Maquetación 1 - Universidad Complutense de Madrid

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Maquetación 1 - Universidad Complutense de Madrid
Dante (e Cino) 1302-1306
LEYLA M. G. LIVRAGHI
Università di Pisa
[email protected]
RIASSUNTO:
Il presente saggio è dedicato interamente al sodalizio che Dante strinse con
Cino in quella particolare fase della sua biografia coincidente con i primi anni
dell’esilio. In alcuni dei sonetti che i due poeti si scambiarono, restano le tracce
del percorso ideologico di Dante, che in quegli anni fu prima impegnato a giustificare la sua rinnovata dedizione verso la donna gentile (nel Convivio), quindi
riaffermò l’amore per Beatrice (nella Commedia). Inoltre, letta in questo modo,
la corrispondenza riesce a spiegare tanto il ruolo eminente attribuito a Cino nel
De vulgari eloquentia, quanto la sua sparizione dall’orizzonte del poema.
PAROLE CHIAVE: Cino da Pistoia, esilio, ‘donna gentile’, Convivio, De vulgari eloquentia.
ABSTRACT:
This contribution is entirely devoted to the friendship and literary collaboration which occurred between Dante and Cino at the beginning of Dante’s exile.
In some of the sonnets the two poets exchanged with each other, we can see the
traces of Dante’s ideological path: in those years, he first justified his devotion
to the “donna gentile” (in the Convivio); then, he returned to the love for Beatrice
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(in the Comedy). Furthermore, if this correspondence is interpreted according to
this scheme, it can explain both Cino’s importance in the De vulgari eloquentia
and his disappearance in the Comedy.
KEY WORDS: Cino da Pistoia, exile, ‘donna gentile’, Convivio, De vulgari
eloquentia.
1. Lo studio del rapporto fra Dante e Cino non si è spinto molto oltre
la verifica di uno stato di fatto, documentato dall’innegabile preminenza
di Cino nel De vulgari eloquentia. La poesia ciniana è stata giudicata
come la riproposizione pacatamente elegiaca dei temi e dei modi che, con
un'altra consapevolezza teorica, Dante e il suo primo amico (attorniati peraltro da un non ben definito gruppo di rimatori che ne condividevano le
premesse e gli scopi, tra cui, almeno per un periodo, Lapo Gianni) avevano definito nella Firenze degli anni ottanta del Duecento. Una volta riconosciuto in Dante il sommo autore ciniano, la radice della sua
ispirazione è stata ridotta a una ben calcolata logica combinatoria di stilemi ormai topici, soprattutto danteschi, riorganizzati però secondo una disposizione nuova che preludeva al all'introspezione psicologica di
Petrarca.1
Di conseguenza, la menzione di Cino, alter ego dantesco di più bassa
levatura e di più modesto costrutto, sarebbe risultata superflua nella Commedia, bastandogli l’essere compreso anonimamente tra gli altri epigoni
del maximus Guido, quelli che Dante celebra come: «li altri miei miglior
che mai / rime d’amore usar dolci e leggiadre» (Pg. XXVI, 98-99). L’ingannevole understatement parrebbe suggerire che Dante, ormai fattosi
vate e teologo, conferisse la dignità di miglior poeta d’amore a qualcuno
dei compagni con cui in altri tempi aveva condiviso la scrittura di rime
muliebri, magari allo stesso Cino che di quel titolo si era fregiato nel De
vulgari eloquentia come analogo di Arnaut Daniel. La reticenza finisce
anzi per risaltare maggiormente, considerando che la cornice dei lussuriosi sarebbe stato il luogo più idoneo per fare riferimento a Cino, al quale
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spettava un posto, e non solo per oggettivi meriti poetici ma proprio
stando al De vulgari eloquentia, «presso ad Arnaldo Daniello».2 Nel trattato, infatti, Dante colloca Cino al suo fianco come esempio di eccellenza
poetica, lasciando intendere che il riconoscimento andrebbe esteso a un
più ampio gruppo di innominati: «qui dulcius subtiliusque poetati vulgariter sunt, hii familiares et domestici sui sunt, puta Cynus Pistoriensis et
