IL GRANDE MEAULNES
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IL GRANDE MEAULNES
Alain-Fournier IL GRANDE MEAULNES I LIOCORNI La gioia di leggere, il piacere di capire Collana di narrativa diretta da Attilio Dughera “Ai giorni nostri, quando la letteratura è prossima a smarrire il proprio indirizzo e il raccontare le novelle sta diventando un’arte dimenticata, i ragazzi sono i lettori ideali”. Isaac Bashevis Singer ALAIN-FOURNIER IL GRANDE MEAULNES Traduzione e note di Sergio Calzone Apparati didattici di Roberto Morraglia In copertina: Pierre Bonnard - Finestra aperta - 1912, olio su tela, Nizza, Museé des Beaux-Arts Apparato didattico: Roberto Morraglia Redazione: Attilio Dughera Impaginazione: C.G.M. s.r.l. Progetto grafico: Manuela Piacenti Computer to Plate: Data Pro s.r.l. - Torino L’editore è a disposizione degli aventi diritto con i quali non gli è stato possibile comunicare, nonché per eventuali involontarie omissioni e inesattezze nella citazione delle fonti dei brani, illustrazioni e fotografie riprodotti nel presente volume. È vietata la riproduzione, anche parziale o ad uso interno o didattico, con qualsiasi mezzo, compreso stampe, copie fotostatiche, microfilm e memorizzazione elettronica se non autorizzata. L’editore potrà concedere a pagamento l’autorizzazione a riprodurre una porzione non superiore ad un decimo del presente volume. Le richieste vanno inoltrate presso la Casa Editrice. Tutti i diritti riservati Copyright© Edisco Editrice Torino - 10128 - Via Pastrengo 28 Tel. 011.54.78.80 - Fax 011.51.75.396 Indirizzo Internet: [email protected] Stampato presso: Grafica Piemontese – Volpiano (To) Ristampa 543210 PRESENTAZIONE DELLA COLLANA La collana “I Liocorni” è stata studiata con grande attenzione per far crescere il piacere della lettura e contribuire in modo positivo alla formazione culturale e letteraria, con la consapevolezza che proporre dei testi di lettura a un pubblico di giovani è impresa davvero ardua, innanzitutto perché un’esperienza negativa per un giovane può essere decisiva e rischia di gettare un’ombra lunga sul suo futuro di lettore o divenire addirittura la causa del suo allontanamento definitivo e irreversibile dal libro. I testi che propone la collana sono tutti “classici”, che hanno significato, per motivi diversi, un momento importante nella storia della letteratura e che, anche per questo, hanno una “tenuta” comprovata; sono testi che, debitamente interrogati, continuano a dare molte risposte attuali e accattivanti. In tal modo, salvaguardando il piacere della lettura, ci si può avvicinare a opere significative, a temi di grande rilevanza letteraria, ad autori non solo italiani ma di tutte le letterature, ponendo così fondamenta ben salde per quell’edificio culturale che, nel tempo, sarà destinato a consolidarsi. Con lo sguardo rivolto al passato, recente ma anche molto lontano, sono stati scelti quei testi di narrativa con un forte potere di seduzione soprattutto per un giovane studente; essi, infatti, sono un invito a percorrere gli universi della fantasia, in un mondo popolato da creature fantasiose, come il liocorno, create dalla grande letteratura di tutti i tempi: un mondo molto lontano, che i ragazzi frequentano con gioia, di cui conoscono regole e leggi, modalità e caratteri e in cui si muovono con grande disinvoltura e destrezza. Spesse volte di questi testi gli studenti possiedono già una conoscenza “indiretta”, perché a loro si sono ispirati il cinema o la televisione, che li hanno trasposti sul grande o piccolo schermo; si tratta così di compiere un’azione a ritroso, per recuperare la fonte diretta, per andare alla sorgente e potere appropriarsi in modo personale di un patrimonio letterario a nostra disposizione, senza più accontentarsi di letture parziali o già reinterpretate da altri. Questa operazione avrà il sapore della scoperta, sarà ricca di piacevoli sorprese e avrà una grande valenza culturale. ATTILIO DUGHERA INDICE ■ INTRODUZIONE 9 1. La vita di Alain-Fournier 9 2. Il • • • • grande Meaulnes La trama I temi Il sistema dei personaggi La struttura e le tecniche narrative 10 3. Bibliografia • Opere di Alain Fournier • Studi critici 18 L’apparato didattico 20 PARTE PRIMA Capitolo 1 - L’OSPITE 23 Capitolo 2 - L’EVASIONE 35 Capitolo 3 - BUSSANO AL VETRO 47 Capitolo 4 - L’AVVENTURA 59 Capitolo 5 - LA TENUTA MISTERIOSA 67 Capitolo 6 - LA STRANA FESTA 77 Capitolo 7 - FRANTZ DE GALAIS 93 PARTE SECONDA Capitolo 1 - L’IMBOSCATA 105 Capitolo 2 - LO ZINGARO A SCUOLA 115 7 Capitolo 3 - UNA DISPUTA DIETRO LE QUINTE 127 Capitolo 4 - LO ZINGARO SI TOGLIE LA BENDA 135 Capitolo 5 - ALLA RICERCA DEL SENTIERO PERDUTO 141 Capitolo 6 - LE TRE LETTERE DI MEAULNES 153 PARTE TERZA Capitolo 1 - DA FLORENTIN 163 Capitolo 2 - UN’APPARIZIONE 177 Capitolo 3 - LA GITA DI PIACERE 191 Capitolo 4 - GENTE FELICE 203 Capitolo 5 - LA “CASA DI FRANTZ” 215 Capitolo 6 - IL QUADERNO DEI COMPITI MENSILI 227 Capitolo 7 - IL SEGRETO 243 ■ LAVORIAMO SUL TESTO 259 ■ LAVORIAMO SUL ROMANZO 317 8 INTRODUZIONE ■ 1. La vita di Alain-Fournier ■ La vita di Alain-Fournier è breve, quasi priva di avvenimenti importanti ma, ciò nonostante, davvero intensa. Nasce nel 1886 a La Chapelle-d’Angillon, in Sologne, una regione della Francia centrale non lontana dalla Loira. Il suo vero nome è Henri-Alban Fournier e soltanto nei suoi scritti egli si firma con lo pseudonimo che lo rese celebre. Entrambi i genitori sono insegnanti e il giovane Henri fa le sue prime esperienze scolastiche proprio nelle classi elementari e medie che essi preparano alle superiori. Frequenta poi il liceo Voltaire a Parigi, ma il suo sogno è di diventare ufficiale di marina; si trasferisce per questo a Brest, in Bretagna, per preparare la sua ammissione alla Scuola Navale. Va però nel frattempo precisandosi la sua vocazione letteraria, tanto che, rinunciando alla Marina, continua il liceo, prima a Bourges e poi a Sceaux. Quest’ultima scuola è il luogo in cui si lega di una duratura amicizia con Jacques Rivière che diventerà un importantissimo critico letterario e che, nel 1909, sposerà la sorella di Alain-Fournier. Nel 1905 avviene un piccolo fatto, destinato però a segnare una tappa fondamentale nella vita del futuro scrittore: visitando una mostra a Parigi, il giorno dell’Ascensione, incontra lo sguardo di una ragazza meravigliosa che egli descriverà, poi, nelle sue lettere a Rivière e, in seguito, nel suo romanzo. La giovane è al braccio di una donna più anziana: egli la segue lungo le strade di Parigi, fino a che non scopre la sua abitazione, nel boulevard Saint-Germain. Da quel momento inizia un vero assedio, poiché egli non si allontana più da quel marciapiede, fino a quando non ha l’opportunità di avvicinarla e di parlarle. La ragazza, che si chiama Yvonne de Quiévrecourt ed è nata a Parigi l’anno prima di Alain, è evidentemente colpita dall’intensità del suo interesse, ma è 9 a quel tempo già fidanzata e si sposerà in capo a due anni con un medico di marina, secondo il volere del padre. Gli anni successivi saranno per il giovane Henri un periodo di studio e, poi, di servizio militare. Ma saranno anche gli anni in cui egli cercherà di scrivere racconti che utilizzino i suoi ricordi adolescenziali e soprattutto l’amore per Yvonne. Tornato dalla caserma, si impiega come redattore al Paris-Journal e ha una relazione con un’altra donna, che però finisce senza lasciargli né rimpianti, né alcun particolare arricchimento sentimentale. Nel 1910 inizia a scrivere Il grande Meaulnes e, per dedicarvisi con più concentrazione, lascia il giornale, diventando segretario di un uomo politico con la moglie del quale, Simone, attrice celebre, egli avrà una complessa relazione che servirà anche a introdurlo nei salotti letterari della capitale. Nel 1913 Alain-Fournier incontra per l’ultima volta Yvonne, ormai madre di due bambini, e ciò gli serve per prendere le distanze dalla donna reale, in modo da poterla descrivere come donna ideale nel suo romanzo. Nello stesso anno, infatti, Il grande Meaulnes è pubblicato, prima in rivista, sulla prestigiosa “Nouvelle Revue Française”, poi in volume, sfiorando la vittoria nel più importante premio letterario francese, il Goncourt. Sembra la nascita di un nuovo, grande scrittore: egli porta a termine un testo teatrale, La casa nella foresta, e inizia un secondo romanzo, Colombe Blanchet, ispirato alla sua relazione con Simone. Invece scoppia la Prima Guerra Mondiale: Henri-Alban è mobilitato nell’agosto del 1914. Inviato al fronte come tenente di fanteria, esce di pattuglia con i suoi soldati più volte, finché, il 22 settembre, nei pressi di Verdun, è ucciso in uno scontro a fuoco con i tedeschi. Ha appena ventotto anni. Il suo corpo finisce in una fossa comune germanica e, per l’esercito francese, è ufficialmente “non ritrovato”. Soltanto nel novembre del 1991 è identificato, tanto che i resti sono trasportati nel cimitero militare di Saint-Remy la Calonne, in Lorena, dove ora riposano. 2. Il grande Meaulnes ■ • La trama La tranquilla vita scolastica e familiare del giovane François Seurel è messa a soqquadro dall’arrivo, in qualità di pensionante, di 10 Augustin Meaulnes, più grande di lui e di spirito irrequieto. Il nuovo arrivato diventa ben presto uno dei personaggi più importanti della agitata popolazione scolastica del piccolo centro della Sologne in cui è ambientata la vicenda, tanto da meritarsi, da parte dei compagni stessi, il soprannome di grande Meaulnes. Poco prima di Natale, si annuncia la visita dei nonni di François e il signor Seurel incarica uno degli studenti di guidare un modesto carro, tirato da un mulo e preso a prestito, fino alla stazione ferroviaria, lontana alcuni chilometri, in modo da accogliere gli anziani genitori con i loro bagagli. Tuttavia, nel corso di una conversazione presso il fabbro del paese, Meaulnes apprende che sarebbe possibile recarsi in una città più lontana e risparmiare tempo, accompagnando gli ospiti lungo una strada più lunga, ma più diretta. Mentre la vita scolastica scorre sonnolenta, Meaulnes non si presenta alle lezioni, si fa prestare un calesse e una cavalla, e si lancia nell’avventura di sorprendere tutti, portando i nonni di François a destinazione prima del previsto. Il viaggio si rivela presto molto diverso dal previsto: la cavalla è lanciata al galoppo dall’irruente giovane; la regione gli è sconosciuta; la velocità ne confonde ulteriormente la capacità di orientamento. In breve, egli si trova fuori da ogni riferimento e incapace anche di ritornare sui suoi passi. Cercando un rifugio per la notte, capita in una strana costruzione che è stata lussuosa e ora è quasi in rovina. Qui, con gran concorso di carrozze d’epoca, si sta tenendo una curiosa festa in cui è evidente che i bambini hanno il diritto di imporsi agli adulti. Partecipando, il giorno dopo, ad una gita in battello, Meaulnes incontra una fanciulla bellissima e misteriosa: cerca di parlarle, vi riesce per brevi istanti ed apprende soltanto che si chiama Yvonne de Galais. Ormai innamorato e desideroso di corteggiare la giovane, egli non ha tuttavia altra opportunità di avvicinarla. Scopre che la festa è stata organizzata per l’imminente matrimonio del fratello di lei, Frantz, ma, poiché i promessi sposi non sono arrivati, gli invitati iniziano a ritirarsi. Meaulnes non sa come ritornare verso il paese di partenza e accetta un passaggio su una carrozza che, gli viene detto, è diretta all’incirca in quella direzione. Mentre si sta così allontanando dalla tenuta misteriosa, si ode uno sparo nel folto del bosco, ed egli vede 11 Capitolo 1 L’OSPITE ■ Si presentò a casa nostra una domenica di novembre del 189… Io continuo a dire “a casa nostra”, anche se in realtà non ci appartiene più. Ce ne siamo andati dal paese da quasi quindici anni e sono sicuro non ci ritorneremo mai più. Abitavamo negli edifici del Corso Superiore di SainteAgathe1. Mio padre, che io chiamavo signor Seurel esattamente come gli altri alunni, vi dirigeva contemporaneamente il Corso Superiore, dove si preparava il diploma di maestro, e il Corso Medio. Mia madre invece insegnava nelle classi elementari. Si trattava di una lunga casa rossa, con cinque porte a vetri sotto dei lunghi tralci di vite vergine, all’estremità del borgo: un immenso cortile con portici e lavanderia, che si apriva sul villaggio con un grande portone. Sul lato nord, c’era la strada su cui dava un piccolo cancello e che portava alla stazione, distante tre chilometri. A sud e dietro, campi, giardini e prati si congiungevano con la periferia… Questo è l’aspetto sommario della casa in cui fluirono i giorni più tormentati e più cari della mia vita, casa da cui nacquero e dove tornarono ad infrangersi, come onde contro uno scoglio solitario, le nostre avventure. 1 Sainte-Agathe: località fittizia, dietro la quale l’autore nasconde Epineuil-leFleuriel, la località della Francia centrale (dipartimento dello Cher) dove Alain-Fournier trascorse l’infanzia e che non smise mai di amare. 23 Il puro caso che regola i “trasferimenti” degli insegnanti, una decisione di un ispettore o di un prefetto ci avevano condotti là. Così, verso la fine delle vacanze, molto tempo fa, un carro contadino, che precedeva le nostre cose, ci aveva lasciati, mia madre e me, davanti al piccolo cancello arrugginito. Dei monelli che rubavano le pesche nel giardino erano fuggiti silenziosamente attraverso i buchi della siepe… Mia madre, che noi chiamavamo Millie e che era davvero la casalinga più metodica che io avessi mai conosciuto, era appena entrata in quelle stanze piene di paglia polverosa, e subito aveva compreso con disperazione, come del resto ad ogni trasloco, che i nostri mobili non ci sarebbero mai stati, in una casa così mal costruita… Era uscita per confidarmi il suo sconforto. Mentre mi parlava, aveva ripulito dolcemente con il fazzoletto il mio viso di bambino annerito dal viaggio. Poi era rientrata per fare il conto di tutte le aperture che avrebbe dovuto far chiudere per rendere abitabile l’appartamento… Quanto a me, con un grande cappello di paglia a nastri, ero rimasto là, sulla ghiaia di quel cortile sconosciuto, ad aspettare, a curiosare timorosamente intorno al pozzo e sotto il capannone. È così, almeno, che immagino oggi il nostro arrivo. Poiché, ogni volta che voglio ritrovare il ricordo remoto di quella prima serata di attesa nel nostro cortile di SainteAgathe, sono in realtà già altre le attese che mi tornano alla mente: con le mani appoggiate alle sbarre del cancello, mi vedo già spiare con ansia qualcuno che in seguito avrebbe percorso la via maestra. E se cerco di immaginare la prima notte che ho dovuto passare nella mia mansarda, tra i granai del primo piano, sono già altre le notti che ricordo: quelle in cui non sono più solo in quella stanza, ma una grande ombra inquieta ed amica va e viene lungo i muri. Tutto questo ambiente calmo – la scuola, il campo di papà Martino, con i suoi tre noci, il giardino invaso ogni giorno fin dalle quattro dalle signore 24 in visita – è per sempre, nella mia memoria, agitato, trasformato dalla presenza di colui che rivoluzionò tutta la nostra adolescenza e neppure fuggendo ci ha lasciato in pace. Eppure eravamo in quel paese già da dieci anni, quando Meaulnes arrivò. Avevo allora quindici anni. Era una fredda domenica di novembre, il primo giorno d’autunno che facesse pensare all’inverno. Per tutto il giorno Millie aveva aspettato una vettura che doveva venire dalla stazione per portarle un cappello per la brutta stagione. Quella mattina era addirittura mancata alla messa; e fino al sermone, seduto nel coro con gli altri bambini, io ero restato a guardare ansiosamente dal lato delle campane, per vederla entrare con il suo cappello nuovo. Nel pomeriggio, fui costretto ad andare da solo ai vespri2. “Del resto”, mi disse lei per consolarmi, spazzolando con la mano il mio vestito, “anche se fosse arrivato, questo cappello, avrei dovuto senz’altro passare la domenica a riaccomodarlo”. Spesso le nostre domeniche d’inverno trascorrevano proprio in quel modo. Fin dal mattino, mio padre se ne andava lontano, sul bordo di qualche stagno coperto di nebbia, in barca, a pescare i lucci; e mia madre, chiusa fino a notte nella sua camera buia, rappezzava i suoi poveri abiti. Si rinchiudeva in quel modo per il timore che qualcuna delle sue amiche, altrettanto povera e altrettanto fiera, potesse sorprenderla. Io invece, finiti i vespri, restavo a leggere nella fredda sala da pranzo, aspettando che lei aprisse la porta per mostrarmi come le stava il vestito. Quella domenica, una certa animazione davanti alla chiesa mi trattenne là davanti. Un battesimo, nell’atrio, aveva 2 vespri: funzione religiosa celebrata nel tardo pomeriggio, alle diciotto, molto seguita specie nelle comunità contadine. 25 fatto sì che si radunasse un gruppetto di ragazzi. Sulla piazza, parecchi uomini della borgata avevano indossato le loro casacche da pompieri3; dopo aver formato i fasci4, intirizziti e pestando i piedi, ascoltavano Boujardon, il brigadiere, che si confondeva, cercando di spiegare la teoria… Lo scampanio del battesimo si arrestò all’improvviso, come una suoneria festiva che avesse sbagliato giorno e luogo. Boujardon e i suoi uomini, l’arma a tracolla, portarono via la pompa5 al trotto e io li vidi scomparire alla prima svolta, seguiti da quattro ragazzini silenziosi che schiacciavano con le loro grosse suole i ramoscelli sulla strada coperta di brina, dove non osavo seguirli. In paese, non c’era allora niente di più vivo del caffè Daniel, dove sentivo montare, per poi placarsi, le discussioni dei bevitori. E, rasentando il muro basso del grande cortile che separava la nostra casa dal villaggio, arrivai, un po’ ansioso per il mio ritardo, al piccolo cancello. Era socchiuso e vidi subito che succedeva qualcosa di insolito. In effetti, alla porta della sala da pranzo – la più vicina delle cinque porte a vetri che davano sul cortile – una donna dai capelli grigi, china, cercava di vedere attraverso le tende. Era piccola e aveva in testa un antiquato cappellino di velluto nero. Aveva un viso magro e sottile, ma sconvolto dall’in- 3 pompieri: si tratta del corpo dei Vigili del Fuoco che ha sempre goduto, e ancora gode, in Francia, di grande popolarità. Nei piccoli centri è costituito da volontari che vengono addestrati di domenica, quando sono liberi da impegni lavorativi. 4 fasci: i pompieri hanno evidentemente deposto la propria attrezzatura, zappe e asce, in un sol punto dell’improvvisato accampamento, appoggiando gli attrezzi gli uni agli altri, a formare un fascio, proprio come fanno i soldati con i loro fucili. 5 pompa: all’inizio del Novecento, la pompa per gettare acqua sugli incendi era ancora costituita da un carro cisterna con un faticoso sistema di pompaggio a mano. Tale attrezzo era l’orgoglio di ogni corpo di Vigili del Fuoco e veniva esibito durante ogni addestramento. 26 quietudine; e non so quale apprensione, nel vederla, mi bloccò sul primo gradino, davanti al cancello. “Dove sarà finito? Mio Dio!”, diceva a bassa voce. “Era qui insieme a me un momento fa. Ha già fatto il giro della casa. Forse è scappato…”. E, tra una frase e l’altra, dava tre colpetti appena percettibili sul vetro. Nessuno veniva ad aprire alla visitatrice sconosciuta. Millie, senza dubbio, aveva ricevuto il cappello dalla stazione e, senza sentire nulla, in fondo alla stanza rossa, davanti ad un letto disseminato di vecchi nastri e di piume stirate, cuciva, scuciva, ricostruiva il suo mediocre copricapo… In effetti, quando entrai nella sala da pranzo, immediatamente seguito dalla visitatrice, mia madre apparve, tenendo con le due mani sulla testa dei fili di ottone, dei nastri e delle piume che non erano ancora perfettamente equilibrati… Mi sorrise con i suoi occhi stanchi per aver lavorato fino a sera ed esclamò: “Guarda! Ti aspettavo per farti vedere…”. Ma, scorgendo quella donna seduta nella poltrona grande, in fondo alla sala, si fermò, sconcertata. Molto rapidamente si tolse il cappello e, durante tutta la scena che seguì, lo tenne contro il petto, rovesciato come un nido, nell’incavo del braccio destro. La donna col cappellino, che teneva tra le ginocchia un ombrello e una borsa di cuoio, aveva incominciato a dare spiegazioni, muovendo leggermente la testa e facendo schioccare la lingua come una signora in visita. Aveva riconquistato tutta la sua sicurezza. Anzi, poiché parlava di suo figlio, prese un’aria superiore e misteriosa che ci lasciò interdetti. Erano entrambi venuti in carrozza da La Ferté d’Angillon6, a quattordici chilometri da Sainte-Agathe. Vedova – 6 La Ferté d’Angillon: nella realtà, La-Chapelle-d’Angillon, paese natale di Alain-Fournier. 27 e molto ricca, da ciò che ci fece capire – aveva perduto il minore dei suoi due figli, Antoine, morto una sera al ritorno da scuola, per essersi bagnato con suo fratello in uno stagno malsano. Aveva deciso di mettere il primogenito, Augustin, in pensione da noi affinché potesse frequentare il Corso Superiore. Cominciò subito ad elogiare l’ospite che ci portava. Non sembrava più la donna dai capelli grigi che avevo visto curva davanti alla porta, un minuto prima, con l’aria supplicante e stravolta della chioccia che abbia perduto il pulcino selvatico della covata. Ciò che raccontava con ammirazione del figlio era davvero sorprendente: gli piaceva farla contenta e a volte poteva seguire il bordo del fiume, a gambe nude, per chilometri, pur di portarle delle uova di gallinelle d’acqua, di anatre selvatiche, perdute tra le ginestre… Tendeva anche le reti… L’altra notte, aveva scoperto nel bosco una fagiana presa al cappio… Io che non osavo più tornare a casa quando avevo uno strappo nella camicia, guardavo Millie attonito. Ma mia madre non ascoltava più. Fece addirittura segno alla signora di stare zitta e, posando con cura il suo “nido” sul tavolo, si alzò silenziosamente come per sorprendere qualcuno… Sopra di noi, infatti, in uno sgabuzzino dove si ammucchiavano i fuochi d’artificio anneriti dell’ultimo Quattordici Luglio7, un passo sconosciuto, sicuro, andava e veniva, facendo tremare il soffitto; attraversava gli immensi granai 7 Quattordici Luglio: si tratta della festa nazionale francese, in ricordo della presa della Bastiglia, il 14 luglio 1789, uno dei primi atti della Rivoluzione Francese. In simili occasioni, si festeggia nelle strade, la mattina con una parata militare o dei vigili del fuoco; il pomeriggio con grandi bevute; la sera con balli in piazza. Al termine, quasi ogni paese e città di Francia offre ai cittadini uno spettacolo di fuochi d’artificio. 28 tenebrosi del primo piano e si perdeva infine verso le camere abbandonate dei supplenti, dove mettevamo a seccare il tiglio8 e a maturare le mele. “È già da un po’ che sento questo rumore nelle camere al pianterreno”, disse Millie a bassa voce, “e credevo che fossi tu, François, che fossi rientrato…”. Nessuno rispose. Eravamo tutti e tre in piedi, con il batticuore, quando la porta del granaio che dava sulla scala della cucina si aprì; qualcuno scese i gradini, attraversò la cucina e si presentò nell’entrata buia della sala da pranzo. “Sei tu, Augustin?” disse la signora. Era un ragazzone di circa diciassette anni. Subito, di lui, non vidi, nell’oscurità che calava, che il suo cappello di feltro da contadino calzato all’indietro e la sua blusa nera stretta con una cintura, come le portano gli scolari. Potei distinguere anche che sorrideva… Egli mi intravide e, prima che qualcuno potesse chiedergli delle spiegazioni: “Vieni in cortile?”, disse. Esitai un secondo. Poi, siccome Millie non mi tratteneva, presi il mio berretto e andai verso di lui. Uscimmo dall’uscio della cucina, nel portico che l’oscurità aveva già invaso. Alla luce del crepuscolo, osservai, camminando, il suo viso angoloso con il naso diritto e il labbro coperto di peluria. “Tieni”, disse, “l’ho trovato nel tuo granaio. Non ci avevi mai guardato?”. Teneva in mano una piccola ruota di legno annerito; un cordone di razzi a brandelli le correva tutto intorno; doveva essere stata il sole o la luna dei fuochi artificiali del Quattordici Luglio. 8 tiglio: albero la cui infiorescenza è molto apprezzata in Francia anche ai giorni nostri come materia prima per infusi rilassanti, normalmente bevuti nel tardo pomeriggio, al posto del tè, o nel dopo cena. 29 “Ce ne sono due che non si sono accesi: adesso gli diamo fuoco”, disse con un tono pacato e con l’aria di qualcuno che spera di trovare qualcosa di meglio in seguito. Gettò il suo berretto per terra e vidi che aveva i capelli completamente rasati, come un contadino. Mi mostrò i due razzi con le loro estremità di miccia di carta che la fiamma aveva accorciato, annerito e poi abbandonato. Piantò nella sabbia il mozzo della ruota, estrasse dalla tasca – con mio grande stupore, poiché ci era stato formalmente proibito possederne – una scatola di fiammiferi. Chinandosi con precauzione, diede fuoco alla miccia. Poi, prendendomi per mano, mi tirò energicamente indietro. Un istante dopo mia madre, che stava affacciata sulla porta insieme alla madre di Meaulnes, dopo aver discusso e fissato il prezzo della pensione, vide sprizzare sotto il portico, con un rumore di mantice, due fontane di stelle rosse e bianche; poté scorgermi, per lo spazio di un secondo, vestito del loro scintillio, mentre, senza muovermi, tenevo per mano il ragazzone appena arrivato… Anche questa volta non osò dire niente. E la sera, a cena, ci fu, alla tavola di famiglia, un compagno silenzioso che mangiava, la testa bassa, senza preoccuparsi dei nostri tre sguardi fissi su di lui. Fino ad allora, non ero mai stato molto a correre per le strade con i ragazzi del paese. Una coxalgia9, di cui ho sofferto fin verso il 189…, mi aveva fatto diventare timoroso e infelice. Mi vedo ancora inseguire gli scolari svelti nelle stradine intorno a casa, saltellando miseramente su una gamba… Così non mi si lasciava molto uscire. E ricordo che Millie, che era molto fiera di me, mi aveva ricondotto più di una volta a casa, a suon di scapaccioni, per avermi incon- 9 coxalgia: o cossalgia. Infiammazione delle ossa dell’anca, dolorosa e invalidante. 