono nozze. Poiché quella povera matta si era messa in
testa mille follie che ci ha spiegato. Era una delle figlie di
un povero tessitore. Si era persuasa che tanta felicità fosse
impossibile; che il ragazzo fosse troppo giovane per lei; che
tutte le meraviglie che lui descriveva fossero immaginarie e,
quando infine Frantz è venuto a cercarla, Valentine si è
spaventata. Passeggiava con lei e sua sorella nel giardino
181
dell’Arcivescovado3 a Bourges, malgrado il freddo e il gran
vento. Il giovane, per delicatezza certamente e forse perché
amava la sorella minore, era pieno di attenzioni per la più
vecchia. Allora, la mia matta si è immaginata non so cosa; ha
detto che sarebbe andata a prendere uno scialle a casa; e là,
per essere sicura di non essere seguita, si è vestita con abiti
maschili ed è fuggita a piedi sulla strada di Parigi.
“Il suo fidanzato ha ricevuto da lei una lettera in cui
gli dichiarava che andava a raggiungere un giovane che
amava. E non era vero…
“‘Sono più felice del mio sacrificio’, mi diceva, ‘che se
fossi sua moglie’. Sì, sciocchina mia, ma intanto lui non aveva
affatto l’idea di sposare sua sorella; si è sparato un colpo di
pistola; hanno visto il sangue nel bosco; ma non hanno mai
ritrovato il corpo”.
“E che cosa avete fatto di quella ragazza disgraziata?”.
“Le abbiamo fatto bere un goccio, prima. Poi, le
abbiamo dato da mangiare e ha dormito accanto al fuoco
quando siamo ritornati. È rimasta con noi per una buona
parte dell’inverno. Per tutto il giorno, finché faceva chiaro,
tagliava, cuciva degli abiti, adattava dei cappelli e puliva la
casa con rabbia. È stata lei a riappiccicare tutta la tappezzeria che vedi là. E da quando è stata qui, le rondini hanno
iniziato a fare il nido fuori. Ma, la sera, al calare della notte,
terminato il suo lavoro, trovava sempre un pretesto per
andare in cortile, in giardino o fuori dalla porta, anche
quando gelava da spaccare le pietre. E la si trovava là, in piedi,
che piangeva con tutto il suo cuore.
“‘Beh, che cosa c’è ancora? Sentiamo…’.
“‘Niente, signora Moinel!’.
“E rientrava.
3 giardino dell’Arcivescovado: si tratta del più bel parco pubblico di Bourges,
collocato su uno sperone roccioso a picco sulla pianura circostante e occupato in gran parte da un ricco orto botanico.
182
“I vicini dicevano:
“‘Avete trovato proprio una graziosissima cameriera,
signora Moinel’.
“Malgrado le nostre suppliche, ha voluto continuare la
sua strada per Parigi, nel mese di marzo; le ho dato dei vestiti
che si era cucita lei; Moinel le ha comprato il biglietto alla
stazione e le ha dato un po’ di denaro.
“Non ci ha dimenticati; è sarta a Parigi, vicino a NôtreDame; ci scrive ancora per domandarci se non sappiamo
niente delle Sablonnières. Una volta per tutte, per liberarla
da quell’idea, le ho risposto che la proprietà è stata venduta,
abbattuta, il giovane scomparso per sempre e la ragazza
sposata. Tutto ciò deve essere vero, credo. Da allora, la mia
Valentine scrive molto meno sovente…”.
Non era una storia di fantasmi che raccontava la zia
Moinel con la sua vocina stridente fatta proprio per raccontarla. Ero intanto al culmine del malessere: il fatto era che
avevamo giurato a Frantz, lo zingaro, di servirlo come dei
fratelli ed ecco che l’occasione mi era stata data…
Ma era quello il momento di guastare la gioia che stavo
per portare a Meaulnes l’indomani mattina, per dirgli ciò che
avevo appena saputo? A che scopo buttarlo in un’impresa
mille volte impossibile? Avevamo in effetti l’indirizzo della
ragazza; ma dove cercare lo zingaro che girava il mondo?…
Lasciamo i pazzi con i pazzi, pensai. Delouche e Boujardon
non avevano torto. Quanto male ci ha fatto quel Frantz
romanzesco! E decisi di non dire niente fino a quando non
avessi visti sposati Augustin Meaulnes e la signorina de Galais.
Presa questa decisione, mi restava ancora l’impressione
penosa di un cattivo presagio – impressione assurda che scacciai rapidamente.
La candela era quasi alla fine; una zanzara ronzava; ma
la zia Moinel, la testa china sotto la sua cuffia di velluto che
non toglieva se non per dormire, i gomiti appoggiati alle
ginocchia, ricominciava la sua storia… A momenti, sollevava
bruscamente la testa e mi guardava per capire le mie impres183
sioni o forse per vedere se non dormissi. Alla fine, subdolamente, la testa sul cuscino, chiusi gli occhi, facendo finta di
assopirmi.
“Andiamo! Tu dormi…!”, disse con un tono più sordo
e un po’ deluso.
Ebbi pietà di lei e protestai:
“Ma no, zia mia, vi assicuro…”.
“Ma sì!”, disse. “Capisco bene d’altronde che tutto ciò
non ti interessi affatto. Ti parlo di persone che tu non hai
conosciuto…”.
E vigliaccamente, quella volta, non risposi.
L’indomani mattina, quando arrivai nella strada
maestra, faceva un così bel tempo da vacanza, una così
grande calma, con dei rumori così ovattati, così familiari per
tutto il paese, che avevo ritrovato tutta la gioiosa sicurezza di
un portatore di buone notizie…
Augustin e sua madre abitavano nella vecchia casa della
scuola. Alla morte di suo padre, pensionato da lungo tempo
e che un’eredità aveva arricchito, Meaulnes aveva voluto che
acquistassero la scuola dove il vecchio maestro aveva insegnato per vent’anni e dove lui stesso aveva imparato a leggere.
Non che fosse di aspetto proprio gradevole: era una grossa
casa quadrata come un municipio (e, del resto, lo era stato);
le finestre del piano terra, che davano sulla strada, erano così
alte, che nessuno vi si affacciava mai; e il cortile sul retro,
dove non c’era un albero e dove un alto portico sbarrava la
vista sulla campagna, era proprio il più asciutto e il più desolato cortile di scuola abbandonata che avessi mai visto…
Nel corridoio complicato, dove si aprivano quattro
porte, trovai la madre di Meaulnes che portava dal giardino
un gran mucchio di biancheria che doveva aver messo ad
asciugare nelle prime ore di quella lunga mattinata di
vacanza. I suoi capelli grigi erano in parte spettinati; dei
ciuffi le cadevano sul viso che, regolare sotto il vecchio copricapo, era gonfio e stanco, come per una notte di veglia; e
abbassava tristemente la testa con un’aria pensierosa.
184
Ma, scorgendomi all’improvviso, mi riconobbe e sorrise:
“Arrivate in tempo”, disse. “Vedete, porto dentro la
biancheria che ho fatto asciugare per la partenza di Augustin. Ho trascorso la notte ad aggiustare i suoi conti e a preparare le sue cose. Il treno parte alle cinque, ma arriveremo a
preparare tutto…”.
Si sarebbe detto, tanto mostrava sicurezza, che lei stessa
avesse preso quella decisione. Però, senza dubbio, ignorava
persino dove Meaulnes dovesse andare.
“Salite”, disse, “lo troverete in municipio a scrivere”.
In fretta salii la scala, aprii la porta di destra, dove
avevano lasciato la scritta Municipio, e mi trovai in una grande
sala a quattro finestre, due sul paese, due sulla campagna,
ornata sui muri da ritratti ingialliti dei presidenti Grévy e
Carnot4. Su un lungo palco che teneva tutto il fondo della
sala c’erano ancora, davanti a un tavolo col tappeto verde,
le sedie dei consiglieri municipali. Al centro, seduto su una
vecchia poltrona che era stata quella del sindaco, Meaulnes
scriveva, intingendo la sua penna sul fondo di un calamaio
di maiolica fuori moda, a forma di cuore. In quel luogo che
sembrava fatto per qualche possidente del villaggio, Meaulnes si ritirava, quando non percorreva la regione circostante,
durante le lunghe vacanze…
Si alzò, appena mi riconobbe, ma non con la precipitazione che avevo immaginato:
“Seurel!”, disse solamente, con un’aria di profonda
meraviglia.
Era lo stesso grande ragazzo dal viso ossuto, la testa
rasata. Dei baffi incolti incominciavano a tracciargli le labbra.
Sempre quello stesso sguardo leale… Ma sull’ardore degli
4 Grévy e Carnot: Jules Grévy (1807-1891), oppositore di Napoleone III, fu presidente della Repubblica Francese dal 1879 al 1887. Marie-François Sadi Carnot
(1837-1894) fu presidente dal 1987 al 1894, anno in cui fu assassinato dall’anarchico italiano Sante Caserio.
185
anni passati si credeva di vedere come un velo di nebbia,
che per un istante dissipava la sua grande passione di un
tempo…
Sembrava molto turbato nel vedermi. Con un balzo ero
salito sul palco. Ma, cosa strana a dirsi, non pensava
nemmeno a tendermi la mano. Si era voltato verso di me, le
mani dietro la schiena, appoggiato sul tavolo, rovesciato all’indietro, e l’aria profondamente imbarazzata. Già, guardandomi senza vedermi, era assorbito da ciò che stava per dirmi.
Come una volta e come sempre, uomo lento a cominciare a
parlare così come sono i solitari, i cacciatori e gli uomini d’avventura, aveva preso una decisione senza pensare alle parole
che occorrevano per spiegarla. E ora che ero davanti a lui,
incominciava solamente a ruminare penosamente le parole
necessarie.
Ciononostante, gli raccontai con gaiezza come fossi
venuto, dove avessi trascorso la notte, e che ero stato molto
sorpreso nel vedere la signora Meaulnes preparare la
partenza di suo figlio…
“Ah! ti ha detto?…”, domandò.
“Sì, penso che non sia per un lungo viaggio, vero?”.
“Sì, un lunghissimo viaggio”.
Per un istante sbalordito, sentendo che tra poco, con
una parola, avrei ridotto a niente quella decisione che non
capivo, non osavo dire più niente e non sapevo come iniziare
la mia missione.
Ma egli stesso parlò, alla fine, come qualcuno che voglia
giustificarsi.
“Seurel!”, disse, “sai che cosa fosse per me la strana
avventura di Sainte-Agathe. Era la mia ragione per vivere e
per avere speranza. Perduta quella speranza, che cosa potevo
diventare?… Come vivere nel modo di tutti gli altri?
“Però ho cercato di vivere laggiù, a Parigi, quando ho
visto che tutto era finito e che non valeva più neanche la
pena di cercare la proprietà perduta… Ma un uomo che ha
fatto una volta un salto in paradiso, come potrebbe accon186
tentarsi in seguito dell’esistenza di tutti gli altri? Quella che
è la felicità degli altri mi è parsa una bazzecola. E quando,
sinceramente, deliberatamente, ho deciso un giorno di fare
come gli altri, quel giorno ho accumulato rimorsi per lungo
tempo…”.
Seduto su una sedia del palco, la testa bassa, ascoltandolo senza guardarlo, non sapevo che cosa pensare di quelle
spiegazioni oscure:
“Allora”, dissi, “Meaulnes, spiegati meglio! Perché
questo lungo viaggio? Hai una colpa da riparare? Una
promessa da mantenere?”.
“Beh, sì”, rispose. “Ti ricordi di quella promessa che
avevo fatto a Frantz?…”.
“Ah!”, feci, sollevato, “non si tratta che di quello?…”.
“Di quello. E forse anche di una colpa da riparare.
Entrambe le cose…”.
Seguì un momento di silenzio durante il quale decisi
di cominciare a parlare e preparai le parole.
“Non c’è che una spiegazione alla quale credo”, disse
ancora. “Certo, avrei voluto rivedere una volta la signorina
de Galais, solamente rivederla… Ma, ne sono persuaso
adesso, quando ho scoperto la proprietà senza nome, ero ad
un’altezza, a un grado di perfezione e di purezza che non
raggiungerò mai più. Nella morte solamente, come ti scrissi
un giorno, ritroverò forse la bellezza di quel tempo…”.
Cambiò tono per riprendere con un’animazione strana,
avvicinandosi a me:
“Ma, ascolta, Seurel! Questo nuovo intrigo e questo
gran viaggio, quella colpa che ho commesso e che bisogna
riparare, sono, in un certo senso, la mia vecchia avventura
che prosegue…”.
Un istante, durante il quale penosamente cercò di riafferrare i suoi ricordi. Avevo perso l’occasione precedente.
Non volevo per niente al mondo lasciar passare questa; e,
allora, parlai – troppo in fretta, poiché rimpiansi amaramente
più tardi di non aver atteso la sua confessione.
187
Pronunciai dunque la mia frase, che era preparata per
l’istante precedente, ma non andava più così bene, adesso.
Dissi senza un gesto, appena sollevando un po’ la testa:
“E se venissi ad annunciarti che tutte le speranze non
sono perdute?…”.
Mi guardò; poi, distogliendo bruscamente gli occhi,
arrossì come non avevo mai visto nessuno arrossire: una
montata di sangue che doveva picchiargli a grandi colpi nelle
tempie…
“Che cosa vuoi dire?”, domandò, infine, in modo
appena comprensibile.
Allora, tutto d’un fiato, raccontai ciò che sapevo, ciò
che avevo fatto, e come, cambiata la sorte, sembrasse quasi
che fosse Yvonne de Galais a mandarmi da lui.
Era adesso terribilmente pallido.
Durante tutto quel racconto, che ascoltò in silenzio, la
testa un po’ incassata, nell’atteggiamento di qualcuno che è
stato sorpreso e che non sa come difendersi, se nascondersi
o scappare, non mi interruppe, ricordo, che una sola volta.
Gli raccontai di sfuggita che tutte le Sablonnières erano state
demolite e che la proprietà di un tempo non esisteva più:
“Ah!”, disse, “vedi…” (come se avesse atteso un’occasione per giustificare la sua condotta e la disperazione in cui
era affondato) “vedi: non c’è più niente…”.
Per terminare, persuaso che alla fine l’assicurargli che
tutto era semplice avrebbe portato via il resto della sua pena,
gli raccontai che una scampagnata era stata organizzata da
mio zio Florentin, che la signorina de Galais doveva venirci
a cavallo e che anche lui era stato invitato… Ma sembrava
completamente sperduto e continuava a non rispondere.
“Bisogna subito disdire il tuo viaggio”, dissi con impazienza. “Andiamo ad avvertire tua madre…”.
E, mentre scendevamo tutti e due:
“Questa scampagnata?…”, mi domandò con esitazione.
“Allora, veramente, bisogna che ci venga?…”.
“Ma, andiamo”, replicai, “non si domanda neanche”.
188
Aveva l’aria di qualcuno che sia spinto per le spalle.
Di sotto, Augustin avvertì la signora Meaulnes che avrei
pranzato con loro, cenato, dormito là e che l’indomani, lui
stesso avrebbe noleggiato una bicicletta per seguirmi a Le
Vieux-Nançay.
“Ah! Benissimo”, disse lei, scuotendo la testa, come se
quelle notizie avessero confermato tutte le sue previsioni.
Mi sedetti nella piccola sala da pranzo, sotto i calendari illustrati, i pugnali ornamentali e le otri sudanesi che
un fratello del signor Meaulnes, vecchio soldato di fanteria
da sbarco, aveva portato dai suoi lontani viaggi.
Augustin mi lasciò lì un momento, prima del pasto, e,
nella stanza vicina, dove sua madre aveva preparato i suoi
bagagli, lo sentii che le diceva, abbassando un po’ la voce,
di non disfare il suo baule – poiché il suo viaggio poteva
essere soltanto ritardato…
189
Claude Monet, Colazione sull’erba
Capitolo 3
LA GITA DI PIACERE
■
Feci fatica a seguire Augustin sulla strada di Le VieuxNançay. Andava come un corridore di bicicletta. Non scendeva di sella per fare le salite. Alla sua inesplicabile esitazione
del giorno prima erano succedute una febbre, un nervosismo, un desiderio di arrivare al più presto che mi spaventavano un po’. Da mio zio mostrò la stessa impazienza:
sembrava incapace di interessarsi a qualcosa fino al momento
in cui ci fummo sistemati in vettura, verso le dieci, l’indomani mattina, e pronti a partire per le rive del fiume.
Eravamo alla fine del mese di agosto, al declino dell’estate. Già i ricci vuoti dei castagni ingialliti incominciavano
a ricoprire le strade. Il tragitto non era lungo; la fattoria dei
Salici, vicina allo Cher, dove stavamo andando, non si trovava
che a due chilometri al di là delle Sablonnières. Di quando
in quando, incontravamo altri invitati in vettura e anche dei
giovani a cavallo, che Florentin aveva invitato arditamente a
nome del signor de Galais… Ci si era sforzati, come un
tempo, di mescolare ricchi e poveri, castellani e paesani. Fu
così che vedemmo arrivare in bicicletta Jasmin Delouche che,
grazie al guardiano Baladier, aveva fatto da poco la conoscenza di mio zio.
“Ecco”, disse Meaulnes, scorgendolo, “colui che aveva
la chiave di tutto, mentre noi cercavamo fino a Parigi. C’è
da disperarsi!”.
Ogni volta che lo guardava, il suo risentimento cresceva.
L’altro, che si immaginava al contrario di avere diritto a tutta
la nostra riconoscenza, scortò la nostra vettura molto da
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vicino, fino in fondo. Si vedeva che aveva fatto, miserabilmente e senza grandi risultati, delle spese per il guardaroba,
e i lembi della sua giacca frusta sbattevano sul parafango della
bicicletta…
Malgrado la costrizione che si imponeva per essere
amabile, il suo viso vecchiotto non arrivava a piacere. Mi ispirava piuttosto una vaga pietà. Ma di chi non avrei avuto pietà
durante quel giorno?…
Non ricordo mai quella gita di piacere, senza un oscuro
rimpianto, come una specie di soffocamento. Mi ero fatto di
quel giorno un’idea tanto gioiosa in anticipo! Tutto sembrava
così perfettamente concertato perché fossimo felici. E invece
lo fummo così poco!…
Tuttavia le rive dello Cher erano così belle! Sulla riva,
dove ci si fermava, la costa finiva in una china dolce e la terra
si divideva in piccoli prati verdi, in saliceti separati da siepi,
come tanti giardini minuscoli. Dall’altra parte del fiume la
riva era formata da colline grigie, ripide, rocciose; e sulle più
lontane si scorgevano, tra gli abeti, piccoli castelli romantici
con la torretta. Lontano, a momenti, si sentiva abbaiare la
muta di Préveranges.