amicus eius» (Dve I, X, 2). Il volgare latium aveva dato origine a una sua
letteratura più tardi delle lingue d’oïl e d’oc, ma su quelle poteva vantare
il primato che gli garantivano Dante e Cino, autori delle rime in assoluto
più dolci e sottili. Il costituirsi della coppia Dante-Cino sancisce con fermezza un nuovo sodalizio poetico, facendo scomparire dietro a un «puta»
che introduce i casi esemplari del pistoiese e del suo amico tutti gli altri
poeti che raggiunsero l’eccellenza in volgare, forse quelli stessi di cui si
sarebbe detto nel trattato, ma segnatamente gli stilnovisti fiorentini ricordati nel capitolo XIII, dove Dante dimette la perifrasi che lo designa nel
resto dell’opera, «amicus eius», e che lo lega più strettamente a Cino, per
comparire come «unum alium» accanto ai compagni di un tempo: ridotti
anche questi, a dire il vero, al solo Guido e a Lapo.3
Si è fatta strada la convinzione che il De vulgari eloquentia contenga
delle tesi da cui sarebbe pregiudicata la stima che Dante fa mostra di nutrire nei confronti della poesia ciniana. È infatti risaputo che Dante, insieme al successivo contributo petrarchesco, ha giocato un ruolo
importante nel processo di regolarizzazione della canzone, che è destinata
ad assestarsi come forma metrica prettamente endecasillabica, mentre il
settenario veniva gradualmente relegato alla funzione di verso d’appoggio. La canzone ciniana, dall’andamento spesso decisamente ragionativo,
predilige invece il settenario. Con un settenario esordisce Degno son io
ch’io mora, cioè la canzone di Cino che in Dve II, II, 8 è presentata come
svolgimento esemplare della tematica amorosa. A norma di Dve II, XII, 6,
la stanza di una canzone in stile tragico non dovrebbe mai aprirsi con un
settenario, perciò Dante, citando Degno son io, starebbe implicitamente
limitando il rilevo poetico di Cino all’atto stesso di riconoscerlo sommo
poeta d’amore. Tuttavia, nel capitolo XII del secondo libro non è tanto
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messa in discussione l’opera ciniana, bensì quella di alcuni poeti bolognesi. Oltre a Guinizzelli, che è rappresentato dalla canzone Di fermo sofferire, nota altrimenti con una differente attribuzione, sono citati i minori
Guido Ghislieri e Fabruzzo de’ Lambertazzi, presenti con le stesse canzoni, che non ci sono pervenute, lodate come espressione del volgare latium nel XV capitolo del primo libro. Dante va dunque a rivedere e a
puntualizzare un giudizio che ha espresso poco prima, operando una distinzione all’interno dei componimenti di stile più elevato: le canzoni propriamente tragiche e quelle di Fabruzzo e del Ghislieri, venate di elegia.
Piuttosto che affidarsi a effetti di svilimento a distanza, che a fronte
della posizione eminente di Cino nel trattato non credo possano essere determinanti, conviene confortare l’opinione che Dante aveva del neoeletto
sodale direttamente sui componimenti ciniani a cui in concreto sceglie di
richiamarsi. Dante cita la già menzionata Degno son io ch’io mora come
esemplificativa dell’amoris accensio, I’ no spero che mai per mia salute
come canzone che comincia con un endecasillabo, infine Avegna ched el
m’aggia più per tempo tra quelle dotate di un «gradum constructionis excellentissimum» (Dve II, VI, 5). La prima presenta uno stile arcaico e sicilianeggiante, la seconda si rifà alla fenomenologia dell’amore folle,
riproponendo più o meno espressamente temi già cavalcantiani, infine la
terza è il celeberrimo planh in morte di Beatrice, intessuto su memorie vitanovesche. Insomma, le tre canzoni svolgono la tematica principe dell’amore secondo prospettive affatto differenti. Sembra che il De vulgari
eloquentia ambisca a costruire un ritratto di Cino unitario ma sfaccettato,
replicando lo stesso tipo di operazione che Dante tentava per la propria
opera, esemplificata in primis dall’immancabile Donne ch’avete, mentre
«egli si è già presentato con tre altre canzoni, di tutt’altro e vario segno:
con la “giraldiana” Doglia mi reca, come poeta della rectitudo (II ii 8); con
la “post-beatriciana” Amor che movi (II v 4); e con l’allegorica Amor che
ne la mente, per la filosofica “donna gentile” e per il Convivio (II vi 6); e
la prossima (II x 2) sarà la petrosa e “arnaldiana” Al poco giorno» (Tavoni
in Alighieri 2011: 1480, nota a Dve II, VIII, 8). Cino diventerebbe in questo
modo un candidato preferibile allo stesso Cavalcanti per la qualifica di
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cantor amoris. Al contrario di Donna me prega, la cui eccezionale fusione
di poesia volgare e scienza aristotelica ne determinò l’isolamento, dacché
fino ad allora una sperimentazione così ardita era rimasta intentata, mentre
in seguito non sarebbe più stata ripetuta, Degno son io riprende e rielabora
una riconoscibile maniera poetica, quella dei rimatori federiciani. Elevare
a canone una canzone d’ascendenza siciliana, fatto non accettabile forse
pacificamente, appare più comprensibile se lo si inquadra nello scenario
extra comunale in cui Dante fu proiettato con l’inizio del suo esilio. La maturazione di una nuova ideologia traspare dal quadro che il De vulgari eloquentia fornisce di tutte le scuole poetiche in volgare del sì. Sorvolando
su alcune figure isolate di rimatori (per cui il giudizio positivo di Dante
deve essere spiegato a parte), ai cosiddetti siculo-toscani è negata qualsiasi
competenza formale, lo stilnovo fiorentino di matrice cavalcantiana ne
esce molto ridimensionato, mentre sulla scena poetica dove campeggiano
Cino e l’amicus eius rimangano soltanto i siciliani, poeti non a caso dell’ultima curia davvero nazionale. Sulla lirica siciliana viene addirittura
appiattita tutta la poesia volgare composta in Italia: «quicquid poetantur
Ytali sicilianum vocatur».4
La maniera siciliana ha inoltre influenzato notevolmente Cino. Neppure
il planh Avegna ched el m’aggia, che commemora la morte di Beatrice
tessendone le lodi sulla base di riconoscibili rimandi vitanoveschi (in particolare a Donne ch’avete, Li occhi dolenti e Oltre la spera), si sottrae all’utilizzo di spunti ulteriori che affiancano il modello dantesco e che sono
in primis dedotti dalla poesia siciliana o, più precisamente, lentiniana,
come Roncaglia ha mostrato con dovizia di esempi, arrivando ad attribuire
a Cino «un’altra funzione mediatrice: tra il Notaro da Lentino (o più in generale: la Scuola siciliana) e Dante» (Roncaglia 1976: 22). Degno son io,
poi, è arcaizzante nel metro (3 strofe di schema abCcbADeeDEddE) e per
un certo lessico usato, come ‘servire’ («i’ ho servito quanto / mostrar ver’
me disdegno vi piacesse», vv. 16-17), che nell’accezione di ‘meritare’ era,
secondo Marti, «d’ascendenza siciliana» (Marti in Cino da Pistoia 1969:
625, nota 4), oppure «pietanza» (v. 38), gallicismo piuttosto comune in
Cino. Paolo Trovato ha inoltre sostenuto la cruciale plausibilità della forma
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in cui il primo verso della canzone è attestato dalla tradizione indiretta,
cioè proprio dai tre codici che ci tramandano il De vulgari eloquentia, i
quali leggono concordi Digno son eo di morte.5 La lezione si considera da
sempre uno strano lapsus mnemonico di Dante che, nel citare l’incipit ciniano, dimenticherebbe la rima tra il primo e il sesto verso: «che non sapeste quando n’uscì fora». Passando in rassegna i tre antichi canzonieri L,
P e V, Concordanze poetiche delle Origini alla mano, Trovato individua
altri esempi di rime imperfette del tipo ciniano ‘morte/fore’ in componimenti di stile elevato. Al contrario, la lezione ‘ch’io mora’ entra in grave
sospetto di correzione, essendo attestata da due codici che risalgono rispettivamente a Trissino e a Bembo. La variante cinquecentesca è oltretutto estranea alla sintassi antica, in cui si moltiplicano le forme ‘degno di’
più sostantivo o verbo, mentre non si trova una singola attestazione di
‘degno che’ più congiuntivo.