30 trato, mentre saltavo su un piede solo, in compagnia dei teppistelli peggiori del villaggio. L’arrivo di Augustin Meaulnes, che coincise con la mia guarigione, fu l’inizio di una nuova vita. Prima che arrivasse, quando la scuola era finita, per me alle quattro incominciava una lunga serata di solitudine. Mio padre trasportava il fuoco della stufa della classe nel camino della nostra sala da pranzo; a poco a poco gli ultimi ragazzini ritardatari abbandonavano la scuola diventata fredda, dove il fumo si avvolgeva in vortici. C’era ancora qualche gioco, delle corse in cortile; poi arrivava la notte. I due scolari che avevano spazzato la classe cercavano sotto il capannone i loro cappucci e le mantelline, ed andavano via in fretta, con il cestino al braccio, lasciando aperto il grande portone… Allora, fino a quando c’era un po’ di luce, restavo al fondo del municipio, rinchiuso nello stanzino degli archivi pieno di mosche morte, di manifesti che sventolavano, e leggevo seduto su una vecchia bilancia, vicino ad una finestra che dava su un giardino. Quando faceva buio, i cani della fattoria vicina incominciavano a ululare e il vetro della nostra cucina si illuminava; così, alla fine, rientravo. Mia madre aveva incominciato a preparare la cena. Io salivo tre gradini della scala del granaio; mi sedevo senza dire niente e, la testa appoggiata alle sbarre fredde della ringhiera, la guardavo accendere il fuoco nella angusta cucina dove vacillava la fiamma di una candela. Ma qualcuno è venuto a togliermi da tutto questo piacere di bambino tranquillo. Qualcuno ha spento la candela che illuminava per me il dolce viso materno chino sul pasto della sera. Qualcuno ha spento la lampada intorno alla quale noi eravamo una famiglia felice, alla sera, quando mio padre aveva appeso le imposte di legno alle porte a vetri. E costui fu Augustin Meaulnes che gli altri scolari chiamarono presto il grande Meaulnes. Da quando egli incominciò ad essere pensionante da noi, cioè dai primi giorni di dicembre, la scuola cessò di essere 31 deserta, la sera dopo le quattro. Malgrado il freddo della porta a battenti, le grida degli spazzini e i loro secchi d’acqua, c’era sempre in classe, dopo le lezioni, una ventina di allievi grandi, sia della campagna, sia del villaggio, stretti intorno a Meaulnes. Ed erano lunghe discussioni, delle dispute interminabili al centro delle quali io mi infilavo con inquietudine e piacere. Meaulnes non diceva niente; ma era per lui che ad ogni istante uno dei più chiacchieroni si portava al centro del gruppo e, prendendo a testimone di volta in volta qualcuno dei suoi compagni, che l’approvavano rumorosamente, raccontava qualche lunga storia di razzie, che tutti gli altri seguivano, la bocca aperta, ridendo silenziosamente. Seduto su un banco, dondolando le gambe, Meaulnes rifletteva. Al momento buono, anche lui rideva, ma dolcemente, come se si fosse riservato il fragore delle risate per qualche storia migliore, conosciuta da lui solo. Poi, scesa la notte, quando il chiarore dei vetri dell’aula non illuminava più il gruppo confuso dei ragazzi, Meaulnes si alzava improvvisamente e attraversando il cerchio stretto intorno a lui: “Andiamo, in cammino!”, gridava. Allora tutti lo seguivano e si sentivano i loro schiamazzi fino a notte fonda, nel borgo là in alto… Mi capitava adesso di accompagnarli. Con Meaulnes, andavo alla porta delle stalle dei sobborghi, all’ora in cui si mungevano le mucche… Entravamo nelle botteghe e, dal fondo dell’oscurità, tra due scricchiolii del suo telaio, il tessitore diceva: “Ecco gli studenti!”. Generalmente, all’ora di cena, ci trovavamo al Corso, da Desnoues, il carraio, che era anche maniscalco. La sua bottega era una vecchia locanda, con grandi porte a due battenti che erano lasciate aperte. Dalla strada si sentiva stridere il mantice10 della fucina e si intravedeva talvolta al 10 mantice: strumento che, dopo essersi riempito d’aria, la soffia sul fuoco, 32 bagliore del braciere, in quel luogo buio e tintinnante, gente della campagna che aveva fermato la vettura per conversare un momento, altre volte uno studente come noi, appoggiato alla porta, che guardava senza parlare. E fu là che tutto ebbe inizio, circa otto giorni prima di Natale. per ravvivare la fiamma. Era tipico delle botteghe dei fabbri che dovevano riscaldare il ferro fino a renderlo rosso, per poterlo sagomare a piacere. 33 era fuggito dal castello dei genitori senza che si potesse mai ritrovarlo e la ragazza si è sposata. Questo spiega perché l’appartamento è chiuso”. Sono andato via. Dopo dieci passi i miei piedi sono inciampati nel marciapiede e ho rischiato di cadere. La notte – era la notte scorsa – quando infine i bambini e le donne hanno taciuto nei cortili per lasciarmi dormire, ho cominciato a sentire correre le carrozze a cavalli nella via. Non passavano che di tanto in tanto. Ma quando una era passata, mio malgrado, aspettavo l’altra: il sonaglio, i passi del cavallo che schioccavano sull’asfalto… E questo mi ripeteva: la città è deserta, il tuo amore perduto, la notte interminabile, l’estate, la febbre… Seurel, amico mio, sono veramente disperato. AUGUSTIN Lettera poco confidenziale, anche se lo sembrava! Meaulnes non mi diceva né perché fosse rimasto così a lungo silenzioso, né che cosa contasse di fare ora. Ebbi l’impressione che rompesse con me, perché la sua avventura era finita, come rompeva con il suo passato. Ebbi un bello scrivergli, in effetti: non ricevetti più risposta. Una parola di felicitazioni soltanto, quando ottenni il Brevet Simple3. A settembre seppi da un compagno di scuola che Meaulnes era venuto in vacanza da sua madre a La Ferté-d’Angillon. Ma dovemmo, quell’anno, invitati da mio zio Florentin di Vieux-Nançay, trascorrere da lui le vacanze. E Meaulnes ripartì per Parigi senza che avessi potuto vederlo. Al ritorno a scuola, esattamente verso la fine di novembre, mentre mi ero rimesso con un cupo ardore a preparare il Brevet Supérieur, nella speranza di essere nominato maestro l’anno seguente, senza passare dalla Scuola Normale4 di Bourges, ricevetti l’ultima delle tre lettere che abbia mai ricevuto da Augustin: 3 Brevet Simple: il Diploma Inferiore. 4 Scuola Normale: cfr. nota 1 a pag. 141. 159 Passo ancora sotto quella finestra. Aspetto ancora, senza la minima speranza, per pazzia. Al termine di quelle fredde domeniche autunnali, nel momento in cui sta per fare notte, non posso decidermi a rientrare, a chiudere le imposte della mia stanza, senza essere ritornato laggiù, nella strada ghiacciata. Sono come quella pazza di Sainte-Agathe che usciva ogni minuto sulla soglia e guardava, la mano sugli occhi, dal lato della stazione, per vedere se suo figlio morto arrivasse. Seduto sulla panca, battendo i denti, miserabile, mi piace immaginare che qualcuno stia per prendermi dolcemente per il braccio… Mi volterei. Sarebbe lei. “Sono un po’ in ritardo”, direbbe semplicemente. E tutta la pena e tutta la pazzia svanirebbero. Entriamo nella nostra casa. La sua pelliccia è tutta gelata, la sua veletta bagnata; porta con sé l’odore della bruma di fuori; e mentre si avvicina al fuoco, vedo i suoi capelli biondi brinati, il suo bel profilo dal disegno così dolce chino sulla fiamma… Ahimè! Il vetro resta bianco per la tenda che c’è dietro. E se la ragazza della proprietà perduta l’aprisse, adesso non avrei più niente da dirle. La nostra avventura è finita. L’inverno di quest’anno è morto come la tomba. Forse quando moriremo, forse la morte sola ci darà la chiave e il seguito e la fine di questa avventura fallita. Seurel, ti domandavo tempo fa di pensare a me. Ora, invece, sarebbe meglio dimenticarmi. Sarebbe meglio dimenticare tutto. A. M. E fu un nuovo inverno, tanto morto, quanto il precedente era stato vivo, di una vita misteriosa: la piazza della chiesa senza zingari; il cortile della scuola che i ragazzi disertavano alle quattro… l’aula dove studiavo solo e senza gusto… A febbraio, per la prima volta nell’inverno, la neve cadde, seppellendo definitivamente il nostro romanzo di avventure dell’anno passato, ingarbugliando tutte le piste, cancellando le ultime tracce. E io mi sforzai, come Meaulnes mi aveva domandato nella sua lettera, di dimenticare tutto. 160 ■ PA R T E T E R Z A Capitolo Capitolo Capitolo Capitolo Capitolo Capitolo Capitolo 1 2 3 4 5 6 7 - DA FLORENTIN UN’APPARIZIONE LA GITA DI PIACERE GENTE FELICE LA “CASA DI FRANTZ” IL QUADERNO DEI COMPITI MENSILI IL SEGRETO Alfred Sisley, Veduta di Moret-sur-Loing Capitolo 1 DA FLORENTIN ■ Fumare sigarette, mettersi l’acqua zuccherata sui capelli perché si arriccino, baciare le ragazze del Cours Complémentaire nei sentieri e gridare “cornuta” da dietro la siepe per ridere della suora1 che passa, era la gioia di tutti i tipacci del paese. A vent’anni d’altronde i tipacci di quella specie possono emendarsi del tutto e diventano talvolta giovani molto sensibili. Il caso è più grave quando il tipo in questione ha una figura già vecchiotta e appassita, quando si occupa delle storie losche delle donne del paese, quando dice di Gilberte Poquelin mille sciocchezze per far ridere gli altri. Ma, in fondo, il caso non è ancora disperato… Era questa la situazione di Jasmin Delouche. Continuava, non so perché, ma certamente senza alcun desiderio di superare gli esami, a seguire il Cours Supérieur che tutti avrebbero voluto vedergli abbandonare. Nel frattempo, imparava con suo zio Dumas il mestiere di intonacatore. E presto quel Jasmin Delouche, con Boujardon e un altro ragazzo molto dolce, il figlio del supplente, che si chiamava Denis, furono i soli allievi grandi che mi piacesse frequentare, perché erano “del tempo di Meaulnes”. C’era, del resto, in Delouche un desiderio molto sincero di essere mio amico. Per farla breve, lui che era stato il nemico del grande Meaulnes, avrebbe voluto diventare il 1 cornuta… suora: l’ordine della Carità impone alle sue suore una cuffia dalle ali alte e simili ai palchi delle corna di un daino. Di qui l’appellativo oltraggioso. 163 grande Meaulnes della scuola: almeno rimpiangeva, forse, di non essere stato il suo luogotenente. Meno ignorante di Boujardon, aveva sentito, penso, tutto ciò che Meaulnes aveva portato di straordinario nella nostra vita. E spesso gli sentivo ripetere: “Diceva bene, il gran Meaulnes…”; o, ancora, “Ah! il gran Meaulnes diceva…”. Oltre ad essere più uomo di noi, Jasmin, il vecchio ragazzino, disponeva di tesori di divertimento che consacravano la sua superiorità rispetto a noi: un cane di razza mista, dal lungo pelo bianco, che rispondeva al nome irritante di Bécali e riportava le pietre che si lanciavano lontano, senza avere una attitudine più netta per nessun altro sport; una vecchia bicicletta comprata d’occasione e sulla quale Jasmin ci faceva qualche volta salire, la sera dopo le lezioni, ma con la quale preferiva far esercitare le ragazze del paese; infine e soprattutto, un asino bianco e cieco che poteva essere attaccato a qualunque veicolo. Era l’asino di Dumas, ma lo prestava a Jasmin quando andavamo a fare il bagno allo Cher2, in estate. Sua madre in quell’occasione ci dava una bottiglia di limonata che noi mettevamo sotto il sedile, tra i calzoncini da bagno asciutti. E partivamo, otto o dieci allievi grandi del corso, accompagnati dal signor Seurel, gli uni a piedi, gli altri arrampicati sulla vettura trainata dall’asino, che poi si lasciava alla fattoria di Grand’Fons, nel momento in cui il sentiero dello Cher diventava troppo accidentato. Riesco a ricordarmi nei minimi dettagli una passeggiata di quel genere, in cui l’asino di Jasmin conduceva allo Cher i nostri calzoncini, i bagagli, la limonata e il signor Seurel, mentre noi lo seguivamo a piedi, stando dietro. Eravamo nel mese di agosto e avevamo appena passato gli 2 Cher: fiume della Francia centro-occidentale, lungo 320 km. e affluente di sinistra della Loira. 164 esami. Liberati di quella preoccupazione, ci sembrava che tutta l’estate, tutta la felicità ci appartenessero, e camminavamo sulla strada, cantando senza sapere né che cosa, né perché, all’inizio di un bel pomeriggio di giovedì. Ci fu all’andata una sola ombra su quel quadretto innocente. Intravedemmo che ci camminava davanti Gilberte Poquelin. Aveva la vita ben in risalto, una gonna semi-lunga, scarpe alte, l’aria dolce e sfrontata di una bambina che diventa ragazza. Lasciò la strada e prese un sentiero fuori mano, per andare a cercare del latte, senza dubbio. Il piccolo Coffin propose subito a Jasmin di seguirla. “Non sarebbe la prima volta che la bacerei…”, disse l’altro. E si mise a raccontare su di lei e sulle sue amiche numerose storie scollacciate, mentre tutto il gruppo, per spacconata, si inoltrava nel sentiero, lasciando il signor Seurel continuare davanti sulla strada, nella vettura trainata dall’asino. Una volta là, tuttavia, il gruppo cominciò a sgranarsi. Delouche stesso sembrava poco ansioso di affrontare davanti a noi la ragazza che camminava svelta e non si avvicinò a più di cinquanta metri. Ci fu qualche schiamazzo di galli e galline, dei fischi galanti, poi tornammo sui nostri passi, un po’ a disagio, abbandonando la partita. Sulla strada in pieno sole bisognò correre. Non cantavamo più. Ci svestimmo e ci rivestimmo nei saliceti aridi che fiancheggiano lo Cher. I salici ci proteggevano dagli sguardi, ma non dal sole. I piedi nella sabbia e nella melma inaridita, non pensavamo che alla bottiglia di limonata della vedova Delouche, che si stava rinfrescando nella fontana di Grand’Fons, una fontana scavata nella riva stessa dello Cher. C’erano sempre, sul fondo, delle erbe glauche e due o tre bestie simili a degli onischi3; ma l’acqua era così limpida, così traspa- 3 onischi: piccoli crostacei che vivono sotto i sassi sommersi e che si appallottolano, per difesa, quando sono toccati. 165 rente, che i pescatori non esitavano a inginocchiarsi, le mani sui bordi, per bervi. Ahimè! Quel giorno fu come gli altri… Quando, tutti vestiti, ci mettevamo in cerchio, le gambe incrociate alla turca, per dividerci in due grezzi bicchieri senza gambo la limonata raffreddata, a ciascuno toccava soltanto, dopo aver invitato il signor Seurel a prendere la sua parte, un po’ di schiuma che pizzicava la gola e non faceva che stimolare la sete. Allora, a turno, andavamo alla fontana che avevamo prima disprezzato e avvicinavamo lentamente il viso alla superficie di acqua pura. Ma non tutti erano abituati a quelle usanze da uomini dei campi. Molti, come me, non arrivavano a togliersi la sete: gli uni perché non amavano l’acqua, altri perché avevano la gola chiusa per la paura di mandare giù un onisco, altri, ingannati dalla grande trasparenza dell’acqua immobile e non sapendo calcolare esattamente la superficie, vi si bagnavano metà del viso insieme alla bocca, e aspiravano acremente dal naso un’acqua che sembrava loro bruciante, altri infine per tutte queste ragioni insieme… Non aveva importanza! Ci sembrava, su quelle rive aride dello Cher, che tutta la freschezza terrestre fosse racchiusa in quel luogo. E ancora adesso, alla sola parola fontana, pronunciata non importa dove, è a quella che ripenso. Il ritorno si fece all’imbrunire, con spensieratezza dapprima, come all’andata. Il sentiero di Grand’Fons che risaliva verso la strada d’inverno era un ruscello e d’estate un vallone impraticabile, interrotto da buche e grosse radici, che saliva nell’ombra tra grandi siepi di alberi. Una parte dei bagnanti vi si inoltrò per gioco. Ma noi seguimmo, con il signor Seurel, Jasmin e numerosi compagni, un sentiero dolce e sabbioso, parallelo a quello, che fiancheggiava il terreno vicino. Sentivamo parlare e ridere gli altri, vicino a noi, sopra di noi, invisibili nell’ombra, mentre Delouche raccontava le sue storie da uomo… Sulle cime degli alberi della grande siepe crepitavano gli insetti della sera che si vedevano, contro il chiaro del cielo, 166 mentre si agitavano intorno alle merlature del fogliame. Talvolta ne precipitava uno, bruscamente, e il suo ronzio diventava stridente all’improvviso. – Bella sera d’estate, calma!… Era il ritorno, senza speranza ma senza desiderio, da una povera scampagnata… Fu ancora Jasmin, senza volerlo, che disturbò quella quiete… Nel momento in cui arrivammo alla sommità del pendio, nel punto in cui restano due grosse e vecchie pietre che si dicono essere i resti di una roccaforte, incominciò a parlare delle proprietà che aveva visitato e specialmente di una tenuta semi abbandonata nei dintorni di Le VieuxNançay: la tenuta dei Sablonnières. Con quell’accento dell’Allier4 che arrotonda vanitosamente certe parole e abbrevia con ricercatezza le altre, raccontava di aver visto qualche anno prima, nella cappella in rovina di quella vecchia proprietà, una pietra tombale sulla quale erano incise queste parole: Qui giace il cavalier Galois Fedele al suo Dio, al suo Re, alla sua Bella “Ah! Beh! Guarda!”, diceva il signor Seurel, con una leggera alzata di spalle, un po’ imbarazzato dal tono che prendeva la conversazione, ma desideroso tuttavia di lasciarci parlare come degli uomini. Allora Jasmin continuò a descrivere quel castello, come se vi avesse passato la vita. Più volte, ritornando da Le Vieux-Nançay, Dumas e lui erano rimasti incuriositi dalla vecchia torretta grigia che si scorgeva sopra gli abeti. C’era là, al centro del bosco, tutto un dedalo di costruzioni in rovina che si potevano visitare in assenza dei proprietari. Un giorno, un guardiano del luogo, che avevano fatto salire sulla loro vettura, li aveva condotti nella 4 Allier: cfr. nota 1 a pag. 128. 167 strana tenuta. Ma dopo di allora avevano fatto abbattere tutto; si diceva che non restasse altro che la fattoria e una piccola casa di vacanza. Gli abitanti erano sempre gli stessi: un vecchio ufficiale in pensione, mezzo rovinato, e sua figlia. Parlava… Parlava… Io ascoltavo attentamente, sentendo senza rendermi conto che si trattava di una cosa da me ben conosciuta, quando all’improvviso, molto semplicemente, come si fanno le cose straordinarie, Jasmin si girò verso di me e, toccandomi il braccio, colpito da un’idea che non gli era mai venuta: “Guarda un po’, ma dev’essere stato là”, disse, “che Meaulnes – sai, il grande Meaulnes? – doveva essere andato…”. “Ma sì”, aggiunse, poiché io non rispondevo, “mi ricordo che il guardiano parlava del figlio di quella casa, un eccentrico, che aveva delle idee straordinarie…”. Non lo ascoltavo più, persuaso fin dall’inizio che avesse intuito giusto e che davanti a me, lontano da Meaulnes, lontano da tutta la speranza, si stesse aprendo, netto e facile come una strada familiare, il sentiero della Tenuta senza nome. Tanto ero stato infelice, sognatore e chiuso in me stesso, tanto divenni risoluto e, come si dice da noi, “deciso”, quando sentii che dipendeva da me la soluzione di quella vera e propria avventura. Credo che fu proprio a partire da quella sera, che il mio ginocchio cessò definitivamente di farmi male. A Le Vieux-Nançay, che era il comune nel cui territorio sorgeva la proprietà delle Sablonnières, abitava tutta la famiglia del signor Seurel e in particolare mio zio Florentin, un commerciante da cui trascorrevamo qualche volta la fine di settembre. Liberato da tutti gli esami, non volli attendere oltre ed ottenni di andare immediatamente a trovare mio zio. Ma decisi di non far sapere nulla a Meaulnes fino a quando non fossi stato certo di potergli annunciare qualche buona notizia. Per quale motivo, in effetti, strapparlo alla sua disperazione per rituffarvelo in seguito forse più profondamente? 168 Le Vieux-Nançay fu per molto tempo il luogo al mondo che preferivo, il paese della fine delle vacanze, dove non andavamo se non raramente, quando si trovava una vettura da affittare per condurci là. C’era stato un tempo qualche disaccordo con la branca della famiglia che abitava laggiù, e per questo senza dubbio Millie si faceva tanto pregare ogni volta per salire in vettura. Ma io, io non mi preoccupavo affatto di quei dissapori!… E, appena arrivato, mi perdevo e mi trastullavo tra gli zii, le cugine e i cugini, in un’esistenza fatta di mille occupazioni divertenti e di piaceri che mi avvincevano. Abitavamo da zio Florentin e zia Julie, che avevano un ragazzo della mia età, il cugino Firmin, e otto figlie, di cui le maggiori, Marie-Louise e Charlotte, potevano avere diciassette e quindici anni. Gestivano un grandissimo magazzino a una delle entrate di quel paese della Sologne5, davanti alla chiesa – un magazzino universale, dove si rifornivano tutti i castellani-cacciatori della regione, isolati in quel territorio sperduto, a trenta chilometri da qualunque stazione. Quel magazzino, con i suoi banconi di drogheria e di teleria, dava con numerose finestre sulla strada e, con la porta a vetri, sulla grande piazza della chiesa. Ma, cosa strana, sebbene abbastanza ordinaria in quel paese povero, il pavimento era di terra battuta in tutta la bottega. Nel retro, c’erano sei camere, ognuna riempita di una sola e unica merce: la camera dei cappelli, la camera del giardinaggio, la camera delle lampade… cos’altro? Mi sembrava, quando ero bambino e attraversavo quel dedalo di oggetti da bazar, che non avrei mai finito di guardare tutte quelle meraviglie. E, a quell’epoca ancora, trovavo che non ci fossero delle vere vacanze, se non quelle trascorse in quel luogo. La famiglia viveva in una grande cucina la cui porta si apriva sul magazzino – cucina dove brillavano alla fine di 5 Sologne: cfr. nota 1 a pag. 69. 169 settembre delle grandi fiammate del caminetto, dove i cacciatori e i bracconieri che vendevano della selvaggina a Florentin venivano di primo mattino a farsi servire da bere, mentre le bambine, già alzate, correvano, gridavano, si passavano le une con le altre del “profumo” sui loro capelli lisci. Ai muri, vecchie fotografie di vecchi gruppi scolastici ingialliti mostravano mio padre – ci voleva tempo a riconoscerlo in uniforme – al centro dei suoi compagni della Scuola Normale… Era là che trascorrevamo le mattinate; e anche nel cortile, dove Florentin faceva crescere le dalie e allevava le faraone; dove si tostava il caffè, seduti su delle scatole di sapone; dove si estraeva dalle casse ricevute ogni sorta di oggetti diversi, accuratamente impacchettati e di cui non sapevamo sempre il nome… Per tutta la giornata, il magazzino era invaso da contadini o da cocchieri dei castelli posti nei dintorni. Alla porta a vetri si fermavano e sgocciolavano, nella nebbia di settembre, delle carrette, venute dal fondo della campagna. E dalla cucina ascoltavamo quello che dicevano i contadini, curiosi di tutte le loro storie… Ma la sera, dopo le otto, quando con delle lanterne si portava il fieno ai cavalli la cui pelle fumava nella scuderia – tutto il magazzino ci apparteneva! Marie-Louise, che era la più vecchia delle mie cugine ma una delle più piccole, finiva di piegare e sistemare le pile di panni nella bottega; ci incoraggiava ad andare a distrarla. Allora, Firmin ed io, con tutte le ragazze, facevamo irruzione nella grande bottega, sotto le lampade dell’albergo, girando i macinacaffè, facendo delle prove di forza sui banconi; e talvolta Firmin andava a cercare nei granai, poiché la terra battuta invitava alla danza, qualche vecchio trombone, tutto ossidato di verde6… 6 ossidato di verde: l’ottone, con cui è appunto costruito lo strumento a fiato citato, a contatto con l’umidità sviluppa una caratteristica ossidazione color verde. 170 Arrossisco ancora all’idea che, gli anni precedenti, la signorina de Galais fosse potuta venire a quell’ora e sorprenderci nel mezzo di quelle bambinate… Ma fu un po’ prima del calar della notte, una sera del mese di agosto, mentre parlavo tranquillamente con Marie-Louise e Firmin, che la vidi per la prima volta… Dalla sera del mio arrivo a Le Vieux-Nançay, avevo interrogato mio zio Florentin sulla proprietà delle Sablonnières. “Non è più una proprietà”, aveva detto. “Hanno venduto tutto e gli acquirenti, dei cacciatori, hanno fatto abbattere i vecchi edifici per ingrandire i loro terreni di caccia; il cortile padronale, adesso, non è più che una landa di erica e ginestre. I vecchi proprietari non hanno conservato che una piccola casa a un piano e la fattoria. Avrai certo l’occasione di vedere qui la signorina de Galais; viene lei stessa a fare la spesa, sia in sella, sia in vettura, ma sempre con lo stesso cavallo, il vecchio Bélisaire… È un curioso equipaggio!”. Ero così scosso, che non sapevo più quale domanda fare per saperne di più. “Ma erano ricchi, non è vero?”