Eravamo arrivati in quel luogo per un dedalo di piccoli
sentieri, ora rivestiti di sassi bianchi, ora ricoperti di sabbia –
sentieri che nei pressi del fiume le sorgenti vive trasformavano in ruscelli. Al passaggio, i rami dei ribes selvatici ci afferravano per la manica. E ora eravamo immersi nella fresca
oscurità del fondo dei valloni, ora, al contrario, le siepi interrotte facevano sì che ci immergessimo nella chiara luce di tutta
la vallata. Lontano, sull’altra riva, quando ci avvicinammo, un
uomo arrampicato sulle rocce, con un gesto lento, tendeva
delle lenze per i pesci. Come faceva bello, mio Dio!
Ci sistemammo su un prato, nella rientranza che
formava un bosco di betulle. Era un grande prato rasato, dove
sembrava che ci fosse spazio per giochi senza fine.
Le vetture furono staccate; i cavalli condotti alla fattoria degli alburni. Si incominciavano ad aprire le provviste nel
192
bosco e ad alzare sul prato dei piccoli tavoli pieghevoli che
mio zio aveva portato.
Occorreva in quel momento della gente di buona
volontà per andare all’entrata del grande sentiero vicino, a
fare la posta agli ultimi arrivati, per indicare loro dove
eravamo. Mi offrii subito; Meaulnes mi seguì e andammo ad
appostarci vicino al ponte sospeso, all’incrocio di più sentieri
tra cui quello che veniva dalle Sablonnières.
Camminando in lungo e in largo, parlando del passato,
cercando bene o male di distrarci, aspettavamo. Arrivò ancora
una vettura da Le Vieux-Nançay, dei contadini sconosciuti
con una figlia grande ricoperta di nastri. Poi più niente. Sì,
tre bambini in una vettura con l’asino, i bambini del vecchio
giardiniere delle Sablonnières.
“Mi sembra di conoscerli”, disse Meaulnes. “Sono quelli,
credo, che mi hanno preso per mano, quella volta, la prima
sera della festa, e mi hanno portato alla cena…”.
Ma in quel momento, l’asino non volle più camminare,
i bambini scesero per pungolarlo, tirarlo, picchiarlo più che
poterono; allora Meaulnes, deluso, dichiarò di essersi
sbagliato…
Domandai loro se avessero incontrato sulla strada il
signore e la signorina de Galais. Uno di essi rispose che non
sapeva; l’altro: “Penso di sì, signore”. Non ci diceva nulla di
più. Discesero infine verso il prato, gli uni tirando l’asino per
le briglie, gli altri spingendo la vettura.
Riprendemmo la nostra attesa. Meaulnes guardava fissamente la curva del sentiero delle Sablonnières, spiando con
una specie di spavento l’arrivo della ragazza che aveva tanto
cercato, un tempo. Un nervosismo bizzarro e quasi comico,
che egli attribuiva a Jasmin, si era impadronito di lui. Dalla piccola scarpata su cui ci eravamo arrampicati per vedere da lontano il sentiero, scorgevamo sul prato, dall’alto in basso, un
gruppo di invitati tra cui Delouche cercava di fare bella figura:
“Guardalo pontificare, quell’imbecille”, mi diceva
Meaulnes.
193
E io gli rispondevo:
“Ma lascialo. Fa quello che può, il povero ragazzo”.
Augustin non la smetteva. Laggiù una lepre o uno
scoiattolo doveva essere sbucato da una macchia. Jasmin, per
darsi un contegno, fece cenno di inseguirlo:
“Andiamo, via! Adesso si mette a correre…” disse
Meaulnes, come se veramente quell’audacia oltrepassasse
tutte le altre!
E quella volta non potei impedirmi di ridere. Anche
Meaulnes non si trattenne; ma non fu che un lampo.
Dopo un altro quarto d’ora:
“E se non venisse?…”.
Risposi:
“Ma ha promesso. E allora sii più paziente!”.
Ricominciò a spiare. Ma alla fine, incapace di sopportare più a lungo quell’attesa intollerabile:
“Ascoltami”, disse. ”scendo con gli altri. Non so che cosa
ci sia adesso contro di me: ma se resto qui, sento che non
verrà mai – che è impossibile che al fondo del sentiero,
all’improvviso, lei appaia”.
E se ne andò verso il prato, lasciandomi tutto solo. Feci
qualche centinaio di metri sulla stradina, per passare il
tempo. E alla prima svolta scorsi Yvonne de Galais che cavalcava all’amazzone sul suo vecchio cavallo bianco, così arzillo
quella mattina, che era obbligata a tirare le redini per impedirgli di trottare. Davanti, di fianco al cavallo, faticosamente,
in silenzio, camminava il signor de Galais. Senza dubbio
avevano dovuto darsi il cambio sulla strada, ognuno a turno
servendosi della vecchia cavalcatura.
Quando la ragazza mi vide da solo, sorrise, saltò rapidamente a terra e, dando le redini a suo padre, si diresse
verso di me che le correvo incontro:
“Sono molto felice”, disse “di trovarvi solo. Poiché non
voglio mostrare a nessuno se non a voi il vecchio Bélisaire,
né metterlo con gli altri cavalli. Per prima cosa, è troppo
brutto e troppo vecchio; e poi temo sempre che sia ferito da
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qualcun altro. Però mi fido di montare soltanto lui e, quando
sarà morto, non andrò più a cavallo”.
Nella signorina de Galais, come in Meaulnes, sentivo
sotto quella animazione piacevole, sotto quella grazia apparentemente così tranquilla, dell’impazienza e quasi dell’ansia. Parlava più in fretta del normale. Malgrado le guance e
i pomelli rosa, aveva intorno agli occhi, sulla fronte, a tratti,
un pallore violento in cui si leggeva la sua inquietudine.
Stabilimmo di attaccare Bélisaire a un albero in un
boschetto, vicino alla strada. Il vecchio signor de Galais, senza
dire parola, come sempre, tirò fuori la cavezza dalle fondine
della sella e attaccò l’animale – un po’ in basso, mi sembrò.
Dalla fattoria promisi di far mandare subito del fieno, dell’avena, della paglia…
E la signorina de Galais arrivò sul prato come una volta,
immagino, scese verso la riva del lago, quando Meaulnes la
scorse per la prima volta.
Dando il braccio a suo padre, scostando con la mano
sinistra il lembo del grande mantello leggero che la avvolgeva, avanzò verso gli invitati, con la sua aria al tempo stesso
così seria e così infantile. Camminavo vicino a lei. Tutti gli
invitati sparpagliati o che giocavano lontano si erano alzati
e assembrati per accoglierli; ci fu un breve istante di silenzio, durante il quale ognuno la guardò avvicinarsi.
Meaulnes si era mescolato al gruppo dei giovanotti e
niente lo faceva distinguere dai suoi compagni, se non la sua
alta statura: d’altronde c’erano dei giovani quasi alti come lui.
Non fece niente che potesse attirare l’attenzione, né un gesto,
né un passo in avanti. Lo vedevo, vestito di grigio, immobile,
che guardava fisso, come tutti gli altri, la ragazza così bella
che stava arrivando. Alla fine, però, con un movimento inconsapevole e imbarazzato, si era passato la mano sulla testa nuda,
come per nascondere, in mezzo ai suoi compagni dai capelli
ben pettinati, la rozza testa rasata da contadino.
Poi il gruppo attorniò la signorina de Galais. Le
vennero presentati le ragazze e i ragazzi che non conosceva…
195
Stava per arrivare il turno del mio compagno; e io mi sentivo
tanto ansioso, quanto poteva esserlo lui. Mi preparai a fare
io stesso quella presentazione.
Ma, prima che avessi potuto dire qualcosa, la ragazza
avanzò verso di lui con una decisione e una gravità sorprendenti:
“Riconosco Augustin Meaulnes”, disse.
E gli tese la mano.
Dei nuovi arrivati si avvicinarono quasi subito per salutare Yvonne de Galais e i due giovani si trovarono separati.
Uno sfortunato caso volle che non venissero nemmeno riuniti
allo stesso tavolino per il pranzo. Ma Meaulnes sembrava aver
ripreso confidenza e coraggio. A più riprese, siccome mi
trovavo isolato tra Delouche e il signor de Galais, vidi da
lontano il mio compagno che mi faceva, con la mano, un
cenno di amicizia.
Fu soltanto verso la fine del pomeriggio, quando i
giochi, il bagno, le conversazioni, le passeggiate in battello
nello stagno vicino si furono un po’ dappertutto organizzate,
che Meaulnes, di nuovo, si trovò in presenza della ragazza.
Stavamo parlando con Delouche, seduti su delle sedie da
giardino che avevamo portato, quando, lasciando bruscamente un gruppo di giovani in cui sembrava annoiarsi, la
signorina de Galais si avvicinò a noi. Ci domandò, ricordo,
perché non andavamo in barca sul lago degli alburni, come
gli altri.
“Abbiamo fatto qualche giro questo pomeriggio”,
risposi. “Ma è assai monotono e ci siamo stancati presto”.
“Beh, perché non andate sul fiume?”, disse lei.
“La corrente è troppo forte: rischieremmo di essere
portati via”.
“Ci vorrebbe”, disse Meaulnes, “una barca a motore o
un battello a vapore, come quello di una volta”.
“Non ce l’abbiamo più”, disse lei, quasi a voce bassa,
“l’abbiamo venduto”.
E calò un silenzio imbarazzato.
196
Jasmin ne approfittò per annunciare che andava a
raggiungere il signor de Galais.
“Saprò bene”, disse, “dove trovarlo”.
Bizzarria del caso! Quei due esseri così perfettamente
dissimili si erano piaciuti e dal mattino non si lasciavano più.
Il signor de Galais mi aveva preso da parte un istante, all’inizio del pomeriggio, per dirmi che avevo in lui un amico
pieno di tatto, di rispetto e di qualità. Forse era arrivato fino
a confidargli il segreto dell’esistenza di Bélisaire e il luogo
del suo nascondiglio.
Pensai anch’io di allontanarmi, ma sentii i due giovani
così imbarazzati, così ansiosi uno di fronte all’altro, che giudicai prudente non farlo…
Tanta discrezione da parte di Jasmin, tanta precauzione
dalla mia servirono a poco. Parlarono. Ma invariabilmente,
con una testardaggine di cui non si rendeva conto, Meaulnes ritornava a tutte le meraviglie di un tempo. E ogni volta
la ragazza, torturata, doveva ripetergli che tutto era sparito:
la vecchia dimora così strana e così complicata, abbattuta; il
grande stagno, asciugato, colmato; e dispersi i bambini dagli
affascinanti costumi…
“Ah!” diceva semplicemente Meaulnes con disperazione, e come se ognuna di quelle sparizioni gli avesse dato
ragione contro la ragazza o contro di me…
Camminavamo fianco a fianco… Inutilmente tentavo
di fare da diversivo alla tristezza che pervadeva tutti e tre.
Con una domanda aspra, Meaulnes, di nuovo, cedeva alla
sua idea fissa. Domandava informazioni su tutto ciò che aveva
visto una volta: le bambine, il conduttore della vecchia
berlina, i pony della corsa. “Anche i pony sono stati venduti?
Non ci sono più cavalli nella proprietà?…”. Ella rispose che
non ce n’erano più. Non parlò di Bélisaire.
Allora egli evocò gli oggetti della sua stanza: i candelabri, il grande specchio, il vecchio liuto rotto… Si informava
di tutto ciò, con una passione insolita, come se avesse voluto
persuadersi che niente sopravviveva alla sua bella avventura,
197
che la ragazza non gli avrebbe portato un relitto capace di
provare che non avevano sognato entrambi, come il palombaro porta dal fondo dell’acqua un ciottolo e delle alghe.
La signorina de Galais ed io non potemmo impedirci
di sorridere tristemente; lei si decise a spiegargli:
“Non rivedrete più il bel castello che avevamo sistemato, il signor de Galais ed io, per il povero Frantz.
“Passavamo la nostra vita a fare quello che chiedeva.
Era un essere così strano, così affascinante! Ma tutto è sparito
con lui la sera del suo fidanzamento mancato.
“Già il signor de Galais era rovinato senza che lo sapessimo. Frantz aveva contratto dei debiti e i suoi vecchi compagni – apprendendo della sua scomparsa – sono subito venuti
a reclamare da noi. Siamo diventati poveri; la signora de
Galais è morta e noi abbiamo perduto tutti i nostri amici in
pochi giorni.
“Se Frantz ritornasse, se non fosse morto; se ritrovasse
i suoi amici e la fidanzata; se le nozze interrotte si celebrassero, forse tutto tornerebbe come era una volta. Ma il passato
può rinascere?”.
“Chi lo sa!”, disse Meaulnes pensoso. E non domandò
più niente.
Sull’erba corta e già leggermente ingiallita, camminavamo tutti e tre senza rumore: Augustin aveva alla destra,
vicino a lui, la ragazza che aveva creduto perduta per
sempre. Quando faceva una delle sue dure domande, girava
verso di lui lentamente, per rispondergli, il suo affascinante
viso inquieto; e una volta, parlandogli, aveva posato dolcemente la mano sul suo braccio, con un gesto pieno di confidenza e di debolezza. Perché il grande Meaulnes era là
come uno straniero, come qualcuno che non ha trovato ciò
che cercava e nient’altro può interessare? Quella felicità,
tre anni prima, non l’avrebbe sopportata senza spavento,
senza follia, forse. Da dove veniva, quindi, quel vuoto, quell’allontanamento, quell’impotenza a essere felice, che c’era
in lui, adesso?
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Ci avvicinavamo al boschetto in cui al mattino il signor
de Galais aveva attaccato Bélisaire; il sole verso il tramonto
allungava le nostre ombre sull’erba; all’altra estremità del
prato, sentivamo, attutito dalla lontananza, come un brusio
felice, le voci dei giocatori e delle ragazzine, e restavamo silenziosi in quella calma stupenda, quando sentimmo cantare
dall’altra parte del bosco, nella direzione degli Alburni, la
fattoria sul bordo dell’acqua. Era la voce giovane e lontana
di qualcuno che porta le sue bestie ad abbeverarsi, un’aria
ritmata, cadenzata come una danza, ma che l’uomo prolungava e illanguidiva come una vecchia ballata triste:
Le mie scarpe sono rosse…
Addio miei amori…
Le mie scarpe sono rosse…
Addio senza ritorno!…
Meaulnes aveva alzato la testa e ascoltava. Non era altro
che una delle arie che cantavano i contadini ritardatari, alla
proprietà senza nome, l’ultima sera della festa, quando tutto
era già crollato… Nient’altro che un ricordo – il più misero
– di quei bei giorni che non ritorneranno più.
“Ma voi lo sentite?” disse Meaulnes a bassa voce. “Oh!
Vado a vedere che cos’è”. E subito si infilò nel boschetto.
Quasi subito la voce si zittì; si sentì ancora per un attimo
l’uomo fischiare alle sue bestie, allontanandosi; poi, più
niente…
Guardai la ragazza. Pensosa e spossata, aveva gli occhi
fissi sul bosco in cui Meaulnes era appena scomparso.
Quante volte, più tardi, doveva guardare così, pensosamente,
il passaggio da cui se n’era andato per sempre il grande
Meaulnes!
Ritornò verso di me:
“Non è felice”, disse dolorosamente.
Aggiunse:
“E può darsi che non io possa fare niente per lui?…”.
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Esitai a rispondere, temendo che Meaulnes, che doveva
con un salto aver raggiunto la fattoria e che ora ritornava
dal bosco, sorprendesse la nostra conversazione. Ma volevo
incoraggiarla, tuttavia; dirle di non aver paura di trattare in
modo brusco il grande ragazzo; che un segreto senza dubbio
lo faceva disperare e che mai di sua iniziativa si sarebbe confidato con lei, né con nessuno – quando all’improvviso, dall’altro lato del bosco, partì un grido; poi sentimmo uno scalpiccio come di un cavallo che stia scalciando e il rumore di
un alterco a voci frammezzate…
Capii subito che era capitato un incidente al vecchio
Bélisaire e corsi verso il luogo da cui veniva tutto il chiasso.
La signorina de Galais mi seguì da lontano. Dal fondo del
prato dovevano aver notato i nostri movimenti, poiché sentii,
nel momento in cui rientrai nel bosco, le grida di persone
che accorrevano.
Il vecchio Bélisaire, attaccato troppo basso, si era preso
una zampa anteriore nella cavezza; non si era mosso fino al momento in cui il signor de Galais e Delouche, nel corso della loro
passeggiata, si erano avvicinati a lui; spaventato, eccitato per l’avena insperata che gli avevano dato, si era dibattuto furiosamente; i due uomini avevano tentato di liberarlo, ma così maldestramente, che erano riusciti a impigliarlo di più, rischiando
di subire pericolosi colpi di zoccolo. Era stato in quel momento
che per caso Meaulnes, tornando dagli Alburni, era piombato
sul gruppo. Furioso per tanta goffaggine, aveva spintonato i due
uomini con il rischio di mandarli a rotolare nei cespugli. Con
precauzione ma con abilità aveva liberato Bélisaire.
Troppo tardi, poiché il male era già fatto: il cavallo
doveva avere un tendine strappato, qualche cosa di rotto,
forse, poiché teneva pietosamente la testa bassa, la sella allentata sulla schiena, una zampa piegata sotto il ventre ed era
tutto tremante. Meaulnes, piegato, lo tastava e lo esaminava
senza dire niente.
Quando alzò la testa, quasi tutti erano radunati là, ma
non vide nessuno. Era rosso di rabbia.
200
“Mi domando”, gridò, “chi abbia potuto attaccarlo in
questo modo! E lasciargli la sella addosso per tutta la giornata? E chi ha avuto l’audacia di sellare questo vecchio
cavallo, buono tutt’al più per una carretta!”.
Delouche voleva dire qualcosa, prendersi la colpa.
“Sta’ zitto, almeno! È tutta colpa tua. Ti ho visto tirare
come un idiota la cavezza per liberarlo”.
E, abbassandosi di nuovo, si rimise a strofinare il
garretto1 del cavallo con il piatto della mano.
Il signor de Galais, che non aveva ancora detto niente,
ebbe il torto di voler uscire dal suo silenzio. Balbettò:
“Gli ufficiali di marina hanno l’abitudine… Il mio
cavallo…”.