La patina arcaica non si limita a interessare la forma della canzone, ma
riguarda intimamente la materia che in essa è trattata. Nella prima stanza,
Cino confessa alla sua donna l’imperdonabile colpa di cui si è macchiato,
cioè di averle rubato Amore dagli occhi. Il crimine è aggravato dalla bella
mostra che ne avrebbe poi fatto al cospetto della donna che, secondo una
caratterizzazione tradizionale, si dimostra altera e disdegnosa. Dopo questa preventiva ammissione di colpevolezza, il poeta comincia subito a perorare la causa del perdono. Nella prima stanza, Cino ammette che l’unica
punizione adeguata a un furto tanto grave è la morte, mentre nella seconda, al riconoscimento di meritarsi il disdegno con cui madonna punisce e giustizia l’amante colpevole, segue immediatamente la
constatazione che ormai la pena è stata scontata, perché Amore, una volta
rubato e posto nel cuore nell’amante, ha diviso da lui la vita, in altre parole
gli ha inflitto la condanna più severa, uccidendolo. Il tentativo di muovere
madonna a pietà prosegue nella terza e ultima stanza, costruita sapientemente secondo i dettami della retorica. Alla fine dell’orazione, nella peroratio conclusiva, si prescriveva di sintetizzare il tema trattato (e in Cino
ricompaiono qui, a seguito di una lunga variatio, l’«ardir» e il «folleggiare»), nonché di far leva sui sentimenti del destinatario per suscitarne
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l’empatia. Ecco, dunque, che il poeta si rappresenta in uno stato miserevole, prossimo alla morte, e tuttavia il perdono è richiesto con la logica
ferrea e un po’ spiccia della sentenza proverbiale: «fa ben la vendetta da
laudare / e per regnare avanza / segnor, che perdonanza / usa nel tempo
che si può vengiare» (Degno son io ch’io mora 39-42).6
Tutta la canzone ruota attorno al disdegno dell'amata, che il poeta ha suscitato agendo nei suoi confronti alla stregua di un ladro. Tra gli stilnovisti
soltanto Dino Frescobaldi, sulla scia di Cino, utilizza il paragone del
ladro, se si esclude un’unica occorrenza, e per di più generica, del Dante
petroso («questa scherana micidiale e latra»; Così nel mio parlar vogli’esser aspro 58).7 Cino si è ispirato evidentemente ad altre fonti. Al campo
semantico del furto violento, del latrocinio, appartengono alcune rappresentazioni tradizionali di precise circostanze che coinvolgono l’amante
in pena. Ma nella poesia siciliana il ladro è tutt’al più Amore o, per estensione, gli occhi di madonna in cui l’amore dimora. Questa declinazione
del tòpos non smette peraltro di essere produttiva in Cino: l’amore suscitato da una donna sfuggente e disdegnosa deruba il poeta del suo cuore
(«[Amore] ch’a me medesmo m’ha furato e tolto»; Per una merla, che
dintorno al volto 5), oppure il latrocinio è perpetrato attraverso gli occhi,
che ospitano gli spiriti d’amore pronti a entrare nella mente del poeta per
devastarla («entro ’n quel tempo che ’l cor mi furaro / due ladri che ’n figura nova sono; / ed in tal punto allotta mi destaro / ch’i’ non posso trovar
riposo alcuno»; Io era tutto fuor di stato amaro 3-6). Lo stesso immaginario si ripropone nel sonetto Lo sottil ladro che negli occhi porti, conteso
tra Cino e Dante, ma probabilmente ciniano.
Più difficile è stabilire come Cino giunga a far impersonare all’io lirico
il ruolo di ladro che di nascosto riesce a impossessarsi dell’amore, togliendolo dagli occhi della donna. L’episodio si collega alla fenomenologia dell’‘amore celato’, di cui lo stesso Cino dà una bella definizione in
un sonetto ricco di stilemi siciliani, dall’amata dipinta nella mente, ai ‘mal
parlanti’ che minacciano la segretezza della passione cortese: «Amor celato fa sì come ’l foco, / lo qual procede senza alcun riparo, / arde e consuma ciò che trova in loco, / e non si pò sentir se non amaro» (A vano
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sguardo e a falsi sembianti 9-12). L’amore inespresso genera un dolore
impareggiabile nell’amante bisognoso di una qualsivoglia soddisfazione
del proprio sentimento; gli esiti poetici di un tale stato sono la morte orgogliosa e muta, appagante perché non si è recato alcun dispiacere a madonna importunandola, oppure un improvviso sussulto di coraggio che
spinge il poeta a confessarle il proprio amore o a spiarla di nascosto, come
farebbe appunto un ladro. IIl termine tecnico con cui si indica il repentino
insorgere dell'audacia è l'‘ardimento’ o ‘arditanza’. Questo tipo di linguaggio è respinto dagli stilnovisti, ma non da Cino, che in Degno son io
parla tra l’altro di «folle ardimento» (v. 10), riprendendo forse direttamente il nesso che è attestato soltanto nell’incipit del sonetto Lo folle ardimento m’à conquiso, dove l’amante è attirato nel fuoco della bellezza
straordinaria di madonna, come la falena che perisce tra le fiamme.