. “Sì. Il signor de Galais dava delle feste per divertire suo figlio, un ragazzo strano, pieno di idee eccentriche. Per distrarlo, ideava ciò che poteva. Faceva venire dei parigini… ragazzi di Parigi e di altri luoghi… “Tutte le Sablonnières erano in rovina, la signora de Galais era vicina alla fine, ma ancora cercavano di divertirlo e soddisfacevano tutte le sue fantasie. È stato l’ultimo inverno – no, l’altro inverno – che hanno fatto la loro più grande festa in costume. Avevano invitato per metà persone di Parigi e per metà persone dalla campagna. Avevano comprato o affittato una quantità di abiti meravigliosi, giochi, cavalli, battelli. Sempre per divertire Frantz de Galais. Si diceva che stesse per sposarsi e che si festeggiasse il suo fidanzamento. Ma era davvero troppo giovane. E tutto si è rotto di colpo; lui si è salvato ma non lo si è mai più rivisto… La castellana 171 è morta e la signorina de Galais è rimasta improvvisamente tutta sola con il padre, il vecchio capitano di vascello”. “Non si è sposata?”, domandai infine. “No”, disse, “non ho sentito dire niente in proposito. Saresti un pretendente?”. Tutto sconcertato, gli confessai il più rapidamente e discretamente possibile che il mio migliore amico, Augustin Meaulnes, forse poteva esserlo. “Ah!”, disse Florentin, sorridendo, “se non gli importa del patrimonio, è un buon partito… Bisognerà che ne parli al signor de Galais? Viene ancora qualche volta fin qui a cercare dei piombini da caccia. Gli faccio sempre assaggiare la mia vecchia acquavite”. Ma lo pregai subito di non fare niente, di aspettare. Ed io stesso non mi affrettai ad avvisare Meaulnes. Tante fortunate coincidenze accumulate mi inquietavano un po’. E quell’inquietudine mi imponeva di non annunciare niente a Meaulnes, se non avessi almeno visto la ragazza. Non attesi a lungo. L’indomani, un po’ prima di cena, la notte incominciava a scendere; una nebbia fresca, più di settembre, che di agosto, scendeva con la notte. Firmin ed io, supponendo il magazzino vuoto di compratori per un istante, eravamo andati a trovare Marie-Louise e Charlotte. Avevo loro confidato il segreto che mi portava a Le VieuxNançay in quella data prematura. Appoggiati con i gomiti sui banconi o seduti sul legno incerato, ci raccontavamo reciprocamente quello che sapevamo della misteriosa ragazza – e ciò si riduceva veramente a poca cosa – quando un rumore di ruote ci fece voltare la testa. “Eccola, è lei”, dissero a voce bassa. Qualche secondo dopo, davanti alla porta a vetri si fermò lo strano equipaggio. Una vecchia vettura da fattoria, con i pannelli arrotondati, con un piccolo portapacchi modellato, come non ne avevamo mai visti in quel paese; un vecchio cavallo bianco che sembrava sempre voler brucare qualche erba sulla strada, tanto abbassava la testa per camminare; e 172 sul sedile – lo dico con la semplicità del mio cuore, ma sapendo bene ciò che dico – la ragazza più bella che ci sia forse mai stata al mondo. Mai vidi tanta grazia unirsi a tanta serietà. Il suo abito le faceva la vita così minuta, che sembrava fragile. Un grande mantello marrone, che si levò entrando, era gettato sulle sue spalle. Era la più seria delle ragazze, la più fragile delle donne. Una pesante capigliatura bionda cadeva sulla sua fronte e sul suo viso, delicatamente disegnato, finemente modellato. Sul suo colorito così puro, l’estate aveva posato due macchie di rossore… Non notai che un difetto in tanta bellezza: nei momenti di tristezza, di scoraggiamento o solamente di riflessione profonda, quel viso così puro si segnava leggermente di rosso, come capita a certi malati gravemente colpiti senza che lo si sappia. Allora tutta l’ammirazione di chi la guardava lasciava il posto a una sorta di pietà tanto più lacerante, in quanto più sorprendente. Ecco almeno quello che scoprii, mentre scendeva lentamente dalla vettura e Marie-Louise infine, presentandomi con spigliatezza alla ragazza, mi invitava a parlarle. Le offrimmo una sedia cerata e lei si sedette, appoggiata al bancone, mentre noi restavamo in piedi. Sembrava conoscere bene e amare il magazzino. Mia zia Julie, subito avvertita, arrivò, e il tempo in cui parlò, saggiamente, le mani incrociate sul ventre, scuotendo dolcemente la testa da contadina-commerciante coperta da una cuffia bianca, ritardò il momento – che mi faceva tremare un po’ – in cui la conversazione sarebbe iniziata con me… Fu molto semplice. “Così”, disse la signorina de Galais, “sarete presto maestro?”. Mia zia accendeva sopra le nostre teste la lampada di porcellana che rischiarava flebilmente il magazzino. Vedevo il dolce viso infantile della ragazza, i suoi occhi blu così ingenui, ed ero tanto più sorpreso della sua voce così netta, così seria. Quando smetteva di parlare, i suoi occhi si fissavano 173 altrove, non si muovevano più, aspettando la risposta, e si mordeva un po’ il labbro. “Insegnerei anch’io”, disse, “se il signor de Galais volesse! Insegnerei ai piccoli, come vostra madre…”. E sorrise, mostrando così che i miei cugini le avevano parlato di me. “Il fatto è”, continuò, “che i paesani con me sono sempre gentili, dolci e servizievoli. E io li amo molto. Ma, così, che merito ho ad amarli?…”. “Mentre con la maestra sono cavillosi e avari, non è così? Ci sono di continuo storie di portapenne perduti, di quaderni troppo cari o di bambini che non imparano… Beh, litigherei con loro e mi amerebbero ugualmente. Sarebbe molto più difficile…”. E, senza sorridere, riprese la sua espressione pensierosa e infantile, il suo sguardo blu, immobile. Eravamo tutti e tre impacciati per quella disinvoltura a parlare di cose delicate, di ciò che è segreto, sottile, e di cui non si parla bene che nei libri. Ci fu un istante di silenzio; e lentamente iniziò una discussione… Ma con una sorta di rimpianto e di animosità contro non so che cosa di misterioso nella sua vita, la giovane donna continuò: “E poi insegnerei ai ragazzi ad essere saggi, di una saggezza che conosco. Non trasmetterei loro il desiderio di girare il mondo, come farete senza dubbio voi, signor Seurel, quando sarete supplente. Insegnerei loro a trovare la felicità che è molto vicina a loro, anche se non sembra…”. Marie-Louise e Firmin erano interdetti come me. Restammo senza parole. Ella sentì il nostro imbarazzo e si fermò, si morse il labbro, abbassò la testa e poi sorrise come se si facesse beffe di noi: “Così”, disse, “c’è forse qualche bel giovanotto pazzo che mi cerca in capo al mondo mentre io sono qui, nel magazzino della signora Florentin, sotto questa lampada con il mio vecchio cavallo che mi aspetta alla porta. Se 174 quel giovane mi vedesse, non vorrebbe crederci, senza dubbio…”. Nel vederla sorridere, l’audacia mi prese e sentii che era tempo di dire, ridendo anch’io: “E se fosse che, quel bel giovanotto folle, io lo conoscessi?”. Mi guardò con vivacità. In quel momento il campanello della porta suonò, due brave donne entrarono con dei panieri: “Venite in ‘sala da pranzo’, starete in pace”, ci disse mia zia, spingendo la porta della cucina. E poiché la signorina de Galais rifiutava e voleva andare via subito, mia zia aggiunse: “Il signor de Galais è qui e parla con Florentin, vicino al fuoco”. C’era sempre, anche nel mese di agosto, nella grande cucina, una fascina di abeti che fiammeggiava e scoppiettava. Anche là una lampada di porcellana era accesa e un vecchio dal viso dolce, scavato e rasato, quasi sempre silenzioso come un uomo prostrato dall’età e dai ricordi, era seduto vicino a Florentin, davanti a due bicchieri di acquavite. Florentin salutò: “François!”, esclamò con la sua potente voce da mercante ambulante, come se ci fossero tra noi un fiume o parecchi ettari di terreno. “Ho appena organizzato una scampagnata sulle rive dello Cher per giovedì prossimo. Si caccerà, si pescherà, si ballerà, si farà il bagno!… Signorina, voi verrete a cavallo; è inteso con il signor de Galais. Ho sistemato tutto…”. “E, François!”, aggiunse, come se ci avesse appena pensato. “Potrai portare il tuo amico, il signor Meaulnes… È ben Meaulnes che si chiama?”. La signorina de Galais si era alzata, improvvisamente era diventata pallidissima. E, in quel momento preciso, mi ricordai che Meaulnes, quella volta, nella strana proprietà, vicino allo stagno, le aveva detto il suo nome… 175 Quando mi tese la mano, per andarsene, c’era tra noi, più chiaramente che se avessimo detto molte parole, un’intesa segreta che la morte sola doveva infrangere e un’amicizia più emozionante di un grande amore. Alle quattro, l’indomani mattina, Firmin bussava alla porta della piccola stanza in cui abitavo nel cortile delle faraone. Faceva ancora notte e feci molta fatica a ritrovare le mie cose sulla tavola ingombra di candelabri di rame e di statuette di santi tutte nuove, scelte al magazzino per arredare il mio alloggio, la vigilia del mio arrivo. Nel cortile, sentivo Firmin gonfiare la mia bicicletta e mia zia in cucina che attizzava il fuoco. Il sole si alzava appena, quando partii. Ma la mia giornata doveva essere lunga: andavo prima a Sainte-Agathe per spiegare la mia assenza prolungata e, proseguendo la mia corsa, dovevo arrivare prima di sera a La Fertéd’Angillon, dal mio amico Augustin Meaulnes. 176 Capitolo 2 UN’APPARIZIONE ■ Non avevo mai fatto lunghe corse in bicicletta. Quella era la prima. Ma, da molto tempo, malgrado il mio cattivo ginocchio, Jasmin, di nascosto, mi aveva insegnato ad andarci. Se già per un giovane normale la bicicletta è uno strumento molto divertente, che cosa non doveva sembrare a un povero ragazzo come me, che fino a poco tempo prima trascinava miseramente la gamba, tutto sudato, fin dal quarto chilometro!… Dall’alto dei pendii, scendere e addentrarsi nel profondo dei paesaggi; scoprire come in volo la lontananza della strada che si scosta e fiorisce al tuo avvicinarti; attraversare un villaggio nello spazio di un istante e portarlo con te tutto intero in un colpo d’occhio… In sogno solamente avevo conosciuto fino a quel momento una corsa così piacevole, così leggera. Persino le salite mi trovavano pieno di vitalità. Poiché era, bisogna dirlo, il sentiero del paese di Meaulnes che io bevevo in questo modo… “Un po’ prima dell’entrata del paese”, mi diceva Meaulnes, quando un tempo descriveva il suo villaggio, “si vede una grande ruota a palette che il vento fa girare…”. Non sapeva a che cosa servisse, o forse fingeva di non saperlo per stimolare maggiormente la mia curiosità1. 1 una grande ruota… la mia curiosità: si trattava probabilmente di una pompa per estrarre acqua da un pozzo e azionata proprio da quel mulino a vento in miniatura che era la “ruota a palette”, come del resto è detto poco più avanti 177 Fu solamente al declinare di quella giornata di fine agosto che scorsi, mentre girava nel vento in un’immensa prateria, la grande ruota che doveva pompare l’acqua per una fattoria vicina. Dietro i pioppi del prato si rivelavano già i primi sobborghi. Man mano che seguivo la grande curva che faceva la strada per costeggiare il ruscello, il paesaggio sbocciava e si apriva… Arrivato sul ponte, scoprii infine la strada maestra del villaggio. Delle mucche pascolavano, nascoste nei canneti della prateria, e sentivo le loro campane, mentre, sceso dalla bicicletta, le mani sul manubrio, guardavo il paese in cui stavo per portare una così seria notizia. Le case, in cui si entrava passando su un piccolo ponte di legno, erano tutte allineate sul bordo di un fossato che scendeva lungo la via, come tante barche che stessero, con le vele imbrogliate, ormeggiate nella calma della sera. Era l’ora in cui in ogni cucina si accende un fuoco. Allora la paura e non so quale oscuro rimorso di venire a scuotere tanta pace, incominciarono a togliermi tutto il coraggio. Proprio per aggravare la mia improvvisa debolezza, mi ricordai che la zia Moinel abitava là, su una piccola piazza di La Ferté-d’Angillon. Era una delle mie prozie. Tutti i suoi figli erano morti e avevo soltanto conosciuto Ernest, l’ultimo tra tutti, un ragazzo grande che stava per diventare maestro. Il mio prozio Moinel, il vecchio cancelliere, l’aveva seguito dopo poco nella tomba. E mia zia era rimasta completamente sola nella sua bizzarra casetta, dove i tappeti erano fatti di ritagli cuciti, i tavoli coperti di galli, galline e gatti di carta – ma dove i muri erano tappezzati di vecchi diplomi, di ritratti di defunti, di medaglioni contornati da capelli morti. Con tanti dispiaceri e lutti, era la bizzarria e il buon umore in persona. Quando scoprii la piazzetta in cui si nel testo. Simili attrezzature sono ancora oggi usate nelle campagne, sia in Francia, sia in Italia. 178 trovava la casa, chiamai ad alta voce attraverso la porta socchiusa e sentii proprio all’estremità delle tre stanze in fila lanciare un gridolino acutissimo: “Ehi là! Mio Dio!”. Versò il caffè sul fuoco – ma proprio a quell’ora doveva fare il caffè? – e apparve… Inarcata all’indietro, portava una specie di cappello-cappuccio-cuffia sulla cima del capo, proprio sopra la fronte immensa e bitorzoluta, dove sembrava di vedere una somiglianza con una donna mongola e anche ottentotta; e rideva a piccoli colpi, mostrando ciò che restava dei suoi denti molto minuti. Ma, mentre la abbracciavo, mi prese in modo maldestro, frettolosamente, una mano che avevo dietro la schiena. Con un mistero perfettamente inutile poiché eravamo soltanto noi due, mi fece scivolare una piccola moneta che non osai guardare e che doveva essere da un franco… Poi, siccome feci cenno di chiedere spiegazioni o di ringraziarla, mi diede uno spintone, esclamando: “Va’, dunque! Ah! So bene che cos’è!”. Era sempre stata povera, sempre indebitata, sempre generosa. “Sono sempre stata scema e sempre sventurata”, diceva senza amarezza ma con la sua voce in falsetto. Persuasa che i quattrini mi preoccupassero come era per lei, la brava donna non aspettava che avessi respirato, per nascondermi in mano le sue magrissime economie della giornata. E, in seguito, fu sempre così che mi accolse. La cena fu tanto strana – contemporaneamente triste e bizzarra – come lo era stata l’accoglienza. Sempre una candela a portata di mano, ora la toglieva, lasciandomi nell’ombra, e ora la posava sul tavolino coperto di piatti e di vasi sbrecciati o crepati. “A quello”, diceva, “i prussiani hanno rotto i manici, nel ’70, perché non potevano portarlo via”. Mi ricordai solamente allora, rivedendo quel grande vaso dalla tragica storia, che avevamo cenato e dormito là, 179 un tempo. Mio padre mi portava nella Yonne2, da uno specialista che doveva guarire il mio ginocchio. Bisognava prendere un treno espresso che passava prima di giorno… Mi ricordo della triste cena di una volta, di tutte le storie del vecchio cancelliere appoggiato coi gomiti davanti alla sua bottiglia di vino rosé. E mi ricordo anche dei miei terrori… Dopo la cena, seduta davanti al fuoco, la mia prozia aveva preso mio padre da parte per raccontargli una storia di fantasmi: “Mi giro… Ah! Mio povero Louis, che cosa vedo? Una piccola donna grigia…”. Passava per avere la testa piena zeppa di quelle stupidaggini terrificanti. Ed ecco che quella sera, terminata la cena, quando, stanco per la bicicletta, mi fui coricato nella grande stanza con una camicia da notte a quadri dello zio Moinel, venne a sedersi al mio capezzale e cominciò con la sua voce più misteriosa e più acuta: “Mio povero François, bisogna che ti racconti quello che non ho mai detto a nessuno…”. Pensai: “Bell’affare, eccomi terrorizzato per tutta la notte, come dieci anni fa!…”. E ascoltai. Scuoteva la testa, guardando dritto davanti a sé, come se stesse raccontando la storia a se stessa: “Ritornavo da una festa con Moinel. Era il primo matrimonio a cui andavamo entrambi dopo la morte del nostro povero Ernest; e vi avevo incontrato mia sorella Adèle che non avevo più visto da quattro anni! Un vecchio amico di Moinel, ricchissimo, l’aveva invitato al matrimonio di suo figlio, alla proprietà delle Sablonnières. Avevamo noleggiato 2 Yonne: dipartimento (cioè provincia) della Borgogna, nella Francia centroorientale. Deriva il suo nome dal fiume omonimo che lo attraversa, prima di gettarsi nella Senna. 180 una vettura. Ci era costata molto cara. Ritornavamo sulla strada verso le sette del mattino, in pieno inverno. Il sole si alzava. Non c’era assolutamente nessuno. Che cosa vedo tutto ad un tratto davanti a noi sulla strada? Un omino, un piccolo giovane fermo, bello come il giorno, che non si muoveva, che ci guardava venire avanti. Man mano che ci avvicinavamo, distinguevamo il suo viso aggraziato, così bianco, così amabile da fare paura!… “Prendo il braccio di Moinel; tremavo come una foglia; credevo che fosse il buon Dio!… “Gli dissi: “‘Guarda! È un’apparizione!’. “Mi rispose sottovoce, furioso: “‘L’ho ben visto! Taci, dunque, vecchia chiacchierona…’. “Non sapeva che cosa fare; a un certo punto il cavallo si è fermato… Da vicino, aveva un viso pallido, la fronte sudata, un berretto sporco e dei pantaloni lunghi. Sentimmo la sua voce, che diceva: “‘Non sono un uomo, sono una ragazza. Sono scappata e non ne posso più. Vorreste farmi salire sulla vostra vettura, signore e signora?’ “L’abbiamo fatta salire subito. Appena seduta, ha perso conoscenza. E indovina con chi avevamo a che fare? Era la fidanzata del giovane delle Sablonnières, Frantz de Galais, da cui eravamo stati invitati a nozze!”. “Ma non ci furono nozze”, dissi, “perché la fidanzata è scappata!”. “Certo, no”, disse, tutta confusa e guardandomi. “Non ci furono nozze. Poiché quella povera matta si era messa in testa mille follie che ci ha spiegato. Era una delle figlie di un povero tessitore. Si era persuasa che tanta felicità fosse impossibile; che il ragazzo fosse troppo giovane per lei; che tutte le meraviglie che lui descriveva fossero immaginarie e, quando infine Frantz è venuto a cercarla, Valentine si è spaventata. Passeggiava con lei e sua sorella nel giardino 181 dell’Arcivescovado3 a Bourges, malgrado il freddo e il gran vento. Il giovane, per delicatezza certamente e forse perché amava la sorella minore, era pieno di attenzioni per la più vecchia. Allora, la mia matta si è immaginata non so cosa; ha detto che sarebbe andata a prendere uno scialle a casa; e là, per essere sicura di non essere seguita, si è vestita con abiti maschili ed è fuggita a piedi sulla strada di Parigi. “Il suo fidanzato ha ricevuto da lei una lettera in cui gli dichiarava che andava a raggiungere un giovane che amava. E non era vero… “‘Sono più felice del mio sacrificio’, mi diceva, ‘che se fossi sua moglie’. Sì, sciocchina mia, ma intanto lui non aveva affatto l’idea di sposare sua sorella; si è sparato un colpo di pistola; hanno visto il sangue nel bosco; ma non hanno mai ritrovato il corpo”. “E che cosa avete fatto di quella ragazza disgraziata?”. “Le abbiamo fatto bere un goccio, prima. Poi, le abbiamo dato da mangiare e ha dormito accanto al fuoco quando siamo ritornati. È rimasta con noi per una buona parte dell’inverno. Per tutto il giorno, finché faceva chiaro, tagliava, cuciva degli abiti, adattava dei cappelli e puliva la casa con rabbia. È stata lei a riappiccicare tutta la tappezzeria che vedi là. E da quando è stata qui, le rondini hanno iniziato a fare il nido fuori. Ma, la sera, al calare della notte, terminato il suo lavoro, trovava sempre un pretesto per andare in cortile, in giardino o fuori dalla porta, anche quando gelava da spaccare le pietre. E la si trovava là, in piedi, che piangeva con tutto il suo cuore. “‘Beh, che cosa c’è ancora? Sentiamo…’. “‘Niente, signora Moinel!’. “E rientrava. 3 giardino dell’Arcivescovado: si tratta del più bel parco pubblico di Bourges, collocato su uno sperone roccioso a picco sulla pianura circostante e occupato in gran parte da un ricco orto botanico. 182 “I vicini dicevano: “‘Avete trovato proprio una graziosissima cameriera, signora Moinel’. “Malgrado le nostre suppliche, ha voluto continuare la sua strada per Parigi, nel mese di marzo; le ho dato dei vestiti che si era cucita lei; Moinel le ha comprato il biglietto alla stazione e le ha dato un po’ di denaro. “Non ci ha dimenticati; è sarta a Parigi, vicino a NôtreDame; ci scrive ancora per domandarci se non sappiamo niente delle Sablonnières. Una volta per tutte, per liberarla da quell’idea, le ho risposto che la proprietà è stata venduta, abbattuta, il giovane scomparso per sempre e la ragazza sposata. Tutto ciò deve essere vero, credo. Da allora, la mia Valentine scrive molto meno sovente…”. Non era una storia di fantasmi che raccontava la zia Moinel con la sua vocina stridente fatta proprio per raccontarla. Ero intanto al culmine del malessere: il fatto era che avevamo giurato a Frantz, lo zingaro, di servirlo come dei fratelli ed ecco che l’occasione mi era stata data… Ma era quello il momento di guastare la gioia che stavo per portare a Meaulnes l’indomani mattina, per dirgli ciò che avevo appena saputo? A che scopo buttarlo in un’impresa mille volte impossibile? Avevamo in effetti l’indirizzo della ragazza; ma dove cercare lo zingaro che girava il mondo?… Lasciamo i pazzi con i pazzi, pensai. Delouche e Boujardon non avevano torto. Quanto male ci ha fatto quel Frantz romanzesco! E decisi di non dire niente fino a quando non avessi visti sposati Augustin Meaulnes e la signorina de Galais. Presa questa decisione, mi restava ancora l’impressione penosa di un cattivo presagio – impressione assurda che scacciai rapidamente. La candela era quasi alla fine; una zanzara ronzava; ma la zia Moinel, la testa china sotto la sua cuffia di velluto che non toglieva se non per dormire, i gomiti appoggiati alle ginocchia, ricominciava la sua storia… A momenti, sollevava bruscamente la testa e mi guardava per capire le mie impres183 sioni o forse per vedere se non dormissi. Alla fine, subdolamente, la testa sul cuscino, chiusi gli occhi, facendo finta di assopirmi. “Andiamo! Tu dormi…!”, disse con un tono più sordo e un po’ deluso. Ebbi pietà di lei e protestai: “Ma no, zia mia, vi assicuro…”. “Ma sì!”, disse. “Capisco bene d’altronde che tutto ciò non ti interessi affatto. Ti parlo di persone che tu non hai conosciuto…”. E vigliaccamente, quella volta, non risposi. L’indomani mattina, quando arrivai nella strada maestra, faceva un così bel tempo da vacanza, una così grande calma, con dei rumori così ovattati, così familiari per tutto il paese, che avevo ritrovato tutta la gioiosa sicurezza di un portatore di buone notizie… Augustin e sua madre abitavano nella vecchia casa della scuola. Alla morte di suo padre, pensionato da lungo tempo e che un’eredità aveva arricchito, Meaulnes aveva voluto che acquistassero la scuola dove il vecchio maestro aveva insegnato per vent’anni e dove lui stesso aveva imparato a leggere. Non che fosse di aspetto proprio gradevole: era una grossa casa quadrata come un municipio (e, del resto, lo era stato); le finestre del piano terra, che davano sulla strada, erano così alte, che nessuno vi si affacciava mai; e il cortile sul retro, dove non c’era un albero e dove un alto portico sbarrava la vista sulla campagna, era proprio il più asciutto e il più desolato cortile di scuola abbandonata che avessi mai visto… Nel corridoio complicato, dove si aprivano quattro porte, trovai la madre di Meaulnes che portava dal giardino un gran mucchio di biancheria che doveva aver messo ad asciugare nelle prime ore di quella lunga mattinata di vacanza. I suoi capelli grigi erano in parte spettinati; dei ciuffi le cadevano sul viso che, regolare sotto il vecchio copricapo, era gonfio e stanco, come per una notte di veglia; e abbassava tristemente la testa con un’aria pensierosa. 184 Ma, scorgendomi all’improvviso, mi riconobbe e sorrise: “Arrivate in tempo”, disse. “Vedete, porto dentro la biancheria che ho fatto asciugare per la partenza di Augustin. Ho trascorso la notte ad aggiustare i suoi conti e a preparare le sue cose. Il treno parte alle cinque, ma arriveremo a preparare tutto…”. Si sarebbe detto, tanto mostrava sicurezza, che lei stessa avesse preso quella decisione. Però, senza dubbio, ignorava persino dove Meaulnes dovesse andare. “Salite”, disse, “lo troverete in municipio a scrivere”. In fretta salii la scala, aprii la porta di destra, dove avevano lasciato la scritta Municipio, e mi trovai in una grande sala a quattro finestre, due sul paese, due sulla campagna, ornata sui muri da ritratti ingialliti dei presidenti Grévy e Carnot4. Su un lungo palco che teneva tutto il fondo della sala c’erano ancora, davanti a un tavolo col tappeto verde, le sedie dei consiglieri municipali. Al centro, seduto su una vecchia poltrona che era stata quella del sindaco, Meaulnes scriveva, intingendo la sua penna sul fondo di un calamaio di maiolica fuori moda, a forma di cuore. In quel luogo che sembrava fatto per qualche possidente del villaggio, Meaulnes si ritirava, quando non percorreva la regione circostante, durante le lunghe vacanze… Si alzò, appena mi riconobbe, ma non con la precipitazione che avevo immaginato: “Seurel!”, disse solamente, con un’aria di profonda meraviglia. Era lo stesso grande ragazzo dal viso ossuto, la testa rasata. Dei baffi incolti incominciavano a tracciargli le labbra. Sempre quello stesso sguardo leale… Ma sull’ardore degli 4 Grévy e Carnot: Jules Grévy (1807-1891), oppositore di Napoleone III, fu presidente della Repubblica Francese dal 1879 al 1887. Marie-François Sadi Carnot (1837-1894) fu presidente dal 1987 al 1894, anno in cui fu assassinato dall’anarchico italiano Sante Caserio. 