“Ah! È vostro?”, disse Meaulnes, un po’ più calmo,
benché ancora molto rosso, e girando la testa di lato verso
il vecchio.
Credetti che stesse per cambiare tono, fare delle scuse.
Sbuffò per un momento. E vidi allora che prendeva un
piacere amaro e disperato ad aggravare la situazione, a rovinare tutto per sempre, dicendo con insolenza:
“Beh, non vi faccio i miei complimenti”.
Qualcuno suggerì:
“Forse con dell’acqua fresca… Bagnandolo nel
guado…”.
“Bisogna”, disse Meaulnes senza rispondere, “portare
via subito questo cavallo, finché può ancora camminare, – e
non c’è tempo da perdere! – metterlo in scuderia e non farlo
uscire mai più”.
Molti giovani si offrirono subito. Ma la signorina de
Galais li ringraziò vivamente. Il viso infuocato, pronta a sciogliersi in lacrime, salutò tutti e anche Meaulnes, sbalordito,
che non osava guardarla. Ella prese l’animale per le redini,
1 garretto: nel cavallo, importantissima articolazione tra la zampa posteriore e
lo stinco, fondamentale per la sua capacità di movimento.
201
come si dà la mano a qualcuno, più per avvicinarglisi
maggiormente, che per condurlo… Il vento di quella fine
d’estate era così tiepido sul sentiero delle Sablonnières, che
si poteva credere di essere a maggio, e le foglie delle siepi
tremolavano alla brezza del sud… La vedemmo partire così,
il braccio per metà fuori dal mantello, tenendo nella mano
stretta le grosse redini di cuoio. Suo padre camminava faticosamente accanto a lei…
Triste fine di pomeriggio! Poco a poco, ognuno raccolse
i suoi pacchetti, le sue coperte; si piegarono le sedie, si smontarono i tavoli; una ad una, le vetture, caricate di bagagli e
di gente, partirono, con dei cappelli alzati e dei fazzoletti
sventolati. Restammo gli ultimi sul terreno con mio zio
Florentin che ruminava come noi, senza dire niente, i suoi
dispiaceri e la sua grossa delusione.
Anche noi partimmo, portati velocemente nella nostra
vettura ben molleggiata, dal nostro bel cavallo sauro. La ruota
cigolò al tornante nella sabbia e subito, Meaulnes ed io, che
eravamo seduti sul sedile di dietro, vedemmo scomparire
sulla stradina l’imbocco della scorciatoia che il vecchio Bélisaire e i suoi padroni avevano preso…
Ma allora il mio compagno – l’essere meno capace di
piangere che conosco al mondo – voltò improvvisamente
verso di me il suo viso sconvolto da un pianto irrefrenabile.
“Fermatevi, per favore!”, disse, mettendo la mano sulla
spalla di Florentin. “Non preoccupatevi per me. Ritornerò
da solo, a piedi”.
E con un salto, la mano sul parafango della vettura, saltò
a terra. Con nostro stupore, ritornando sui propri passi, si
mise a correre e corse fino al sentierino che avevamo appena
oltrepassato, il sentiero delle Sablonnières. Dovette arrivare
alla proprietà per quel viale di abeti che aveva seguito una
volta, dove aveva sentito, vagabondo nascosto tra i rami bassi,
la conversazione misteriosa dei bei bambini sconosciuti…
E fu quella sera, tra le lacrime, che chiese in sposa la
signorina de Galais.
202
Capitolo 4
GENTE FELICE
■
È un giovedì, all’inizio di febbraio, un bel giovedì
pomeriggio ghiacciato, in cui soffia un gran vento. Sono le
tre e mezzo, le quattro… Sulle siepi, vicino ai borghi, i bucati
sono stesi da dopo mezzogiorno e asciugano proprio grazie
alla burrasca di vento. In ogni casa, il fuoco della sala da
pranzo fa brillare tutto un assortimento di giocattoli verniciati. Stanchi di giocare, i bambini si siedono accanto alle
madri e si fanno raccontare il giorno del loro matrimonio…
A chi ci tiene a non essere felice, è sufficiente salire
nel granaio e ascoltare, fino a sera, fischi e gemiti di naufragi;
non ha che da andarsene fuori, sulla strada, e il vento gli
ripiegherà il foulard sulla bocca, come un caldo bacio improvviso che lo farà piangere.
Ma per chi ama la felicità, c’è al fondo di un sentiero
fangoso la casa delle Sablonnières, dove il mio amico Meaulnes è rientrato con Yvonne de Galais, che è sua moglie da
mezzogiorno.
Il fidanzamento è durato cinque mesi. È stato tranquillo, così tranquillo come il primo incontro era stato movimentato. Meaulnes è venuto spesso alle Sablonnières, in bicicletta o in vettura. Più di due volte alla settimana, cucendo
o leggendo vicino alla grande finestra che dà sulla landa1 e
sugli abeti, la signorina de Galais ha visto tutto ad un tratto
1 landa: territorio disabitato, caratterizzato da bassa vegetazione dovuta alla
povertà del suolo.
203
la sua alta figura veloce passare dietro la tenda, poiché viene
sempre dal viale fuori mano che ha preso una volta. Ma è la
sola allusione – tacita – che egli faccia al passato. La felicità
sembra aver addormentato il suo strano tormento.
Piccoli avvenimenti hanno scandito quei cinque mesi
calmi. Mi hanno nominato maestro nella frazione di SaintBenoist-des-Champs. Saint-Benoist-des-Champs non è un
villaggio: sono delle fattorie disseminate attraverso la campagna e l’edificio scolastico è completamente isolato su un
pendio al bordo della strada. Conduco una vita molto solitaria, ma, passando nei campi, non occorrono che tre quarti
d’ora di cammino per raggiungere le Sablonnières.
Delouche vive adesso da suo zio, che è imprenditore
edile a Le Vieux-Nançay. Sarà presto lui il padrone. Viene
sovente a trovarmi. Meaulnes, su preghiera della signorina
de Galais, è adesso molto cordiale con lui.
E questo spiega il fatto che siamo là tutti e due a girovagare, verso le quattro del pomeriggio, quando tutti gli invitati delle nozze sono già ripartiti.
Il matrimonio si è celebrato a mezzogiorno, con la
maggiore discrezione possibile, nella vecchia cappella delle
Sablonnières che non è stata abbattuta e che gli abeti nascondono a metà sul versante della collina vicina. Dopo un pranzo
rapido, la madre di Meaulnes, il signor Seurel, Millie, Florentin e gli altri sono risaliti in vettura. Non restiamo che Jasmin
ed io…
Erriamo sul margine dei boschi che sono dietro la casa
delle Sablonnières, sul bordo del grande terreno incolto,
vecchia area della proprietà oggi abbattuta. Senza volerlo
evitare e senza sapere perché, siamo pieni di inquietudine.
Invano tentiamo di distrarre i nostri pensieri e di ingannare
l’angoscia, mostrandoci, nel corso della nostra passeggiata
pigra, le tane delle lepri e i piccoli solchi di sabbia che i conigli hanno grattato di fresco… una trappola tesa… la traccia
di un bracconiere… Ma sempre torniamo a quel confine del
bosco, da cui si scopre la casa silenziosa e chiusa…
204
Sul basso della grande finestra che dà sugli abeti, c’è
un balcone di legno, invaso dalle erbacce che il vento piega.
Un chiarore come di fuoco acceso si riflette sui vetri della
finestra. Di tanto in tanto passa un’ombra. Tutto intorno, nei
campi circostanti, negli orti, nella sola fattoria che rimane
delle vecchie dipendenze, silenzio e solitudine. I mezzadri
sono andati in paese per festeggiare la felicità dei loro
padroni.
Di quando in quando il vento, carico di una condensa
che è simile alla pioggia, ci bagna il viso e ci porta le note
perdute di un pianoforte. Laggiù, nella casa chiusa, qualcuno
suona. Mi fermo un istante per ascoltare in silenzio. È prima
come una voce tremula che, da molto lontano, osi appena
cantare la sua gioia… È come il riso di una bambina che nella
sua stanza è andata a cercare tutti i suoi giocattoli e li sparge
davanti al suo amico. Penso anche alla gioia ancora timorosa
di una donna che si è messa un bel vestito e che lo mostra
e non sa se piacerà…
Quell’aria che non conosco, è anche una preghiera,
una supplica alla fortuna di non essere troppo crudele, un
saluto e un inginocchiarsi davanti alla felicità…
Penso:
“Sono felici finalmente. Meaulnes è laggiù vicino a lei…”.
E sapere questo, esserne sicuro, è sufficiente alla
contentezza perfetta del bravo ragazzo che sono.
In quel momento, tutto assorto, il viso bagnato dal
vento della pianura come dallo spruzzo del mare, sento che
mi si tocca la spalla:
“Ascolta!”, dice Jasmin, sottovoce.
Lo guardo. Mi fa segno di non muovermi; e lui stesso,
la testa inclinata, i sopraccigli aggrottati, ascolta…
“Hu-hu!”.
Questa volta ho sentito. È un segnale, un richiamo su
due note, alta e bassa, che ho già sentito una volta… Ah, sì!
Mi ricordo: è il verso del grande commediante quando chiamava il suo giovane compagno al cancello della scuola. È il
205
richiamo a cui Frantz ci aveva fatto giurare di rispondere,
non importa dove e non importa quando. Ma che cosa vuole,
qui, oggi, costui?
“Viene dalla grande abetaia a sinistra”, dissi a bassa
voce. “È un bracconiere, senza dubbio”.
Jasmin scosse la testa:
“Lo sai bene, che non è vero”, disse.
Poi, più piano:
“Sono in paese, tutti e due, da questa mattina. Ho
sorpreso Ganache alle undici, mentre spiava in un campo
vicino alla cappella. È scappato, scorgendomi. Sono venuti
da lontano, forse in bicicletta, visto che era coperto di fango
fino a metà della schiena…”.
“Ma che cosa cercano?”.
“Non lo so. Ma sicuramente bisogna che li mandiamo
via. Non bisogna lasciarli gironzolare nei dintorni. Oppure
tutte le follie ricomincerebbero…”.
Sono d’accordo, senza confessarlo.
“La cosa migliore”, dissi, “sarebbe raggiungerli, vedere
che cosa vogliono e far intendere loro ragione…”.
Lentamente, silenziosamente, scivoliamo dunque,
chinandoci, attraverso il bosco fino alla grande abetaia da
cui parte, a intervalli regolari, quel grido prolungato che
non è in sé più triste di altre cose, ma che sembra a entrambi
di sinistro auspicio.
È difficile, in quella parte del bosco di abeti, dove lo
sguardo si addentra tra i tronchi regolarmente piantati,
sorprendere qualcuno e avanzare senza essere visti. Non ci
proviamo neanche. Mi apposto in un angolo del bosco.
Jasmin va a mettersi nell’angolo opposto, in modo da dominare, come me, dall’esterno, due dei lati del rettangolo, per
non lasciarsi sfuggire uno degli zingari senza chiamarlo. Prese
queste disposizioni, comincio a giocare il mio ruolo di esploratore pacifico, e chiamo:
“Frantz!… Frantz! Non avere paura. Sono io, Seurel;
vorrei parlarvi…”.
206
Un istante di silenzio; sto per decidermi a chiamare
ancora quando, dal cuore stesso dell’abetaia, dove il mio
sguardo non arriva per niente, una voce ordina:
“Restate dove siete: sta per venire da voi”.
Poco a poco, tra i grandi abeti che la lontananza fa
sembrare serrati, distinguo la sagoma del giovane che si avvicina. Sembra coperto di fango e mal vestito; delle spille da
bicicletta chiudono in basso i suoi pantaloni, un vecchio
berretto con un’ancora è appoggiato sui capelli troppo
lunghi; vedo ora il suo viso dimagrito. Sembra aver pianto.
Avvicinandosi a me, risolutamente:
“Che cosa volete?”, domanda con un’aria molto insolente.
“E voi, Frantz, che cosa fate qui? Perché venite a disturbare coloro che sono felici? Che cosa avete da domandare?
Ditelo”.
Così direttamente interrogato, arrossisce un po’,
balbetta, risponde solamente:
“Sono infelice, io sono infelice”.
Poi, la testa sul braccio, appoggiato a un tronco d’albero, si mette a singhiozzare amaramente. Abbiamo fatto
qualche passo nell’abetaia. Il luogo è perfettamente silenzioso. Neanche la voce del vento, fermato dai grandi abeti
sul confine. Tra i tronchi regolari si ripete e si spegne il
rumore dei singhiozzi soffocati del giovane. Aspetto che
quella crisi si plachi e dico, mettendogli la mano sulla spalla:
“Frantz, verrete con me. Vi condurrò da loro. Vi accoglieranno come un bambino perduto che è stato ritrovato e
tutto sarà finito”.
Ma non voleva sentire niente. Con una voce smorzata
dalle lacrime, infelice, cocciuto, incollerito, riprendeva:
“Così, Meaulnes non si occupa più di me? Perché non
risponde quando lo chiamo? Perché non mantiene la sua
promessa?
“Insomma, Frantz”, risposi, “il tempo delle fantasmagorie e degli infantilismi è passato. Non disturbate con delle
207
follie la felicità di coloro che amate; di vostra sorella e di
Augustin Meaulnes”.
“Ma soltanto lui poteva salvarmi, lo sapete bene.
Soltanto lui è capace di ritrovare la traccia che cerco. Presto
saranno tre anni che Ganache ed io battiamo tutta la Francia senza risultato. Io non avevo più fiducia se non nel vostro
amico. Ed ecco che non risponde più. Ha ritrovato il suo
amore, lui. Perché, adesso, non pensa a me? Bisogna che si
metta in viaggio; Yvonne lo lascerà pur partire… Lei non mi
ha mai rifiutato niente”.
Mi mostrava un viso dove, nella polvere e nel fango, le
lacrime avevano tracciato dei solchi sporchi, un viso da
vecchio ragazzo estenuato e battuto. I suoi occhi erano
cerchiati di lentiggini; il suo mento mal rasato; i capelli
troppo lunghi si trascinavano sul colletto sporco.
Tenendo le mani nelle tasche, batteva i denti. Non era
più quel regale bambino in stracci degli anni passati. Nel
cuore, senza dubbio, era più bambino che mai: imperioso,
capriccioso e subito disperato. Ma quell’infantilismo era
penoso da sopportare in un ragazzo già leggermente invecchiato…
Prima, c’era in lui tanta orgogliosa giovinezza, che
qualunque follia al mondo gli sembrava permessa. Adesso,
si era prima tentati di compatirlo per non essere riuscito nella
sua vita; poi, di rimproverargli quel ruolo assurdo di giovane
eroe romantico in cui lo vedevo intestardirsi… E infine
pensavo, mio malgrado, che il nostro bel Frantz dai romantici amori si era dovuto mettere a rubare per vivere, proprio
come il suo compagno Ganache… Tanto orgoglio aveva
portato a questo!
“Se vi prometto”, dissi infine, dopo aver riflettuto, “che
tra qualche giorno Meaulnes si metterà alla ricerca per voi,
soltanto per voi?…”.
“Riuscirà, vero? Ne siete sicuro?”, mi domandò,
battendo i denti.
“Penso proprio di sì. Tutto diventa possibile con lui!”.
208
“E come lo saprò? Chi me lo dirà?”.
“Tornate qui esattamente tra un anno, a questa stessa
ora: troverete la ragazza che amate”.
E, dicendo questo, pensavo di non disturbare i nuovi
sposi, ma di informarmi presso mia zia Moinel e affrettarmi
io stesso per trovare la ragazza.
Lo zingaro mi guardò negli occhi con una volontà di
fiducia veramente ammirevole. Quindici anni, aveva ancora
e sempre quindici anni! – l’età che noi avevamo a SainteAgathe, la sera in cui spazzammo le aule, quando facemmo
tutti e tre quel terribile giuramento infantile.
La disperazione lo riprese quando fu obbligato a dire:
“Ebbene, adesso dobbiamo andare”.
Guardò, certamente con una stretta al cuore, tutti quei
boschi intorno che stava di nuovo per lasciare.
“In tre giorni”, disse, “saremo sulle strade della Germania. Abbiamo lasciato le nostre vetture lontano. Camminiamo
da trenta ore senza sosta. Pensavamo di arrivare in tempo
per portare Meaulnes con noi prima del matrimonio e
cercare con lui la mia fidanzata, come lui ha cercato la
proprietà delle Sablonnières”.
Poi, riprese la sua terribile puerilità:
“Chiamate il vostro Delouche”, disse andandosene,
“perché, se lo rincontrassi, sarebbe un guaio”.
Poco a poco, tra gli abeti, vidi scomparire la sua figura
grigia. Chiamai Jasmin e andammo a riprendere la nostra
guardia. Ma quasi subito scorgemmo, laggiù, Augustin che
chiudeva le imposte della casa e fummo sorpresi per la stranezza del suo atteggiamento.
Più tardi ho saputo nei minimi dettagli tutto ciò che
era capitato laggiù…
Nel salone delle Sablonnières, dall’inizio del pomeriggio, Meaulnes e sua moglie, che io chiamo ancora la signorina de Galais, sono rimasti completamente soli. Poiché tutti
gli invitati erano andati via, il vecchio signor de Galais ha
aperto la porta, lasciando per un secondo il gran vento pene209
trare nella casa e gemere; poi si è diretto verso Le VieuxNançay, da dove non sarebbe ritornato se non all’ora di cena,
per chiudere tutto a chiave e dare gli ordini per la fattoria.
Nessun rumore da fuori arriva più, adesso, fino ai giovani.
C’è soltanto un ramo di rosaio senza foglie che batte sul vetro,
dalla parte della landa. Come due passeggeri su un battello
alla deriva, sono, nel forte vento invernale, due amanti chiusi
nella felicità.
“Il fuoco minaccia di spegnersi”, disse la signorina de
Galais e volle prendere un ceppo dal cassone.
Ma Meaulnes si precipitò e mise lui stesso la legna nel
fuoco.
Poi prese la mano tesa della ragazza e restarono là, in
piedi, l’uno davanti all’altra, soffocati come da una grande
notizia che non si potesse dire.
Il vento rimbombava con il rumore di un fiume straripato. Di tanto in tanto una goccia d’acqua, diagonalmente,
come sulla portiera di un treno, rigava il vetro.