L'atteggiamento ciniano in Degno son io ha qualche attinenza con quello
di Stefano protonotaro, il cui «cor prende arditanza; / e fa similemente /
come chi va a furare» (Assai cretti celare 18-20), o ancora con l’auspicio
di Pier delle Vigne: «Or potess’eo venire a voi, amorosa, / com’ lo larone
ascoso, e non paresse» (Amore, in cui disio ed ò speranza 9-10); tuttavia,
il legame più significativo è instaurato con il discordo Dal core mi vene del
Notaro (vv. 27-38), che era già stato messo in relazione con i componimenti ciniani Sì mi stringe l’amore e Con gravosi sospir’ traendo guai.8
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Or potess’eo,
o amore meo,
come romeo
venire ascoso,
e disïoso
con voi mi vedesse,
non mi partisse
dal vostro dolzore.
Dal vostro lato
[…] allungato,
be·ll’ò provato
mal che non salda [corsivi miei].
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Le affinità di situazione e di linguaggio sono evidenti nei versi iniziali
della canzone ciniana (vv. 1-5):
Degno son io ch’io mora,
donna, quand’io vi mostro
ch’i’ ho degli occhi vostri Amor furato;
ché certo si celato
m’avenni al lato vostro [corsivi miei].
Cino non si serve semplicemente di una topica ormai logora: la riscrive
ex novo. Pier delle Vigne o il Notaro, infatti, si limitavano a esternare una
volontà che assai difficilmente avrebbe trovato sviluppo in un effettivo
furto (entrambi introducono il discorso con la stessa formula ipotetica:
«Or potess’eo»), ma al massimo, se il coraggio li avesse sostenuti, si sarebbe risolta nell’avvicendamento circospetto al luogo dove sapevano di
trovare l’amata. Cino stravolge la direzione ordinaria del latrocinio, che
era compiuto dagli occhi della donna o da Amore ai danni del poeta, poi,
venendo nuovamente meno ai dettami cortesi, ha l’ardire di mostrare
l’amore di cui si è impossessato alla donna da cui lo ha rapito, invece di
serbarlo gelosamente e segretamente nel suo cuore, infine osa addirittura
trovare delle argute attenuanti al suo comportamento.
La dipendenza di Degno son io da modelli siciliani – quegli stessi poeti
‘curiali’ elogiati nel De vulgari eloquentia – contribuisce a dimostrare
che la posizione di privilegio occupata da Cino nel trattato non può consistere in un riconoscimento esteriore che dissemina opportunamente i
germi di una futura ritrattazione. Né a una mera questione di opportunismo può ridursi la simpatia dantesca per Cino, che pure avrà agito da mediatore tra Dante e lo Studio bolognese o addirittura tra Dante e Firenze,
dove soggiornò, in quanto Nero, durante il suo esilio.9 Proprio come
Dante, Cino fu infatti costretto a lasciare Pistoia per il prevalere della
parte avversa. Ma il comune destino dell’esilio offrì a entrambi i poeti
l’opportunità di riflettere su una particolare, e topica, situazione lirica: la
lontananza dall’oggetto d’amore. L’esilio esaspera una condizione di momentanea assenza, rendendola virtualmente irrecuperabile. Cino si con63
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verte dapprima a un’idea astratta di Bellezza, di cui cerca le tracce in
molte donne diverse, selezionate in base a un rigoroso principio di somiglianza con l’amata. Alla morte di Selvaggia, occorsa in esilio alla Sambuca dopo il 1306, si rifugia quindi nell’unica forma rimasta di contatto
con la donna scomparsa, evocandone la presenza nel ricordo. Invece
Dante aveva già dovuto affrontare la separazione estrema, la morte di
Beatrice, a cui in un primo momento era subentrato un nuovo amore,
anche questo a dire il vero favorito dal rapporto di somiglianza istituibile
tra le due donne, per risolversi poi in una successiva apparizione, del tutto
mentale, di una Beatrice ‘imparadisiata’. Ormai in esilio, Dante ha bisogno di ridefinire la sua personalità di poeta, inizialmente allegorizzando
il personaggio della donna gentile, quindi ritornando a Beatrice, pure lei
trasfigurata, ma nell'immagine della superiore scienza teologica.