185 anni passati si credeva di vedere come un velo di nebbia, che per un istante dissipava la sua grande passione di un tempo… Sembrava molto turbato nel vedermi. Con un balzo ero salito sul palco. Ma, cosa strana a dirsi, non pensava nemmeno a tendermi la mano. Si era voltato verso di me, le mani dietro la schiena, appoggiato sul tavolo, rovesciato all’indietro, e l’aria profondamente imbarazzata. Già, guardandomi senza vedermi, era assorbito da ciò che stava per dirmi. Come una volta e come sempre, uomo lento a cominciare a parlare così come sono i solitari, i cacciatori e gli uomini d’avventura, aveva preso una decisione senza pensare alle parole che occorrevano per spiegarla. E ora che ero davanti a lui, incominciava solamente a ruminare penosamente le parole necessarie. Ciononostante, gli raccontai con gaiezza come fossi venuto, dove avessi trascorso la notte, e che ero stato molto sorpreso nel vedere la signora Meaulnes preparare la partenza di suo figlio… “Ah! ti ha detto?…”, domandò. “Sì, penso che non sia per un lungo viaggio, vero?”. “Sì, un lunghissimo viaggio”. Per un istante sbalordito, sentendo che tra poco, con una parola, avrei ridotto a niente quella decisione che non capivo, non osavo dire più niente e non sapevo come iniziare la mia missione. Ma egli stesso parlò, alla fine, come qualcuno che voglia giustificarsi. “Seurel!”, disse, “sai che cosa fosse per me la strana avventura di Sainte-Agathe. Era la mia ragione per vivere e per avere speranza. Perduta quella speranza, che cosa potevo diventare?… Come vivere nel modo di tutti gli altri? “Però ho cercato di vivere laggiù, a Parigi, quando ho visto che tutto era finito e che non valeva più neanche la pena di cercare la proprietà perduta… Ma un uomo che ha fatto una volta un salto in paradiso, come potrebbe accon186 tentarsi in seguito dell’esistenza di tutti gli altri? Quella che è la felicità degli altri mi è parsa una bazzecola. E quando, sinceramente, deliberatamente, ho deciso un giorno di fare come gli altri, quel giorno ho accumulato rimorsi per lungo tempo…”. Seduto su una sedia del palco, la testa bassa, ascoltandolo senza guardarlo, non sapevo che cosa pensare di quelle spiegazioni oscure: “Allora”, dissi, “Meaulnes, spiegati meglio! Perché questo lungo viaggio? Hai una colpa da riparare? Una promessa da mantenere?”. “Beh, sì”, rispose. “Ti ricordi di quella promessa che avevo fatto a Frantz?…”. “Ah!”, feci, sollevato, “non si tratta che di quello?…”. “Di quello. E forse anche di una colpa da riparare. Entrambe le cose…”. Seguì un momento di silenzio durante il quale decisi di cominciare a parlare e preparai le parole. “Non c’è che una spiegazione alla quale credo”, disse ancora. “Certo, avrei voluto rivedere una volta la signorina de Galais, solamente rivederla… Ma, ne sono persuaso adesso, quando ho scoperto la proprietà senza nome, ero ad un’altezza, a un grado di perfezione e di purezza che non raggiungerò mai più. Nella morte solamente, come ti scrissi un giorno, ritroverò forse la bellezza di quel tempo…”. Cambiò tono per riprendere con un’animazione strana, avvicinandosi a me: “Ma, ascolta, Seurel! Questo nuovo intrigo e questo gran viaggio, quella colpa che ho commesso e che bisogna riparare, sono, in un certo senso, la mia vecchia avventura che prosegue…”. Un istante, durante il quale penosamente cercò di riafferrare i suoi ricordi. Avevo perso l’occasione precedente. Non volevo per niente al mondo lasciar passare questa; e, allora, parlai – troppo in fretta, poiché rimpiansi amaramente più tardi di non aver atteso la sua confessione. 187 Pronunciai dunque la mia frase, che era preparata per l’istante precedente, ma non andava più così bene, adesso. Dissi senza un gesto, appena sollevando un po’ la testa: “E se venissi ad annunciarti che tutte le speranze non sono perdute?…”. Mi guardò; poi, distogliendo bruscamente gli occhi, arrossì come non avevo mai visto nessuno arrossire: una montata di sangue che doveva picchiargli a grandi colpi nelle tempie… “Che cosa vuoi dire?”, domandò, infine, in modo appena comprensibile. Allora, tutto d’un fiato, raccontai ciò che sapevo, ciò che avevo fatto, e come, cambiata la sorte, sembrasse quasi che fosse Yvonne de Galais a mandarmi da lui. Era adesso terribilmente pallido. Durante tutto quel racconto, che ascoltò in silenzio, la testa un po’ incassata, nell’atteggiamento di qualcuno che è stato sorpreso e che non sa come difendersi, se nascondersi o scappare, non mi interruppe, ricordo, che una sola volta. Gli raccontai di sfuggita che tutte le Sablonnières erano state demolite e che la proprietà di un tempo non esisteva più: “Ah!”, disse, “vedi…” (come se avesse atteso un’occasione per giustificare la sua condotta e la disperazione in cui era affondato) “vedi: non c’è più niente…”. Per terminare, persuaso che alla fine l’assicurargli che tutto era semplice avrebbe portato via il resto della sua pena, gli raccontai che una scampagnata era stata organizzata da mio zio Florentin, che la signorina de Galais doveva venirci a cavallo e che anche lui era stato invitato… Ma sembrava completamente sperduto e continuava a non rispondere. “Bisogna subito disdire il tuo viaggio”, dissi con impazienza. “Andiamo ad avvertire tua madre…”. E, mentre scendevamo tutti e due: “Questa scampagnata?…”, mi domandò con esitazione. “Allora, veramente, bisogna che ci venga?…”. “Ma, andiamo”, replicai, “non si domanda neanche”. 188 Aveva l’aria di qualcuno che sia spinto per le spalle. Di sotto, Augustin avvertì la signora Meaulnes che avrei pranzato con loro, cenato, dormito là e che l’indomani, lui stesso avrebbe noleggiato una bicicletta per seguirmi a Le Vieux-Nançay. “Ah! Benissimo”, disse lei, scuotendo la testa, come se quelle notizie avessero confermato tutte le sue previsioni. Mi sedetti nella piccola sala da pranzo, sotto i calendari illustrati, i pugnali ornamentali e le otri sudanesi che un fratello del signor Meaulnes, vecchio soldato di fanteria da sbarco, aveva portato dai suoi lontani viaggi. Augustin mi lasciò lì un momento, prima del pasto, e, nella stanza vicina, dove sua madre aveva preparato i suoi bagagli, lo sentii che le diceva, abbassando un po’ la voce, di non disfare il suo baule – poiché il suo viaggio poteva essere soltanto ritardato… 189 Claude Monet, Colazione sull’erba Capitolo 3 LA GITA DI PIACERE ■ Feci fatica a seguire Augustin sulla strada di Le VieuxNançay. Andava come un corridore di bicicletta. Non scendeva di sella per fare le salite. Alla sua inesplicabile esitazione del giorno prima erano succedute una febbre, un nervosismo, un desiderio di arrivare al più presto che mi spaventavano un po’. Da mio zio mostrò la stessa impazienza: sembrava incapace di interessarsi a qualcosa fino al momento in cui ci fummo sistemati in vettura, verso le dieci, l’indomani mattina, e pronti a partire per le rive del fiume. Eravamo alla fine del mese di agosto, al declino dell’estate. Già i ricci vuoti dei castagni ingialliti incominciavano a ricoprire le strade. Il tragitto non era lungo; la fattoria dei Salici, vicina allo Cher, dove stavamo andando, non si trovava che a due chilometri al di là delle Sablonnières. Di quando in quando, incontravamo altri invitati in vettura e anche dei giovani a cavallo, che Florentin aveva invitato arditamente a nome del signor de Galais… Ci si era sforzati, come un tempo, di mescolare ricchi e poveri, castellani e paesani. Fu così che vedemmo arrivare in bicicletta Jasmin Delouche che, grazie al guardiano Baladier, aveva fatto da poco la conoscenza di mio zio. “Ecco”, disse Meaulnes, scorgendolo, “colui che aveva la chiave di tutto, mentre noi cercavamo fino a Parigi. C’è da disperarsi!”. Ogni volta che lo guardava, il suo risentimento cresceva. L’altro, che si immaginava al contrario di avere diritto a tutta la nostra riconoscenza, scortò la nostra vettura molto da 191 vicino, fino in fondo. Si vedeva che aveva fatto, miserabilmente e senza grandi risultati, delle spese per il guardaroba, e i lembi della sua giacca frusta sbattevano sul parafango della bicicletta… Malgrado la costrizione che si imponeva per essere amabile, il suo viso vecchiotto non arrivava a piacere. Mi ispirava piuttosto una vaga pietà. Ma di chi non avrei avuto pietà durante quel giorno?… Non ricordo mai quella gita di piacere, senza un oscuro rimpianto, come una specie di soffocamento. Mi ero fatto di quel giorno un’idea tanto gioiosa in anticipo! Tutto sembrava così perfettamente concertato perché fossimo felici. E invece lo fummo così poco!… Tuttavia le rive dello Cher erano così belle! Sulla riva, dove ci si fermava, la costa finiva in una china dolce e la terra si divideva in piccoli prati verdi, in saliceti separati da siepi, come tanti giardini minuscoli. Dall’altra parte del fiume la riva era formata da colline grigie, ripide, rocciose; e sulle più lontane si scorgevano, tra gli abeti, piccoli castelli romantici con la torretta. Lontano, a momenti, si sentiva abbaiare la muta di Préveranges. Eravamo arrivati in quel luogo per un dedalo di piccoli sentieri, ora rivestiti di sassi bianchi, ora ricoperti di sabbia – sentieri che nei pressi del fiume le sorgenti vive trasformavano in ruscelli. Al passaggio, i rami dei ribes selvatici ci afferravano per la manica. E ora eravamo immersi nella fresca oscurità del fondo dei valloni, ora, al contrario, le siepi interrotte facevano sì che ci immergessimo nella chiara luce di tutta la vallata. Lontano, sull’altra riva, quando ci avvicinammo, un uomo arrampicato sulle rocce, con un gesto lento, tendeva delle lenze per i pesci. Come faceva bello, mio Dio! Ci sistemammo su un prato, nella rientranza che formava un bosco di betulle. Era un grande prato rasato, dove sembrava che ci fosse spazio per giochi senza fine. Le vetture furono staccate; i cavalli condotti alla fattoria degli alburni. Si incominciavano ad aprire le provviste nel 192 bosco e ad alzare sul prato dei piccoli tavoli pieghevoli che mio zio aveva portato. Occorreva in quel momento della gente di buona volontà per andare all’entrata del grande sentiero vicino, a fare la posta agli ultimi arrivati, per indicare loro dove eravamo. Mi offrii subito; Meaulnes mi seguì e andammo ad appostarci vicino al ponte sospeso, all’incrocio di più sentieri tra cui quello che veniva dalle Sablonnières. Camminando in lungo e in largo, parlando del passato, cercando bene o male di distrarci, aspettavamo. Arrivò ancora una vettura da Le Vieux-Nançay, dei contadini sconosciuti con una figlia grande ricoperta di nastri. Poi più niente. Sì, tre bambini in una vettura con l’asino, i bambini del vecchio giardiniere delle Sablonnières. “Mi sembra di conoscerli”, disse Meaulnes. “Sono quelli, credo, che mi hanno preso per mano, quella volta, la prima sera della festa, e mi hanno portato alla cena…”. Ma in quel momento, l’asino non volle più camminare, i bambini scesero per pungolarlo, tirarlo, picchiarlo più che poterono; allora Meaulnes, deluso, dichiarò di essersi sbagliato… Domandai loro se avessero incontrato sulla strada il signore e la signorina de Galais. Uno di essi rispose che non sapeva; l’altro: “Penso di sì, signore”. Non ci diceva nulla di più. Discesero infine verso il prato, gli uni tirando l’asino per le briglie, gli altri spingendo la vettura. Riprendemmo la nostra attesa. Meaulnes guardava fissamente la curva del sentiero delle Sablonnières, spiando con una specie di spavento l’arrivo della ragazza che aveva tanto cercato, un tempo. Un nervosismo bizzarro e quasi comico, che egli attribuiva a Jasmin, si era impadronito di lui. Dalla piccola scarpata su cui ci eravamo arrampicati per vedere da lontano il sentiero, scorgevamo sul prato, dall’alto in basso, un gruppo di invitati tra cui Delouche cercava di fare bella figura: “Guardalo pontificare, quell’imbecille”, mi diceva Meaulnes. 193 E io gli rispondevo: “Ma lascialo. Fa quello che può, il povero ragazzo”. Augustin non la smetteva. Laggiù una lepre o uno scoiattolo doveva essere sbucato da una macchia. Jasmin, per darsi un contegno, fece cenno di inseguirlo: “Andiamo, via! Adesso si mette a correre…” disse Meaulnes, come se veramente quell’audacia oltrepassasse tutte le altre! E quella volta non potei impedirmi di ridere. Anche Meaulnes non si trattenne; ma non fu che un lampo. Dopo un altro quarto d’ora: “E se non venisse?…”. Risposi: “Ma ha promesso. E allora sii più paziente!”. Ricominciò a spiare. Ma alla fine, incapace di sopportare più a lungo quell’attesa intollerabile: “Ascoltami”, disse. ”scendo con gli altri. Non so che cosa ci sia adesso contro di me: ma se resto qui, sento che non verrà mai – che è impossibile che al fondo del sentiero, all’improvviso, lei appaia”. E se ne andò verso il prato, lasciandomi tutto solo. Feci qualche centinaio di metri sulla stradina, per passare il tempo. E alla prima svolta scorsi Yvonne de Galais che cavalcava all’amazzone sul suo vecchio cavallo bianco, così arzillo quella mattina, che era obbligata a tirare le redini per impedirgli di trottare. Davanti, di fianco al cavallo, faticosamente, in silenzio, camminava il signor de Galais. Senza dubbio avevano dovuto darsi il cambio sulla strada, ognuno a turno servendosi della vecchia cavalcatura. Quando la ragazza mi vide da solo, sorrise, saltò rapidamente a terra e, dando le redini a suo padre, si diresse verso di me che le correvo incontro: “Sono molto felice”, disse “di trovarvi solo. Poiché non voglio mostrare a nessuno se non a voi il vecchio Bélisaire, né metterlo con gli altri cavalli. Per prima cosa, è troppo brutto e troppo vecchio; e poi temo sempre che sia ferito da 194 qualcun altro. Però mi fido di montare soltanto lui e, quando sarà morto, non andrò più a cavallo”. Nella signorina de Galais, come in Meaulnes, sentivo sotto quella animazione piacevole, sotto quella grazia apparentemente così tranquilla, dell’impazienza e quasi dell’ansia. Parlava più in fretta del normale. Malgrado le guance e i pomelli rosa, aveva intorno agli occhi, sulla fronte, a tratti, un pallore violento in cui si leggeva la sua inquietudine. Stabilimmo di attaccare Bélisaire a un albero in un boschetto, vicino alla strada. Il vecchio signor de Galais, senza dire parola, come sempre, tirò fuori la cavezza dalle fondine della sella e attaccò l’animale – un po’ in basso, mi sembrò. Dalla fattoria promisi di far mandare subito del fieno, dell’avena, della paglia… E la signorina de Galais arrivò sul prato come una volta, immagino, scese verso la riva del lago, quando Meaulnes la scorse per la prima volta. Dando il braccio a suo padre, scostando con la mano sinistra il lembo del grande mantello leggero che la avvolgeva, avanzò verso gli invitati, con la sua aria al tempo stesso così seria e così infantile. Camminavo vicino a lei. Tutti gli invitati sparpagliati o che giocavano lontano si erano alzati e assembrati per accoglierli; ci fu un breve istante di silenzio, durante il quale ognuno la guardò avvicinarsi. Meaulnes si era mescolato al gruppo dei giovanotti e niente lo faceva distinguere dai suoi compagni, se non la sua alta statura: d’altronde c’erano dei giovani quasi alti come lui. Non fece niente che potesse attirare l’attenzione, né un gesto, né un passo in avanti. Lo vedevo, vestito di grigio, immobile, che guardava fisso, come tutti gli altri, la ragazza così bella che stava arrivando. Alla fine, però, con un movimento inconsapevole e imbarazzato, si era passato la mano sulla testa nuda, come per nascondere, in mezzo ai suoi compagni dai capelli ben pettinati, la rozza testa rasata da contadino. Poi il gruppo attorniò la signorina de Galais. Le vennero presentati le ragazze e i ragazzi che non conosceva… 195 Stava per arrivare il turno del mio compagno; e io mi sentivo tanto ansioso, quanto poteva esserlo lui. Mi preparai a fare io stesso quella presentazione. Ma, prima che avessi potuto dire qualcosa, la ragazza avanzò verso di lui con una decisione e una gravità sorprendenti: “Riconosco Augustin Meaulnes”, disse. E gli tese la mano. Dei nuovi arrivati si avvicinarono quasi subito per salutare Yvonne de Galais e i due giovani si trovarono separati. Uno sfortunato caso volle che non venissero nemmeno riuniti allo stesso tavolino per il pranzo. Ma Meaulnes sembrava aver ripreso confidenza e coraggio. A più riprese, siccome mi trovavo isolato tra Delouche e il signor de Galais, vidi da lontano il mio compagno che mi faceva, con la mano, un cenno di amicizia. Fu soltanto verso la fine del pomeriggio, quando i giochi, il bagno, le conversazioni, le passeggiate in battello nello stagno vicino si furono un po’ dappertutto organizzate, che Meaulnes, di nuovo, si trovò in presenza della ragazza. Stavamo parlando con Delouche, seduti su delle sedie da giardino che avevamo portato, quando, lasciando bruscamente un gruppo di giovani in cui sembrava annoiarsi, la signorina de Galais si avvicinò a noi. Ci domandò, ricordo, perché non andavamo in barca sul lago degli alburni, come gli altri. “Abbiamo fatto qualche giro questo pomeriggio”, risposi. “Ma è assai monotono e ci siamo stancati presto”. “Beh, perché non andate sul fiume?”, disse lei. “La corrente è troppo forte: rischieremmo di essere portati via”. “Ci vorrebbe”, disse Meaulnes, “una barca a motore o un battello a vapore, come quello di una volta”. “Non ce l’abbiamo più”, disse lei, quasi a voce bassa, “l’abbiamo venduto”. E calò un silenzio imbarazzato. 196 Jasmin ne approfittò per annunciare che andava a raggiungere il signor de Galais. “Saprò bene”, disse, “dove trovarlo”. Bizzarria del caso! Quei due esseri così perfettamente dissimili si erano piaciuti e dal mattino non si lasciavano più. Il signor de Galais mi aveva preso da parte un istante, all’inizio del pomeriggio, per dirmi che avevo in lui un amico pieno di tatto, di rispetto e di qualità. Forse era arrivato fino a confidargli il segreto dell’esistenza di Bélisaire e il luogo del suo nascondiglio. Pensai anch’io di allontanarmi, ma sentii i due giovani così imbarazzati, così ansiosi uno di fronte all’altro, che giudicai prudente non farlo… Tanta discrezione da parte di Jasmin, tanta precauzione dalla mia servirono a poco. Parlarono. Ma invariabilmente, con una testardaggine di cui non si rendeva conto, Meaulnes ritornava a tutte le meraviglie di un tempo. E ogni volta la ragazza, torturata, doveva ripetergli che tutto era sparito: la vecchia dimora così strana e così complicata, abbattuta; il grande stagno, asciugato, colmato; e dispersi i bambini dagli affascinanti costumi… “Ah!” diceva semplicemente Meaulnes con disperazione, e come se ognuna di quelle sparizioni gli avesse dato ragione contro la ragazza o contro di me… Camminavamo fianco a fianco… Inutilmente tentavo di fare da diversivo alla tristezza che pervadeva tutti e tre. Con una domanda aspra, Meaulnes, di nuovo, cedeva alla sua idea fissa. Domandava informazioni su tutto ciò che aveva visto una volta: le bambine, il conduttore della vecchia berlina, i pony della corsa. “Anche i pony sono stati venduti? Non ci sono più cavalli nella proprietà?…”. Ella rispose che non ce n’erano più. Non parlò di Bélisaire. Allora egli evocò gli oggetti della sua stanza: i candelabri, il grande specchio, il vecchio liuto rotto… Si informava di tutto ciò, con una passione insolita, come se avesse voluto persuadersi che niente sopravviveva alla sua bella avventura, 197 che la ragazza non gli avrebbe portato un relitto capace di provare che non avevano sognato entrambi, come il palombaro porta dal fondo dell’acqua un ciottolo e delle alghe. La signorina de Galais ed io non potemmo impedirci di sorridere tristemente; lei si decise a spiegargli: “Non rivedrete più il bel castello che avevamo sistemato, il signor de Galais ed io, per il povero Frantz. “Passavamo la nostra vita a fare quello che chiedeva. Era un essere così strano, così affascinante! Ma tutto è sparito con lui la sera del suo fidanzamento mancato. “Già il signor de Galais era rovinato senza che lo sapessimo. Frantz aveva contratto dei debiti e i suoi vecchi compagni – apprendendo della sua scomparsa – sono subito venuti a reclamare da noi. Siamo diventati poveri; la signora de Galais è morta e noi abbiamo perduto tutti i nostri amici in pochi giorni. “Se Frantz ritornasse, se non fosse morto; se ritrovasse i suoi amici e la fidanzata; se le nozze interrotte si celebrassero, forse tutto tornerebbe come era una volta. Ma il passato può rinascere?”. “Chi lo sa!”, disse Meaulnes pensoso. E non domandò più niente. Sull’erba corta e già leggermente ingiallita, camminavamo tutti e tre senza rumore: Augustin aveva alla destra, vicino a lui, la ragazza che aveva creduto perduta per sempre. Quando faceva una delle sue dure domande, girava verso di lui lentamente, per rispondergli, il suo affascinante viso inquieto; e una volta, parlandogli, aveva posato dolcemente la mano sul suo braccio, con un gesto pieno di confidenza e di debolezza. Perché il grande Meaulnes era là come uno straniero, come qualcuno che non ha trovato ciò che cercava e nient’altro può interessare? Quella felicità, tre anni prima, non l’avrebbe sopportata senza spavento, senza follia, forse. Da dove veniva, quindi, quel vuoto, quell’allontanamento, quell’impotenza a essere felice, che c’era in lui, adesso? 198 Ci avvicinavamo al boschetto in cui al mattino il signor de Galais aveva attaccato Bélisaire; il sole verso il tramonto allungava le nostre ombre sull’erba; all’altra estremità del prato, sentivamo, attutito dalla lontananza, come un brusio felice, le voci dei giocatori e delle ragazzine, e restavamo silenziosi in quella calma stupenda, quando sentimmo cantare dall’altra parte del bosco, nella direzione degli Alburni, la fattoria sul bordo dell’acqua. Era la voce giovane e lontana di qualcuno che porta le sue bestie ad abbeverarsi, un’aria ritmata, cadenzata come una danza, ma che l’uomo prolungava e illanguidiva come una vecchia ballata triste: Le mie scarpe sono rosse… Addio miei amori… Le mie scarpe sono rosse… Addio senza ritorno!… Meaulnes aveva alzato la testa e ascoltava. Non era altro che una delle arie che cantavano i contadini ritardatari, alla proprietà senza nome, l’ultima sera della festa, quando tutto era già crollato… Nient’altro che un ricordo – il più misero – di quei bei giorni che non ritorneranno più. “Ma voi lo sentite?” disse Meaulnes a bassa voce. “Oh! Vado a vedere che cos’è”. E subito si infilò nel boschetto. Quasi subito la voce si zittì; si sentì ancora per un attimo l’uomo fischiare alle sue bestie, allontanandosi; poi, più niente… Guardai la ragazza. Pensosa e spossata, aveva gli occhi fissi sul bosco in cui Meaulnes era appena scomparso. Quante volte, più tardi, doveva guardare così, pensosamente, il passaggio da cui se n’era andato per sempre il grande Meaulnes! Ritornò verso di me: “Non è felice”, disse dolorosamente. Aggiunse: “E può darsi che non io possa fare niente per lui?…”. 199 Esitai a rispondere, temendo che Meaulnes, che doveva con un salto aver raggiunto la fattoria e che ora ritornava dal bosco, sorprendesse la nostra conversazione. Ma volevo incoraggiarla, tuttavia; dirle di non aver paura di trattare in modo brusco il grande ragazzo; che un segreto senza dubbio lo faceva disperare e che mai di sua iniziativa si sarebbe confidato con lei, né con nessuno – quando all’improvviso, dall’altro lato del bosco, partì un grido; poi sentimmo uno scalpiccio come di un cavallo che stia scalciando e il rumore di un alterco a voci frammezzate… Capii subito che era capitato un incidente al vecchio Bélisaire e corsi verso il luogo da cui veniva tutto il chiasso. La signorina de Galais mi seguì da lontano. Dal fondo del prato dovevano aver notato i nostri movimenti, poiché sentii, nel momento in cui rientrai nel bosco, le grida di persone che accorrevano. Il vecchio Bélisaire, attaccato troppo basso, si era preso una zampa anteriore nella cavezza; non si era mosso fino al momento in cui il signor de Galais e Delouche, nel corso della loro passeggiata, si erano avvicinati a lui; spaventato, eccitato per l’avena insperata che gli avevano dato, si era dibattuto furiosamente; i due uomini avevano tentato di liberarlo, ma così maldestramente, che erano riusciti a impigliarlo di più, rischiando di subire pericolosi colpi di zoccolo. Era stato in quel momento che per caso Meaulnes, tornando dagli Alburni, era piombato sul gruppo. Furioso per tanta goffaggine, aveva spintonato i due uomini con il rischio di mandarli a rotolare nei cespugli. Con precauzione ma con abilità aveva liberato Bélisaire. Troppo tardi, poiché il male era già fatto: il cavallo doveva avere un tendine strappato, qualche cosa di rotto, forse, poiché teneva pietosamente la testa bassa, la sella allentata sulla schiena, una zampa piegata sotto il ventre ed era tutto tremante. Meaulnes, piegato, lo tastava e lo esaminava senza dire niente. Quando alzò la testa, quasi tutti erano radunati là, ma non vide nessuno. Era rosso di rabbia. 200 “Mi domando”, gridò, “chi abbia potuto attaccarlo in questo modo! E lasciargli la sella addosso per tutta la giornata? E chi ha avuto l’audacia di sellare questo vecchio cavallo, buono tutt’al più per una carretta!”