Allora la ragazza scappò. Aprì la porta del corridoio
e scomparve con un sorriso misterioso. Un istante, nella
semioscurità, Augustin restò solo… Il tic tac di una piccola
pendola faceva pensare alla sala da pranzo di SainteAgathe… Egli pensò, senza dubbio: “È dunque qui la casa
tanto cercata, il corridoio un tempo pieno di sussurri e di
passaggi strani…”.
Fu in quel momento che dovette sentire – la signorina
de Galais mi disse più tardi di averlo sentito anche lei – il
primo richiamo di Frantz, molto vicino alla casa.
La ragazza, allora, ebbe un bel mostrargli le cose meravigliose di cui si era caricata: i suoi giocattoli di bambina, tutte
le sue fotografie infantili: lei da vivandiera, lei e Frantz sulle
ginocchia della madre, che era così carina… poi tutti quei
giudiziosi abitini di un tempo: “fino a quelli che portavo,
sapete, verso il periodo in cui stavate per conoscermi, quando
arrivaste, credo, alla scuola di Sainte-Agathe…”, Meaulnes
non vedeva più niente e non sentiva più niente.
210
Per un istante, tuttavia, sembrò riprendersi al pensiero
della sua straordinaria, inimmaginabile fortuna:
“Voi siete là”, disse sordamente, come se il dirlo soltanto
desse le vertigini, “passate vicino al tavolo e la vostra mano
vi si posa un istante…”.
E ancora:
“Mia madre, quando era una giovane donna, si chinava
così leggermente con il busto per parlarmi… E quando si
metteva al piano…”.
Allora la signorina de Galais propose di suonare prima
che giungesse la notte. Ma faceva buio in quell’angolo del
salone e furono obbligati ad accendere una candela. L’abatjour rosa, sul viso della ragazza, aumentava il rossore sulle sue
guance, indice di una grande ansietà.
Intanto laggiù, al confine del bosco, io sentivo la
canzone tremula che ci portava il vento, rotta presto dal
secondo richiamo dei due pazzi che si erano avvicinati a noi
tra gli abeti.
A lungo Meaulnes ascoltò la ragazza, guardando silenziosamente da una finestra. Più volte si girò verso il viso
dolce, pieno di fragilità e di angoscia. Poi si avvicinò a Yvonne
e, molto leggermente, mise la sua mano sulla spalla. Ella
sentì dolcemente pesare vicino al collo quella carezza alla
quale avrebbe voluto saper rispondere.
“Il giorno finisce”, disse lui infine. “Vado a chiudere le
imposte. Ma non cessate di suonare…”.
Che cosa successe allora in quel cuore oscuro e selvaggio? Me lo sono spesso domandato e non l’ho saputo, se non
quando era troppo tardi. Rimorsi ignorati? Rimpianti inesplicabili? Paura di veder svanire subito tra le mani quella felicità inaudita che teneva così stretta? E allora, tentazione terribile di gettare irrimediabilmente a terra, subito, quella meraviglia che aveva conquistato?
Uscì lentamente, silenziosamente, dopo aver guardato
la sua giovane moglie ancora una volta. Lo vedemmo dal limitare del bosco, chiudere prima con esitazione un battente,
211
poi guardare vagamente verso di noi, e chiuderne un altro,
e all’improvviso correre a gambe levate nella nostra direzione. Arrivò accanto a noi prima che avessimo potuto
nasconderci meglio. Ci scorse, mentre stava per oltrepassare
una piccola siepe piantata recentemente e che formava il
limite di un prato. Fece uno scarto. Mi ricordo la sua andatura sconvolta, la sua aria da animale braccato… Fece finta
di ritornare sui suoi passi per superare la siepe dal lato del
ruscelletto.
Lo chiamai.
“Meaulnes!… Augustin!…”.
Ma non girò neanche la testa. Allora, persuaso che
quello avrebbe potuto trattenerlo:
“Frantz è qui”, gridai. “Fermati!”.
Si fermò, finalmente. Ansimante e senza lasciarmi il
tempo di preparare ciò che avrei potuto dire:
“È qui!”, disse. “Che cosa vuole?”.
“È infelice”, risposi. “Veniva a chiederti aiuto per ritrovare ciò che ha perduto”.
“Ah!”, disse, abbassando la testa. “Era proprio quello
che sospettavo. Avevo un bel cercare di cacciare via quel
pensiero… Ma dov’è? Racconta, presto”.
Dissi che Frantz era appena partito e che certamente
non lo si sarebbe raggiunto, per ora. Fu per Meaulnes una
grande delusione. Esitò, fece due o tre passi, si fermò.
Sembrava al colmo dell’indecisione e del dispiacere. Gli
raccontai che cosa avevo promesso a suo nome al ragazzo.
Dissi che gli avevo dato appuntamento tra un anno nello
stesso posto.
Augustin, così calmo in generale, era adesso in uno
stato di nervosismo e di impazienza straordinari:
“Ah! Perché fare questo?”, disse. “Ma sì, senza dubbio,
posso salvarlo. Ma bisogna che sia subito. Bisogna che lo
veda, che gli parli, che mi perdoni e che io ripari tutto…
Altrimenti non posso più presentarmi laggiù…”.
E si girò verso la casa delle Sablonnières.
212
“Così”, dissi, “per una promessa infantile che gli hai
fatto, tu stai per distruggere la tua felicità”.
“Ah! Se fosse soltanto quella promessa”, disse.
E così seppi che un’altra cosa legava quei due ragazzi,
ma senza poter indovinare che cosa.
“In ogni caso, non è più il tempo di correre. In questo
momento sono in strada per la Germania”.
Stava per rispondere, quando una figura arruffata,
stravolta, comparve tra di noi. Era la signorina de Galais.
Doveva aver corso, poiché aveva il viso bagnato di sudore.
Forse era caduta e si era ferita, poiché aveva la fronte scorticata sopra l’occhio destro e del sangue rappreso tra i
capelli.
Mi è capitato, nei quartieri poveri di Parigi, di vedere
improvvisamente scendere in strada, separata dagli agenti
intervenuti nella battaglia, una coppia che si credeva felice,
unita, onesta. Lo scandalo è scoppiato tutto ad un tratto,
non importa quando, al momento di mettersi a tavola, la
domenica prima di uscire, al momento di festeggiare il
bambino… e ora tutto è dimenticato, devastato. L’uomo e
la donna, al centro del tumulto, non sono altro che due
demoni penosi e i bambini in lacrime si gettano contro di
loro, li abbracciano stretti, li supplicano di tacere e di non
picchiarsi più.
La signorina de Galais, quando arrivò vicino a Meaulnes, mi fece pensare a uno di quei bambini, a uno di quei
poveri bambini sconvolti. Credo che se tutti i suoi amici, se
tutto un paese, se tutto il mondo l’avesse guardata, sarebbe
accorsa ugualmente, sarebbe caduta nello stesso modo spettinata, piangente, sporca.
Ma quando capì che Meaulnes era proprio lì, che
questa volta almeno non l’avrebbe abbandonata, allora
passò il braccio sotto il suo, poi non poté impedirsi di
ridere fra le lacrime, come un bambino. Non dissero niente,
né l’uno, né l’altra. Ma, siccome aveva tirato fuori il fazzoletto, Meaulnes glielo prese dolcemente dalle mani: con
213
precauzione e zelo, asciugò il sangue che macchiava i
capelli della ragazza.
E io li lasciai ritornare entrambi nel gran bel vento della
sera d’inverno che sferzava loro il viso – lui, aiutandola con
la mano nei passaggi difficili; lei sorridendo e affrettandosi
– verso la loro casa per un attimo abbandonata.
214
Capitolo 5
LA “CASA DI FRANTZ”
■
Poco convinto, in preda a una sorda inquietudine, che
il felice epilogo del trambusto della vigilia non era stato sufficiente a dissipare, dovetti restare chiuso a scuola per tutta la
giornata dell’indomani. Subito dopo l’ora di “studio” che
segue la lezione del pomeriggio, presi la strada per le Sablonnières.
La notte cadeva, quando arrivai nel viale degli abeti che
conduceva alla casa. Tutte le imposte erano già chiuse.
Temetti di essere importuno, presentandomi a quell’ora
tardiva, l’indomani di un matrimonio. Restai fino a molto
tardi a girovagare sul confine del giardino e nelle terre adiacenti, sperando sempre di veder uscire qualcuno dalla casa
chiusa… Ma la mia speranza fu delusa. Anche nella fattoria
vicina non si muoveva niente. E dovetti rientrare a casa, assillato dalle immaginazioni più cupe.
L’indomani, sabato, stesse incertezze. La sera, presi in
fretta la mia mantella, il bastone, un boccone di pane, per
mangiare in strada, e arrivai, quando cadeva già la notte, per
trovare tutto chiuso alle Sablonnières, come la vigilia… Un po’
di luce al primo piano; ma nessun rumore; non un movimento… Tuttavia, dal cortile vidi questa volta la porta della
fattoria aperta, il fuoco acceso nella grande cucina e sentii il
rumore abituale delle voci e dei passi all’ora di cena. Questo
mi rassicurò, anche senza informarmi. Non potevo dire niente,
né domandare niente a quelle persone. E ritornai a spiare
ancora, ad attendere invano, pensando sempre di vedere la
porta aprirsi e uscire infine l’alta sagoma di Augustin.
215
Fu solamente la domenica, nel pomeriggio, che mi
decisi a suonare alla porta delle Sablonnières. Mentre mi
arrampicavo sui pendii spogli, sentii suonare da lontano i
vespri della domenica d’inverno. Mi sentivo solitario e desolato. Non so quale presentimento triste mi invadesse. E non
fu che una mezza sorpresa quando, al mio colpo di campanello, vidi il signor de Galais tutto solo apparire e parlarmi
a voce bassa: Yvonne de Galais era costretta a letto, con una
febbre violenta; Meaulnes aveva dovuto partire già venerdì
mattina per un lungo viaggio; non si sapeva quando sarebbe
tornato…
E, siccome il vecchio, molto imbarazzato, molto triste,
non mi invitava a entrare, presi subito congedo da lui. Richiusasi la porta, restai un istante sulla scalinata, il cuore stretto,
in uno smarrimento assoluto, a guardare senza sapere perché
un ramo secco di glicine che il vento faceva dondolare tristemente in un raggio di sole.
Così quel rimorso segreto che Meaulnes portava dal suo
soggiorno a Parigi aveva finito con l’essere il più forte. Aveva
fatto sì che il mio compagno fuggisse alla fine dalla sua felicità così avvolgente…
Ogni giovedì e ogni domenica venni a domandare notizie di Yvonne de Galais, fino al pomeriggio in cui, finalmente
convalescente, mi fece pregare di entrare. La trovai, seduta
vicino al fuoco, nel salone la cui grande finestra bassa dava
sul terreno e sul bosco.
Non era per nulla pallida come l’avevo immaginata, ma
tutta febbrile, al contrario, con delle vive macchie rosse sotto
gli occhi, e in uno stato di agitazione estrema. Benché apparisse ancora molto debole, si era vestita come per uscire.
Parlava poco, ma diceva ogni frase con un’animazione straordinaria, come se avesse voluto convincersi da sola che la
fortuna non era ancora svanita… Non ho custodito il ricordo
di ciò che abbiamo detto. Ricordo solamente che arrivai a
domandarle con esitazione quando Meaulnes sarebbe stato
di ritorno.
216
“Non so quando ritornerà”, rispose vivacemente.
C’era una supplica nei suoi occhi e mi guardai dal
domandare di più.
Ritornai a trovarla sovente. Sovente parlai con lei vicino
al fuoco, in quel salone basso in cui la notte arrivava più
presto che in tutti i dintorni. Lei non parlò mai di se stessa,
né della sua pena nascosta. Ma non si stancava di farmi
raccontare in dettaglio la nostra esistenza di scolari di SainteAgathe.
Ascoltava seriamente, teneramente, con un interesse
quasi materno, il racconto delle nostre miserie di ragazzi.
Non sembrava mai sorpresa, neanche dalle nostre imprese
più audaci, più pericolose. Non l’aveva per nulla abbandonata quella tenerezza attenta che aveva ereditato dal signor
de Galais e che non era stata mutata dalle avventure deplorevoli di suo fratello. Il solo rimpianto che le ispirasse il
passato era, penso, di non essere stata per suo fratello una
confidente abbastanza intima poiché, al momento della catastrofe, lui non aveva osato dirle niente di più che ad altri e
si era giudicato perduto senza rimedio. Ed era quello, quando
ci penso, un pesante incarico che aveva assunto la ragazza –
incarico rischioso –, di assecondare uno spirito follemente
sognatore come suo fratello; incarico opprimente, quando si
trattava di legarsi con quel cuore avventuroso che era il mio
amico, il grande Meaulnes.
Ella mi donò un giorno la prova più toccante e direi
quasi più misteriosa di quella fede che custodiva nelle fantasie infantili di suo fratello, di quella cura che portava nel
conservargli almeno le briciole di quel sogno nel quale egli
aveva vissuto fino ai vent’anni.
Capitò in un pomeriggio d’aprile desolato come una
fine d’autunno. Da circa un mese vivevamo in una dolce
primavera prematura, e la giovane donna aveva ripreso in
compagnia del signor de Galais le lunghe passeggiate che
amava. Ma quel giorno, il vecchio, sentendosi affaticato e
sapendo che io ero invece libero, mi domandò di accompa217
gnarla malgrado il tempo minaccioso. A più di una mezza
lega dalle Sablonnières, costeggiando lo stagno, il temporale, la pioggia, la grandine ci sorpresero. Sotto il capannone
dove ci eravamo riparati contro l’acquazzone interminabile,
il vento ci gelava, in piedi l’uno vicino all’altra, pensosi,
davanti al paesaggio annerito. La rivedo, nel bell’abito severo,
tutta pallida, tutta in tormento.
“Bisogna rientrare”, disse. “Siamo fuori da così tanto.
Che cosa può essere successo?”.
Ma, con mia meraviglia, quando ci fu possibile infine
lasciare il nostro riparo, la giovane donna, anziché ritornare
verso le Sablonnières, continuò il suo cammino e mi
domandò di seguirla. Arrivammo, dopo aver camminato per
lungo tempo, davanti ad una casa che non conoscevo, isolata
al bordo di un sentiero dissestato che doveva andare verso
Préveranges. Era una casetta borghese, coperta di ardesia, e
che niente distingueva dal tipo usuale in quel paese, tranne
la sua lontananza e il suo isolamento.
A vedere Yvonne de Galais, si sarebbe detto che quella
casa ci appartenesse e che l’avessimo abbandonata durante
un lungo viaggio. Aprì, chinandosi, un cancelletto e si affrettò
ad ispezionare con inquietudine il luogo solitario. Un grande
cortile erboso, dove dei bambini dovevano essere venuti a
giocare durante i lunghi e lenti pomeriggi della fine dell’inverno, era sconvolto dal temporale. Un cerchio1 si inzuppava
in una pozza d’acqua.
Nei giardinetti, dove i bambini avevano seminato dei
fiori e dei piselli, la grande pioggia non aveva lasciato che
delle strisce di ghiaia bianca. E infine scoprimmo, rannicchiata contro la soglia di una porta bagnata, un’intera covata
1 cerchio: il gioco del cerchio era molto diffuso tra i bambini dell’Ottocento
e del primo Novecento. Consisteva in un grande cerchio di legno, del diametro di un metro o più, che veniva fatto correre sul terreno, costringendolo a
ruotare con accorti colpi di bastone.
218
di pulcini investita dal temporale. Quasi tutti erano morti
sotto le ali irrigidite e le piume sgualcite della madre.
A quello spettacolo pietoso, la giovane lanciò un grido
soffocato. Si chinò e, senza preoccuparsi dell’acqua né del
fango, dividendo i pulcini vivi da quelli morti, li mise in un
lembo del suo mantello. Poi entrammo nella casa di cui aveva
la chiave. Quattro porte si aprivano su uno stretto corridoio,
dove il vento si infilò sibilando. Yvonne de Galais aprì la
prima alla nostra destra e mi fece entrare in una camera
scura, dove distinsi, dopo un momento di esitazione, un
grande specchio e un piccolo letto ricoperto, secondo
l’usanza di campagna, da un piumino di seta rossa.
Quanto a lei, dopo aver cercato un istante nel resto
dell’appartamento, ritornò, portando la covata malata in un
cesto riempito di piume, che fece scivolare attentamente
sotto il piumino. E, mentre un raggio di sole languido, il
primo e l’ultimo della giornata, rendeva più pallidi i nostri
visi e più scura la caduta della notte, eravamo là, in piedi,
gelati e tormentati, nella strana casa!
Ogni momento andava a guardare nel nido febbricitante e toglieva un altro pulcino morto per impedire di far
morire gli altri. E ogni volta ci sembrava che qualche cosa
come un gran vento dai vetri rotti del granaio, come un
dispiacere misterioso di bambini sconosciuti, si lamentasse
piano piano.
“Era qui”, disse infine la mia compagna, “la casa di
Frantz, quando era piccolo. Aveva voluto una casa per lui
solo, lontano da tutti, nella quale poter andare a giocare,
divertirsi e vivere quando gli piaceva. Mio padre aveva trovato
questa fantasia così straordinaria, così buffa, che non aveva
rifiutato. E, quando gli piaceva, un giovedì, una domenica,
non importa quando, Frantz andava ad abitare nella sua casa
come un uomo. I bambini delle fattorie dei dintorni venivano a giocare con lui, ad aiutarlo a fare i lavori di casa, a
coltivare il giardino. Era un gioco meraviglioso! E, arrivata
la sera, non aveva paura di coricarsi da solo. Quanto a noi,
219
l’ammiravamo talmente, che non pensavamo nemmeno ad
essere inquieti.
“Ora e da molto tempo”, proseguì con un sospiro, “la
casa è vuota. Il signor de Galais, affranto dall’età e dal dispiacere, non ha mai fatto niente per ritrovare e richiamare mio
fratello. E che cosa potrebbe tentare?
“Io vengo qui molto spesso. I piccoli contadini dei
dintorni vengono a giocare nel cortile come una volta. E mi
piace immaginare che siano i vecchi amici di Frantz; che
anche lui sia ancora un bambino e che stia per ritornare
presto con la fidanzata che si era scelto.
“Quei bambini mi conoscono bene. Gioco con loro.
Questa covata di pulcini era nostra…”.