La possibilità di un nuovo amore fu l’argomento portante, corredato
da riferimenti più o meno espliciti alla condizione di esule, dei sonetti di
corrispondenza che Dante e Cino si scambiarono, dalla cui rilettura è possibile ricavare la giustificazione del ruolo ciniano nel De vulgari eloquentia
e, più in generale, l’origine di un tale rapporto poetico, le finalità del dibattito e i modi del suo sviluppo, nonché le ragioni della repentina interruzione del dialogo. La critica recente tende a collocare tutta la
corrispondenza fra l’inizio dell’esilio dantesco (1302) e la fine di quello
ciniano (1306); in realtà, è ascrivibile con certezza a quel periodo (anche
se con qualche approssimazione sulle date esatte) soltanto la seconda
parte del carteggio, che comprende la proposta di Cino Dante, quando
per caso s’abandona e la relativa risposta dantesca Io sono stato con
Amore insieme; lo scambio per interposta persona Cercando di trovar minera in oro, che Cino invia al marchese Moroello Malaspina di Girovagallo, in vece del quale Dante, allora segretario malaspiniano, risponde
con Degno fa voi trovare ogni tesoro; infine, l’ultima coppia che vede
Dante prendere l’iniziativa con Io mi credea del tutto esser partito, a cui
Cino replica con Poi ch’i’ fu’, Dante, dal mio natal sito.
Io sono stato è preceduto dall’epistola Eructuavit incendium, dove
Dante risponde con una breve quaestio al dubbio sollevato da Cino, che
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vuole sapere se è lecito passare da un amore a un altro. La lettera è intestata
da esule a esule («Exulanti Pistoriensi Florentinus exul inmeritus»), perciò
il termine post quem del dittico può essere fissato all’inizio dell’esilio ciniano (1303) e di poco precedente sarà la proposta. Gli altri quattro sonetti
risalgono al 1306, anno in cui, da un atto rogato con il vescovo di Luni,
Dante risulta al servizio dei marchesi Malaspina dello Spino Secco, Franceschino, Moroello e Corradino.10 Soltanto prove indiziarie suggerirebbero
che possa situarsi durante l’esilio dantesco anche la restante parte della
corrispondenza, comprendente il ciniano Novellamente Amor mi giura e
dice, con la risposta dantesca I’ ho veduto già senza radice, e l’altra proposta, stavolta di Dante Perch’io non truovo chi meco ragioni, a cui Cino
ribatte con Dante, i’ non odo in quale albergo soni, più un sonetto ciniano
restato senza risposta, Dante, i’ ho preso l’abito di doglia.
Anche escludendo questo secondo gruppo di sonetti da quelli che Dante
e Cino si scambiarono nella delicata fase dei rispettivi esili, le opposizioni
concettuali esistenti fra Io sono stato e la coppia Degno fa voi e Io mi credea bastano a dimostrare che Dante apporti delle sostanziali modifiche
alla sua poetica nel corso della corrispondenza con Cino. Se poi – com’è
plausibile – tutti i sonetti risalissero all’incirca agli anni 1302-1306, ne
conseguirebbe che, eccetto le due propaggini dei planh che Cino scrisse
in morte di Beatrice e di Dante, la loro relazione poetica si richiuse in un
breve frangente così denso di eventi. Almeno per quanto riguarda Dante,
di cui possiamo datare con certezza le opere della prima parte dell’esilio
(De vulgari eloquentia, Convivio, certe Rime ed Epistole, l’inizio della
Commedia), fu un periodo di radicali ripensamenti che investirono profondamente la sua visione del mondo. Il confronto diretto tra Dante e Cino
è servito a entrambi come parentesi riflessiva sul proprio modo di fare
poesia: così, attraverso le questioni proposte da Cino e le risposte dantesche, i due poeti possono prima trovare delle sostanziali affinità che ne favoriscono il sodalizio, poi definire per contrasto due poetiche ormai
contrapposte.