. Delouche voleva dire qualcosa, prendersi la colpa. “Sta’ zitto, almeno! È tutta colpa tua. Ti ho visto tirare come un idiota la cavezza per liberarlo”. E, abbassandosi di nuovo, si rimise a strofinare il garretto1 del cavallo con il piatto della mano. Il signor de Galais, che non aveva ancora detto niente, ebbe il torto di voler uscire dal suo silenzio. Balbettò: “Gli ufficiali di marina hanno l’abitudine… Il mio cavallo…”. “Ah! È vostro?”, disse Meaulnes, un po’ più calmo, benché ancora molto rosso, e girando la testa di lato verso il vecchio. Credetti che stesse per cambiare tono, fare delle scuse. Sbuffò per un momento. E vidi allora che prendeva un piacere amaro e disperato ad aggravare la situazione, a rovinare tutto per sempre, dicendo con insolenza: “Beh, non vi faccio i miei complimenti”. Qualcuno suggerì: “Forse con dell’acqua fresca… Bagnandolo nel guado…”. “Bisogna”, disse Meaulnes senza rispondere, “portare via subito questo cavallo, finché può ancora camminare, – e non c’è tempo da perdere! – metterlo in scuderia e non farlo uscire mai più”. Molti giovani si offrirono subito. Ma la signorina de Galais li ringraziò vivamente. Il viso infuocato, pronta a sciogliersi in lacrime, salutò tutti e anche Meaulnes, sbalordito, che non osava guardarla. Ella prese l’animale per le redini, 1 garretto: nel cavallo, importantissima articolazione tra la zampa posteriore e lo stinco, fondamentale per la sua capacità di movimento. 201 come si dà la mano a qualcuno, più per avvicinarglisi maggiormente, che per condurlo… Il vento di quella fine d’estate era così tiepido sul sentiero delle Sablonnières, che si poteva credere di essere a maggio, e le foglie delle siepi tremolavano alla brezza del sud… La vedemmo partire così, il braccio per metà fuori dal mantello, tenendo nella mano stretta le grosse redini di cuoio. Suo padre camminava faticosamente accanto a lei… Triste fine di pomeriggio! Poco a poco, ognuno raccolse i suoi pacchetti, le sue coperte; si piegarono le sedie, si smontarono i tavoli; una ad una, le vetture, caricate di bagagli e di gente, partirono, con dei cappelli alzati e dei fazzoletti sventolati. Restammo gli ultimi sul terreno con mio zio Florentin che ruminava come noi, senza dire niente, i suoi dispiaceri e la sua grossa delusione. Anche noi partimmo, portati velocemente nella nostra vettura ben molleggiata, dal nostro bel cavallo sauro. La ruota cigolò al tornante nella sabbia e subito, Meaulnes ed io, che eravamo seduti sul sedile di dietro, vedemmo scomparire sulla stradina l’imbocco della scorciatoia che il vecchio Bélisaire e i suoi padroni avevano preso… Ma allora il mio compagno – l’essere meno capace di piangere che conosco al mondo – voltò improvvisamente verso di me il suo viso sconvolto da un pianto irrefrenabile. “Fermatevi, per favore!”, disse, mettendo la mano sulla spalla di Florentin. “Non preoccupatevi per me. Ritornerò da solo, a piedi”. E con un salto, la mano sul parafango della vettura, saltò a terra. Con nostro stupore, ritornando sui propri passi, si mise a correre e corse fino al sentierino che avevamo appena oltrepassato, il sentiero delle Sablonnières. Dovette arrivare alla proprietà per quel viale di abeti che aveva seguito una volta, dove aveva sentito, vagabondo nascosto tra i rami bassi, la conversazione misteriosa dei bei bambini sconosciuti… E fu quella sera, tra le lacrime, che chiese in sposa la signorina de Galais. 202 Capitolo 4 GENTE FELICE ■ È un giovedì, all’inizio di febbraio, un bel giovedì pomeriggio ghiacciato, in cui soffia un gran vento. Sono le tre e mezzo, le quattro… Sulle siepi, vicino ai borghi, i bucati sono stesi da dopo mezzogiorno e asciugano proprio grazie alla burrasca di vento. In ogni casa, il fuoco della sala da pranzo fa brillare tutto un assortimento di giocattoli verniciati. Stanchi di giocare, i bambini si siedono accanto alle madri e si fanno raccontare il giorno del loro matrimonio… A chi ci tiene a non essere felice, è sufficiente salire nel granaio e ascoltare, fino a sera, fischi e gemiti di naufragi; non ha che da andarsene fuori, sulla strada, e il vento gli ripiegherà il foulard sulla bocca, come un caldo bacio improvviso che lo farà piangere. Ma per chi ama la felicità, c’è al fondo di un sentiero fangoso la casa delle Sablonnières, dove il mio amico Meaulnes è rientrato con Yvonne de Galais, che è sua moglie da mezzogiorno. Il fidanzamento è durato cinque mesi. È stato tranquillo, così tranquillo come il primo incontro era stato movimentato. Meaulnes è venuto spesso alle Sablonnières, in bicicletta o in vettura. Più di due volte alla settimana, cucendo o leggendo vicino alla grande finestra che dà sulla landa1 e sugli abeti, la signorina de Galais ha visto tutto ad un tratto 1 landa: territorio disabitato, caratterizzato da bassa vegetazione dovuta alla povertà del suolo. 203 la sua alta figura veloce passare dietro la tenda, poiché viene sempre dal viale fuori mano che ha preso una volta. Ma è la sola allusione – tacita – che egli faccia al passato. La felicità sembra aver addormentato il suo strano tormento. Piccoli avvenimenti hanno scandito quei cinque mesi calmi. Mi hanno nominato maestro nella frazione di SaintBenoist-des-Champs. Saint-Benoist-des-Champs non è un villaggio: sono delle fattorie disseminate attraverso la campagna e l’edificio scolastico è completamente isolato su un pendio al bordo della strada. Conduco una vita molto solitaria, ma, passando nei campi, non occorrono che tre quarti d’ora di cammino per raggiungere le Sablonnières. Delouche vive adesso da suo zio, che è imprenditore edile a Le Vieux-Nançay. Sarà presto lui il padrone. Viene sovente a trovarmi. Meaulnes, su preghiera della signorina de Galais, è adesso molto cordiale con lui. E questo spiega il fatto che siamo là tutti e due a girovagare, verso le quattro del pomeriggio, quando tutti gli invitati delle nozze sono già ripartiti. Il matrimonio si è celebrato a mezzogiorno, con la maggiore discrezione possibile, nella vecchia cappella delle Sablonnières che non è stata abbattuta e che gli abeti nascondono a metà sul versante della collina vicina. Dopo un pranzo rapido, la madre di Meaulnes, il signor Seurel, Millie, Florentin e gli altri sono risaliti in vettura. Non restiamo che Jasmin ed io… Erriamo sul margine dei boschi che sono dietro la casa delle Sablonnières, sul bordo del grande terreno incolto, vecchia area della proprietà oggi abbattuta. Senza volerlo evitare e senza sapere perché, siamo pieni di inquietudine. Invano tentiamo di distrarre i nostri pensieri e di ingannare l’angoscia, mostrandoci, nel corso della nostra passeggiata pigra, le tane delle lepri e i piccoli solchi di sabbia che i conigli hanno grattato di fresco… una trappola tesa… la traccia di un bracconiere… Ma sempre torniamo a quel confine del bosco, da cui si scopre la casa silenziosa e chiusa… 204 Sul basso della grande finestra che dà sugli abeti, c’è un balcone di legno, invaso dalle erbacce che il vento piega. Un chiarore come di fuoco acceso si riflette sui vetri della finestra. Di tanto in tanto passa un’ombra. Tutto intorno, nei campi circostanti, negli orti, nella sola fattoria che rimane delle vecchie dipendenze, silenzio e solitudine. I mezzadri sono andati in paese per festeggiare la felicità dei loro padroni. Di quando in quando il vento, carico di una condensa che è simile alla pioggia, ci bagna il viso e ci porta le note perdute di un pianoforte. Laggiù, nella casa chiusa, qualcuno suona. Mi fermo un istante per ascoltare in silenzio. È prima come una voce tremula che, da molto lontano, osi appena cantare la sua gioia… È come il riso di una bambina che nella sua stanza è andata a cercare tutti i suoi giocattoli e li sparge davanti al suo amico. Penso anche alla gioia ancora timorosa di una donna che si è messa un bel vestito e che lo mostra e non sa se piacerà… Quell’aria che non conosco, è anche una preghiera, una supplica alla fortuna di non essere troppo crudele, un saluto e un inginocchiarsi davanti alla felicità… Penso: “Sono felici finalmente. Meaulnes è laggiù vicino a lei…”. E sapere questo, esserne sicuro, è sufficiente alla contentezza perfetta del bravo ragazzo che sono. In quel momento, tutto assorto, il viso bagnato dal vento della pianura come dallo spruzzo del mare, sento che mi si tocca la spalla: “Ascolta!”, dice Jasmin, sottovoce. Lo guardo. Mi fa segno di non muovermi; e lui stesso, la testa inclinata, i sopraccigli aggrottati, ascolta… “Hu-hu!”. Questa volta ho sentito. È un segnale, un richiamo su due note, alta e bassa, che ho già sentito una volta… Ah, sì! Mi ricordo: è il verso del grande commediante quando chiamava il suo giovane compagno al cancello della scuola. È il 205 richiamo a cui Frantz ci aveva fatto giurare di rispondere, non importa dove e non importa quando. Ma che cosa vuole, qui, oggi, costui? “Viene dalla grande abetaia a sinistra”, dissi a bassa voce. “È un bracconiere, senza dubbio”. Jasmin scosse la testa: “Lo sai bene, che non è vero”, disse. Poi, più piano: “Sono in paese, tutti e due, da questa mattina. Ho sorpreso Ganache alle undici, mentre spiava in un campo vicino alla cappella. È scappato, scorgendomi. Sono venuti da lontano, forse in bicicletta, visto che era coperto di fango fino a metà della schiena…”. “Ma che cosa cercano?”. “Non lo so. Ma sicuramente bisogna che li mandiamo via. Non bisogna lasciarli gironzolare nei dintorni. Oppure tutte le follie ricomincerebbero…”. Sono d’accordo, senza confessarlo. “La cosa migliore”, dissi, “sarebbe raggiungerli, vedere che cosa vogliono e far intendere loro ragione…”. Lentamente, silenziosamente, scivoliamo dunque, chinandoci, attraverso il bosco fino alla grande abetaia da cui parte, a intervalli regolari, quel grido prolungato che non è in sé più triste di altre cose, ma che sembra a entrambi di sinistro auspicio. È difficile, in quella parte del bosco di abeti, dove lo sguardo si addentra tra i tronchi regolarmente piantati, sorprendere qualcuno e avanzare senza essere visti. Non ci proviamo neanche. Mi apposto in un angolo del bosco. Jasmin va a mettersi nell’angolo opposto, in modo da dominare, come me, dall’esterno, due dei lati del rettangolo, per non lasciarsi sfuggire uno degli zingari senza chiamarlo. Prese queste disposizioni, comincio a giocare il mio ruolo di esploratore pacifico, e chiamo: “Frantz!… Frantz! Non avere paura. Sono io, Seurel; vorrei parlarvi…”. 206 Un istante di silenzio; sto per decidermi a chiamare ancora quando, dal cuore stesso dell’abetaia, dove il mio sguardo non arriva per niente, una voce ordina: “Restate dove siete: sta per venire da voi”. Poco a poco, tra i grandi abeti che la lontananza fa sembrare serrati, distinguo la sagoma del giovane che si avvicina. Sembra coperto di fango e mal vestito; delle spille da bicicletta chiudono in basso i suoi pantaloni, un vecchio berretto con un’ancora è appoggiato sui capelli troppo lunghi; vedo ora il suo viso dimagrito. Sembra aver pianto. Avvicinandosi a me, risolutamente: “Che cosa volete?”, domanda con un’aria molto insolente. “E voi, Frantz, che cosa fate qui? Perché venite a disturbare coloro che sono felici? Che cosa avete da domandare? Ditelo”. Così direttamente interrogato, arrossisce un po’, balbetta, risponde solamente: “Sono infelice, io sono infelice”. Poi, la testa sul braccio, appoggiato a un tronco d’albero, si mette a singhiozzare amaramente. Abbiamo fatto qualche passo nell’abetaia. Il luogo è perfettamente silenzioso. Neanche la voce del vento, fermato dai grandi abeti sul confine. Tra i tronchi regolari si ripete e si spegne il rumore dei singhiozzi soffocati del giovane. Aspetto che quella crisi si plachi e dico, mettendogli la mano sulla spalla: “Frantz, verrete con me. Vi condurrò da loro. Vi accoglieranno come un bambino perduto che è stato ritrovato e tutto sarà finito”. Ma non voleva sentire niente. Con una voce smorzata dalle lacrime, infelice, cocciuto, incollerito, riprendeva: “Così, Meaulnes non si occupa più di me? Perché non risponde quando lo chiamo? Perché non mantiene la sua promessa? “Insomma, Frantz”, risposi, “il tempo delle fantasmagorie e degli infantilismi è passato. Non disturbate con delle 207 follie la felicità di coloro che amate; di vostra sorella e di Augustin Meaulnes”. “Ma soltanto lui poteva salvarmi, lo sapete bene. Soltanto lui è capace di ritrovare la traccia che cerco. Presto saranno tre anni che Ganache ed io battiamo tutta la Francia senza risultato. Io non avevo più fiducia se non nel vostro amico. Ed ecco che non risponde più. Ha ritrovato il suo amore, lui. Perché, adesso, non pensa a me? Bisogna che si metta in viaggio; Yvonne lo lascerà pur partire… Lei non mi ha mai rifiutato niente”. Mi mostrava un viso dove, nella polvere e nel fango, le lacrime avevano tracciato dei solchi sporchi, un viso da vecchio ragazzo estenuato e battuto. I suoi occhi erano cerchiati di lentiggini; il suo mento mal rasato; i capelli troppo lunghi si trascinavano sul colletto sporco. Tenendo le mani nelle tasche, batteva i denti. Non era più quel regale bambino in stracci degli anni passati. Nel cuore, senza dubbio, era più bambino che mai: imperioso, capriccioso e subito disperato. Ma quell’infantilismo era penoso da sopportare in un ragazzo già leggermente invecchiato… Prima, c’era in lui tanta orgogliosa giovinezza, che qualunque follia al mondo gli sembrava permessa. Adesso, si era prima tentati di compatirlo per non essere riuscito nella sua vita; poi, di rimproverargli quel ruolo assurdo di giovane eroe romantico in cui lo vedevo intestardirsi… E infine pensavo, mio malgrado, che il nostro bel Frantz dai romantici amori si era dovuto mettere a rubare per vivere, proprio come il suo compagno Ganache… Tanto orgoglio aveva portato a questo! “Se vi prometto”, dissi infine, dopo aver riflettuto, “che tra qualche giorno Meaulnes si metterà alla ricerca per voi, soltanto per voi?…”. “Riuscirà, vero? Ne siete sicuro?”, mi domandò, battendo i denti. “Penso proprio di sì. Tutto diventa possibile con lui!”. 208 “E come lo saprò? Chi me lo dirà?”. “Tornate qui esattamente tra un anno, a questa stessa ora: troverete la ragazza che amate”. E, dicendo questo, pensavo di non disturbare i nuovi sposi, ma di informarmi presso mia zia Moinel e affrettarmi io stesso per trovare la ragazza. Lo zingaro mi guardò negli occhi con una volontà di fiducia veramente ammirevole. Quindici anni, aveva ancora e sempre quindici anni! – l’età che noi avevamo a SainteAgathe, la sera in cui spazzammo le aule, quando facemmo tutti e tre quel terribile giuramento infantile. La disperazione lo riprese quando fu obbligato a dire: “Ebbene, adesso dobbiamo andare”. Guardò, certamente con una stretta al cuore, tutti quei boschi intorno che stava di nuovo per lasciare. “In tre giorni”, disse, “saremo sulle strade della Germania. Abbiamo lasciato le nostre vetture lontano. Camminiamo da trenta ore senza sosta. Pensavamo di arrivare in tempo per portare Meaulnes con noi prima del matrimonio e cercare con lui la mia fidanzata, come lui ha cercato la proprietà delle Sablonnières”. Poi, riprese la sua terribile puerilità: “Chiamate il vostro Delouche”, disse andandosene, “perché, se lo rincontrassi, sarebbe un guaio”. Poco a poco, tra gli abeti, vidi scomparire la sua figura grigia. Chiamai Jasmin e andammo a riprendere la nostra guardia. Ma quasi subito scorgemmo, laggiù, Augustin che chiudeva le imposte della casa e fummo sorpresi per la stranezza del suo atteggiamento. Più tardi ho saputo nei minimi dettagli tutto ciò che era capitato laggiù… Nel salone delle Sablonnières, dall’inizio del pomeriggio, Meaulnes e sua moglie, che io chiamo ancora la signorina de Galais, sono rimasti completamente soli. Poiché tutti gli invitati erano andati via, il vecchio signor de Galais ha aperto la porta, lasciando per un secondo il gran vento pene209 trare nella casa e gemere; poi si è diretto verso Le VieuxNançay, da dove non sarebbe ritornato se non all’ora di cena, per chiudere tutto a chiave e dare gli ordini per la fattoria. Nessun rumore da fuori arriva più, adesso, fino ai giovani. C’è soltanto un ramo di rosaio senza foglie che batte sul vetro, dalla parte della landa. Come due passeggeri su un battello alla deriva, sono, nel forte vento invernale, due amanti chiusi nella felicità. “Il fuoco minaccia di spegnersi”, disse la signorina de Galais e volle prendere un ceppo dal cassone. Ma Meaulnes si precipitò e mise lui stesso la legna nel fuoco. Poi prese la mano tesa della ragazza e restarono là, in piedi, l’uno davanti all’altra, soffocati come da una grande notizia che non si potesse dire. Il vento rimbombava con il rumore di un fiume straripato. Di tanto in tanto una goccia d’acqua, diagonalmente, come sulla portiera di un treno, rigava il vetro. Allora la ragazza scappò. Aprì la porta del corridoio e scomparve con un sorriso misterioso. Un istante, nella semioscurità, Augustin restò solo… Il tic tac di una piccola pendola faceva pensare alla sala da pranzo di SainteAgathe… Egli pensò, senza dubbio: “È dunque qui la casa tanto cercata, il corridoio un tempo pieno di sussurri e di passaggi strani…”. Fu in quel momento che dovette sentire – la signorina de Galais mi disse più tardi di averlo sentito anche lei – il primo richiamo di Frantz, molto vicino alla casa. La ragazza, allora, ebbe un bel mostrargli le cose meravigliose di cui si era caricata: i suoi giocattoli di bambina, tutte le sue fotografie infantili: lei da vivandiera, lei e Frantz sulle ginocchia della madre, che era così carina… poi tutti quei giudiziosi abitini di un tempo: “fino a quelli che portavo, sapete, verso il periodo in cui stavate per conoscermi, quando arrivaste, credo, alla scuola di Sainte-Agathe…”, Meaulnes non vedeva più niente e non sentiva più niente. 210 Per un istante, tuttavia, sembrò riprendersi al pensiero della sua straordinaria, inimmaginabile fortuna: “Voi siete là”, disse sordamente, come se il dirlo soltanto desse le vertigini, “passate vicino al tavolo e la vostra mano vi si posa un istante…”. E ancora: “Mia madre, quando era una giovane donna, si chinava così leggermente con il busto per parlarmi… E quando si metteva al piano…”. Allora la signorina de Galais propose di suonare prima che giungesse la notte. Ma faceva buio in quell’angolo del salone e furono obbligati ad accendere una candela. L’abatjour rosa, sul viso della ragazza, aumentava il rossore sulle sue guance, indice di una grande ansietà. Intanto laggiù, al confine del bosco, io sentivo la canzone tremula che ci portava il vento, rotta presto dal secondo richiamo dei due pazzi che si erano avvicinati a noi tra gli abeti. A lungo Meaulnes ascoltò la ragazza, guardando silenziosamente da una finestra. Più volte si girò verso il viso dolce, pieno di fragilità e di angoscia. Poi si avvicinò a Yvonne e, molto leggermente, mise la sua mano sulla spalla. Ella sentì dolcemente pesare vicino al collo quella carezza alla quale avrebbe voluto saper rispondere. “Il giorno finisce”, disse lui infine. “Vado a chiudere le imposte. Ma non cessate di suonare…”. Che cosa successe allora in quel cuore oscuro e selvaggio? Me lo sono spesso domandato e non l’ho saputo, se non quando era troppo tardi. Rimorsi ignorati? Rimpianti inesplicabili? Paura di veder svanire subito tra le mani quella felicità inaudita che teneva così stretta? E allora, tentazione terribile di gettare irrimediabilmente a terra, subito, quella meraviglia che aveva conquistato? Uscì lentamente, silenziosamente, dopo aver guardato la sua giovane moglie ancora una volta. Lo vedemmo dal limitare del bosco, chiudere prima con esitazione un battente, 211 poi guardare vagamente verso di noi, e chiuderne un altro, e all’improvviso correre a gambe levate nella nostra direzione. Arrivò accanto a noi prima che avessimo potuto nasconderci meglio. Ci scorse, mentre stava per oltrepassare una piccola siepe piantata recentemente e che formava il limite di un prato. Fece uno scarto. Mi ricordo la sua andatura sconvolta, la sua aria da animale braccato… Fece finta di ritornare sui suoi passi per superare la siepe dal lato del ruscelletto. Lo chiamai. “Meaulnes!… Augustin!…”. Ma non girò neanche la testa. Allora, persuaso che quello avrebbe potuto trattenerlo: “Frantz è qui”, gridai. “Fermati!”. Si fermò, finalmente. Ansimante e senza lasciarmi il tempo di preparare ciò che avrei potuto dire: “È qui!”, disse. “Che cosa vuole?”. “È infelice”, risposi. “Veniva a chiederti aiuto per ritrovare ciò che ha perduto”. “Ah!”, disse, abbassando la testa. “Era proprio quello che sospettavo. Avevo un bel cercare di cacciare via quel pensiero… Ma dov’è? Racconta, presto”. Dissi che Frantz era appena partito e che certamente non lo si sarebbe raggiunto, per ora. Fu per Meaulnes una grande delusione. Esitò, fece due o tre passi, si fermò. Sembrava al colmo dell’indecisione e del dispiacere. Gli raccontai che cosa avevo promesso a suo nome al ragazzo. Dissi che gli avevo dato appuntamento tra un anno nello stesso posto. Augustin, così calmo in generale, era adesso in uno stato di nervosismo e di impazienza straordinari: “Ah! Perché fare questo?”, disse. “Ma sì, senza dubbio, posso salvarlo. Ma bisogna che sia subito. Bisogna che lo veda, che gli parli, che mi perdoni e che io ripari tutto… Altrimenti non posso più presentarmi laggiù…”. E si girò verso la casa delle Sablonnières. 212 “Così”, dissi, “per una promessa infantile che gli hai fatto, tu stai per distruggere la tua felicità”. “Ah! Se fosse soltanto quella promessa”, disse. E così seppi che un’altra cosa legava quei due ragazzi, ma senza poter indovinare che cosa. “In ogni caso, non è più il tempo di correre. In questo momento sono in strada per la Germania”. Stava per rispondere, quando una figura arruffata, stravolta, comparve tra di noi. Era la signorina de Galais. Doveva aver corso, poiché aveva il viso bagnato di sudore. Forse era caduta e si era ferita, poiché aveva la fronte scorticata sopra l’occhio destro e del sangue rappreso tra i capelli. Mi è capitato, nei quartieri poveri di Parigi, di vedere improvvisamente scendere in strada, separata dagli agenti intervenuti nella battaglia, una coppia che si credeva felice, unita, onesta. Lo scandalo è scoppiato tutto ad un tratto, non importa quando, al momento di mettersi a tavola, la domenica prima di uscire, al momento di festeggiare il bambino… e ora tutto è dimenticato, devastato. L’uomo e la donna, al centro del tumulto, non sono altro che due demoni penosi e i bambini in lacrime si gettano contro di loro, li abbracciano stretti, li supplicano di tacere e di non picchiarsi più. La signorina de Galais, quando arrivò vicino a Meaulnes, mi fece pensare a uno di quei bambini, a uno di quei poveri bambini sconvolti. Credo che se tutti i suoi amici, se tutto un paese, se tutto il mondo l’avesse guardata, sarebbe accorsa ugualmente, sarebbe caduta nello stesso modo spettinata, piangente, sporca. Ma quando capì che Meaulnes era proprio lì, che questa volta almeno non l’avrebbe abbandonata, allora passò il braccio sotto il suo, poi non poté impedirsi di ridere fra le lacrime, come un bambino. Non dissero niente, né l’uno, né l’altra. Ma, siccome aveva tirato fuori il fazzoletto, Meaulnes glielo prese dolcemente dalle mani: con 213 precauzione e zelo, asciugò il sangue che macchiava i capelli della ragazza. E io li lasciai ritornare entrambi nel gran bel vento della sera d’inverno che sferzava loro il viso – lui, aiutandola con la mano nei passaggi difficili; lei sorridendo e affrettandosi – verso la loro casa per un attimo abbandonata. 214 Capitolo 5 LA “CASA DI FRANTZ” ■ Poco convinto, in preda a una sorda inquietudine, che il felice epilogo del trambusto della vigilia non era stato sufficiente a dissipare, dovetti restare chiuso a scuola per tutta la giornata dell’indomani. Subito dopo l’ora di “studio” che segue la lezione del pomeriggio, presi la strada per le Sablonnières. La notte cadeva, quando arrivai nel viale degli abeti che conduceva alla casa. Tutte le imposte erano già chiuse. Temetti di essere importuno, presentandomi a quell’ora tardiva, l’indomani di un matrimonio. Restai fino a molto tardi a girovagare sul confine del giardino e nelle terre adiacenti, sperando sempre di veder uscire qualcuno dalla casa chiusa… Ma la mia speranza fu delusa. Anche nella fattoria vicina non si muoveva niente. E dovetti rientrare a casa, assillato dalle immaginazioni più cupe. L’indomani, sabato, stesse incertezze. La sera, presi in fretta la mia mantella, il bastone, un boccone di pane, per mangiare in strada, e arrivai, quando cadeva già la notte, per trovare tutto chiuso alle Sablonnières, come la vigilia… Un po’ di luce al primo piano; ma nessun rumore; non un movimento… Tuttavia, dal cortile vidi questa volta la porta della fattoria aperta, il fuoco acceso nella grande cucina e sentii il rumore abituale delle voci e dei passi all’ora di cena. Questo mi rassicurò, anche senza informarmi. Non potevo dire niente, né domandare niente a quelle persone. E ritornai a spiare ancora, ad attendere invano, pensando sempre di vedere la porta aprirsi e uscire infine l’alta sagoma di Augustin. 