Tutto quel grande dispiacere di cui non aveva mai detto
nulla, quel grande rimpianto per aver perduto il fratello così
folle, così affascinante e così ammirato, c’era stato bisogno
di quel temporale e di quella rovina infantile perché me lo
confidasse. E io la ascoltavo senza rispondere niente, il cuore
gonfio di singhiozzi…
Dopo aver richiuso le porte e il cancello, dopo aver
rimesso i pulcini nella capanna di assi che c’era dietro la casa,
riprese tristemente il mio braccio e io la riportai indietro.
Passarono delle settimane, dei mesi. Tempo passato! Felicità perduta! A colei che era stata la fata, la principessa e
l’amore misterioso di tutta la nostra adolescenza, era a me che
toccava prendere il braccio e dire ciò che occorreva per addolcire il suo dispiacere, mentre il mio compagno era fuggito.
Di quell’epoca, di quelle conversazioni, la sera, dopo
la lezione che facevo sulla salita di Saint-Benoist-des-Champs,
di quelle passeggiate in cui la sola cosa di cui si sarebbe
dovuto parlare era la sola sulla quale ci eravamo decisi a
tacere, che cosa potrei dire adesso? Non ho conservato altro
ricordo di quello, per metà già cancellato, di un bel viso dimagrito, di due occhi le cui palpebre si abbassavano lentamente
mentre mi guardavano, come se già non vedessero altro che
un mondo interiore.
220
E io sono rimasto il suo compagno fedele – compagno
di una attesa di cui non parlavamo – durante tutta una primavera e un’estate come non ce ne saranno più. Più volte ritornammo di pomeriggio alla casa di Frantz. Apriva la porta per
dare aria, affinché niente fosse ammuffito quando la giovane
coppia fosse ritornata. Si occupava dei polli per metà selvatici che dimoravano nel cortile. E il giovedì o la domenica,
incitavamo ai giochi i piccoli campagnoli dei dintorni, le cui
grida e risate, nel luogo solitario, facevano sembrare più
deserta e ancora più vuota la casetta abbandonata.
Nel mese di agosto, epoca di vacanze, mi allontanai
dalle Sablonnières e dalla giovane donna. Dovetti andare a
passare a Sainte-Agathe i miei due mesi di ferie. Rividi il
grande cortile secco, il portico, l’aula vuota…
Tutto parlava del grande Meaulnes. Tutto era riempito
dei ricordi della nostra adolescenza già finita. Durante quelle
lunghe giornate dorate, mi chiudevo come una volta, prima
dell’arrivo di Meaulnes, nello stanzino degli archivi, nelle
aule deserte. Leggevo, scrivevo, ricordavo…
Mio padre era a pesca lontano. Millie nel salone cuciva
o suonava il piano come una volta… E nel silenzio assoluto
dell’aula, dove le corone di carta verde strappate, le copertine dei libri premio, le lavagne pulite con la spugna, tutto
diceva che l’anno era finito, i premi distribuiti, tutto attendeva l’autunno, la riapertura della scuola ad ottobre e le
nuove fatiche – pensavo lo stesso che la nostra giovinezza era
finita e la felicità mancata; anch’io attendevo il ritorno alle
Sablonnières e il ritorno di Augustin che forse non sarebbe
ritornato mai più…
C’era tuttavia una lieta notizia che annunciai a Millie,
quando si decise a interrogarmi sulla novella sposa. Avevo
paura delle sue domande, del suo modo contemporaneamente
molto innocente e molto maligno di tuffarti nell’imbarazzo,
mettendo il dito sul tuo pensiero più segreto. Tagliai corto a
tutto, annunciando che la giovane moglie del mio amico
Meaulnes sarebbe diventata madre nel mese di ottobre.
221
Nel mio intimo, mi ricordai il giorno in cui Yvonne de
Galais mi aveva fatto capire quella grande notizia. C’era stato
un silenzio; da parte mia, un leggero imbarazzo da ragazzo.
E avevo detto subito, sconsideratamente, per dissiparlo –
pensando troppo tardi al dramma che smuovevo in questo
modo:
“Dovete essere molto felice…”.
Ma lei, senza pensieri riposti, senza rimpianto, senza
rimorsi, né rancore, aveva risposto con un bel sorriso di felicità:
“Sì, molto felice”.
Durante quell’ultima settimana di vacanza, che è in
genere la più bella e la più romantica, settimana di grandi
piogge, settimana in cui si incominciano ad accendere i
fuochi, e che io trascorro di solito a cacciare tra gli abeti neri
e bagnati di Le Vieux-Nançay, feci i miei preparativi per ritornare direttamente a Saint-Benoist-des-Champs. Firmin, mia
zia Julie e i miei cugini di Le Vieux-Nançay mi avrebbero
posto troppe domande alle quali non volevo rispondere.
Rinunciai per quella volta a condurre per otto giorni la vita
inebriante del cacciatore di campagna e mi presentai al mio
edificio scolastico quattro giorni prima del ritorno delle classi.
Arrivai quando non era ancora notte nel cortile già
tappezzato di foglie ingiallite. Quando il vetturino2 fu andato
via, aprii tristemente nella sala da pranzo, piena di echi e
“che sapeva di chiuso”, il pacco delle provviste che mi aveva
confezionato la mamma… Dopo un pasto leggero senza
appetito, impaziente, ansioso, misi il mio mantello e partii
per una febbrile passeggiata che mi portò dritto nei dintorni
delle Sablonnières.
Non volevo introdurmici come un intruso fin dalla
prima sera del mio arrivo. Tuttavia, più ardito che a febbraio,
dopo aver girato tutto intorno alla proprietà, dove era illu2 vetturino: conducente di vettura pubblica, l’equivalente dell’attuale tassista.
222
minata soltanto la finestra della giovane, oltrepassai, dietro
la casa, la siepe del giardino e mi sedetti su una panca, contro
la siepe, nell’ombra che iniziava, felice semplicemente di
essere là, così vicino a ciò che mi appassionava e mi inquietava di più al mondo.
Arrivò la notte. Una pioggia fine incominciò a cadere.
La testa bassa, guardavo, senza pensarci, le mie scarpe
bagnarsi poco a poco e brillare per l’acqua. L’ombra mi
circondava lentamente e la frescura mi raggiungeva senza
disturbare la mia fantasticheria. Teneramente, tristemente,
sognavo certi sentieri fangosi di Sainte-Agathe, in quella stessa
sera di settembre; immaginavo la piazza piena di nebbia, il
ragazzo del macellaio che fischia andando alla pompa, il
caffè illuminato, la gioiosa infornata di passeggeri con la sua
corazza di ombrelli aperti, che arrivava prima della fine delle
vacanze dallo zio Florentin… E mi dicevo tristemente: “Che
cosa importa tutta questa felicità, dato che Meaulnes, il mio
compagno, non può esserci, e neppure la sua giovane
moglie…”.
Fu allora che, alzando la testa, la vidi a due passi da
me. Le sue scarpe, nella sabbia, facevano un rumore leggero
che avevo confuso con quello delle gocce d’acqua della siepe.
Aveva sulla testa e le spalle un grande scialle di lana nera, e
la pioggia fine impolverava sulla fronte i suoi capelli.
Senza dubbio, dalla sua stanza, mi aveva visto dalla finestra che dava sul giardino. E veniva verso di me. Nello stesso
modo mia madre, una volta, si inquietava e mi cercava per
dirmi: “Bisogna rientrare”, ma, avendo preso gusto a quella
passeggiata sotto la pioggia e di notte, diceva solamente con
dolcezza: “Prenderai freddo!” e restava in mia compagnia a
parlare a lungo…
Yvonne de Galais mi tese una mano bruciante e, rinunciando a farmi entrare alle Sablonnières, si sedette sulla panca
muscosa e coperta di verderame, dalla parte meno bagnata,
mentre in piedi, appoggiato con il ginocchio alla stessa panca,
mi curvavo verso di lei per sentirla.
223
Mi rimproverò prima amichevolmente per aver così
accorciato le mie vacanze:
“Bisognava pure”, risposi, “che tornassi al più presto per
tenervi compagnia”.
“È vero”, disse a voce molto bassa, con un sospiro, “sono
ancora sola. Augustin non è tornato…”.
Scambiando quel sospiro per un rimpianto, un rimprovero soffocato, cominciai a dire lentamente:
“Tante follie in una così nobile testa! Forse il gusto
dell’avventura è più forte di tutto…”.
Ma la giovane donna mi interruppe. E fu in quel luogo,
quella sera, che per la prima e ultima volta, mi parlò di
Meaulnes.
“Non parlate così”, disse dolcemente, “François Seurel,
amico mio. Non ci siamo che noi – non ci sono che io di
colpevole. Pensate a quello che abbiamo fatto…
“Gli abbiamo detto: ‘Ecco la felicità, ecco ciò che hai
cercato durante tutta la tua giovinezza, ecco la ragazza che
era alla fine di tutti i tuoi sogni!’
“Come poteva essere che colui che avevamo spinto così
per le spalle non potesse essere preso dall’esitazione, poi
dalla paura, poi dallo spavento, e non avesse ceduto alla
tentazione di fuggire?”.
“Yvonne”, dissi sottovoce, “sapete bene che eravate voi
quella felicità, quella ragazza…”.
“Ah!”, sospirò. “Come ho potuto per un attimo avere
quel pensiero orgoglioso? È stato quel pensiero la causa di
tutto.
“Vi dicevo: ‘Forse io non posso fare niente per lui’. E
in fondo a me, pensavo: ‘Poiché mi ha tanto cercata e poiché
lo amo, bisognerà bene che faccia la sua felicità’. Ma quando
l’ho visto vicino a me, con tutta la sua febbre, la sua inquietudine, il suo rimorso misterioso, ho capito che non ero che
una povera donna come le altre…
“‘Non sono degno di voi’, ripeteva quando fu l’alba e
la fine della notte delle nostre nozze.
224
“E io cercavo di consolarlo, di rassicurarlo. Niente
calmava la sua angoscia. Allora dissi: ‘Se è necessario che
partiate, se io sono venuta verso di voi proprio nel momento
in cui niente poteva rendervi felice, se dovete abbandonarmi
per un po’ per ritornare in seguito più calmo vicino a me,
sono io che vi domando di partire…’”.
Nell’ombra vidi che aveva alzato gli occhi su di me. Era
come una confessione che mi aveva fatto, e aspettava, ansiosamente, che io l’approvassi o la condannassi. Ma che cosa
potevo dire? Certo, dentro di me, rivedevo il grande Meaulnes di una volta, maldestro e selvaggio, che si faceva sempre
punire piuttosto che scusarsi o chiedere un permesso che gli
sarebbe stato certamente accordato.
Senza dubbio sarebbe stato necessario che Yvonne de
Galais gli facesse violenza e, prendendogli la testa tra le mani,
gli dicesse: “Che cosa importa ciò che avete fatto; io vi amo;
forse che tutti gli uomini non sono che dei peccatori?”. Senza
dubbio ella aveva avuto il grande torto, per generosità, per
spirito di sacrificio, di rimandarlo sulla strada delle avventure… Ma come avrei potuto disapprovare tanta bontà, tanto
amore!…
Ci fu un lungo momento di silenzio, durante il quale,
turbati fino in fondo al cuore, sentivamo la pioggia fredda
gocciolare dalle siepi e sotto i rami degli alberi.
“Così è partito al mattino”, proseguì. “Niente più ci
separa ormai. E mi ha baciata, semplicemente, come un
marito che lasci la sua giovane moglie, prima di un lungo
viaggio…”.
Si alzò. Presi nella mia la sua mano febbricitante, poi
il suo braccio e risalimmo il viale nell’oscurità profonda.
“Così non vi ha mai scritto?”, domandai.
“Mai”, rispose.
E allora, venendo ad entrambi il pensiero della vita
avventurosa che conduceva a quell’ora sulle strade di Francia o di Germania, cominciammo a parlare di lui come non
l’avevamo mai fatto. Dettagli dimenticati, vecchie impressioni
225
si riaffacciavano alla nostra memoria, mentre lentamente
ritornavamo a casa, facendo ad ogni passo delle lunghe soste
per meglio scambiarci i ricordi… A lungo – fino allo steccato del giardino – nell’ombra, sentii la preziosa voce bassa
della giovane donna; ed io, ripreso dal mio vecchio entusiasmo, le parlai senza stancarmi, con un’amicizia profonda, di
colui che ci aveva abbandonato…
226
Capitolo 6
IL QUADERNO DEI COMPITI MENSILI
■
Le lezioni dovevano cominciare lunedì. Il sabato
pomeriggio, verso le cinque, una donna della proprietà
entrò nel cortile della scuola dove ero occupato a segare
della legna per l’inverno. Veniva ad annunciarmi che una
bambina era nata alle Sablonnières. Il parto era stato difficile. Alle nove di sera si era dovuto chiamare l’ostetrica di
Préveranges. A mezzanotte, il cavallo era stato attaccato di
nuovo per andare a cercare il medico di Vierzon. Si erano
dovuti usare i ferri1. La bambina aveva la testa ferita e gridava
ma sembrava ben in vita. Yvonne de Galais era adesso molto
abbattuta, ma aveva sofferto e resistito con un coraggio
straordinario.
Lasciai lì il mio lavoro, corsi a mettere un’altra giubba
e, contento, tutto sommato, di quelle notizie, seguii la brava
donna fino alle Sablonnières. Con precauzione, per paura
che una delle due creature ferite fosse addormentata, salii
per la stretta scala di legno che conduceva al primo piano.
E là, il signor de Galais, stanco ma felice, mi fece entrare
nella camera dove si era provvisoriamente sistemata la culla
circondata di tendine.
1 ferri: nei casi di parti difficoltosi, si usano appositi strumenti chirurgici in
grado di estrarre il bambino dal ventre della madre. Ciò, naturalmente, è doloroso per la donna e può, in qualche caso, provocare danni fisici al neonato.
Occorre naturalmente tenere presente che, alla fine dell’Ottocento, le tecniche e le attrezzature mediche, pur già evolute, non assicuravano certo la
precisione e il margine di sicurezza delle attuali.
227
Non ero mai entrato in una casa dove fosse nato il
giorno stesso un bambino. Come mi sembrava bizzarro, misterioso e bello! Era una sera così bella – una vera sera d’estate
– che il signor de Galais non aveva timore di aprire la finestra che dava sul cortile. Appoggiato con i gomiti vicino a
me sul davanzale della finestra, mi raccontava, con sfinimento
e felicità, il dramma della notte; ed io che lo ascoltavo, sentivo
oscuramente che qualcuno di straniero era adesso con noi
nella camera…
Sotto le tendine, costei si mise a strillare, un piccolo
grido aspro e prolungato… Allora il signor de Galais mi disse
sottovoce:
“È quella ferita alla testa che la fa gridare”.
Macchinalmente – si vedeva che lo faceva dal mattino
e che già ne aveva preso l’abitudine – si mise a cullare il
pacchettino di tende.
“Ha già riso”, disse il signor de Galais, “e prende il dito.
Ma non l’avete vista?”.
Aprì le tendine e vidi un visino rosso gonfio, un piccolo
cranio allungato e deformato dai ferri:
“Non è niente”, disse il signor de Galais, “il medico ha
detto che tutto questo si sistemerà da sé2… Datele il vostro
dito: lo stringerà”.
Scoprivo lì un mondo prima del tutto ignorato. Mi
sentivo il cuore gonfio di una gioia strana che in precedenza
non conoscevo…
Il signor de Galais socchiuse con precauzione la porta
della camera della giovane donna. Non dormiva.
“Potete entrare”, egli disse.
Lei era distesa, il viso febbricitante, in mezzo ai capelli
biondi sparsi. Mi tese la mano, sorridendo con un’aria stanca.
Le feci i complimenti per sua figlia. Con una voce un po’
2 si sistemerà da sé: effettivamente, nelle prime ore di vita è possibile che
vengano riassorbite deformazioni craniche anche di una certa entità.
228
rauca, e con una ruvidità inconsueta – la ruvidità di qualcuno che ritorni da un combattimento:
“Sì, ma me l’hanno rovinata”, disse, sorridendo.
Dovetti andare via presto per non stancarla.
Il giorno seguente, domenica, nel pomeriggio, mi recai
con una fretta quasi gioiosa alle Sablonnières. Sulla porta,
uno scritto fissato con degli spilli arrestò il gesto che stavo
già per compiere:
Si prega di non suonare
Non indovinai di cosa si trattasse. Bussai abbastanza
forte. Sentii all’interno dei passi soffocati che correvano.
Qualcuno che non conoscevo – e che era il medico di Vierzon – mi aprì:
“Beh, che cosa c’è?”, dissi vivacemente.
“Zitto! Zitto!”, mi rispose pianissimo, l’aria arrabbiata.
“La bambina ha rischiato di morire questa notte. E la madre
sta molto male”.
Completamente sconcertato, lo seguii in punta di piedi
fino al primo piano. La bambina addormentata nella culla era
molto pallida, bianchissima, come un bambino morto. Il
medico era persuaso di poterla salvare. Quanto alla madre, non
si sbilanciava… Mi diede delle lunghe spiegazioni, come al solo
amico di famiglia. Parlò di congestione polmonare, di embolia. Esitava, non era sicuro… Il signor de Galais entrò, spaventosamente invecchiato in due giorni, sconvolto e tremante.
Mi portò nella stanza senza sapere bene che cosa
facesse:
“Bisogna”, mi disse, piano, “che non si spaventi; il
medico ha ordinato di convincerla che va tutto bene”.
Tutto il sangue al viso, Yvonne de Galais era distesa, la
testa rovesciata come il giorno precedente. Le guance e la
fronte rosso scuro, gli occhi a tratti rovesciati, come qualcuno
che soffochi, si difendeva contro la morte con un coraggio
e una dolcezza indicibili.
229
Non poteva parlare, ma mi tese la mano caldissima, con
tanta amicizia, che fui lì per scoppiare in singhiozzi.
“Beh! Beh!”, disse il signor de Galais a voce alta, con un
buonumore spaventoso, che sembrava quasi follia, “vedete che,
per essere una malata, non ha poi un aspetto troppo cattivo!”.
E io non sapevo che cosa rispondere, ma tenevo nella
mia la mano orribilmente calda della giovane donna
morente…
Volle fare uno sforzo per dirmi qualche cosa, domandarmi non so che cosa; girò gli occhi verso di me, poi verso
la finestra, come per farmi segno di andare fuori a cercare
Qualcuno… Ma, proprio allora, una terribile crisi di soffocamento la prese; i suoi begli occhi blu che per un momento
mi avevano chiamato così tragicamente, si rovesciarono; le
guance e la fronte diventarono livide, e si dibatté dolcemente, cercando di contenere fino alla fine il suo spavento
e la sua disperazione. Il medico e le donne si precipitarono
con una bombola di ossigeno, delle pezze, dei flaconi, mentre
il vecchio, chino su di lei, gridava – gridava come se fosse già
stata lontano da lui, con la sua voce ruvida e tremante:
“Non aver paura, Yvonne. Non è niente. Non devi avere
paura!”.
