donne che conosco - Edizioni Helicon

Transcript

donne che conosco - Edizioni Helicon
Laura Basilico
DONNE CHE CONOSCO
Raccolta di racconti
Prefazione di
Cristiana Vettori
Edizioni
Helicon
IN UNA PALESTRA DI MONACO
Milano, 2028
Incontro Simona Arienti, fresca vincitrice del Premio Toscani, nella sua residenza sui Bastioni di Porta Nuova. Ufficialmente perché al contrario di altri colleghi non amo intervistare le persone in teleconferenza, in verità perché ho una
ragione del tutto particolare, quasi disonesta, per trovarmi
qui in carne ed ossa.
“So che lei in passato ha scritto un libro”. Lo estraggo dalla
borsa, e per un attimo credo di scorgere un moto di stizza nel
lampo che le attraversa lo sguardo.
“Ah, quello…Non credevo ne circolassero ancora delle copie, dopo tutti questi anni. Ne furono tirate solo 1500”. Sorride enigmaticamente. È austera, i capelli tinti di un nero
lucido rivaleggiano con la vernice delle scarpe e l’abito color
lampone acceso le cade addosso alla perfezione. Dimostra
tranquillamente 15 anni meno di quelli che ha senza apparire falsa.
“Non me lo sarei mai aspettato. La storia, intendo dire: una
squadra di calcio modesta che arriva terza ai Mondiali…”
“È venuta di persona per questo?”
L’insinuazione, precisa, mi coglie alla sprovvista. Per l’esattezza, mi piacerebbe scoprire come mai non ha continuato
- 11 -
anche a scrivere, invece di dedicarsi solo alla fotografia. “Anche” rispondo infine.
Dopo aver versato il the, mi guarda fisso negli occhi, conficcando il cucchiaino nella fetta di limone come una spada
nel costato del nemico. “Lei è giovane, ambiziosa, e giudica
il mio lavoro superato. Quindi vuole trattare di tutt’altro per
far vedere al suo redattore capo -e al mondo tutto- che la
sua piccola laurea in giornalismo non è un pezzo di carta
inutile. Esatto?” Cristo Santo. “E va bene, Giada, a me piace
la gente che osa, dunque ascolti: quella storia è stata scritta
per rabbia, perché in quella squadra avrebbe dovuto esserci
una persona… No. Ricominciamo da capo, altrimenti non
capirà niente. Nel 1993 mi proposi per un posto vacante in
Germania presso una nota agenzia di Berlino. In pochissimi
parlavano il tedesco, e quasi nessuno dei miei compagni di
corso sembrava intuire di quale fantastica opportunità si trattasse. Il Muro era caduto da poco, e se già era stata una città
affascinante prima, figuriamoci ora, in uno di quei convulsi
momenti di transizione che a volte la Storia regala”
Da come sorride fra sé -fissando un punto indefinito del
tappeto- immagino che la mente l’abbia catapultata in pochi
attimi a quei giorni, in un’epoca che io non ho nemmeno
sfiorato, e che invece è fissata nella sua memoria come uno
stigma.
“Ma rimasi delusa.Venni assegnata alla loro sede di Monaco,
e per mentore mi ritrovai un fotografo sportivo, nientemeno.
Il mio primo vero incarico fu di seguirlo presso il ritiro del
Bayern Monaco: calendario della squadra. Non esattamente un lavoretto facile facile. Riflettori, luci e tutto il resto
dell’ambaradan, i ragazzi inceronati, leccati e pettinati, con le
ginocchia di fuori! Io dico, un uomo sta bene solo in due modi:
o vestito come si deve, in abito scuro e cravatta, o il più svestito possibile. Il discorso è che non tutti possono permettersi
questa seconda opzione senza far ridere”
Sorrido sbalordita. È una persona diversissima da come l’immaginavo.
“Stavamo per terminare, ne mancava uno solo, quando
Rutger, il mio capo, venne chiamato al cercapersone. Comincia tu a studiare le inquadrature di questo ragazzo, mi disse, che io
devo cercare un telefono. Il ragazzo era Niko Mornar, cognome
slavo, ma nato a Berlino, da due anni al Bayern. Quando
fotografi qualcuno, diceva Rutger, devi anche sapere chi è.
Non solo come si chiama o cosa fa, ma molto di più, perché
gli scatti riescano al meglio. Beh, aveva ragione. E io su questo soggetto mi ero già informata veramente a fondo. Fingevo
di provare solo le inquadrature, ma scattavo eccome”
“Intanto eravate rimasti soli” la incalzo.
“Già. Finalmente. Avevo resistito tutta mattina a quel supplizio solo per questo. Ero stata io a far scivolare il suo nome in
fondo alla lista, contando sul fatto che quasi sempre Rutger
veniva contattato dalla moglie verso le 11.30”
“Conserva ancora quegli scatti?”
“Io conservo ogni cosa”
“Posso vederli?” chiedo quasi sussurrando, come se commettessi un’eresia. Ma la curiosità è troppa, voglio vedere per
cosa, per chi era valsa di pena di sopportare quello che aveva
definito supplizio, fotografare una ventina di ragazzi in calzoncini corti.