215 Fu solamente la domenica, nel pomeriggio, che mi decisi a suonare alla porta delle Sablonnières. Mentre mi arrampicavo sui pendii spogli, sentii suonare da lontano i vespri della domenica d’inverno. Mi sentivo solitario e desolato. Non so quale presentimento triste mi invadesse. E non fu che una mezza sorpresa quando, al mio colpo di campanello, vidi il signor de Galais tutto solo apparire e parlarmi a voce bassa: Yvonne de Galais era costretta a letto, con una febbre violenta; Meaulnes aveva dovuto partire già venerdì mattina per un lungo viaggio; non si sapeva quando sarebbe tornato… E, siccome il vecchio, molto imbarazzato, molto triste, non mi invitava a entrare, presi subito congedo da lui. Richiusasi la porta, restai un istante sulla scalinata, il cuore stretto, in uno smarrimento assoluto, a guardare senza sapere perché un ramo secco di glicine che il vento faceva dondolare tristemente in un raggio di sole. Così quel rimorso segreto che Meaulnes portava dal suo soggiorno a Parigi aveva finito con l’essere il più forte. Aveva fatto sì che il mio compagno fuggisse alla fine dalla sua felicità così avvolgente… Ogni giovedì e ogni domenica venni a domandare notizie di Yvonne de Galais, fino al pomeriggio in cui, finalmente convalescente, mi fece pregare di entrare. La trovai, seduta vicino al fuoco, nel salone la cui grande finestra bassa dava sul terreno e sul bosco. Non era per nulla pallida come l’avevo immaginata, ma tutta febbrile, al contrario, con delle vive macchie rosse sotto gli occhi, e in uno stato di agitazione estrema. Benché apparisse ancora molto debole, si era vestita come per uscire. Parlava poco, ma diceva ogni frase con un’animazione straordinaria, come se avesse voluto convincersi da sola che la fortuna non era ancora svanita… Non ho custodito il ricordo di ciò che abbiamo detto. Ricordo solamente che arrivai a domandarle con esitazione quando Meaulnes sarebbe stato di ritorno. 216 “Non so quando ritornerà”, rispose vivacemente. C’era una supplica nei suoi occhi e mi guardai dal domandare di più. Ritornai a trovarla sovente. Sovente parlai con lei vicino al fuoco, in quel salone basso in cui la notte arrivava più presto che in tutti i dintorni. Lei non parlò mai di se stessa, né della sua pena nascosta. Ma non si stancava di farmi raccontare in dettaglio la nostra esistenza di scolari di SainteAgathe. Ascoltava seriamente, teneramente, con un interesse quasi materno, il racconto delle nostre miserie di ragazzi. Non sembrava mai sorpresa, neanche dalle nostre imprese più audaci, più pericolose. Non l’aveva per nulla abbandonata quella tenerezza attenta che aveva ereditato dal signor de Galais e che non era stata mutata dalle avventure deplorevoli di suo fratello. Il solo rimpianto che le ispirasse il passato era, penso, di non essere stata per suo fratello una confidente abbastanza intima poiché, al momento della catastrofe, lui non aveva osato dirle niente di più che ad altri e si era giudicato perduto senza rimedio. Ed era quello, quando ci penso, un pesante incarico che aveva assunto la ragazza – incarico rischioso –, di assecondare uno spirito follemente sognatore come suo fratello; incarico opprimente, quando si trattava di legarsi con quel cuore avventuroso che era il mio amico, il grande Meaulnes. Ella mi donò un giorno la prova più toccante e direi quasi più misteriosa di quella fede che custodiva nelle fantasie infantili di suo fratello, di quella cura che portava nel conservargli almeno le briciole di quel sogno nel quale egli aveva vissuto fino ai vent’anni. Capitò in un pomeriggio d’aprile desolato come una fine d’autunno. Da circa un mese vivevamo in una dolce primavera prematura, e la giovane donna aveva ripreso in compagnia del signor de Galais le lunghe passeggiate che amava. Ma quel giorno, il vecchio, sentendosi affaticato e sapendo che io ero invece libero, mi domandò di accompa217 gnarla malgrado il tempo minaccioso. A più di una mezza lega dalle Sablonnières, costeggiando lo stagno, il temporale, la pioggia, la grandine ci sorpresero. Sotto il capannone dove ci eravamo riparati contro l’acquazzone interminabile, il vento ci gelava, in piedi l’uno vicino all’altra, pensosi, davanti al paesaggio annerito. La rivedo, nel bell’abito severo, tutta pallida, tutta in tormento. “Bisogna rientrare”, disse. “Siamo fuori da così tanto. Che cosa può essere successo?”. Ma, con mia meraviglia, quando ci fu possibile infine lasciare il nostro riparo, la giovane donna, anziché ritornare verso le Sablonnières, continuò il suo cammino e mi domandò di seguirla. Arrivammo, dopo aver camminato per lungo tempo, davanti ad una casa che non conoscevo, isolata al bordo di un sentiero dissestato che doveva andare verso Préveranges. Era una casetta borghese, coperta di ardesia, e che niente distingueva dal tipo usuale in quel paese, tranne la sua lontananza e il suo isolamento. A vedere Yvonne de Galais, si sarebbe detto che quella casa ci appartenesse e che l’avessimo abbandonata durante un lungo viaggio. Aprì, chinandosi, un cancelletto e si affrettò ad ispezionare con inquietudine il luogo solitario. Un grande cortile erboso, dove dei bambini dovevano essere venuti a giocare durante i lunghi e lenti pomeriggi della fine dell’inverno, era sconvolto dal temporale. Un cerchio1 si inzuppava in una pozza d’acqua. Nei giardinetti, dove i bambini avevano seminato dei fiori e dei piselli, la grande pioggia non aveva lasciato che delle strisce di ghiaia bianca. E infine scoprimmo, rannicchiata contro la soglia di una porta bagnata, un’intera covata 1 cerchio: il gioco del cerchio era molto diffuso tra i bambini dell’Ottocento e del primo Novecento. Consisteva in un grande cerchio di legno, del diametro di un metro o più, che veniva fatto correre sul terreno, costringendolo a ruotare con accorti colpi di bastone. 218 di pulcini investita dal temporale. Quasi tutti erano morti sotto le ali irrigidite e le piume sgualcite della madre. A quello spettacolo pietoso, la giovane lanciò un grido soffocato. Si chinò e, senza preoccuparsi dell’acqua né del fango, dividendo i pulcini vivi da quelli morti, li mise in un lembo del suo mantello. Poi entrammo nella casa di cui aveva la chiave. Quattro porte si aprivano su uno stretto corridoio, dove il vento si infilò sibilando. Yvonne de Galais aprì la prima alla nostra destra e mi fece entrare in una camera scura, dove distinsi, dopo un momento di esitazione, un grande specchio e un piccolo letto ricoperto, secondo l’usanza di campagna, da un piumino di seta rossa. Quanto a lei, dopo aver cercato un istante nel resto dell’appartamento, ritornò, portando la covata malata in un cesto riempito di piume, che fece scivolare attentamente sotto il piumino. E, mentre un raggio di sole languido, il primo e l’ultimo della giornata, rendeva più pallidi i nostri visi e più scura la caduta della notte, eravamo là, in piedi, gelati e tormentati, nella strana casa! Ogni momento andava a guardare nel nido febbricitante e toglieva un altro pulcino morto per impedire di far morire gli altri. E ogni volta ci sembrava che qualche cosa come un gran vento dai vetri rotti del granaio, come un dispiacere misterioso di bambini sconosciuti, si lamentasse piano piano. “Era qui”, disse infine la mia compagna, “la casa di Frantz, quando era piccolo. Aveva voluto una casa per lui solo, lontano da tutti, nella quale poter andare a giocare, divertirsi e vivere quando gli piaceva. Mio padre aveva trovato questa fantasia così straordinaria, così buffa, che non aveva rifiutato. E, quando gli piaceva, un giovedì, una domenica, non importa quando, Frantz andava ad abitare nella sua casa come un uomo. I bambini delle fattorie dei dintorni venivano a giocare con lui, ad aiutarlo a fare i lavori di casa, a coltivare il giardino. Era un gioco meraviglioso! E, arrivata la sera, non aveva paura di coricarsi da solo. Quanto a noi, 219 l’ammiravamo talmente, che non pensavamo nemmeno ad essere inquieti. “Ora e da molto tempo”, proseguì con un sospiro, “la casa è vuota. Il signor de Galais, affranto dall’età e dal dispiacere, non ha mai fatto niente per ritrovare e richiamare mio fratello. E che cosa potrebbe tentare? “Io vengo qui molto spesso. I piccoli contadini dei dintorni vengono a giocare nel cortile come una volta. E mi piace immaginare che siano i vecchi amici di Frantz; che anche lui sia ancora un bambino e che stia per ritornare presto con la fidanzata che si era scelto. “Quei bambini mi conoscono bene. Gioco con loro. Questa covata di pulcini era nostra…”. Tutto quel grande dispiacere di cui non aveva mai detto nulla, quel grande rimpianto per aver perduto il fratello così folle, così affascinante e così ammirato, c’era stato bisogno di quel temporale e di quella rovina infantile perché me lo confidasse. E io la ascoltavo senza rispondere niente, il cuore gonfio di singhiozzi… Dopo aver richiuso le porte e il cancello, dopo aver rimesso i pulcini nella capanna di assi che c’era dietro la casa, riprese tristemente il mio braccio e io la riportai indietro. Passarono delle settimane, dei mesi. Tempo passato! Felicità perduta! A colei che era stata la fata, la principessa e l’amore misterioso di tutta la nostra adolescenza, era a me che toccava prendere il braccio e dire ciò che occorreva per addolcire il suo dispiacere, mentre il mio compagno era fuggito. Di quell’epoca, di quelle conversazioni, la sera, dopo la lezione che facevo sulla salita di Saint-Benoist-des-Champs, di quelle passeggiate in cui la sola cosa di cui si sarebbe dovuto parlare era la sola sulla quale ci eravamo decisi a tacere, che cosa potrei dire adesso? Non ho conservato altro ricordo di quello, per metà già cancellato, di un bel viso dimagrito, di due occhi le cui palpebre si abbassavano lentamente mentre mi guardavano, come se già non vedessero altro che un mondo interiore. 220 E io sono rimasto il suo compagno fedele – compagno di una attesa di cui non parlavamo – durante tutta una primavera e un’estate come non ce ne saranno più. Più volte ritornammo di pomeriggio alla casa di Frantz. Apriva la porta per dare aria, affinché niente fosse ammuffito quando la giovane coppia fosse ritornata. Si occupava dei polli per metà selvatici che dimoravano nel cortile. E il giovedì o la domenica, incitavamo ai giochi i piccoli campagnoli dei dintorni, le cui grida e risate, nel luogo solitario, facevano sembrare più deserta e ancora più vuota la casetta abbandonata. Nel mese di agosto, epoca di vacanze, mi allontanai dalle Sablonnières e dalla giovane donna. Dovetti andare a passare a Sainte-Agathe i miei due mesi di ferie. Rividi il grande cortile secco, il portico, l’aula vuota… Tutto parlava del grande Meaulnes. Tutto era riempito dei ricordi della nostra adolescenza già finita. Durante quelle lunghe giornate dorate, mi chiudevo come una volta, prima dell’arrivo di Meaulnes, nello stanzino degli archivi, nelle aule deserte. Leggevo, scrivevo, ricordavo… Mio padre era a pesca lontano. Millie nel salone cuciva o suonava il piano come una volta… E nel silenzio assoluto dell’aula, dove le corone di carta verde strappate, le copertine dei libri premio, le lavagne pulite con la spugna, tutto diceva che l’anno era finito, i premi distribuiti, tutto attendeva l’autunno, la riapertura della scuola ad ottobre e le nuove fatiche – pensavo lo stesso che la nostra giovinezza era finita e la felicità mancata; anch’io attendevo il ritorno alle Sablonnières e il ritorno di Augustin che forse non sarebbe ritornato mai più… C’era tuttavia una lieta notizia che annunciai a Millie, quando si decise a interrogarmi sulla novella sposa. Avevo paura delle sue domande, del suo modo contemporaneamente molto innocente e molto maligno di tuffarti nell’imbarazzo, mettendo il dito sul tuo pensiero più segreto. Tagliai corto a tutto, annunciando che la giovane moglie del mio amico Meaulnes sarebbe diventata madre nel mese di ottobre. 221 Nel mio intimo, mi ricordai il giorno in cui Yvonne de Galais mi aveva fatto capire quella grande notizia. C’era stato un silenzio; da parte mia, un leggero imbarazzo da ragazzo. E avevo detto subito, sconsideratamente, per dissiparlo – pensando troppo tardi al dramma che smuovevo in questo modo: “Dovete essere molto felice…”. Ma lei, senza pensieri riposti, senza rimpianto, senza rimorsi, né rancore, aveva risposto con un bel sorriso di felicità: “Sì, molto felice”. Durante quell’ultima settimana di vacanza, che è in genere la più bella e la più romantica, settimana di grandi piogge, settimana in cui si incominciano ad accendere i fuochi, e che io trascorro di solito a cacciare tra gli abeti neri e bagnati di Le Vieux-Nançay, feci i miei preparativi per ritornare direttamente a Saint-Benoist-des-Champs. Firmin, mia zia Julie e i miei cugini di Le Vieux-Nançay mi avrebbero posto troppe domande alle quali non volevo rispondere. Rinunciai per quella volta a condurre per otto giorni la vita inebriante del cacciatore di campagna e mi presentai al mio edificio scolastico quattro giorni prima del ritorno delle classi. Arrivai quando non era ancora notte nel cortile già tappezzato di foglie ingiallite. Quando il vetturino2 fu andato via, aprii tristemente nella sala da pranzo, piena di echi e “che sapeva di chiuso”, il pacco delle provviste che mi aveva confezionato la mamma… Dopo un pasto leggero senza appetito, impaziente, ansioso, misi il mio mantello e partii per una febbrile passeggiata che mi portò dritto nei dintorni delle Sablonnières. Non volevo introdurmici come un intruso fin dalla prima sera del mio arrivo. Tuttavia, più ardito che a febbraio, dopo aver girato tutto intorno alla proprietà, dove era illu2 vetturino: conducente di vettura pubblica, l’equivalente dell’attuale tassista. 222 minata soltanto la finestra della giovane, oltrepassai, dietro la casa, la siepe del giardino e mi sedetti su una panca, contro la siepe, nell’ombra che iniziava, felice semplicemente di essere là, così vicino a ciò che mi appassionava e mi inquietava di più al mondo. Arrivò la notte. Una pioggia fine incominciò a cadere. La testa bassa, guardavo, senza pensarci, le mie scarpe bagnarsi poco a poco e brillare per l’acqua. L’ombra mi circondava lentamente e la frescura mi raggiungeva senza disturbare la mia fantasticheria. Teneramente, tristemente, sognavo certi sentieri fangosi di Sainte-Agathe, in quella stessa sera di settembre; immaginavo la piazza piena di nebbia, il ragazzo del macellaio che fischia andando alla pompa, il caffè illuminato, la gioiosa infornata di passeggeri con la sua corazza di ombrelli aperti, che arrivava prima della fine delle vacanze dallo zio Florentin… E mi dicevo tristemente: “Che cosa importa tutta questa felicità, dato che Meaulnes, il mio compagno, non può esserci, e neppure la sua giovane moglie…”. Fu allora che, alzando la testa, la vidi a due passi da me. Le sue scarpe, nella sabbia, facevano un rumore leggero che avevo confuso con quello delle gocce d’acqua della siepe. Aveva sulla testa e le spalle un grande scialle di lana nera, e la pioggia fine impolverava sulla fronte i suoi capelli. Senza dubbio, dalla sua stanza, mi aveva visto dalla finestra che dava sul giardino. E veniva verso di me. Nello stesso modo mia madre, una volta, si inquietava e mi cercava per dirmi: “Bisogna rientrare”, ma, avendo preso gusto a quella passeggiata sotto la pioggia e di notte, diceva solamente con dolcezza: “Prenderai freddo!” e restava in mia compagnia a parlare a lungo… Yvonne de Galais mi tese una mano bruciante e, rinunciando a farmi entrare alle Sablonnières, si sedette sulla panca muscosa e coperta di verderame, dalla parte meno bagnata, mentre in piedi, appoggiato con il ginocchio alla stessa panca, mi curvavo verso di lei per sentirla. 223 Mi rimproverò prima amichevolmente per aver così accorciato le mie vacanze: “Bisognava pure”, risposi, “che tornassi al più presto per tenervi compagnia”. “È vero”, disse a voce molto bassa, con un sospiro, “sono ancora sola. Augustin non è tornato…”. Scambiando quel sospiro per un rimpianto, un rimprovero soffocato, cominciai a dire lentamente: “Tante follie in una così nobile testa! Forse il gusto dell’avventura è più forte di tutto…”. Ma la giovane donna mi interruppe. E fu in quel luogo, quella sera, che per la prima e ultima volta, mi parlò di Meaulnes. “Non parlate così”, disse dolcemente, “François Seurel, amico mio. Non ci siamo che noi – non ci sono che io di colpevole. Pensate a quello che abbiamo fatto… “Gli abbiamo detto: ‘Ecco la felicità, ecco ciò che hai cercato durante tutta la tua giovinezza, ecco la ragazza che era alla fine di tutti i tuoi sogni!’ “Come poteva essere che colui che avevamo spinto così per le spalle non potesse essere preso dall’esitazione, poi dalla paura, poi dallo spavento, e non avesse ceduto alla tentazione di fuggire?”. “Yvonne”, dissi sottovoce, “sapete bene che eravate voi quella felicità, quella ragazza…”. “Ah!”, sospirò. “Come ho potuto per un attimo avere quel pensiero orgoglioso? È stato quel pensiero la causa di tutto. “Vi dicevo: ‘Forse io non posso fare niente per lui’. E in fondo a me, pensavo: ‘Poiché mi ha tanto cercata e poiché lo amo, bisognerà bene che faccia la sua felicità’. Ma quando l’ho visto vicino a me, con tutta la sua febbre, la sua inquietudine, il suo rimorso misterioso, ho capito che non ero che una povera donna come le altre… “‘Non sono degno di voi’, ripeteva quando fu l’alba e la fine della notte delle nostre nozze. 224 “E io cercavo di consolarlo, di rassicurarlo. Niente calmava la sua angoscia. Allora dissi: ‘Se è necessario che partiate, se io sono venuta verso di voi proprio nel momento in cui niente poteva rendervi felice, se dovete abbandonarmi per un po’ per ritornare in seguito più calmo vicino a me, sono io che vi domando di partire…’”. Nell’ombra vidi che aveva alzato gli occhi su di me. Era come una confessione che mi aveva fatto, e aspettava, ansiosamente, che io l’approvassi o la condannassi. Ma che cosa potevo dire? Certo, dentro di me, rivedevo il grande Meaulnes di una volta, maldestro e selvaggio, che si faceva sempre punire piuttosto che scusarsi o chiedere un permesso che gli sarebbe stato certamente accordato. Senza dubbio sarebbe stato necessario che Yvonne de Galais gli facesse violenza e, prendendogli la testa tra le mani, gli dicesse: “Che cosa importa ciò che avete fatto; io vi amo; forse che tutti gli uomini non sono che dei peccatori?”. Senza dubbio ella aveva avuto il grande torto, per generosità, per spirito di sacrificio, di rimandarlo sulla strada delle avventure… Ma come avrei potuto disapprovare tanta bontà, tanto amore!… Ci fu un lungo momento di silenzio, durante il quale, turbati fino in fondo al cuore, sentivamo la pioggia fredda gocciolare dalle siepi e sotto i rami degli alberi. “Così è partito al mattino”, proseguì. “Niente più ci separa ormai. E mi ha baciata, semplicemente, come un marito che lasci la sua giovane moglie, prima di un lungo viaggio…”. Si alzò. Presi nella mia la sua mano febbricitante, poi il suo braccio e risalimmo il viale nell’oscurità profonda. “Così non vi ha mai scritto?”, domandai. “Mai”, rispose. E allora, venendo ad entrambi il pensiero della vita avventurosa che conduceva a quell’ora sulle strade di Francia o di Germania, cominciammo a parlare di lui come non l’avevamo mai fatto. Dettagli dimenticati, vecchie impressioni 225 si riaffacciavano alla nostra memoria, mentre lentamente ritornavamo a casa, facendo ad ogni passo delle lunghe soste per meglio scambiarci i ricordi… A lungo – fino allo steccato del giardino – nell’ombra, sentii la preziosa voce bassa della giovane donna; ed io, ripreso dal mio vecchio entusiasmo, le parlai senza stancarmi, con un’amicizia profonda, di colui che ci aveva abbandonato… 226 Capitolo 6 IL QUADERNO DEI COMPITI MENSILI ■ Le lezioni dovevano cominciare lunedì. Il sabato pomeriggio, verso le cinque, una donna della proprietà entrò nel cortile della scuola dove ero occupato a segare della legna per l’inverno. Veniva ad annunciarmi che una bambina era nata alle Sablonnières. Il parto era stato difficile. Alle nove di sera si era dovuto chiamare l’ostetrica di Préveranges. A mezzanotte, il cavallo era stato attaccato di nuovo per andare a cercare il medico di Vierzon. Si erano dovuti usare i ferri1. La bambina aveva la testa ferita e gridava ma sembrava ben in vita. Yvonne de Galais era adesso molto abbattuta, ma aveva sofferto e resistito con un coraggio straordinario. Lasciai lì il mio lavoro, corsi a mettere un’altra giubba e, contento, tutto sommato, di quelle notizie, seguii la brava donna fino alle Sablonnières. Con precauzione, per paura che una delle due creature ferite fosse addormentata, salii per la stretta scala di legno che conduceva al primo piano. E là, il signor de Galais, stanco ma felice, mi fece entrare nella camera dove si era provvisoriamente sistemata la culla circondata di tendine. 1 ferri: nei casi di parti difficoltosi, si usano appositi strumenti chirurgici in grado di estrarre il bambino dal ventre della madre. Ciò, naturalmente, è doloroso per la donna e può, in qualche caso, provocare danni fisici al neonato. Occorre naturalmente tenere presente che, alla fine dell’Ottocento, le tecniche e le attrezzature mediche, pur già evolute, non assicuravano certo la precisione e il margine di sicurezza delle attuali. 227 Non ero mai entrato in una casa dove fosse nato il giorno stesso un bambino. Come mi sembrava bizzarro, misterioso e bello! Era una sera così bella – una vera sera d’estate – che il signor de Galais non aveva timore di aprire la finestra che dava sul cortile. Appoggiato con i gomiti vicino a me sul davanzale della finestra, mi raccontava, con sfinimento e felicità, il dramma della notte; ed io che lo ascoltavo, sentivo oscuramente che qualcuno di straniero era adesso con noi nella camera… Sotto le tendine, costei si mise a strillare, un piccolo grido aspro e prolungato… Allora il signor de Galais mi disse sottovoce: “È quella ferita alla testa che la fa gridare”. Macchinalmente – si vedeva che lo faceva dal mattino e che già ne aveva preso l’abitudine – si mise a cullare il pacchettino di tende. “Ha già riso”, disse il signor de Galais, “e prende il dito. Ma non l’avete vista?”. Aprì le tendine e vidi un visino rosso gonfio, un piccolo cranio allungato e deformato dai ferri: “Non è niente”, disse il signor de Galais, “il medico ha detto che tutto questo si sistemerà da sé2… Datele il vostro dito: lo stringerà”. Scoprivo lì un mondo prima del tutto ignorato. Mi sentivo il cuore gonfio di una gioia strana che in precedenza non conoscevo… Il signor de Galais socchiuse con precauzione la porta della camera della giovane donna. Non dormiva. “Potete entrare”, egli disse. Lei era distesa, il viso febbricitante, in mezzo ai capelli biondi sparsi. Mi tese la mano, sorridendo con un’aria stanca. Le feci i complimenti per sua figlia. Con una voce un po’ 2 si sistemerà da sé: effettivamente, nelle prime ore di vita è possibile che vengano riassorbite deformazioni craniche anche di una certa entità. 228 rauca, e con una ruvidità inconsueta – la ruvidità di qualcuno che ritorni da un combattimento: “Sì, ma me l’hanno rovinata”, disse, sorridendo. Dovetti andare via presto per non stancarla. Il giorno seguente, domenica, nel pomeriggio, mi recai con una fretta quasi gioiosa alle Sablonnières. Sulla porta, uno scritto fissato con degli spilli arrestò il gesto che stavo già per compiere: Si prega di non suonare Non indovinai di cosa si trattasse. Bussai abbastanza forte. Sentii all’interno dei passi soffocati che correvano. Qualcuno che non conoscevo – e che era il medico di Vierzon – mi aprì: “Beh, che cosa c’è?”, dissi vivacemente. “Zitto! Zitto!”, mi rispose pianissimo, l’aria arrabbiata. “La bambina ha rischiato di morire questa notte. E la madre sta molto male”. Completamente sconcertato, lo seguii in punta di piedi fino al primo piano. La bambina addormentata nella culla era molto pallida, bianchissima, come un bambino morto. Il medico era persuaso di poterla salvare. Quanto alla madre, non si sbilanciava… Mi diede delle lunghe spiegazioni, come al solo amico di famiglia. Parlò di congestione polmonare, di embolia. Esitava, non era sicuro… Il signor de Galais entrò, spaventosamente invecchiato in due giorni, sconvolto e tremante. Mi portò nella stanza senza sapere bene che cosa facesse: “Bisogna”, mi disse, piano, “che non si spaventi; il medico ha ordinato di convincerla che va tutto bene”. Tutto il sangue al viso, Yvonne de Galais era distesa, la testa rovesciata come il giorno precedente. Le guance e la fronte rosso scuro, gli occhi a tratti rovesciati, come qualcuno che soffochi, si difendeva contro la morte con un coraggio e una dolcezza indicibili. 229 Non poteva parlare, ma mi tese la mano caldissima, con tanta amicizia, che fui lì per scoppiare in singhiozzi. “Beh! Beh!”, disse il signor de Galais a voce alta, con un buonumore spaventoso, che sembrava quasi follia, “vedete che, per essere una malata, non ha poi un aspetto troppo cattivo!”. E io non sapevo che cosa rispondere, ma tenevo nella mia la mano orribilmente calda della giovane donna morente… Volle fare uno sforzo per dirmi qualche cosa, domandarmi non so che cosa; girò gli occhi verso di me, poi verso la finestra, come per farmi segno di andare fuori a cercare Qualcuno… Ma, proprio allora, una terribile crisi di soffocamento la prese; i suoi begli occhi blu che per un momento mi avevano chiamato così tragicamente, si rovesciarono; le guance e la fronte diventarono livide, e si dibatté dolcemente, cercando di contenere fino alla fine il suo spavento e la sua disperazione. Il medico e le donne si precipitarono con una bombola di ossigeno, delle pezze, dei flaconi, mentre il vecchio, chino su di lei, gridava – gridava come se fosse già stata lontano da lui, con la sua voce ruvida e tremante: “Non aver paura, Yvonne. Non è niente. Non devi avere paura!”