Poi la crisi si placò. Ella poté respirare un po’, ma
sempre mezza soffocata, gli occhi bianchi, la testa rovesciata,
lottando sempre, ma incapace, anche per un istante, per
guardarmi e parlarmi, di uscire dall’abisso in cui era già
sprofondata.
E, siccome non ero utile a niente, dovetti decidermi ad
andare via. Senza dubbio, avrei potuto restare ancora un
momento; e a quel pensiero mi sento stringere da un
orrendo rimorso. Ma che cosa? Speravo ancora. Mi persuadevo che tutto non fosse così vicino.
Arrivando al confine degli abeti, dietro la casa,
pensando allo sguardo della giovane donna girata verso la
finestra, esaminai con l’attenzione di una sentinella o di un
cacciatore di uomini la profondità di quel bosco da cui Augu230
stin era arrivato una volta e dal quale era fuggito l’inverno
precedente.
Ahimè! Niente si muoveva. Non un’ombra sospetta;
non un ramo che ondeggiasse. Ma dopo poco, laggiù, verso
il viale che arrivava da Préveranges, sentii il suono sottile di
un campanellino; subito apparve alla svolta del sentiero un
bambino con una calottina rossa e una blusa da scolaro che
camminava dietro un prete3… E io me ne andai, mandando
giù le mie lacrime.
L’indomani era il giorno del rientro delle classi. Alle
sette, c’erano già due o tre ragazzini in cortile. Esitai a lungo
a scendere, a mostrarmi. E quando comparvi, infine, girando
la chiave dell’aula che sapeva di muffa, che era chiusa da due
mesi, ciò che temevo di più al mondo capitò: vidi il più grande
degli scolari staccarsi dal gruppo che giocava sotto il portico
e avvicinarsi a me. Veniva a dirmi che “la giovane signora delle
Sablonnières era morta ieri allo scendere della notte”.
Tutto si mescola per me, tutto si confonde in quel
dolore. Mi sembra che non avrò mai più il coraggio di ricominciare la lezione. Un niente come attraversare il cortile
spoglio della scuola è una fatica che mi rompe le gambe.
Tutto è penoso, tutto è amaro, poiché lei è morta. Il mondo
è vuoto, le vacanze sono finite. Finite le lunghe corse randage
in vettura; finita la festa misteriosa… Tutto ritorna nella sofferenza di prima.
Ho detto ai bambini che non ci sarebbe stata lezione,
quella mattina. Se ne vanno, a piccoli gruppi, a portare quella
notizia agli altri attraverso la campagna. Quanto a me, prendo
il mio cappello nero, una giacca decente e me ne vado miseramente verso le Sablonnières…
Eccomi davanti alla casa che abbiamo tanto cercato tre
anni fa! È in questa casa che Yvonne de Galais, la moglie di
3 un prete: si tratta evidentemente del sacerdote chiamato a confortare la moribonda e ad impartirle l’estrema unzione.
231
Augustin Meaulnes, è morta ieri sera. Un estraneo la prenderebbe per una cappella, tanto si è fatto silenzio, da ieri, in
questo luogo desolato.
Ecco, dunque, che cosa ci riservavano quel bel mattino
del ritorno a scuola, quel perfido sole d’autunno che scivola
sotto i rami. Come lotterò contro questo straziante desiderio di rivolta, questa soffocante ondata di lacrime? Abbiamo
ritrovato la bella ragazza. L’abbiamo conquistata. Era la
moglie del mio compagno ed io la amavo di quella amicizia
profonda e segreta che non si dichiara mai. La guardavo ed
ero contento, come un bambino. Forse, un giorno, avrei
sposato un’altra ragazza, e sarebbe stato a lei per prima che
avrei confidato la grande notizia segreta…
Vicino al campanello, all’angolo della porta, è stato lasciato lo scritto di ieri. Hanno già portato il feretro nel vestibolo, di sotto. Nella camera del primo piano, è la balia
della bambina che mi accoglie, che mi racconta la fine e che
socchiude dolcemente la porta… Eccola. Non c’è più febbre, né combattimento. Non c’è più rossore, né attesa…
Niente, oltre al silenzio, e, contornato di ovatta, un duro viso
insensibile e bianco, una fronte morta da cui escono i capelli
fitti e duri.
Il signor de Galais, accovacciato in un angolo, con la
schiena voltata, è in calzini, senza scarpe, e fruga con una
terribile ostinazione nei cassetti in disordine, strappati da un
armadio. Ne trae di tanto in tanto, con una crisi di singhiozzi
che gli scuote le spalle come una crisi di riso, una vecchia
fotografia, già ingiallita, di sua figlia.
Il funerale è per mezzogiorno. Il medico teme la
decomposizione rapida che segue talvolta le embolie. È per
questo che il viso, come tutto il corpo del resto, è fasciato di
ovatta imbevuta di fenolo4.
4 fenolo: detto anche acido fenico, è un potente disinfettante, dall’odore assai
penetrante.
232
Quando il cadavere è vestito, – le hanno messo il suo
stupendo abito di velluto blu scuro, disseminato qua e là da
stelline d’argento, ma si sono dovute appiattire e sgualcire
le belle maniche a sbuffo, adesso fuori moda – al momento
di far salire la bara, ci si accorge che non la si potrà far girare
nel corridoio troppo stretto. Bisognerà con una corda issarla
da fuori, attraverso la finestra, e nello stesso modo farla scendere in seguito… Ma il signor de Galais, sempre chino su
delle vecchie cose tra le quali cerca non si sa quale ricordo
perduto, interviene allora con una veemenza terribile.
“Piuttosto”, dice con una voce rotta dalle lacrime e
dalla collera, “piuttosto che lasciar fare una cosa così terribile, sarò io che la prenderò e la farò scendere tra le mie
braccia…”.
E farebbe così, a rischio di cadere senza forze, a metà
strada, e di crollare con lei!
Ma allora mi faccio avanti, prendo la sola decisione
possibile: con l’aiuto del medico e di una donna, passando
un braccio sotto la schiena della morta stesa, l’altro sotto le
gambe, la carico sul mio petto. Seduta sul mio braccio sinistro, le spalle appoggiate contro il mio braccio destro, la
testa cascante rivoltata sotto il mio mento, mi pesa terribilmente sul cuore. Scendo lentamente, gradino per gradino,
la lunga scala ripida, mentre in basso si prepara tutto.
Ho subito le braccia rotte per la fatica. Ad ogni gradino,
con quel peso sul petto, sono un po’ più soffocato. Afferrato
il corpo inerte e pesante, abbasso la testa sulla testa di colei
che porto, respiro con forza e i suoi capelli biondi mi entrano
in bocca – dei capelli morti che hanno un sapore di terra.
Quel sapore di terra e di morte, quel peso sul cuore, è tutto
ciò che resta per me della grande avventura, e di voi, Yvonne
de Galais, giovane donna tanto cercata – tanto amata…
Nella casa piena di tristi ricordi, dove le donne, per
tutto il giorno, cullavano e consolavano una piccola bimba
inferma, il vecchio signor de Galais non tardò a mettersi a
letto, malato. Ai primi grandi freddi dell’inverno si spense
233
pacificamente e non potei tenermi dal versare delle lacrime
al capezzale di quel vecchio uomo affascinante, il cui pensiero
indulgente e la cui fantasia, alleata a quella di suo figlio,
erano stati la causa di tutta la nostra avventura.
Morì, per una vera fortuna, in una incomprensione
completa di tutto ciò che era accaduto e, del resto, chiuso
in un silenzio quasi assoluto. Poiché non aveva da tempo né
parenti né amici in quella regione della Francia, mi designò
nel testamento suo erede universale fino al ritorno di Meaulnes, a cui dovevo rendere conto di tutto, se mai fosse ritornato…
Ed era alle Sablonnières ormai che abitavo. Non andavo
a Saint-Benoist, se non per fare lezione, partendo la mattina
di buon’ora, pranzando a mezzogiorno con un pasto preparato alla proprietà, che facevo scaldare sulla stufa, e rientrando il pomeriggio subito dopo lo studio. Così potevo tenere
con me la bambina di cui le donne di servizio della fattoria
si curavano. Soprattutto, aumentavo le mie possibilità di incontrare Augustin, se fosse rientrato un giorno alle Sablonnières.
Non disperai mai, poi, di scoprire alla lunga nei mobili,
nei cassetti della casa, qualche carta, qualche indizio che mi
permettessero di conoscere l’impiego del suo tempo, durante
il lungo silenzio degli anni precedenti – e forse anche di
conoscere le ragioni della sua fuga o almeno di trovare una
sua traccia…
Avevo già inutilmente ispezionato non so quanti armadi
a muro e guardaroba, aperto, negli sgabuzzini, una quantità
di vecchie scatole di cartone di tutte le forme, che si trovavano, sia piene di pacchi di vecchie lettere e di fotografie
ingiallite della famiglia de Galais, sia zeppe di fiori artificiali,
di piume, di pennacchi fuori moda. Usciva da quelle scatole
non so quale odore di avvizzito, di profumo spento, che
improvvisamente risvegliavano in me per tutto il giorno i
ricordi, i rimpianti, e arrestavano le mie ricerche…
Un giorno di vacanza, finalmente, scorsi nel granaio un
vecchio bauletto lungo e basso, fatto di pelle di maiale, per
234
metà rosicchiato e che riconobbi essere il baule da studente
di Augustin. Mi rimproverai di non aver incominciato da lì
le mie ricerche.
Feci saltare facilmente la serratura arrugginita. Il baule
era pieno zeppo di quaderni e di libri di Sainte-Agathe. Aritmetica, letteratura, quaderni di problemi, che so?… Con
intenerimento piuttosto che con curiosità, mi misi a sfogliare
quelle cose, rileggendo i dettati che sapevo ancora a memoria, tante volte li avevamo ricopiati! L’acquedotto di Rousseau,
Un’avventura in Calabria di P.-L. Courier, Lettere di George Sand 5
a suo figlio…
C’era anche un Quaderno dei compiti mensili. Ne fui
sorpreso, poiché quei quaderni restavano a scuola e gli allievi
non li portavano all’esterno. Era un quaderno verde tutto
ingiallito sui bordi. Il nome dell’allievo, Augustin Meaulnes,
era scritto sulla copertina con scrittura rotonda e magnifica.
Lo aprii. Dalla data dei compiti, aprile 189…, compresi che
Meaulnes l’aveva iniziato pochi giorni prima di lasciare
Sainte-Agathe. Le prime pagine erano tenute con la cura religiosa che era la regola quando si lavorava su quel quaderno
di composizioni. Ma non c’erano più di tre pagine scritte, il
resto era bianco ed ecco perché Meaulnes l’aveva portato via.
Intento a riflettere, inginocchiato per terra, su quelle
abitudini, su quelle regole infantili che avevano avuto tanto
spazio nella nostra adolescenza, facevo girare sotto il mio
pollice il bordo delle pagine del quaderno incompleto. E fu
così che scoprii degli scritti su altri fogli. Dopo quattro pagine
lasciate in bianco, aveva ricominciato a scrivere.
Era ancora la scrittura di Meaulnes, ma rapida, brutta,
appena leggibile; piccoli paragrafi di larghezza diversa, sepa-
5 Rousseau… Courier… George Sand: per i primi due, cfr. nota 1 a pag. 105.
Quanto a George Sand, si tratta dello pseudonimo usato in campo letterario
da Amandine Lucie Aurore Dupin (1804-1876), scrittrice francese di ispirazione romantica e di precoci idee femministe.
235
rati da righe bianche. Talvolta non era che una frase incompiuta. Qualche volta una data. Dalla prima riga, capii che
potevo trovarvi delle informazioni sulla vita passata di Meaulnes a Parigi, delle indicazioni sulla pista che cercavo, e scesi
nella sala da pranzo per scorrere a mio agio, alla luce del
giorno, lo strano documento.
Era un giorno d’inverno chiaro e agitato. Ora il sole vivo
disegnava la croce delle finestre sulle tende bianche, ora un
vento brusco gettava sui vetri un fiotto ghiacciato. E fu davanti
a quella finestra, vicino al fuoco, che lessi quelle righe che mi
spiegarono tante cose e di cui questa è la copia fedele…
Sono passato ancora una volta sotto la finestra. Il vetro è
sempre polveroso e imbiancato dalla doppia tenda che c’è dietro. Se
Yvonne de Galais l’aprisse, non avrei niente da dirle, poiché ormai
è sposata… Che fare adesso? Come vivere?…
Sabato 13 febbraio. – Ho incontrato sul lungofiume quella
ragazza che mi aveva dato delle informazioni nel mese di giugno e
che aspettava come me davanti alla casa chiusa… Le ho parlato.
Mentre camminava, guardavo obliquamente i leggeri difetti del suo
viso: una piccola ruga all’angolo delle labbra, un leggero cedimento
delle guance, e della cipria accumulata sulle narici. Lei si è girata
tutto ad un tratto e mi ha guardato bene in faccia, forse perché è
più bella di fronte che di profilo, e mi ha detto con una voce ruvida:
“Mi divertite molto. Mi ricordate un ragazzo che mi faceva la
corte, una volta, a Bourges. È stato anche il mio fidanzato…”.
Tuttavia, a notte alta, sul marciapiede deserto e bagnato che
riflette il chiarore di una lampada a gas 6, si è avvicinata a me all’improvviso, per domandarmi di portarla quella sera a teatro con sua
sorella. Noto per la prima volta che è vestita a lutto, con un cappello
6 lampada a gas: alla fine dell’Ottocento, nelle principali città europee e nord
americane, l’illuminazione stradale era assicurata da lampioni alimentati con
gas combustibile. L’energia elettrica si diffonderà assai lentamente.
236
da signora troppo vecchio per il suo giovane viso, un lungo ombrello
sottile, simile a una canna. E, dato che le sono molto vicino, quando
faccio un gesto le mie unghie graffiano il crespo del suo corpetto…
Faccio delle storie per accordarle ciò che domanda. Arrabbiata,
vuole andare via subito. E sono io, ora, che la trattengo e la prego. Allora, un operaio che passa nell’oscurità, scherzando a mezza voce, dice:
“Non andare, piccola mia, ti farà del male!”.
E siamo restati, entrambi, interdetti.
A teatro. – Le due ragazze, la mia amica che si chiama Valentine Blondeau e sua sorella, sono arrivate con delle povere sciarpe.
Valentine è seduta davanti a me. Ad ogni istante si gira,
inquieta, come domandandosi che cosa voglio da lei. Ed io, io mi
sento, vicino a lei, quasi felice; le rispondo ogni volta con un sorriso.
Tutto intorno a noi, c’erano delle donne troppo scollate. E noi
scherzavamo. Lei prima sorrideva, poi ha detto: “Non bisogna che rida.
Anch’io sono troppo scollata”. E si è avvolta nella sua sciarpa. In effetti,
sotto il foulard di pizzo nero, si vedeva che, nella fretta di cambiarsi,
aveva rimboccato l’orlo della sua semplice camicia accollata.
C’è in lei un non so che di povero e d’infantile; c’è nel suo
sguardo una non so quale aria sofferente e audace che mi attira.
Vicino a lei, il solo essere al mondo che abbia potuto darmi informazioni sulla gente della Tenuta, non smetto di pensare alla mia
strana avventura di un tempo… Ho voluto interrogarla nuovamente
sul piccolo albergo del viale. Ma, a sua volta, lei mi ha posto delle
domande così imbarazzanti, che non ho saputo rispondere niente.
Sento che ormai entrambi saremo muti su questo argomento. E tuttavia so anche che la rivedrò. A che scopo? E perché?… Sono condannato adesso a seguire la traccia di qualunque essere che porterà in sé
il più vago, il più lontano sentore della mia avventura mancata?…
A mezzanotte, nella via deserta, mi domando che cosa significhi questa storia nuova e bizzarra. Cammino lungo case simili a
delle scatole di cartone allineate, nelle quali tutto un popolo dorme.
E mi ricordo all’improvviso di una decisione che avevo preso il mese
237
scorso: avevo deciso di andare laggiù in piena notte, verso l’una del
mattino, di girare dietro l’albergo, di aprire la porta del giardino, di
entrare come un ladro e di cercare un indizio qualunque che mi
permetta di ritrovare la Tenuta perduta, per rivederla, solamente rivederla… Ma sono stanco. Ho fame. Anch’io mi sono affrettato a
cambiarmi d’abito, prima del teatro, e non ho cenato… Tuttavia
sono agitato, inquieto, e resto a lungo seduto sul bordo del mio letto,
prima di coricarmi, in preda a un vago rimorso. Perché?
Noto ancora questo: non hanno voluto né che le riaccompagnassi, né dirmi dove abitino. Ma le ho seguite per tutto il tempo
che ho potuto. So che abitano in una piccola via che gira vicino a
Nôtre-Dame7. Ma a quale numero?… Ho indovinato che erano sarte
o modiste8.
Di nascosto da sua sorella, Valentine mi dà appuntamento
per giovedì, alle quattro, davanti allo stesso teatro dove siamo andati.
“Se non fossi là giovedì”, ha detto, “ritornate venerdì alla stessa
ora, poi sabato, e così via, tutti i giorni”.
Giovedì 18 febbraio. – Sono uscito per aspettarla nel gran vento
che trasporta la pioggia. Viene da dire ad ogni istante: finirà per
piovere…
Cammino nella semioscurità delle vie con un peso sul cuore.
Cade una goccia d’acqua. Temo che piova: un temporale può impedirle di venire. Ma il vento riprende a soffiare e la pioggia non cade
neanche questa volta. Lassù, nel grigio pomeriggio del cielo – ora
grigio e ora luminoso – una grande nuvola ha dovuto cedere al vento.
E io sono qui, sprofondato in un’attesa miserabile.
Davanti al teatro. – In capo ad un quarto d’ora sono certo
che non verrà. Dal lungofiume in cui sono, sorveglio da lontano,
sul ponte dal quale avrebbe dovuto venire, la sfilata delle persone
che passano. Accompagno con lo sguardo tutte le ragazze in lutto
7 Nôtre-Dame: cfr. nota 3 a pag. 117.
8 modiste: artigiane che realizzavano i cappellini da donna.