“Non vuol sentire il resto?
“Certo che sì. Ma anche noi giornalisti dobbiamo sapere di
- 12 -
- 13 -
chi si sta parlando”
“A parte quello scatto che si scelse per il calendario, che poi
secondo me non era neanche il migliore, il resto non è mai
stato pubblicato. Le foto che vedrà sono solo mie, e non creda che vi permetterò di utilizzarle” puntualizza secca.
“Non avevo intenzione di pretenderlo” replico a mia volta
un po’ piccata.
Finalmente ecco il soggetto. Foto a decine. Non particolarmente alto ma ben fatto, capelli lunghi al punto giusto, begli
occhi. Niente male.
“Ci scambiammo il numero di telefono subito quella mattina. Lui aveva già un cellulare, pensi! Io non avevo che un cercapersone con cui Rutger mi perseguitava in continuazione
perché non trovava questo o quello”.
“È bellissima questa” mi soffermo su uno scatto che ritrae
Niko esultante sul campo.
“Sì, piace molto anche a me”. Ridisegna i contorni del corpo con un dito, lentamente, come se questo potesse alitargli
dentro la vita.
“È un album enorme” azzardo, sfogliando con cautela qualche pagina. Mi sento una stronza, perché queste foto sono
piene d’amore, e io le sto violando, con la mia curiosità, ma
è più forte di me. “Avevate una storia?” chiedo finalmente.
“Sì…” ammette con una certa reticenza “Nelle rare pause fra
i rispettivi impegni. Giocare in una grande squadra è un vero
lavoro, sa? Allenamenti duri, un numero impressionante di
incontri, una sequela di aerei, pullman e alberghi intervallati
da ritiri, sedute defatiganti e lezioni di tattica.” Alza le spalle,
ridendo “Sa che prima di conoscere Niko non distinguevo
un terzino da un commercialista?” Ritorna seria di colpo.
“Probabilmente in fotografia dimostra qualche anno in più,
fisicamente, ma ne aveva solo 22”.
Segue un breve, imbarazzato, silenzio. Mi sento così invadente da non riuscire più a guardare in faccia Simona. Dunque
rimetto mano al santuario di un momento dorato che le è
sfuggito di mano. Non riesco a smettere di scrutare, toccare,
sezionare con avidità.
“In parecchi pensavano che fossi troppo grande per lui, ma
quattro anni cosa sono, in fondo?” Si accorge che mi sto
soffermando su una foto di Niko sul campo in posa con i
genitori, quindi prosegue: “Il primo della famiglia destinato
ad arrivare da qualche parte, e per dei Gastarbeiter croati trapiantati all’estero non era una cosa da poco”
“Può ripetere, scusi, quella parola?”
“Gastarbeiter. Aspetti, glielo scrivo io. Significa lavoratori stranieri. Il miracolo tedesco di ricostruzione sponsorizzato dal
piano Marshall richiedeva molta manodopera a bassa specializzazione e a basso costo. La Germania stipulò dunque accordi con vari Paesi, inclusa l’Italia e inclusa quella che allora
si chiamava Jugoslavia, per questa emigrazione concordata.
In teoria temporanea ma che si tradusse spesso in definitiva,
come per i Mornar”.
Fingo di capire di cosa stia parlando, ripromettendomi di
informarmi meglio in seguito.
“Una cosa che non si insegna alle scuole di calcio: come
dribblare i tabloid. Il pazzo rifiutò cortesemente la maglia
della nazionale tedesca, credendo di riuscire a tenere segreto il fatto. Ecco quel numero della Bild. Uno dei titoli più
cubitali della sua carriera: ‘Mornar dice di no a Vogts’. Bertie
Vogts, ex giocatore della nazionale tedesca, all’epoca ne era
- 14 -
- 15 -
l’allenatore”.
“Perché l’avrebbe fatto? Un’offerta del genere non capita
certo a tutti!”
“La nazionale croata. Finalmente nel 1994 sarebbero stati
ammessi per la prima volta come nazione indipendente alle
qualificazioni di un torneo continentale, ed era quello il suo
obiettivo. Che raggiunse senza problemi”
E allora come mai nel 1998 non c’era? Non glielo chiedo. Non
ancora. Non voglio che questa storia finisca.
“In fondo quel rifiuto non era poi così insensato. Sarebbe
rimasto sempre un rincalzo, nella Germania, la riserva di un
altro più bravo, più famoso, e ovviamente più tedesco. Quella
Nazionale cominciò per così dire a imbastardirsi con gli stranieri nati sul territorio solo molti anni dopo”
“E invece nella Croazia…?”
“Il posto da titolare era suo, senza discussioni. In una Nazione di provincia? Ok, ma non per lui. I croati, popolo di emigranti, a volte ricordano gli irlandesi. Più sono distanti, più
hanno nostalgia di una patria dove raramente mettono piede.