. Poi la crisi si placò. Ella poté respirare un po’, ma sempre mezza soffocata, gli occhi bianchi, la testa rovesciata, lottando sempre, ma incapace, anche per un istante, per guardarmi e parlarmi, di uscire dall’abisso in cui era già sprofondata. E, siccome non ero utile a niente, dovetti decidermi ad andare via. Senza dubbio, avrei potuto restare ancora un momento; e a quel pensiero mi sento stringere da un orrendo rimorso. Ma che cosa? Speravo ancora. Mi persuadevo che tutto non fosse così vicino. Arrivando al confine degli abeti, dietro la casa, pensando allo sguardo della giovane donna girata verso la finestra, esaminai con l’attenzione di una sentinella o di un cacciatore di uomini la profondità di quel bosco da cui Augu230 stin era arrivato una volta e dal quale era fuggito l’inverno precedente. Ahimè! Niente si muoveva. Non un’ombra sospetta; non un ramo che ondeggiasse. Ma dopo poco, laggiù, verso il viale che arrivava da Préveranges, sentii il suono sottile di un campanellino; subito apparve alla svolta del sentiero un bambino con una calottina rossa e una blusa da scolaro che camminava dietro un prete3… E io me ne andai, mandando giù le mie lacrime. L’indomani era il giorno del rientro delle classi. Alle sette, c’erano già due o tre ragazzini in cortile. Esitai a lungo a scendere, a mostrarmi. E quando comparvi, infine, girando la chiave dell’aula che sapeva di muffa, che era chiusa da due mesi, ciò che temevo di più al mondo capitò: vidi il più grande degli scolari staccarsi dal gruppo che giocava sotto il portico e avvicinarsi a me. Veniva a dirmi che “la giovane signora delle Sablonnières era morta ieri allo scendere della notte”. Tutto si mescola per me, tutto si confonde in quel dolore. Mi sembra che non avrò mai più il coraggio di ricominciare la lezione. Un niente come attraversare il cortile spoglio della scuola è una fatica che mi rompe le gambe. Tutto è penoso, tutto è amaro, poiché lei è morta. Il mondo è vuoto, le vacanze sono finite. Finite le lunghe corse randage in vettura; finita la festa misteriosa… Tutto ritorna nella sofferenza di prima. Ho detto ai bambini che non ci sarebbe stata lezione, quella mattina. Se ne vanno, a piccoli gruppi, a portare quella notizia agli altri attraverso la campagna. Quanto a me, prendo il mio cappello nero, una giacca decente e me ne vado miseramente verso le Sablonnières… Eccomi davanti alla casa che abbiamo tanto cercato tre anni fa! È in questa casa che Yvonne de Galais, la moglie di 3 un prete: si tratta evidentemente del sacerdote chiamato a confortare la moribonda e ad impartirle l’estrema unzione. 231 Augustin Meaulnes, è morta ieri sera. Un estraneo la prenderebbe per una cappella, tanto si è fatto silenzio, da ieri, in questo luogo desolato. Ecco, dunque, che cosa ci riservavano quel bel mattino del ritorno a scuola, quel perfido sole d’autunno che scivola sotto i rami. Come lotterò contro questo straziante desiderio di rivolta, questa soffocante ondata di lacrime? Abbiamo ritrovato la bella ragazza. L’abbiamo conquistata. Era la moglie del mio compagno ed io la amavo di quella amicizia profonda e segreta che non si dichiara mai. La guardavo ed ero contento, come un bambino. Forse, un giorno, avrei sposato un’altra ragazza, e sarebbe stato a lei per prima che avrei confidato la grande notizia segreta… Vicino al campanello, all’angolo della porta, è stato lasciato lo scritto di ieri. Hanno già portato il feretro nel vestibolo, di sotto. Nella camera del primo piano, è la balia della bambina che mi accoglie, che mi racconta la fine e che socchiude dolcemente la porta… Eccola. Non c’è più febbre, né combattimento. Non c’è più rossore, né attesa… Niente, oltre al silenzio, e, contornato di ovatta, un duro viso insensibile e bianco, una fronte morta da cui escono i capelli fitti e duri. Il signor de Galais, accovacciato in un angolo, con la schiena voltata, è in calzini, senza scarpe, e fruga con una terribile ostinazione nei cassetti in disordine, strappati da un armadio. Ne trae di tanto in tanto, con una crisi di singhiozzi che gli scuote le spalle come una crisi di riso, una vecchia fotografia, già ingiallita, di sua figlia. Il funerale è per mezzogiorno. Il medico teme la decomposizione rapida che segue talvolta le embolie. È per questo che il viso, come tutto il corpo del resto, è fasciato di ovatta imbevuta di fenolo4. 4 fenolo: detto anche acido fenico, è un potente disinfettante, dall’odore assai penetrante. 232 Quando il cadavere è vestito, – le hanno messo il suo stupendo abito di velluto blu scuro, disseminato qua e là da stelline d’argento, ma si sono dovute appiattire e sgualcire le belle maniche a sbuffo, adesso fuori moda – al momento di far salire la bara, ci si accorge che non la si potrà far girare nel corridoio troppo stretto. Bisognerà con una corda issarla da fuori, attraverso la finestra, e nello stesso modo farla scendere in seguito… Ma il signor de Galais, sempre chino su delle vecchie cose tra le quali cerca non si sa quale ricordo perduto, interviene allora con una veemenza terribile. “Piuttosto”, dice con una voce rotta dalle lacrime e dalla collera, “piuttosto che lasciar fare una cosa così terribile, sarò io che la prenderò e la farò scendere tra le mie braccia…”. E farebbe così, a rischio di cadere senza forze, a metà strada, e di crollare con lei! Ma allora mi faccio avanti, prendo la sola decisione possibile: con l’aiuto del medico e di una donna, passando un braccio sotto la schiena della morta stesa, l’altro sotto le gambe, la carico sul mio petto. Seduta sul mio braccio sinistro, le spalle appoggiate contro il mio braccio destro, la testa cascante rivoltata sotto il mio mento, mi pesa terribilmente sul cuore. Scendo lentamente, gradino per gradino, la lunga scala ripida, mentre in basso si prepara tutto. Ho subito le braccia rotte per la fatica. Ad ogni gradino, con quel peso sul petto, sono un po’ più soffocato. Afferrato il corpo inerte e pesante, abbasso la testa sulla testa di colei che porto, respiro con forza e i suoi capelli biondi mi entrano in bocca – dei capelli morti che hanno un sapore di terra. Quel sapore di terra e di morte, quel peso sul cuore, è tutto ciò che resta per me della grande avventura, e di voi, Yvonne de Galais, giovane donna tanto cercata – tanto amata… Nella casa piena di tristi ricordi, dove le donne, per tutto il giorno, cullavano e consolavano una piccola bimba inferma, il vecchio signor de Galais non tardò a mettersi a letto, malato. Ai primi grandi freddi dell’inverno si spense 233 pacificamente e non potei tenermi dal versare delle lacrime al capezzale di quel vecchio uomo affascinante, il cui pensiero indulgente e la cui fantasia, alleata a quella di suo figlio, erano stati la causa di tutta la nostra avventura. Morì, per una vera fortuna, in una incomprensione completa di tutto ciò che era accaduto e, del resto, chiuso in un silenzio quasi assoluto. Poiché non aveva da tempo né parenti né amici in quella regione della Francia, mi designò nel testamento suo erede universale fino al ritorno di Meaulnes, a cui dovevo rendere conto di tutto, se mai fosse ritornato… Ed era alle Sablonnières ormai che abitavo. Non andavo a Saint-Benoist, se non per fare lezione, partendo la mattina di buon’ora, pranzando a mezzogiorno con un pasto preparato alla proprietà, che facevo scaldare sulla stufa, e rientrando il pomeriggio subito dopo lo studio. Così potevo tenere con me la bambina di cui le donne di servizio della fattoria si curavano. Soprattutto, aumentavo le mie possibilità di incontrare Augustin, se fosse rientrato un giorno alle Sablonnières. Non disperai mai, poi, di scoprire alla lunga nei mobili, nei cassetti della casa, qualche carta, qualche indizio che mi permettessero di conoscere l’impiego del suo tempo, durante il lungo silenzio degli anni precedenti – e forse anche di conoscere le ragioni della sua fuga o almeno di trovare una sua traccia… Avevo già inutilmente ispezionato non so quanti armadi a muro e guardaroba, aperto, negli sgabuzzini, una quantità di vecchie scatole di cartone di tutte le forme, che si trovavano, sia piene di pacchi di vecchie lettere e di fotografie ingiallite della famiglia de Galais, sia zeppe di fiori artificiali, di piume, di pennacchi fuori moda. Usciva da quelle scatole non so quale odore di avvizzito, di profumo spento, che improvvisamente risvegliavano in me per tutto il giorno i ricordi, i rimpianti, e arrestavano le mie ricerche… Un giorno di vacanza, finalmente, scorsi nel granaio un vecchio bauletto lungo e basso, fatto di pelle di maiale, per 234 metà rosicchiato e che riconobbi essere il baule da studente di Augustin. Mi rimproverai di non aver incominciato da lì le mie ricerche. Feci saltare facilmente la serratura arrugginita. Il baule era pieno zeppo di quaderni e di libri di Sainte-Agathe. Aritmetica, letteratura, quaderni di problemi, che so?… Con intenerimento piuttosto che con curiosità, mi misi a sfogliare quelle cose, rileggendo i dettati che sapevo ancora a memoria, tante volte li avevamo ricopiati! L’acquedotto di Rousseau, Un’avventura in Calabria di P.-L. Courier, Lettere di George Sand 5 a suo figlio… C’era anche un Quaderno dei compiti mensili. Ne fui sorpreso, poiché quei quaderni restavano a scuola e gli allievi non li portavano all’esterno. Era un quaderno verde tutto ingiallito sui bordi. Il nome dell’allievo, Augustin Meaulnes, era scritto sulla copertina con scrittura rotonda e magnifica. Lo aprii. Dalla data dei compiti, aprile 189…, compresi che Meaulnes l’aveva iniziato pochi giorni prima di lasciare Sainte-Agathe. Le prime pagine erano tenute con la cura religiosa che era la regola quando si lavorava su quel quaderno di composizioni. Ma non c’erano più di tre pagine scritte, il resto era bianco ed ecco perché Meaulnes l’aveva portato via. Intento a riflettere, inginocchiato per terra, su quelle abitudini, su quelle regole infantili che avevano avuto tanto spazio nella nostra adolescenza, facevo girare sotto il mio pollice il bordo delle pagine del quaderno incompleto. E fu così che scoprii degli scritti su altri fogli. Dopo quattro pagine lasciate in bianco, aveva ricominciato a scrivere. Era ancora la scrittura di Meaulnes, ma rapida, brutta, appena leggibile; piccoli paragrafi di larghezza diversa, sepa- 5 Rousseau… Courier… George Sand: per i primi due, cfr. nota 1 a pag. 105. Quanto a George Sand, si tratta dello pseudonimo usato in campo letterario da Amandine Lucie Aurore Dupin (1804-1876), scrittrice francese di ispirazione romantica e di precoci idee femministe. 235 rati da righe bianche. Talvolta non era che una frase incompiuta. Qualche volta una data. Dalla prima riga, capii che potevo trovarvi delle informazioni sulla vita passata di Meaulnes a Parigi, delle indicazioni sulla pista che cercavo, e scesi nella sala da pranzo per scorrere a mio agio, alla luce del giorno, lo strano documento. Era un giorno d’inverno chiaro e agitato. Ora il sole vivo disegnava la croce delle finestre sulle tende bianche, ora un vento brusco gettava sui vetri un fiotto ghiacciato. E fu davanti a quella finestra, vicino al fuoco, che lessi quelle righe che mi spiegarono tante cose e di cui questa è la copia fedele… Sono passato ancora una volta sotto la finestra. Il vetro è sempre polveroso e imbiancato dalla doppia tenda che c’è dietro. Se Yvonne de Galais l’aprisse, non avrei niente da dirle, poiché ormai è sposata… Che fare adesso? Come vivere?… Sabato 13 febbraio. – Ho incontrato sul lungofiume quella ragazza che mi aveva dato delle informazioni nel mese di giugno e che aspettava come me davanti alla casa chiusa… Le ho parlato. Mentre camminava, guardavo obliquamente i leggeri difetti del suo viso: una piccola ruga all’angolo delle labbra, un leggero cedimento delle guance, e della cipria accumulata sulle narici. Lei si è girata tutto ad un tratto e mi ha guardato bene in faccia, forse perché è più bella di fronte che di profilo, e mi ha detto con una voce ruvida: “Mi divertite molto. Mi ricordate un ragazzo che mi faceva la corte, una volta, a Bourges. È stato anche il mio fidanzato…”. Tuttavia, a notte alta, sul marciapiede deserto e bagnato che riflette il chiarore di una lampada a gas 6, si è avvicinata a me all’improvviso, per domandarmi di portarla quella sera a teatro con sua sorella. Noto per la prima volta che è vestita a lutto, con un cappello 6 lampada a gas: alla fine dell’Ottocento, nelle principali città europee e nord americane, l’illuminazione stradale era assicurata da lampioni alimentati con gas combustibile. L’energia elettrica si diffonderà assai lentamente. 236 da signora troppo vecchio per il suo giovane viso, un lungo ombrello sottile, simile a una canna. E, dato che le sono molto vicino, quando faccio un gesto le mie unghie graffiano il crespo del suo corpetto… Faccio delle storie per accordarle ciò che domanda. Arrabbiata, vuole andare via subito. E sono io, ora, che la trattengo e la prego. Allora, un operaio che passa nell’oscurità, scherzando a mezza voce, dice: “Non andare, piccola mia, ti farà del male!”. E siamo restati, entrambi, interdetti. A teatro. – Le due ragazze, la mia amica che si chiama Valentine Blondeau e sua sorella, sono arrivate con delle povere sciarpe. Valentine è seduta davanti a me. Ad ogni istante si gira, inquieta, come domandandosi che cosa voglio da lei. Ed io, io mi sento, vicino a lei, quasi felice; le rispondo ogni volta con un sorriso. Tutto intorno a noi, c’erano delle donne troppo scollate. E noi scherzavamo. Lei prima sorrideva, poi ha detto: “Non bisogna che rida. Anch’io sono troppo scollata”. E si è avvolta nella sua sciarpa. In effetti, sotto il foulard di pizzo nero, si vedeva che, nella fretta di cambiarsi, aveva rimboccato l’orlo della sua semplice camicia accollata. C’è in lei un non so che di povero e d’infantile; c’è nel suo sguardo una non so quale aria sofferente e audace che mi attira. Vicino a lei, il solo essere al mondo che abbia potuto darmi informazioni sulla gente della Tenuta, non smetto di pensare alla mia strana avventura di un tempo… Ho voluto interrogarla nuovamente sul piccolo albergo del viale. Ma, a sua volta, lei mi ha posto delle domande così imbarazzanti, che non ho saputo rispondere niente. Sento che ormai entrambi saremo muti su questo argomento. E tuttavia so anche che la rivedrò. A che scopo? E perché?… Sono condannato adesso a seguire la traccia di qualunque essere che porterà in sé il più vago, il più lontano sentore della mia avventura mancata?… A mezzanotte, nella via deserta, mi domando che cosa significhi questa storia nuova e bizzarra. Cammino lungo case simili a delle scatole di cartone allineate, nelle quali tutto un popolo dorme. E mi ricordo all’improvviso di una decisione che avevo preso il mese 237 scorso: avevo deciso di andare laggiù in piena notte, verso l’una del mattino, di girare dietro l’albergo, di aprire la porta del giardino, di entrare come un ladro e di cercare un indizio qualunque che mi permetta di ritrovare la Tenuta perduta, per rivederla, solamente rivederla… Ma sono stanco. Ho fame. Anch’io mi sono affrettato a cambiarmi d’abito, prima del teatro, e non ho cenato… Tuttavia sono agitato, inquieto, e resto a lungo seduto sul bordo del mio letto, prima di coricarmi, in preda a un vago rimorso. Perché? Noto ancora questo: non hanno voluto né che le riaccompagnassi, né dirmi dove abitino. Ma le ho seguite per tutto il tempo che ho potuto. So che abitano in una piccola via che gira vicino a Nôtre-Dame7. Ma a quale numero?… Ho indovinato che erano sarte o modiste8. Di nascosto da sua sorella, Valentine mi dà appuntamento per giovedì, alle quattro, davanti allo stesso teatro dove siamo andati. “Se non fossi là giovedì”, ha detto, “ritornate venerdì alla stessa ora, poi sabato, e così via, tutti i giorni”. Giovedì 18 febbraio. – Sono uscito per aspettarla nel gran vento che trasporta la pioggia. Viene da dire ad ogni istante: finirà per piovere… Cammino nella semioscurità delle vie con un peso sul cuore. Cade una goccia d’acqua. Temo che piova: un temporale può impedirle di venire. Ma il vento riprende a soffiare e la pioggia non cade neanche questa volta. Lassù, nel grigio pomeriggio del cielo – ora grigio e ora luminoso – una grande nuvola ha dovuto cedere al vento. E io sono qui, sprofondato in un’attesa miserabile. Davanti al teatro. – In capo ad un quarto d’ora sono certo che non verrà. Dal lungofiume in cui sono, sorveglio da lontano, sul ponte dal quale avrebbe dovuto venire, la sfilata delle persone che passano. Accompagno con lo sguardo tutte le ragazze in lutto 7 Nôtre-Dame: cfr. nota 3 a pag. 117. 8 modiste: artigiane che realizzavano i cappellini da donna. 238 che vedo arrivare e mi sento quasi riconoscente verso coloro che, il più a lungo, il più vicino a me, le assomigliano e mi fanno sperare… Un’ora di attesa. – Sono stanco. Al cadere della notte, un vigile urbano trascina alla stazione di polizia più vicina un giovinastro che gli lancia con voce soffocata tutte le ingiurie, tutte le oscenità che conosce. L’agente è furioso, pallido e silenzioso… Già nel corridoio comincia a picchiare, poi chiude dietro di sé la porta per pestare il miserabile con maggior agio… Mi viene in mente il pensiero terribile che ho rinunciato al paradiso e sto scalpitando alle porte dell’inferno. Per farla finita, lascio questo posto e raggiungo quella via stretta e bassa, tra la Senna e Nôtre-Dame, dove so che si trova, più o meno, il luogo della loro casa. Tutto solo vado e vengo. Di quando in quando, una cameriera o una massaia escono sotto la pioggia sottile per fare prima di sera le loro compere… Qui non c’è niente per me, e me ne vado… Ripasso, nella pioggia chiara che ritarda la notte, sulla piazza in cui dovevamo aspettarci. Ci sono più persone di prima – una folla nera… Supposizioni – Disperazione – Stanchezza. Mi aggrappo a questo pensiero: domani. Domani, alla stessa ora, in quello stesso posto, ritornerò ad aspettarla. E ho una gran fretta che arrivi domani. Con noia immagino la serata di oggi, poi la mattinata dell’indomani, che passerò nell’ozio… Ma questa giornata non è già quasi finita? Rientrato a casa, vicino al fuoco, sento gli strilloni9 che pubblicizzano il giornale della sera. Senza dubbio, dalla sua casa perduta da qualche parte in città, vicino a Nôtre-Dame, anche lei li sente. Lei… voglio dire: Valentine. Questa serata che avevo voluto evitare mi pesa stranamente. Mentre il tempo avanza, e questo giorno sta presto per finire e già lo vorrei finito, ci sono degli uomini che vi hanno riposto tutta la loro speranza, tutto il loro amore e tutte le loro ultime forze. Ci sono uomini moribondi, altri che aspettano una scadenza, e che vorreb- 9 strilloni: venditori di quotidiani che attirano l’attenzione dei passanti, gridando le notizie più importanti del giornale. 239 bero non fosse mai domani. Ce ne sono altri per i quali domani spunterà come un rimorso. Altri che sono stanchi e questa notte non sarà mai abbastanza lunga per dare loro tutto il riposo di cui avrebbero bisogno. Ed io, io che ho perduto la mia giornata, con quale diritto oso invocare il domani? Venerdì sera. – Avevo pensato di scrivere di seguito: “Non l’ho rivista”. E tutto sarebbe stato finito. Ma, arrivando questo pomeriggio, alle quattro, all’angolo del teatro, eccola. Sottile e seria, vestita di nero, ma con della cipria sul viso e un colletto che le dà l’aria di un pierrot colpevole. Un’aria contemporaneamente dolorosa e maliziosa. È per dirmi che vuole lasciarmi subito, che non verrà più. Tuttavia, al calare della sera, eccoci ancora entrambi a camminare lentamente uno vicino all’altro, sulla ghiaia delle Tuileries10. Mi racconta la sua storia ma in un modo così contorto, che capisco poco. Dice: “il mio amante”, parlando di quel fidanzato che non ha sposato. Lo fa apposta, penso, per turbarmi e per non farmi attaccare troppo a lei. Ci sono delle frasi sue che trascrivo di malagrazia: “Non abbiate nessuna fiducia in me”, dice, “non ho mai fatto altro che follie”. “Sono andata in giro tutta sola”. “Ho fatto disperare il mio fidanzato. L’ho abbandonato perché mi ammirava troppo; mi vedeva con l’immaginazione e niente affatto per quello che ero. Al contrario, sono piena di difetti. Saremmo stati molto infelici”. Ad ogni istante, la sorprendo a descriversi peggiore di quello che è. Penso che voglia provare a se stessa che ha avuto ragione, un tempo, a fare la stupidaggine di cui parla, che non ha niente da rimpiangere e non era degna della felicità che le si offriva. 10 Les Tuileries: grandi giardini pubblici parigini, situati in prossimità del Museo del Louvre e, dunque, nel cuore della capitale francese. 240 Un’altra volta, mi ha detto, guardandomi a lungo: “Ciò che mi piace in voi, non riesco a capire perché, sono i miei ricordi…”. Un’altra volta diceva: “Lo amo ancora, più di quanto pensiate”. E poi improvvisamente, bruscamente, brutalmente, tristemente: “Insomma, che cosa volete? Mi amate anche voi? Anche voi state per chiedere la mia mano?…”. Ho balbettato. Non so che cosa ho risposto. Forse ho detto: “Sì”. Quella specie di diario si interrompeva lì. Incominciavano allora delle minute di lettere illeggibili, informi, cancellate. Precario fidanzamento!… La ragazza, su preghiera di Meaulnes, aveva abbandonato il suo mestiere. Lui si era occupato dei preparativi del suo matrimonio. Ma senza sosta ripreso dal desiderio di cercare ancora, di partire ancora sulla traccia del suo amore perduto, aveva dovuto, senza dubbio, scomparire più volte; e in quelle lettere, con un imbarazzo tragico, cercava di giustificarsi davanti a Valentine. 241 Vincent Van Gogh, Ritratto di Armand Roulin Capitolo 7 IL SEGRETO ■ Poi il diario riprendeva. Aveva annotato dei ricordi su un soggiorno che avevano fatto entrambi in campagna, non so dove. Ma, cosa strana, a partire da quel momento, forse per un sentimento di pudore segreto, il diario era redatto in modo così frammentario, così informe, scarabocchiato così velocemente, che ho dovuto ricostruire io stesso e riscrivere tutta quella parte della sua storia. 14 giugno. – Quando si svegliò di buon mattino nella stanza dell’albergo, il sole aveva illuminato i disegni rossi della tenda nera. Dei braccianti agricoli, nella sala di sotto, parlavano forte e prendevano il caffè del mattino: si indignavano, con frasi dure e pacate, contro uno dei loro padroni. Da un po’, senza dubbio, Meaulnes sentiva, nel sonno, quel rumore calmo; tanto che, dapprima, non vi fece caso. Quella tenda disseminata di grappoli arrossati dal sole, quelle voci mattutine che salivano nella camera silenziosa, tutto ciò si confondeva nell’impressione unica di un risveglio in campagna, all’inizio di deliziose grandi vacanze. Si alzò, bussò dolcemente alla porta vicina, senza ottenere risposta e la socchiuse senza rumore. Scorse allora Valentine e capì da dove gli veniva tanta placida felicità. Dormiva assolutamente immobile e silenziosa, senza che la si sentisse respirare, come deve dormire un uccello. A lungo guardò quel viso da bambina con gli occhi chiusi, quel viso così quieto, che non ci si sarebbe augurati di svegliarlo, né di disturbarlo mai. 243 Non fece altro movimento, per mostrare che non dormiva, che non aprire gli occhi e guardare. Appena questa si fu vestita, Meaulnes ritornò dalla ragazza. “Siamo in ritardo”, disse lei. E fu subito come una massaia nella sua casa. Mise ordine nelle camere, spazzolò gli abiti che Meaulnes aveva portato il giorno prima e, quando arrivò ai pantaloni, si rattristò. La parte bassa delle gambe era coperta da un fango spesso. Esitò, poi accuratamente, con precauzione, prima di spazzolarli, incominciò a grattare il primo spessore di terra con un coltello. “È così”, disse Meaulnes, “che facevano i ragazzi di Sainte-Agathe quando si erano buttati nel fango”. “A me, è mia madre che l’ha insegnato”, disse Valentine. E così era proprio la compagna che doveva sognare, prima della sua avventura misteriosa, il cacciatore e contadino che era in fondo il grande Meaulnes. 15 giugno. – A quella cena, alla fattoria, dove, grazie ai loro amici che li avevano presentati come marito e moglie, essi furono invitati, con loro grande fastidio, lei si mostrò timida come una novella sposa. Si erano accese le candele di due candelabri, ad ogni capo del tavolo coperto da una tovaglia bianca, come a una tranquilla festa di nozze campagnola. I visi, appena si piegavano sotto quel flebile chiarore, si immergevano nell’ombra. C’erano alla destra di Patrice (il figlio del fattore), Valentine poi Meaulnes, che rimase taciturno fino alla fine, nonostante si rivolgessero quasi sempre a lui. Da quando aveva deciso, in quel villaggio sperduto, al fine di evitare chiacchiere, di far passare Valentine per sua moglie, uno stesso rimpianto, uno stesso rimorso lo rattristavano. E, mentre Patrice, alla maniera di un gentiluomo di campagna, dirigeva la cena, “Sono io”, pensava Meaulnes, “che dovrei, questa sera, in una sala bassa come questa, una bella sala che conosco bene, presiedere la cena delle mie nozze”. 244 Accanto a lui, Valentine rifiutava timidamente tutto ciò che le si offriva. Si sarebbe detta una giovane contadina. Ad ogni nuovo tentativo, guardava il suo amico e sembrava volersi rifugiare contro di lui. Da parecchio, Patrice insisteva inutilmente affinché vuotasse il suo bicchiere, quando finalmente Meaulnes si chinò su di lei e le disse dolcemente: “Bisogna bere, mia piccola Valentine”. Allora, docilmente, ella bevve. E Patrice si congratulò, sorridendo con il giovane per avere una moglie così obbediente. Ma entrambi, Valentine e Meaulnes, restavano silenziosi e pensierosi. Erano stanchi, innanzitutto; i loro piedi, inzuppati dal fango della passeggiata, erano gelati sulle pietre lavate della cucina. E poi, di quando in quando, il giovane era obbligato a dire: “Mia moglie Valentine, mia moglie…”. E ogni volta, pronunciando sordamente quella parola, davanti a contadini sconosciuti, in quella sala scura, aveva l’impressione di commettere un peccato. 