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che vedo arrivare e mi sento quasi riconoscente verso coloro che, il
più a lungo, il più vicino a me, le assomigliano e mi fanno sperare…
Un’ora di attesa. – Sono stanco. Al cadere della notte, un vigile
urbano trascina alla stazione di polizia più vicina un giovinastro
che gli lancia con voce soffocata tutte le ingiurie, tutte le oscenità che
conosce. L’agente è furioso, pallido e silenzioso… Già nel corridoio
comincia a picchiare, poi chiude dietro di sé la porta per pestare il
miserabile con maggior agio… Mi viene in mente il pensiero terribile
che ho rinunciato al paradiso e sto scalpitando alle porte dell’inferno.
Per farla finita, lascio questo posto e raggiungo quella via
stretta e bassa, tra la Senna e Nôtre-Dame, dove so che si trova, più
o meno, il luogo della loro casa. Tutto solo vado e vengo. Di quando
in quando, una cameriera o una massaia escono sotto la pioggia
sottile per fare prima di sera le loro compere… Qui non c’è niente
per me, e me ne vado… Ripasso, nella pioggia chiara che ritarda la
notte, sulla piazza in cui dovevamo aspettarci. Ci sono più persone
di prima – una folla nera…
Supposizioni – Disperazione – Stanchezza. Mi aggrappo a
questo pensiero: domani. Domani, alla stessa ora, in quello stesso
posto, ritornerò ad aspettarla. E ho una gran fretta che arrivi domani.
Con noia immagino la serata di oggi, poi la mattinata dell’indomani,
che passerò nell’ozio… Ma questa giornata non è già quasi finita?
Rientrato a casa, vicino al fuoco, sento gli strilloni9 che pubblicizzano il giornale della sera. Senza dubbio, dalla sua casa perduta da
qualche parte in città, vicino a Nôtre-Dame, anche lei li sente.
Lei… voglio dire: Valentine.
Questa serata che avevo voluto evitare mi pesa stranamente.
Mentre il tempo avanza, e questo giorno sta presto per finire e già
lo vorrei finito, ci sono degli uomini che vi hanno riposto tutta la
loro speranza, tutto il loro amore e tutte le loro ultime forze. Ci sono
uomini moribondi, altri che aspettano una scadenza, e che vorreb-
9 strilloni: venditori di quotidiani che attirano l’attenzione dei passanti,
gridando le notizie più importanti del giornale.
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bero non fosse mai domani. Ce ne sono altri per i quali domani
spunterà come un rimorso. Altri che sono stanchi e questa notte non
sarà mai abbastanza lunga per dare loro tutto il riposo di cui avrebbero bisogno. Ed io, io che ho perduto la mia giornata, con quale
diritto oso invocare il domani?
Venerdì sera. – Avevo pensato di scrivere di seguito: “Non l’ho
rivista”. E tutto sarebbe stato finito.
Ma, arrivando questo pomeriggio, alle quattro, all’angolo del
teatro, eccola. Sottile e seria, vestita di nero, ma con della cipria sul
viso e un colletto che le dà l’aria di un pierrot colpevole. Un’aria
contemporaneamente dolorosa e maliziosa.
È per dirmi che vuole lasciarmi subito, che non verrà più.
Tuttavia, al calare della sera, eccoci ancora entrambi a camminare lentamente uno vicino all’altro, sulla ghiaia delle Tuileries10.
Mi racconta la sua storia ma in un modo così contorto, che capisco
poco. Dice: “il mio amante”, parlando di quel fidanzato che non ha
sposato. Lo fa apposta, penso, per turbarmi e per non farmi attaccare troppo a lei.
Ci sono delle frasi sue che trascrivo di malagrazia:
“Non abbiate nessuna fiducia in me”, dice, “non ho mai fatto
altro che follie”.
“Sono andata in giro tutta sola”.
“Ho fatto disperare il mio fidanzato. L’ho abbandonato perché
mi ammirava troppo; mi vedeva con l’immaginazione e niente affatto
per quello che ero. Al contrario, sono piena di difetti. Saremmo stati
molto infelici”.
Ad ogni istante, la sorprendo a descriversi peggiore di quello
che è. Penso che voglia provare a se stessa che ha avuto ragione, un
tempo, a fare la stupidaggine di cui parla, che non ha niente da
rimpiangere e non era degna della felicità che le si offriva.
10 Les Tuileries: grandi giardini pubblici parigini, situati in prossimità del
Museo del Louvre e, dunque, nel cuore della capitale francese.
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Un’altra volta, mi ha detto, guardandomi a lungo:
“Ciò che mi piace in voi, non riesco a capire perché, sono i
miei ricordi…”.
Un’altra volta diceva:
“Lo amo ancora, più di quanto pensiate”.
E poi improvvisamente, bruscamente, brutalmente, tristemente:
“Insomma, che cosa volete? Mi amate anche voi? Anche voi
state per chiedere la mia mano?…”.
Ho balbettato. Non so che cosa ho risposto. Forse ho detto: “Sì”.
Quella specie di diario si interrompeva lì. Incominciavano allora delle minute di lettere illeggibili, informi, cancellate. Precario fidanzamento!… La ragazza, su preghiera di
Meaulnes, aveva abbandonato il suo mestiere. Lui si era occupato dei preparativi del suo matrimonio. Ma senza sosta
ripreso dal desiderio di cercare ancora, di partire ancora
sulla traccia del suo amore perduto, aveva dovuto, senza
dubbio, scomparire più volte; e in quelle lettere, con un
imbarazzo tragico, cercava di giustificarsi davanti a Valentine.
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Vincent Van Gogh, Ritratto di Armand Roulin
Capitolo 7
IL SEGRETO
■
Poi il diario riprendeva.
Aveva annotato dei ricordi su un soggiorno che avevano
fatto entrambi in campagna, non so dove. Ma, cosa strana,
a partire da quel momento, forse per un sentimento di
pudore segreto, il diario era redatto in modo così frammentario, così informe, scarabocchiato così velocemente, che
ho dovuto ricostruire io stesso e riscrivere tutta quella parte
della sua storia.
14 giugno. – Quando si svegliò di buon mattino nella
stanza dell’albergo, il sole aveva illuminato i disegni rossi
della tenda nera. Dei braccianti agricoli, nella sala di sotto,
parlavano forte e prendevano il caffè del mattino: si indignavano, con frasi dure e pacate, contro uno dei loro
padroni. Da un po’, senza dubbio, Meaulnes sentiva, nel
sonno, quel rumore calmo; tanto che, dapprima, non vi fece
caso. Quella tenda disseminata di grappoli arrossati dal sole,
quelle voci mattutine che salivano nella camera silenziosa,
tutto ciò si confondeva nell’impressione unica di un risveglio in campagna, all’inizio di deliziose grandi vacanze.
Si alzò, bussò dolcemente alla porta vicina, senza ottenere risposta e la socchiuse senza rumore. Scorse allora Valentine e capì da dove gli veniva tanta placida felicità. Dormiva
assolutamente immobile e silenziosa, senza che la si sentisse
respirare, come deve dormire un uccello. A lungo guardò
quel viso da bambina con gli occhi chiusi, quel viso così
quieto, che non ci si sarebbe augurati di svegliarlo, né di
disturbarlo mai.
243
Non fece altro movimento, per mostrare che non
dormiva, che non aprire gli occhi e guardare.
Appena questa si fu vestita, Meaulnes ritornò dalla
ragazza.
“Siamo in ritardo”, disse lei.
E fu subito come una massaia nella sua casa.
Mise ordine nelle camere, spazzolò gli abiti che Meaulnes aveva portato il giorno prima e, quando arrivò ai pantaloni, si rattristò. La parte bassa delle gambe era coperta da
un fango spesso. Esitò, poi accuratamente, con precauzione,
prima di spazzolarli, incominciò a grattare il primo spessore
di terra con un coltello.
“È così”, disse Meaulnes, “che facevano i ragazzi di
Sainte-Agathe quando si erano buttati nel fango”.
“A me, è mia madre che l’ha insegnato”, disse Valentine.
E così era proprio la compagna che doveva sognare,
prima della sua avventura misteriosa, il cacciatore e contadino che era in fondo il grande Meaulnes.
15 giugno. – A quella cena, alla fattoria, dove, grazie
ai loro amici che li avevano presentati come marito e moglie,
essi furono invitati, con loro grande fastidio, lei si mostrò
timida come una novella sposa.
Si erano accese le candele di due candelabri, ad ogni
capo del tavolo coperto da una tovaglia bianca, come a una
tranquilla festa di nozze campagnola. I visi, appena si piegavano sotto quel flebile chiarore, si immergevano nell’ombra.
C’erano alla destra di Patrice (il figlio del fattore),
Valentine poi Meaulnes, che rimase taciturno fino alla fine,
nonostante si rivolgessero quasi sempre a lui. Da quando
aveva deciso, in quel villaggio sperduto, al fine di evitare
chiacchiere, di far passare Valentine per sua moglie, uno
stesso rimpianto, uno stesso rimorso lo rattristavano. E,
mentre Patrice, alla maniera di un gentiluomo di campagna,
dirigeva la cena, “Sono io”, pensava Meaulnes, “che dovrei,
questa sera, in una sala bassa come questa, una bella sala che
conosco bene, presiedere la cena delle mie nozze”.
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Accanto a lui, Valentine rifiutava timidamente tutto ciò
che le si offriva. Si sarebbe detta una giovane contadina. Ad
ogni nuovo tentativo, guardava il suo amico e sembrava
volersi rifugiare contro di lui. Da parecchio, Patrice insisteva
inutilmente affinché vuotasse il suo bicchiere, quando finalmente Meaulnes si chinò su di lei e le disse dolcemente:
“Bisogna bere, mia piccola Valentine”.
Allora, docilmente, ella bevve. E Patrice si congratulò,
sorridendo con il giovane per avere una moglie così obbediente.
Ma entrambi, Valentine e Meaulnes, restavano silenziosi
e pensierosi. Erano stanchi, innanzitutto; i loro piedi, inzuppati dal fango della passeggiata, erano gelati sulle pietre
lavate della cucina. E poi, di quando in quando, il giovane
era obbligato a dire:
“Mia moglie Valentine, mia moglie…”.
E ogni volta, pronunciando sordamente quella parola,
davanti a contadini sconosciuti, in quella sala scura, aveva
l’impressione di commettere un peccato.
17 giugno. – Il pomeriggio di quell’ultimo giorno incominciò male.
Patrice e sua moglie li accompagnarono in una passeggiata. Poco a poco, sul pendio disuguale coperto di erica, le
due coppie si trovarono separate. Meaulnes e Valentine si
sedettero tra i ginepri, in un boschetto.
Il vento portava delle gocce di pioggia e il cielo era
basso. La serata aveva un gusto amaro: sembrava il sapore di
una tale noia, che l’amore stesso non poteva dissipare.
A lungo restarono là, nel loro nascondiglio, protetti dai
rami, parlando poco. Poi il cielo si alzò. Fece bello. Credettero che, adesso, tutto sarebbe andato bene.
E incominciarono a parlare d’amore; Valentine parlava,
parlava…
“Ecco”, diceva, “ciò che mi prometteva il mio fidanzato,
da quel bambino che era: subito avremmo avuto una casa,
come una capanna sperduta nella campagna. Era tutta
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pronta, diceva. Ci saremmo arrivati come al ritorno da un
lungo viaggio, la sera del nostro matrimonio, verso quell’ora
che è così vicina alla notte. E per i sentieri, nel cortile, nascosti nei boschi, dei bambini sconosciuti ci avrebbero fatto
festa, gridando: ‘Viva gli sposi!’… Che follie! Vero?”.
Meaulnes, interdetto, preoccupato, l’ascoltava. Ritrovava in tutto ciò come l’eco di una voce già sentita. E c’era
anche, nel tono della ragazza, quando raccontava quella
storia, un vago rimpianto.
Ma lei ebbe paura di averlo ferito. Si girò verso di lui,
con slancio, con dolcezza.
“Ecco”, disse, “voglio darvi tutto quello che ho: qualche cosa che è stato per me più prezioso di tutto…, e voi lo
brucerete!”.
Allora, guardandolo fissamente, con un’aria ansiosa,
tirò fuori dalla tasca un pacchettino di lettere che gli tese,
le lettere del suo fidanzato.
Ah! subito egli riconobbe la fine scrittura. Come non
averci mai pensato prima! Era la scrittura di Frantz, lo
zingaro, che egli aveva visto una volta sul biglietto disperato
lasciato nella camera della Tenuta…
Camminavano ora su una stradina stretta tra le margheritine e tra i fieni rischiarati obliquamente dal sole delle
cinque. Così grande era stato il suo stupore, che Meaulnes
non capiva ancora quale sconvolgimento significasse per lui.
Leggeva perché lei gli aveva chiesto di leggere. Delle frasi
infantili, sentimentali, patetiche… Questo nell’ultima lettera:
…Ah! avete perduto il cuoricino, imperdonabile, piccola Valentine. Che cosa ci succederà? Comunque io non sono superstizioso…
Meaulnes leggeva, per metà accecato dal rimpianto e
dalla collera, il viso immobile, ma tutto pallido, con dei
fremiti sotto gli occhi. Valentine, inquieta nel vederlo così,
guardò dov’era arrivato, e ciò che lo faceva arrabbiare così.
“È”, spiegò molto in fretta, “un gioiello che mi aveva
dato, facendomi giurare di conservarlo sempre. Erano le sue
idee folli”.
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Ma ciò non fece che esasperare Meaulnes.
“Folli!”, disse, mettendo le lettere nella tasca. “Perché
ripetere questa parola? Perché non aver mai voluto credere
in lui? Io l’ho conosciuto, era il ragazzo più straordinario del
mondo!”.
“Voi l’avete conosciuto”, disse lei al culmine dell’agitazione, “voi avete conosciuto Frantz de Galais?”.
“Era il mio migliore amico, era il mio fratello di avventure, ed ecco che gli ho preso la fidanzata! Ah!”, proseguì
con furore, “quanto male ci avete fatto, voi che non avete
voluto credere a niente! Voi siete la causa di tutto. Siete voi
che avete rovinato tutto! Rovinato tutto!”.
Lei volle parlargli, prendergli la mano, ma egli la
respinse brutalmente:
“Andatevene. Lasciatemi”.
“Beh, se è così”, disse, il viso di fuoco, balbettando e
piangendo insieme, “partirò di sicuro. Tornerò a Bourges, a
casa nostra, con mia sorella. E se voi non verrete a cercarmi,
sapete, no? che mio padre è troppo povero per badare a me;
bene! Ripartirò per Parigi, batterò le strade come ho già
fatto una volta, diventerò certamente una ragazza perduta,
io che non ho più un lavoro…”.
E se ne andò a fare le valigie per prendere il treno,
mentre Meaulnes, senza neanche guardarla andare via, continuava a camminare a casaccio.
Il diario si interrompeva di nuovo.
Seguivano ancora delle bozze di lettere; lettere di un
uomo indeciso, sconvolto. Rientrato a La Ferté-d’Angillon,
Meaulnes scriveva a Valentine, in apparenza per confermarle
la risoluzione di non rivederla mai più e darle delle ragioni
precise, ma, in realtà, forse perché lei gli rispondesse.
In una di queste lettere, le domandava ciò che nella
sua confusione, non aveva mai pensato prima di domandarle:
sapeva dove si trovasse la proprietà tanto cercata? In un’altra, la supplicava di riconciliarsi con Frantz de Galais. Egli
stesso si incaricava di trovarlo… Tutte le lettere di cui vedevo
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la brutta non dovevano essere state spedite. Ma doveva avere
scritto due o tre volte, senza mai ottenere risposta. Quello
era stato per lui un periodo di combattimento spaventoso e
miserabile, in un isolamento assoluto. Poiché la speranza di
rivedere Yvonne de Galais era ormai completamente svanita,
deve aver sentito poco a poco la sua grande decisione indebolirsi. E dopo le pagine che seguono – le ultime del suo
diario – immagino che dovette, un bel mattino di inizio delle
vacanze, noleggiare una bicicletta per andare a Bourges, a
vedere la cattedrale.
Era partito di buon’ora, per la bella strada diritta tra i
boschi, inventando sul cammino mille pretesti per presentarsi degnamente, senza domandare una riconciliazione,
davanti a colei che aveva cacciato.
Le quattro ultime pagine che ho potuto ricostruire,
raccontano quel viaggio e quell’ultimo errore…
25 agosto. – Dall’altra parte di Bourges, all’estremità
dei nuovi sobborghi, scoprì, dopo aver lungamente cercato,
la casa di Valentine Blondeau. Una donna – la madre di
Valentine – sulla porta, sembrava aspettarlo. Era un bel viso
di massaia, pesante, sciupato, ma ancora bello. Lo guardava
venire con curiosità e, quando lui domandò “se le signorine
Blondeau abitavano lì”, lei gli spiegò dolcemente, con benevolenza, che erano a Parigi dal 15 agosto.
“Mi hanno proibito di dire dove siano”, aggiunse, “ma,
scrivendo al loro vecchio indirizzo, le lettere verranno inoltrate a loro”.
E lui, ritornando sui suoi passi, la bicicletta a mano,
attraverso il giardinetto, pensava:
“È partita… Tutto è finito come ho voluto… Sono io
che l’ho forzata a ciò. ‘Diventerò certamente una ragazza
perduta’, diceva. E sono io che l’ho mandata là! Sono io che
ho rovinato la fidanzata di Frantz!”.
E a bassa voce si ripeteva, con follia: “Tanto meglio!
Tanto meglio!”, con la certezza che fosse proprio “tanto
peggio” invece e che, sotto gli occhi di quella donna, prima
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di arrivare al cancello, sarebbe incespicato con entrambi i
piedi per cadere sulle ginocchia.
Non pensò a cenare e si fermò in un caffè, dove scrisse
lungamente a Valentine, se non altro per urlare, per liberarsi
del grido disperato che lo soffocava. La sua lettera ripeteva
indefinitamente: “Come avete potuto! Come avete potuto!…
Come avete potuto rassegnarvi a ciò! Come avete potuto
perdervi così!”.
Vicino a lui degli ufficiali bevevano. Uno di loro raccontava rumorosamente una storia di donne che si sentiva a spizzichi: “…Le ho detto… Dovete certo conoscermi… Gioco con
vostro marito tutte le sere!”. Gli altri ridevano e, girando la
testa, sputavano dietro le panche. Patito e impolverato,
Meaulnes li guardava come un mendicante. Li immaginò
tenere Valentine sulle loro ginocchia.