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2. Negli ultimi anni si è affermata la consapevolezza di dover delimitare
come oggetto specifico degli studi danteschi il periodo che comprende la
composizione delle grandi opere dell’esilio anteriori alla Commedia, in
cui è espressa una ben definita Weltanschauung, volutamente difforme da
quella della prima sistemazione giovanile, la Vita nova, e ancora diversa
dalla logica del poema, specie del Paradiso. Umberto Carpi ha ricostruito
molti degli eventi svoltisi tra Tuscia e Romandiola nei primi anni del Trecento e le loro ripercussioni sull’evoluzione artistica di Dante, che iniziò
a ragionare su un orizzonte più vasto di quello cittadino, influenzato proprio dall’ambiente socio-culturale delle corti signorili in cui dovette rifugiarsi. Enrico Fenzi, dopo aver riesaminato le cruces interpretative di
Amor, da che convien pur ch’io mi doglia, ha proposto di ritentare l’esegesi del componimento, fra i più problematici del corpus lirico dantesco,
senza più trascurare lo sguardo che Dante obliquamente rivolgeva a
Cino, indirizzando l’epistola che accompagnava la canzone al marchese
Moroello, già destinatario del sonetto ciniano Cercando di trovar. Infine
Raffaele Pinto, a cui si deve l'invenzione della formula ‘poetica dell’esilio’
per definire il progetto poetico dantesco precedente l’ultima grande fase
della Commedia, ha subito riconosciuto nella corrispondenza fra Dante e
Cino il luogo dove se ne sarebbe dovuta verificare la fisionomia.11
L’esame che Pinto deduce da questo incontestabile assunto è assai pertinente, in particolare nella sua prima parte, ma, quando si passa al vero
nucleo ideologico del carteggio, inizia a mancare di aderenza al dato fattuale del dibattito tra i due poeti, commettendo delle inutili forzature e
invertendo a tratti i termini della questione. La cosiddetta volubilità ciniana non può essere difatti contestata, poiché, oltre a essergli opposta da
alcuni dei suoi corrispondenti, è rivendicata dallo stesso Cino in Poi ch’i’
fu’.12 Smentirla significa negare – come fa Pinto – la solidità argomentativa degli ultimi due sonetti danteschi, Degno fa voi e Io mi credea, che
invece danno prova di una costruzione ineccepibile e, seppur in modi diversi, di uno stile innovativo. È però assolutamente imprescindibile l’indicazione programmatica del critico, che identifica nell’operazione
dantesca del Convivio, in cui l’amore per Beatrice è sostituito da quello
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per l’ormai allegorizzata donna gentile, l’avant-propos sempre presupposto dai due poeti al momento di dibattere. Secondo quest’ottica generale, cioè in pratica adempiendo alla necessità di inserire la
corrispondenza di Dante con Cino in una più vasta ‘poetica dell’esilio’,
si devono analizzare di nuovo tutti i sonetti, cominciando con la prima
coppia, costituita dalla proposta ciniana Novellamente Amor e dalla replica dantesca I’ ho veduto.
Il sonetto ciniano esamina la convenienza o meno di intraprendere una
nuova storia d’amore con una donna gentile che – Amore garantisce – è
dotata della proprietà di «beatrice» (v. 4), esattamente come la donna celebrata da Dante. Cino, però, conosce bene l’affidabilità di Amore, che
una volta persuaso l’amante si rimangia tutte le promesse che gli ha fatto
in precedenza.. Il poeta non sa risolversi, presentendo che questa nuova
passione lo condurrebbe a morte certa, inevitabile poiché egli non è in
grado, come la fenice, di resuscitare.
I’ c’ho provato po’ come disdice,
quando vede imbastito lo suo dardo,
ciò che promette, a morte me do tardo,
ch’i’ non potrò contraffar la fenice.
I commenti di Contini e di Barbi-Pernicone segnalano che il nesso con
cui Cino descrive la sua incapacità di imitare la rinascita dell’uccello, di
‘contraffare la fenice’, era stato coniato dal trovatore Rigaut de Berbezilh.13 Al di là della ricorrenza di una particolare formula cristallizzata,
nella poesia cortese la fenice diviene il correlativo simbolico dell’amante
arso dal fuoco della passione. L’altra situazione topica che si può avere,
dove è compreso il caso appena descritto del poeta che esprime il desiderio di ‘contraffare la fenice’ o contesti analoghi, prevede l’amante ansioso
di consegnarsi interamente ad Amore e pronto quindi a sostenere il supplizio fatale che la scelta comporta, e tuttavia incapace di farlo perché
non condivide la prerogativa della fenice, che può rinascere migliore e
rinnovata dalle proprie ceneri.