17 giugno. – Il pomeriggio di quell’ultimo giorno incominciò male. Patrice e sua moglie li accompagnarono in una passeggiata. Poco a poco, sul pendio disuguale coperto di erica, le due coppie si trovarono separate. Meaulnes e Valentine si sedettero tra i ginepri, in un boschetto. Il vento portava delle gocce di pioggia e il cielo era basso. La serata aveva un gusto amaro: sembrava il sapore di una tale noia, che l’amore stesso non poteva dissipare. A lungo restarono là, nel loro nascondiglio, protetti dai rami, parlando poco. Poi il cielo si alzò. Fece bello. Credettero che, adesso, tutto sarebbe andato bene. E incominciarono a parlare d’amore; Valentine parlava, parlava… “Ecco”, diceva, “ciò che mi prometteva il mio fidanzato, da quel bambino che era: subito avremmo avuto una casa, come una capanna sperduta nella campagna. Era tutta 245 pronta, diceva. Ci saremmo arrivati come al ritorno da un lungo viaggio, la sera del nostro matrimonio, verso quell’ora che è così vicina alla notte. E per i sentieri, nel cortile, nascosti nei boschi, dei bambini sconosciuti ci avrebbero fatto festa, gridando: ‘Viva gli sposi!’… Che follie! Vero?”. Meaulnes, interdetto, preoccupato, l’ascoltava. Ritrovava in tutto ciò come l’eco di una voce già sentita. E c’era anche, nel tono della ragazza, quando raccontava quella storia, un vago rimpianto. Ma lei ebbe paura di averlo ferito. Si girò verso di lui, con slancio, con dolcezza. “Ecco”, disse, “voglio darvi tutto quello che ho: qualche cosa che è stato per me più prezioso di tutto…, e voi lo brucerete!”. Allora, guardandolo fissamente, con un’aria ansiosa, tirò fuori dalla tasca un pacchettino di lettere che gli tese, le lettere del suo fidanzato. Ah! subito egli riconobbe la fine scrittura. Come non averci mai pensato prima! Era la scrittura di Frantz, lo zingaro, che egli aveva visto una volta sul biglietto disperato lasciato nella camera della Tenuta… Camminavano ora su una stradina stretta tra le margheritine e tra i fieni rischiarati obliquamente dal sole delle cinque. Così grande era stato il suo stupore, che Meaulnes non capiva ancora quale sconvolgimento significasse per lui. Leggeva perché lei gli aveva chiesto di leggere. Delle frasi infantili, sentimentali, patetiche… Questo nell’ultima lettera: …Ah! avete perduto il cuoricino, imperdonabile, piccola Valentine. Che cosa ci succederà? Comunque io non sono superstizioso… Meaulnes leggeva, per metà accecato dal rimpianto e dalla collera, il viso immobile, ma tutto pallido, con dei fremiti sotto gli occhi. Valentine, inquieta nel vederlo così, guardò dov’era arrivato, e ciò che lo faceva arrabbiare così. “È”, spiegò molto in fretta, “un gioiello che mi aveva dato, facendomi giurare di conservarlo sempre. Erano le sue idee folli”. 246 Ma ciò non fece che esasperare Meaulnes. “Folli!”, disse, mettendo le lettere nella tasca. “Perché ripetere questa parola? Perché non aver mai voluto credere in lui? Io l’ho conosciuto, era il ragazzo più straordinario del mondo!”. “Voi l’avete conosciuto”, disse lei al culmine dell’agitazione, “voi avete conosciuto Frantz de Galais?”. “Era il mio migliore amico, era il mio fratello di avventure, ed ecco che gli ho preso la fidanzata! Ah!”, proseguì con furore, “quanto male ci avete fatto, voi che non avete voluto credere a niente! Voi siete la causa di tutto. Siete voi che avete rovinato tutto! Rovinato tutto!”. Lei volle parlargli, prendergli la mano, ma egli la respinse brutalmente: “Andatevene. Lasciatemi”. “Beh, se è così”, disse, il viso di fuoco, balbettando e piangendo insieme, “partirò di sicuro. Tornerò a Bourges, a casa nostra, con mia sorella. E se voi non verrete a cercarmi, sapete, no? che mio padre è troppo povero per badare a me; bene! Ripartirò per Parigi, batterò le strade come ho già fatto una volta, diventerò certamente una ragazza perduta, io che non ho più un lavoro…”. E se ne andò a fare le valigie per prendere il treno, mentre Meaulnes, senza neanche guardarla andare via, continuava a camminare a casaccio. Il diario si interrompeva di nuovo. Seguivano ancora delle bozze di lettere; lettere di un uomo indeciso, sconvolto. Rientrato a La Ferté-d’Angillon, Meaulnes scriveva a Valentine, in apparenza per confermarle la risoluzione di non rivederla mai più e darle delle ragioni precise, ma, in realtà, forse perché lei gli rispondesse. In una di queste lettere, le domandava ciò che nella sua confusione, non aveva mai pensato prima di domandarle: sapeva dove si trovasse la proprietà tanto cercata? In un’altra, la supplicava di riconciliarsi con Frantz de Galais. Egli stesso si incaricava di trovarlo… Tutte le lettere di cui vedevo 247 la brutta non dovevano essere state spedite. Ma doveva avere scritto due o tre volte, senza mai ottenere risposta. Quello era stato per lui un periodo di combattimento spaventoso e miserabile, in un isolamento assoluto. Poiché la speranza di rivedere Yvonne de Galais era ormai completamente svanita, deve aver sentito poco a poco la sua grande decisione indebolirsi. E dopo le pagine che seguono – le ultime del suo diario – immagino che dovette, un bel mattino di inizio delle vacanze, noleggiare una bicicletta per andare a Bourges, a vedere la cattedrale. Era partito di buon’ora, per la bella strada diritta tra i boschi, inventando sul cammino mille pretesti per presentarsi degnamente, senza domandare una riconciliazione, davanti a colei che aveva cacciato. Le quattro ultime pagine che ho potuto ricostruire, raccontano quel viaggio e quell’ultimo errore… 25 agosto. – Dall’altra parte di Bourges, all’estremità dei nuovi sobborghi, scoprì, dopo aver lungamente cercato, la casa di Valentine Blondeau. Una donna – la madre di Valentine – sulla porta, sembrava aspettarlo. Era un bel viso di massaia, pesante, sciupato, ma ancora bello. Lo guardava venire con curiosità e, quando lui domandò “se le signorine Blondeau abitavano lì”, lei gli spiegò dolcemente, con benevolenza, che erano a Parigi dal 15 agosto. “Mi hanno proibito di dire dove siano”, aggiunse, “ma, scrivendo al loro vecchio indirizzo, le lettere verranno inoltrate a loro”. E lui, ritornando sui suoi passi, la bicicletta a mano, attraverso il giardinetto, pensava: “È partita… Tutto è finito come ho voluto… Sono io che l’ho forzata a ciò. ‘Diventerò certamente una ragazza perduta’, diceva. E sono io che l’ho mandata là! Sono io che ho rovinato la fidanzata di Frantz!”. E a bassa voce si ripeteva, con follia: “Tanto meglio! Tanto meglio!”, con la certezza che fosse proprio “tanto peggio” invece e che, sotto gli occhi di quella donna, prima 248 di arrivare al cancello, sarebbe incespicato con entrambi i piedi per cadere sulle ginocchia. Non pensò a cenare e si fermò in un caffè, dove scrisse lungamente a Valentine, se non altro per urlare, per liberarsi del grido disperato che lo soffocava. La sua lettera ripeteva indefinitamente: “Come avete potuto! Come avete potuto!… Come avete potuto rassegnarvi a ciò! Come avete potuto perdervi così!”. Vicino a lui degli ufficiali bevevano. Uno di loro raccontava rumorosamente una storia di donne che si sentiva a spizzichi: “…Le ho detto… Dovete certo conoscermi… Gioco con vostro marito tutte le sere!”. Gli altri ridevano e, girando la testa, sputavano dietro le panche. Patito e impolverato, Meaulnes li guardava come un mendicante. Li immaginò tenere Valentine sulle loro ginocchia. A lungo, in bicicletta, vagò intorno alla cattedrale, dicendosi confusamente: “Insomma, è per la cattedrale che sono venuto”. Al fondo di tutte le strade, sulla piazza deserta, la vedeva salire enorme e indifferente. Quelle vie erano strette e sudicie come quelle stradine che circondano le chiese di un villaggio. C’erano, qua e là, l’insegna di una casa losca, una lanterna rossa1… Meaulnes sentiva il suo dolore perduto in quel quartiere sporco, vizioso, rifugiato, come nelle epoche antiche, sotto i contrafforti della cattedrale. Gli veniva una paura da contadino, una repulsione per quella chiesa della città, dove tutti i vizi sono scolpiti nei nascondigli, che è costruita tra luoghi cattivi e che non ha rimedio per i più puri dolori d’amore. Due ragazze passarono, tenendosi per la vita e guardandolo sfrontatamente. Per gusto o per gioco, per vendicarsi del suo amore o per rovinarlo, Meaulnes le seguì lentamente in bicicletta e una di esse, una miserabile ragazza i 1 lanterna rossa: era un tempo il segnale convenzionale che indicava una casa di malaffare. 249 cui radi capelli biondi erano tirati indietro in una crocchia finta, gli diede appuntamento per le sei al giardino dell’Arcivescovado2, il giardino dove Frantz, in una delle sue lettere, dava appuntamento alla povera Valentine. Non disse di no, sapendo che a quell’ora avrebbe da tempo lasciato la città. E dalla sua finestra bassa, nella via in salita, restò a lungo a fargli dei segni vaghi. Lui aveva fretta di riprendere il suo cammino. Prima di partire, non poté resistere al desiderio cupo di passare un’ultima volta davanti alla casa di Valentine. Guardò con intensità e poté fare provvista di tristezza. Era una delle ultime case del sobborgo e la via diventava una strada a partire da quel luogo… Di fronte, una specie di terreno incolto formava come una piccola piazza. Non c’era nessuno alle finestre, né in cortile, nessuno. Sola, lungo un muro, trascinando due bambini vestiti di stracci, una ragazza sporca e incipriata passò. Era là che l’infanzia di Valentine era trascorsa, là che aveva incominciato a guardare il mondo con i suoi occhi fiduciosi e saggi. Aveva lavorato, cucito, dietro quelle finestre. E Frantz era passato per vederla, sorriderle, in quella via del sobborgo. Ma ora non c’era più niente, niente… La triste serata continuava e Meaulnes sapeva solamente che da qualche parte, perduta, durante quello stesso pomeriggio, Valentine guardava passare nei suoi ricordi quella piazza triste dove non sarebbe più ritornata. Il lungo viaggio che gli restava da fare per rientrare doveva essere la sua ultima risorsa contro il dolore, la sua ultima distrazione forzata prima di affondarvi tutto intero. Partì. Nei dintorni della strada, nella vallata, delle deliziose case contadine, tra gli alberi, sul bordo dell’acqua, mostravano le loro facciate appuntite, ornate di graticci verdi. Senza dubbio laggiù, sui prati, delle ragazze assorte parlavano 2 giardino dell’Arcivescovado: cfr. nota 3 a pag. 182. 250 dell’amore. Si potevano immaginare, laggiù, delle anime, delle belle anime… Ma per Meaulnes, in quel momento, non esisteva che un solo amore, quell’amore mal soddisfatto che era stato umiliato così crudelmente, e la ragazza tra tutte che egli avrebbe dovuto proteggere, salvaguardare, era proprio quella che era stata mandata alla perdizione. Alcune righe frettolose del diario mi rivelavano ancora che aveva ideato il progetto di ritrovare Valentine, costasse quel che costasse, prima che fosse troppo tardi. Una data, in un angolo di pagina, mi faceva credere che fosse quello il lungo viaggio per il quale la signora Meaulnes faceva i preparativi, quando ero andato a La Ferté-d’Angillon per scombussolare tutto. Nel municipio abbandonato, Meaulnes annotava i suoi ricordi e i suoi progetti per un bel mattino della fine del mese di agosto – quando io avevo spinto la porta e gli avevo portato la grande notizia che non aspettava più. Era stato ripreso, immobilizzato, dalla sua vecchia avventura, senza osare far niente, confessare niente. Allora erano cominciati i rimorsi, il rimpianto e il dolore, ora soffocati, ora trionfanti, fino al giorno delle nozze, dove il grido dello zingaro tra gli abeti gli aveva teatralmente ricordato il suo primo giuramento di ragazzo. Su quello stesso quaderno di compiti mensili aveva ancora scarabocchiato qualche parola in fretta, all’alba, prima di lasciare, con il suo permesso – ma per sempre –, Yvonne de Galais, sua sposa dal giorno prima: “Parto. Bisognerà proprio che ritrovi la pista dei due zingari che sono venuti ieri nell’abetaia e che sono partiti verso est in bicicletta. Ritornerò da Yvonne soltanto se potrò portare con me e sistemare nella “casa di Frantz” ‘proprio Frantz e Valentine, da sposati’. “Questo manoscritto, che avevo iniziato come un diario segreto e che è diventato la mia confessione, sarà, se non ritorno, di proprietà del mio amico François Seurel”. 251 Doveva aver fatto scivolare il quaderno in fretta sotto gli altri, chiuso a chiave il suo vecchio bauletto da studente, ed era scomparso. Il tempo passò. Io perdevo la speranza di rivedere il mio compagno, e giorni cupi scorrevano nella scuola di campagna, tristi giorni nella casa deserta. Frantz non venne all’appuntamento che gli avevo fissato, e d’altronde mia zia Moinel non sapeva più da molto tempo dove abitasse Valentine. La sola gioia delle Sablonnières fu presto la bambina che avevamo potuto salvare. Alla fine di settembre, già si annunciava come una robusta e graziosa bambina. Stava per compiere un anno. Aggrappata ai listelli delle sedie, le spingeva da sola, cercando di camminare, senza badare alle cadute, e faceva un tale baccano, che suscitava sordi echi nella dimora abbandonata. Quando la tenevo tra le braccia, non sopportava mai che le dessi un bacio. Aveva una maniera selvaggia e affascinante allo stesso tempo di dimenarsi e di respingermi il viso con la manina aperta, scoppiando a ridere. Con tutta la sua gaiezza, con tutta la sua violenza infantile, si sarebbe detto che dovesse cacciare il dispiacere che pesava sulla casa dalla sua nascita. Mi dicevo talvolta: “Senza dubbio, malgrado questa selvatichezza, sarà un po’ la mia bambina”. Ma una volta ancora la Provvidenza decise altrimenti. Una domenica mattina della fine di settembre, mi ero alzato molto presto, prima anche della contadina che si occupava della piccola. Dovevo andare a pescare allo Cher con due uomini di Saint-Benoist e con Jasmin Delouche. Spesso infatti i paesani dei dintorni si accordavano con me per delle grandi partite di bracconaggio3: pesca con le mani, la notte, pesca con lo sparviere4, proibite… Per tutta l’estate, parti- 3 bracconaggio: pesca o caccia in luoghi, in date o con tecniche proibite. 4 sparviere: uccello rapace che può essere addestrato alla caccia, nel Medio Evo era praticata dalla nobiltà e… dai bracconieri… 252 vamo nei giorni di vacanza, sin dall’alba, e non ritornavamo che a mezzogiorno. Era il mezzo di sostentamento di quasi tutti quegli uomini. Quanto a me, era il mio solo passatempo, le sole avventure che mi ricordassero le imprese di una volta. E avevo finito per prendere gusto a quelle escursioni, a quelle lunghe pescate nel fiume o nei canneti dello stagno. Quel mattino, ero dunque in piedi, alle cinque e mezzo, davanti alla casa, sotto un piccolo capannone addossato al muro che separava il giardino all’inglese delle Sablonnières dall’orto della fattoria. Ero occupato a districare le mie reti, che avevo buttato in un mucchio il giovedì precedente. Non faceva affatto chiaro; era il crepuscolo di un bel mattino di settembre; e il capannone dove sistemavo in fretta i miei attrezzi si trovava in parte immerso nell’oscurità. Ero là, silenzioso e indaffarato, quando improvvisamente sentii il cancello aprirsi, un passo stridere sulla ghiaia. “Oh! Oh!”, mi dissi, “ecco i miei amici prima di quanto credessi. E io che non sono ancora pronto!…”. Ma l’uomo che entrava nel cortile mi era sconosciuto. Era, per quanto potessi distinguere, un pezzo d’uomo barbuto, vestito come un cacciatore o un bracconiere. Anziché venirmi a trovare là dove gli altri sapevano di trovarmi sempre all’ora dell’appuntamento, andò direttamente alla porta d’ingresso. “Bene!”, pensai; “è qualcuno dei loro amici che avranno invitato senza dirmelo e che avranno inviato in avanscoperta”. L’uomo tentò di aprire dolcemente, senza rumore, il saliscendi della porta. Ma io l’avevo chiuso, subito dopo essere uscito. Fece lo stesso all’entrata della cucina. Poi, esitando un istante, girò verso di me, rischiarato dalla mezza luce, il suo viso inquieto. E fu allora soltanto che riconobbi il grande Meaulnes. Per un lungo momento rimasi là, spaventato, disperato, ripreso all’improvviso da tutto il dolore risvegliato dal 253 suo ritorno. Era scomparso dietro la casa e aveva fatto il giro: ora ritornava, esitante. Allora avanzai verso di lui e, senza dire niente, lo abbracciai singhiozzando. Immediatamente capì: “Ah!”, disse con una voce secca, ”è morta, non è così?”. E restò lì in piedi, sordo, immobile e terribile. Lo presi per un braccio e dolcemente lo condussi in casa. Faceva giorno, adesso. Subito, perché il più difficile fosse fatto, gli feci salire la scala che conduceva verso la stanza della morta. Appena entrato, cadde sulle ginocchia davanti al letto e restò a lungo con la testa nascosta tra le braccia. Si alzò infine, gli occhi smarriti, titubante, non sapendo dove fosse. E, sempre guidandolo per il braccio, aprii la porta che metteva in comunicazione quella camera con quella della bambina. Si era svegliata da sola – mentre la sua balia era di sotto – e deliberatamente si era seduta nella culla. Si vedeva appena la sua testa stupita, girata verso di noi: “Ecco tua figlia”, dissi. Ebbe un sussulto e mi guardò. Poi l’afferrò e la sollevò tra le braccia. Subito non poteva vederla bene, perché piangeva. Allora, per sviare un po’ quella grande commozione e quel fiotto di lacrime, tenendola sempre stretta a lui, seduta sul suo braccio destro, girò verso di me la sua testa abbassata e mi disse: “Li ho riportati, gli altri due… Andrai a trovarli nella loro casa”. E in effetti all’inizio della mattinata, mentre me ne andavo tutto pensieroso e quasi felice verso la casa di Frantz che Yvonne de Galais mi aveva un tempo mostrata deserta, scorsi da lontano una specie di giovane massaia col colletto rotondo, che spazzava l’entrata della sua porta, oggetto di curiosità e di entusiasmo per numerosi piccoli mandriani azzimati che andavano a messa… Intanto la bambina incominciava ad annoiarsi di essere così stretta, e siccome Augustin, la testa china di lato per nascondere e fermare le lacrime, continuava a non guar254 darla, lei gli mollò un gran colpo con la manina sulla bocca barbuta e bagnata. Questa volta il padre alzò bene in alto sua figlia, la fece saltare al limite delle braccia e la guardò con una specie di sorriso. Soddisfatta, lei batté le mani… Mi ero leggermente isolato per vederli meglio. Un po’ deluso e tuttavia meravigliato, capivo che la bambina aveva finalmente trovato in lui il compagno che aspettava oscuramente. La sola gioia che mi avesse lasciato il grande Meaulnes, sentivo bene che era ritornato a prendermela. E già lo immaginavo, la notte, che avvolgeva sua figlia in un mantello e partiva con lei per nuove avventure. 255 LAVORIAMO SUL TESTO ■ PA R T E P R I M A Capitolo 1 - L’OSPITE 1. Leggendo hai notato che a raccontare gli eventi è un personaggionarratore che è stato, assieme con altri, protagonista delle vicende. Egli non fa una vera e propria presentazione di se stesso, ma sulla base di ciò che dice possiamo farci un’idea precisa della sua personalità: sapresti sintetizzare quello che apprendiamo su di lui in questo primo capitolo? 2. Un altro personaggio che occupa un certo spazio nel capitolo è la mamma del narratore: qual è il suo ruolo nella scuola? Quali caratteri puoi individuare in lei? 3. Il personaggio chiave del romanzo, Augustin Meaulnes, sembra subito esercitare una forza magnetica sulle persone, anche indirettamente; rileggi queste due brevi citazioni relative alla madre di Meaulnes: “Dove sarà finito? Mio Dio!”, diceva a bassa voce. “Era qui insieme a me un momento fa. Ha già fatto il giro della casa. Forse è scappato…”. E, poco oltre: Aveva riconquistato tutta la sua sicurezza. Anzi, poiché parlava di suo figlio, prese un’aria superiore e misteriosa che ci lasciò interdetti. In relazione al significato delle parti citate, scegli la risposta che ritieni più corretta tra le seguenti: o vogliono unicamente segnalare che la signora Meaulnes è rinfrancata poiché ha visto le persone dalle quali si era recata; o sono state pensate dall’autore per mostrare che anche la madre avverte la forte personalità del figlio; o sono state pensate dall’autore per contribuire a creare un alone di mistero attorno al personaggio di Meaulnes. 4. La vita del narratore è sconvolta dall’arrivo del grande Meaulnes: sintetizza come egli trascorreva il tempo, dalle quattro del pomeriggio in avanti, prima e dopo l’arrivo di Meaulnes. Prima Dopo ...................................................... ...................................................... ...................................................... ....................................................... ....................................................... ....................................................... ■ 259 Capitolo 1 - L’OSPITE Comprensione del testo Lingua e lessico 1. Parlando delle notti trascorse il narratore dice di ricordare l’ombra inquieta ed amica di Meaulnes; quindi, verso la fine del capitolo, dice che egli si inseriva nelle discussioni tra gli studenti con un misto di inquietudine e piacere. Le parole inquieta ed inquietudine hanno una connotazione velatamente negativa, mentre le parole amica e piacere sono chiaramente positive. Che cosa rivelano queste espressioni contraddittorie sullo stato d’animo del narratore? 2. Augustin Meaulnes viene soprannominato “il grande Meaulnes”; secondo te è possibile, a questo punto della narrazione, inventare un soprannome anche per il narratore, che alluda ovviamente al suo carattere e alla sua personalità? Se sì, quale sceglieresti? Perché? 3. Completa la tabella scrivendo il contrario dei seguenti termini: Significato Contrario sconforto gioia felicità ansia fiera elogiare tenebrosi pacato .................................................................................. .................................................................................. .................................................................................. .................................................................................. .................................................................................. .................................................................................. .................................................................................. .................................................................................. ■ Capitolo 1 - L’OSPITE Tecniche narrative 1. Nella sequenza iniziale del capitolo vi sono tre riferimenti a Meaulnes, costituiti da brevi accenni, che hanno tuttavia l’effetto di creare una certa suspence: il narratore infatti conosce l’intera vicenda, a differenza del lettore che la scopre gradualmente, e questi accenni sono quindi velati di mistero. Ritrovali e sottolineali direttamente sul testo. 2. Il modo in cui un personaggio viene presentato è molto importante in un testo letterario, in quanto contribuisce a darci un’idea del 260 personaggio stesso. A questo proposito la presentazione di Meaulnes è assai particolare: infatti la sua presenza viene avvertita fisicamente, prima ancora che egli entri in scena. Riassumi in breve l’ingresso in scena di Meaulnes. 3. Qual è stata la tua reazione dopo aver letto l’ultima frase del capitolo? Temi e motivi 1. Il motivo dell’amicizia sarà centrale nel romanzo, ed è preannunciato dal modo schietto e franco con il quale Meaulnes si rivolge per la prima volta al narratore, appena incontrato: che cosa gli dice? Che cosa rivelano quelle semplici parole? 2. Un altro tema centrale del romanzo è quello della festa: leggerai infatti che una festa, scintillante e luminosa, costituisce per molti aspetti il nodo della vicenda. Qui il tema della festa è preannunciato dal primo “gioco” che Augustin e François fanno assieme: di che cosa si tratta? 1. Ti è mai capitato di conoscere una o più persone in circostanze un po’ speciali? Pensaci bene: magari non hai conosciuto qualcuno dei tuoi amici nei soliti ambienti, ma a seguito di qualche combinazione di circostanze e di eventi. Prova a ricordare e a riportare i fatti, raccontando gli episodi e comunicando le tue reazioni. 2. Molti ragazzi leggono poco e, spesso, abbandonano un libro dopo averne letto poche pagine, affermando che la trama non li coinvolge abbastanza. Qual è la tua opinione su questo inizio di romanzo? Esponila in breve. 261 Capitolo 1 - L’OSPITE Proposte operative I LIOCORNI La gioia di leggere, il piace re di IL GRANDE MEAULNES Il romanzo di Fournier è molto noto e occupa un posto di tutto rispetto nella letteratura francese ed europea. Le tematiche affrontate sono vicine al pubblico dei giovani perché l'adolescenza è presentata come il momento nel quale permane il sogno e trionfa la fantasia ereditata dall'infanzia, ma anche come età in cui è già possibile applicare quello sguardo sostanzialmente magico alla realtà del mondo circostante e concreto. Si tratta, dunque, di una condizione privilegiata, in cui si possono cogliere proprio quelle corrispondenze tra sogni interiori e immagini esterne. Il grande Meaulnes affronta la tematica dell'amore, considerato come un urto tra la perfezione disincarnata della fanciulla, vista una sola volta in un luogo di fiaba, e l'intrico di difficoltà creato dalla vita reale. Questa interessante angolazione e questo originale punto di vista costituiscono un tratto di grande modernità e attualità. capire