A lungo, in bicicletta, vagò intorno alla cattedrale,
dicendosi confusamente: “Insomma, è per la cattedrale che
sono venuto”. Al fondo di tutte le strade, sulla piazza deserta,
la vedeva salire enorme e indifferente. Quelle vie erano
strette e sudicie come quelle stradine che circondano le
chiese di un villaggio. C’erano, qua e là, l’insegna di una casa
losca, una lanterna rossa1… Meaulnes sentiva il suo dolore
perduto in quel quartiere sporco, vizioso, rifugiato, come
nelle epoche antiche, sotto i contrafforti della cattedrale. Gli
veniva una paura da contadino, una repulsione per quella
chiesa della città, dove tutti i vizi sono scolpiti nei nascondigli, che è costruita tra luoghi cattivi e che non ha rimedio
per i più puri dolori d’amore.
Due ragazze passarono, tenendosi per la vita e guardandolo sfrontatamente. Per gusto o per gioco, per vendicarsi del suo amore o per rovinarlo, Meaulnes le seguì lentamente in bicicletta e una di esse, una miserabile ragazza i
1 lanterna rossa: era un tempo il segnale convenzionale che indicava una casa
di malaffare.
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cui radi capelli biondi erano tirati indietro in una crocchia
finta, gli diede appuntamento per le sei al giardino dell’Arcivescovado2, il giardino dove Frantz, in una delle sue lettere,
dava appuntamento alla povera Valentine.
Non disse di no, sapendo che a quell’ora avrebbe da
tempo lasciato la città. E dalla sua finestra bassa, nella via in
salita, restò a lungo a fargli dei segni vaghi.
Lui aveva fretta di riprendere il suo cammino.
Prima di partire, non poté resistere al desiderio cupo
di passare un’ultima volta davanti alla casa di Valentine.
Guardò con intensità e poté fare provvista di tristezza. Era
una delle ultime case del sobborgo e la via diventava una
strada a partire da quel luogo… Di fronte, una specie di
terreno incolto formava come una piccola piazza. Non c’era
nessuno alle finestre, né in cortile, nessuno. Sola, lungo un
muro, trascinando due bambini vestiti di stracci, una ragazza
sporca e incipriata passò.
Era là che l’infanzia di Valentine era trascorsa, là che
aveva incominciato a guardare il mondo con i suoi occhi fiduciosi e saggi. Aveva lavorato, cucito, dietro quelle finestre. E
Frantz era passato per vederla, sorriderle, in quella via del
sobborgo. Ma ora non c’era più niente, niente… La triste
serata continuava e Meaulnes sapeva solamente che da qualche parte, perduta, durante quello stesso pomeriggio, Valentine guardava passare nei suoi ricordi quella piazza triste
dove non sarebbe più ritornata.
Il lungo viaggio che gli restava da fare per rientrare
doveva essere la sua ultima risorsa contro il dolore, la sua
ultima distrazione forzata prima di affondarvi tutto intero.
Partì. Nei dintorni della strada, nella vallata, delle deliziose case contadine, tra gli alberi, sul bordo dell’acqua,
mostravano le loro facciate appuntite, ornate di graticci verdi.
Senza dubbio laggiù, sui prati, delle ragazze assorte parlavano
2 giardino dell’Arcivescovado: cfr. nota 3 a pag. 182.
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dell’amore. Si potevano immaginare, laggiù, delle anime,
delle belle anime…
Ma per Meaulnes, in quel momento, non esisteva che
un solo amore, quell’amore mal soddisfatto che era stato
umiliato così crudelmente, e la ragazza tra tutte che egli
avrebbe dovuto proteggere, salvaguardare, era proprio quella
che era stata mandata alla perdizione.
Alcune righe frettolose del diario mi rivelavano ancora
che aveva ideato il progetto di ritrovare Valentine, costasse
quel che costasse, prima che fosse troppo tardi. Una data, in
un angolo di pagina, mi faceva credere che fosse quello il
lungo viaggio per il quale la signora Meaulnes faceva i preparativi, quando ero andato a La Ferté-d’Angillon per scombussolare tutto.
Nel municipio abbandonato, Meaulnes annotava i suoi
ricordi e i suoi progetti per un bel mattino della fine del mese
di agosto – quando io avevo spinto la porta e gli avevo portato
la grande notizia che non aspettava più.
Era stato ripreso, immobilizzato, dalla sua vecchia avventura, senza osare far niente, confessare niente. Allora erano
cominciati i rimorsi, il rimpianto e il dolore, ora soffocati,
ora trionfanti, fino al giorno delle nozze, dove il grido dello
zingaro tra gli abeti gli aveva teatralmente ricordato il suo
primo giuramento di ragazzo.
Su quello stesso quaderno di compiti mensili aveva
ancora scarabocchiato qualche parola in fretta, all’alba, prima
di lasciare, con il suo permesso – ma per sempre –, Yvonne
de Galais, sua sposa dal giorno prima:
“Parto. Bisognerà proprio che ritrovi la pista dei due
zingari che sono venuti ieri nell’abetaia e che sono partiti
verso est in bicicletta. Ritornerò da Yvonne soltanto se potrò
portare con me e sistemare nella “casa di Frantz” ‘proprio
Frantz e Valentine, da sposati’.
“Questo manoscritto, che avevo iniziato come un diario
segreto e che è diventato la mia confessione, sarà, se non
ritorno, di proprietà del mio amico François Seurel”.
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Doveva aver fatto scivolare il quaderno in fretta sotto
gli altri, chiuso a chiave il suo vecchio bauletto da studente,
ed era scomparso.
Il tempo passò. Io perdevo la speranza di rivedere il mio
compagno, e giorni cupi scorrevano nella scuola di campagna, tristi giorni nella casa deserta. Frantz non venne all’appuntamento che gli avevo fissato, e d’altronde mia zia Moinel
non sapeva più da molto tempo dove abitasse Valentine.
La sola gioia delle Sablonnières fu presto la bambina
che avevamo potuto salvare. Alla fine di settembre, già si
annunciava come una robusta e graziosa bambina. Stava per
compiere un anno. Aggrappata ai listelli delle sedie, le spingeva da sola, cercando di camminare, senza badare alle
cadute, e faceva un tale baccano, che suscitava sordi echi nella
dimora abbandonata.
Quando la tenevo tra le braccia, non sopportava mai
che le dessi un bacio. Aveva una maniera selvaggia e affascinante allo stesso tempo di dimenarsi e di respingermi il viso
con la manina aperta, scoppiando a ridere. Con tutta la sua
gaiezza, con tutta la sua violenza infantile, si sarebbe detto
che dovesse cacciare il dispiacere che pesava sulla casa dalla
sua nascita. Mi dicevo talvolta: “Senza dubbio, malgrado
questa selvatichezza, sarà un po’ la mia bambina”.
Ma una volta ancora la Provvidenza decise altrimenti.
Una domenica mattina della fine di settembre, mi ero
alzato molto presto, prima anche della contadina che si occupava della piccola. Dovevo andare a pescare allo Cher con
due uomini di Saint-Benoist e con Jasmin Delouche. Spesso
infatti i paesani dei dintorni si accordavano con me per delle
grandi partite di bracconaggio3: pesca con le mani, la notte,
pesca con lo sparviere4, proibite… Per tutta l’estate, parti-
3 bracconaggio: pesca o caccia in luoghi, in date o con tecniche proibite.
4 sparviere: uccello rapace che può essere addestrato alla caccia, nel Medio
Evo era praticata dalla nobiltà e… dai bracconieri…
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vamo nei giorni di vacanza, sin dall’alba, e non ritornavamo
che a mezzogiorno.
Era il mezzo di sostentamento di quasi tutti quegli
uomini. Quanto a me, era il mio solo passatempo, le sole
avventure che mi ricordassero le imprese di una volta. E
avevo finito per prendere gusto a quelle escursioni, a quelle
lunghe pescate nel fiume o nei canneti dello stagno.
Quel mattino, ero dunque in piedi, alle cinque e
mezzo, davanti alla casa, sotto un piccolo capannone addossato al muro che separava il giardino all’inglese delle Sablonnières dall’orto della fattoria. Ero occupato a districare le
mie reti, che avevo buttato in un mucchio il giovedì precedente.
Non faceva affatto chiaro; era il crepuscolo di un bel
mattino di settembre; e il capannone dove sistemavo in fretta
i miei attrezzi si trovava in parte immerso nell’oscurità.
Ero là, silenzioso e indaffarato, quando improvvisamente sentii il cancello aprirsi, un passo stridere sulla ghiaia.
“Oh! Oh!”, mi dissi, “ecco i miei amici prima di quanto
credessi. E io che non sono ancora pronto!…”.
Ma l’uomo che entrava nel cortile mi era sconosciuto.
Era, per quanto potessi distinguere, un pezzo d’uomo
barbuto, vestito come un cacciatore o un bracconiere. Anziché venirmi a trovare là dove gli altri sapevano di trovarmi
sempre all’ora dell’appuntamento, andò direttamente alla
porta d’ingresso.
“Bene!”, pensai; “è qualcuno dei loro amici che avranno
invitato senza dirmelo e che avranno inviato in avanscoperta”.
L’uomo tentò di aprire dolcemente, senza rumore, il
saliscendi della porta. Ma io l’avevo chiuso, subito dopo essere
uscito. Fece lo stesso all’entrata della cucina. Poi, esitando
un istante, girò verso di me, rischiarato dalla mezza luce, il
suo viso inquieto. E fu allora soltanto che riconobbi il grande
Meaulnes.
Per un lungo momento rimasi là, spaventato, disperato, ripreso all’improvviso da tutto il dolore risvegliato dal
253
suo ritorno. Era scomparso dietro la casa e aveva fatto il giro:
ora ritornava, esitante.
Allora avanzai verso di lui e, senza dire niente, lo
abbracciai singhiozzando. Immediatamente capì:
“Ah!”, disse con una voce secca, ”è morta, non è così?”.
E restò lì in piedi, sordo, immobile e terribile. Lo presi
per un braccio e dolcemente lo condussi in casa. Faceva
giorno, adesso. Subito, perché il più difficile fosse fatto, gli
feci salire la scala che conduceva verso la stanza della morta.
Appena entrato, cadde sulle ginocchia davanti al letto e restò
a lungo con la testa nascosta tra le braccia.
Si alzò infine, gli occhi smarriti, titubante, non sapendo
dove fosse. E, sempre guidandolo per il braccio, aprii la porta
che metteva in comunicazione quella camera con quella della
bambina. Si era svegliata da sola – mentre la sua balia era di
sotto – e deliberatamente si era seduta nella culla. Si vedeva
appena la sua testa stupita, girata verso di noi:
“Ecco tua figlia”, dissi.
Ebbe un sussulto e mi guardò.
Poi l’afferrò e la sollevò tra le braccia. Subito non
poteva vederla bene, perché piangeva. Allora, per sviare un
po’ quella grande commozione e quel fiotto di lacrime,
tenendola sempre stretta a lui, seduta sul suo braccio destro,
girò verso di me la sua testa abbassata e mi disse:
“Li ho riportati, gli altri due… Andrai a trovarli nella
loro casa”.
E in effetti all’inizio della mattinata, mentre me ne
andavo tutto pensieroso e quasi felice verso la casa di Frantz
che Yvonne de Galais mi aveva un tempo mostrata deserta,
scorsi da lontano una specie di giovane massaia col colletto
rotondo, che spazzava l’entrata della sua porta, oggetto di
curiosità e di entusiasmo per numerosi piccoli mandriani
azzimati che andavano a messa…
Intanto la bambina incominciava ad annoiarsi di essere
così stretta, e siccome Augustin, la testa china di lato per
nascondere e fermare le lacrime, continuava a non guar254
darla, lei gli mollò un gran colpo con la manina sulla bocca
barbuta e bagnata.
Questa volta il padre alzò bene in alto sua figlia, la fece
saltare al limite delle braccia e la guardò con una specie di
sorriso. Soddisfatta, lei batté le mani…
Mi ero leggermente isolato per vederli meglio. Un po’
deluso e tuttavia meravigliato, capivo che la bambina aveva
finalmente trovato in lui il compagno che aspettava oscuramente. La sola gioia che mi avesse lasciato il grande Meaulnes, sentivo bene che era ritornato a prendermela. E già lo
immaginavo, la notte, che avvolgeva sua figlia in un mantello
e partiva con lei per nuove avventure.
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LAVORIAMO SUL TESTO
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PA R T E P R I M A
Capitolo 1 - L’OSPITE
1. Leggendo hai notato che a raccontare gli eventi è un personaggionarratore che è stato, assieme con altri, protagonista delle vicende. Egli
non fa una vera e propria presentazione di se stesso, ma sulla base di ciò
che dice possiamo farci un’idea precisa della sua personalità: sapresti sintetizzare quello che apprendiamo su di lui in questo primo capitolo?
2. Un altro personaggio che occupa un certo spazio nel capitolo è la
mamma del narratore: qual è il suo ruolo nella scuola? Quali caratteri puoi individuare in lei?
3. Il personaggio chiave del romanzo, Augustin Meaulnes, sembra subito
esercitare una forza magnetica sulle persone, anche indirettamente;
rileggi queste due brevi citazioni relative alla madre di Meaulnes:
“Dove sarà finito? Mio Dio!”, diceva a bassa voce. “Era qui insieme a me un
momento fa. Ha già fatto il giro della casa. Forse è scappato…”.
E, poco oltre:
Aveva riconquistato tutta la sua sicurezza. Anzi, poiché parlava di suo figlio,
prese un’aria superiore e misteriosa che ci lasciò interdetti.
In relazione al significato delle parti citate, scegli la risposta che ritieni
più corretta tra le seguenti:
o vogliono unicamente segnalare che la signora Meaulnes è
rinfrancata poiché ha visto le persone dalle quali si era recata;
o sono state pensate dall’autore per mostrare che anche la
madre avverte la forte personalità del figlio;
o sono state pensate dall’autore per contribuire a creare un
alone di mistero attorno al personaggio di Meaulnes.
4. La vita del narratore è sconvolta dall’arrivo del grande Meaulnes:
sintetizza come egli trascorreva il tempo, dalle quattro del pomeriggio in avanti, prima e dopo l’arrivo di Meaulnes.
Prima
Dopo
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......................................................
......................................................
.......................................................
.......................................................
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Capitolo 1 - L’OSPITE
Comprensione del testo
Lingua e lessico
1. Parlando delle notti trascorse il narratore dice di ricordare l’ombra
inquieta ed amica di Meaulnes; quindi, verso la fine del capitolo, dice
che egli si inseriva nelle discussioni tra gli studenti con un misto di
inquietudine e piacere. Le parole inquieta ed inquietudine hanno una
connotazione velatamente negativa, mentre le parole amica e piacere
sono chiaramente positive. Che cosa rivelano queste espressioni
contraddittorie sullo stato d’animo del narratore?
2. Augustin Meaulnes viene soprannominato “il grande Meaulnes”;
secondo te è possibile, a questo punto della narrazione, inventare un
soprannome anche per il narratore, che alluda ovviamente al suo
carattere e alla sua personalità? Se sì, quale sceglieresti? Perché?
3. Completa la tabella scrivendo il contrario dei seguenti termini:
Significato
Contrario
sconforto
gioia
felicità
ansia
fiera
elogiare
tenebrosi
pacato
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..................................................................................
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..................................................................................
..................................................................................
..................................................................................
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Capitolo 1 - L’OSPITE
Tecniche narrative
1. Nella sequenza iniziale del capitolo vi sono tre riferimenti a Meaulnes, costituiti da brevi accenni, che hanno tuttavia l’effetto di creare
una certa suspence: il narratore infatti conosce l’intera vicenda, a
differenza del lettore che la scopre gradualmente, e questi accenni
sono quindi velati di mistero. Ritrovali e sottolineali direttamente sul
testo.
2. Il modo in cui un personaggio viene presentato è molto importante in un testo letterario, in quanto contribuisce a darci un’idea del
260
personaggio stesso. A questo proposito la presentazione di Meaulnes
è assai particolare: infatti la sua presenza viene avvertita fisicamente,
prima ancora che egli entri in scena. Riassumi in breve l’ingresso in
scena di Meaulnes.
3. Qual è stata la tua reazione dopo aver letto l’ultima frase del capitolo?
Temi e motivi
1. Il motivo dell’amicizia sarà centrale nel romanzo, ed è preannunciato dal modo schietto e franco con il quale Meaulnes si rivolge per
la prima volta al narratore, appena incontrato: che cosa gli dice? Che
cosa rivelano quelle semplici parole?
2. Un altro tema centrale del romanzo è quello della festa: leggerai
infatti che una festa, scintillante e luminosa, costituisce per molti
aspetti il nodo della vicenda. Qui il tema della festa è preannunciato
dal primo “gioco” che Augustin e François fanno assieme: di che cosa
si tratta?
1. Ti è mai capitato di conoscere una o più persone in circostanze
un po’ speciali? Pensaci bene: magari non hai conosciuto qualcuno
dei tuoi amici nei soliti ambienti, ma a seguito di qualche combinazione di circostanze e di eventi.
Prova a ricordare e a riportare i fatti, raccontando gli episodi e comunicando le tue reazioni.
2. Molti ragazzi leggono poco e, spesso, abbandonano un libro dopo
averne letto poche pagine, affermando che la trama non li coinvolge
abbastanza. Qual è la tua opinione su questo inizio di romanzo?
Esponila in breve.
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Capitolo 1 - L’OSPITE
Proposte operative
I LIOCORNI
La
gioia
di
leggere,
il
piace re
di
IL GRANDE MEAULNES
Il romanzo di Fournier è molto noto e occupa
un posto di tutto rispetto nella letteratura francese ed europea. Le tematiche affrontate
sono vicine al pubblico dei giovani perché
l'adolescenza è presentata come il momento
nel quale permane il sogno e trionfa la fantasia ereditata dall'infanzia, ma anche come
età in cui è già possibile applicare quello
sguardo sostanzialmente magico alla realtà
del mondo circostante e concreto. Si tratta,
dunque, di una condizione privilegiata, in
cui si possono cogliere proprio quelle corrispondenze tra sogni interiori e immagini
esterne.
Il grande Meaulnes affronta la tematica dell'amore, considerato come un urto tra la perfezione disincarnata della fanciulla, vista
una sola volta in un luogo di fiaba, e l'intrico
di difficoltà creato dalla vita reale. Questa
interessante angolazione e questo originale
punto di vista costituiscono un tratto di
grande modernità e attualità.
capire