È un mito che li aiuta a vivere. E alla fine l’hanno avuta, l’indipendenza, col sangue, ottenendo in pochi anni quello che
per esempio proprio gli irlandesi non sono riusciti a spuntare
davvero in oltre otto secoli di lotta sotto il tacco britannico”
“E quando si combatté esattamente questa guerra?”
“Per quanto concerne i croati, una prima parte nel 1991 e
una seconda nel 1995”
Ho veramente molte, troppe lacune storiche. Sarà difficile
scrivere questo pezzo.
“Accadde che alla ripresa delle ostilità un mio collega, un
amico, rimase ucciso da una mina. Iniziammo a litigare per
questo. Niko gli aveva sempre rimproverato di vendere il suo
lavoro a riviste da strapazzo, e sembrava quasi contento che
proprio quel conflitto che si era ‘ostinato a fotografare perché
qualche casalinga ne avesse orrore sotto il casco del parrucchiere’ lo
avesse punito. Candida ottusità di un ingenuo cresciuto fuori
dalla mischia. Una guerra è sempre stupida, o no? Persone
innocenti muoiono. Giovani con tutto il futuro davanti vengono strappati alle famiglie per ammazzarsi fra loro a causa
dei capricci di pochi individui bramosi di potere. Ma io, mi
rimproverava, ero nata in Paese libero, che ne potevo sapere?
Non potevo capire che quando una cosa è al 100% giusta
non importa quale prezzo si paga per ottenerla”
Scuoto la testa con cautela, lasciando intendere che anch’io
la vedo grosso modo così.
“Certo” continua Simona, che ha compreso il significato
delle rughette che si sono rincorse sul mio viso “sulla carta
ognuno di noi può essere d’accordo con questo enunciato.
Almeno finché si resta nel teorico. Ma lui dov’era nato, e
dove era sempre vissuto? In Germania! A morire erano gli
altri, altrove. Lui per la Patria indossava solo una bella magliettina a scacchi, standosene al sicuro.
Dopo quel pomeriggio di urla infernali partii, furibonda, per
lavoro. Rientrata, dopo una ventina di giorni, decisamente
più calma, provai a cercarlo, prima telefonicamente, poi a
casa. Non c’era. L’appartamento era sfitto. Tentai inutilmente
con i genitori, che mi riappesero la cornetta in faccia, quindi
interpellai un paio di compagni di squadra ai quali era particolarmente legato. Uno di loro, quasi sgomento, mi confessò
che nessuno lo vedeva o lo sentiva da almeno due settimane.
Del mondo che speravo di ritrovare non esisteva più nulla.
- 16 -
- 17 -
Di lui mi è rimasto quello che vede in questa scatola, e qualche regalo”
Credo di aver compreso. Simona gira piano i fogli del suo
album, quasi a rallentare l’avvento della fine. Non è stata colpa tua, vorrei dirle. Un idiota, immotivato senso di colpa l’ha
spinto laggiù, a diventare un muto segreto nel ventre della
terra, così a tradimento.
“Me lo tratti bene”
“Se preferisce, non ne parlerò affatto” mi sorprendo a dire,
totalmente insincera.
Sul suo volto si disegna uno strano sorriso. Per tutti Niko è
nell’oblio da 35 anni, e lei non è certa di desiderare che il
pubblico -un pubblico, sebbene non così numeroso- se ne
appropri anche solo per qualche attimo. Sta decidendo se
lasciarlo andare o no. Vuole che rimanga suo, e allo stesso
tempo sembra stanca di tenerselo accartocciato nel cuore.
“Questa la può usare”. Mi porge una fotografia. È bellissima,
e per un attimo ho la sensazione che Niko Mornar stia ancora posando in quella palestra di Monaco di Baviera dove
tutto ebbe inizio, dove Simona Arienti ottenne un numero
di cellulare scritto a mano su un post-it.
PSICOPATOLOGIA
DEL MESTOLO QUOTIDIANO
Quando si dice essere animati dalle migliori intenzioni. La
tua amica più cara per il compleanno ti regala l’iscrizione a
un corso sociopsicoculinario.
“E sarebbe? Come trovare qualcuno con cui condividere a
chiappe nude il lettino dello strizzacervelli? Uhm, una bella
idea anticrisi”. Fingo di non sentire questo commento da
marito di lungo corso, e leggo il pieghevole. Più che un programma, enuncia una specie di dichiarazione di guerra.
Non è vero che odiamo cucinare. È quanto ci fanno credere gli altri.
Non è vero che non sappiamo cucinare. È quanto ci fanno credere
gli altri.
Non è vero che non possiamo imparare a cucinare. È quanto ci fanno
credere gli altri.
Temo che la docente abbia visto un po’ troppe volte “Ratatouille” con i figli, oltretutto innamorandosi follemente dello
sguattero Linguini. Non vedo altre spiegazioni.
“Ciao” mi saluta una voce famigliare.
“Oh, Fatima, ciao”
Sono sorpresa di trovarla qui. La sera, fuori, senza bambini,
senza marito, senza suoceri. Mi fa piacere per lei. Certo, è
- 18 -
- 19 -