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Il discorso ciniano si lega a questa seconda resa del tòpos, con l’importante differenza che l’idea di ‘contraffare la fenice’ è in genere una risoluzione fortemente auspicata, seppur irrealizzabile, mentre Cino esclude
la possibilità a priori e mostra tutta la sua riluttanza verso la funesta prospettiva. Il medesimo concetto è ribadito nella risposta ciniana Anzi
ch’Amore nella mente guidi al sonetto di Onesto Quella che in cor l’amorosa radice: «Anzi ch’Amore ne la mente guidi / donna, ch’è poi del core
ucciditrice, / conviensi dire a l’om: “Non sei fenice”» (vv. 1-3). Onesto
farà meglio a non lasciarsi prendere da un amore che potrebbe finire col
distruggerlo, dato che gli esseri umani non sono in grado di vincere la
morte, imitando la fenice. Il rovesciamento in negativo di un’immagine
ormai abusata potrebbe servire a recidere i legami stereotipati con la tradizione lirica, che paragonava la sfera psicologica dell’amante all’opera,
per quanto miracolosa, di un uccello. Così si spiegherebbe la contraddizione in cui sembra cadere Cino, che in Anzi ch’Amore addita a Onesto il
significato simbolico della fenice, mentre in un altro sonetto si compiace
di poetare «senza essempro di fera o di nave» (Amor che vien per le più
dolci porte 12).
Dopo aver espresso le sue perplessità a fidarsi delle profferte di
Amore, Cino si rimette al giudizio di Dante per decidere se cedere o
meno alla nuova passione.
Che farò, Dante? ch’Amor pur m’invita,
e d’altra parte il tremor mi disperde
che peggio che lo scur non mi sia [’l] verde.
La contesa tra lo scuro e il verde mette in scena l’ipotetica opportunità
di sottrarsi a un amore sofferto, caratterizzato dall’implacabile disdegno
dell’amata, per darsi a un nuovo sentimento, che nasce sotto gli auspici
di un’ottimistica speranza di reciprocità. Il confronto con Novelle non di
veritate ignude, in cui Cino chiede a un amico, che potrebbe essere lo
stesso Dante, «come si dee mutar lo scuro in verde» (v. 14), autorizza a
credere che il conflitto rappresenti la rivalità tra due donne precise, di cui
la prima, definita «beltà che per dolor si chiude» (v. 4), sarebbe la donna
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Leyla M. G. LIVRAGHI
Dante (e Cino) 1302-1306
abbrunata protagonista del relativo ciclo ciniano. Novelle non di veritate
è anche servito per datare questa prima parte della corrispondenza; Cino
lamenta il prolungato silenzio di Dante e ne individua la possibile causa,
che è sembrata compatibile con le avversità dell’esilio: «ma svariato t’ha
forse non poco / la nova usanza de le genti crude; / sì ch’a me, lasso, il tuo
pensier non volte; / però m’oblii» (vv. 7-10). Effettivamente, in Perch’io
non truovo Dante si rammarica di aver interrotto i contatti e si scusa adducendo un’identica giustificazione, ossia la permanenza in un luogo sfavorevole ai discorsi d’amore. Se si accetta il quadro così ricostruito, la
tenzone si situerebbe tra l’inizio dell’esilio dantesco (1302) e l’inizio di
quello ciniano (1303), a cui per ora non sembra si faccia allusione.
Nella sua replica, Dante «s’appiglia nominalisticamente a quel verde»
(Contini in Alighieri 1998: 138), ma approfondisce il generico rinvio di
Cino a una nuova passione, che può apparire ‘verde’ anche soltanto per
questo suo carattere di novità. Dal testo ciniano non si ricava molto di
più, così Dante spende tutta la fronte per presentare la propria interpretazione della richiesta avanzata dall’amico, introducendo un paragone naturalistico con la stessa formula, ‘io ho veduto’, che marcava l’inizio degli
exempla nei trattati morali e nelle raccolte di prediche.14
I’ ho veduto già senza radice
legno ch’è per omor tanto gagliardo
che que’ che vide nel fiume lombardo
cader suo figlio, fronde fuor n’elice;
ma frutto no, però che ’l contradice
natura, ch’al difetto fa riguardo,
perché conosce che·ssaria bugiardo
sapor non fatto da vera notrice.
Giovane donna a·ccotal guisa verde
talor per gli occhi sì a dentro è gita
che tardi poi è stata la partita.
Periglio è grande in donna sì vestita:
però l’afronto de la gente verde
parmi che·lla tua caccia [non] seguer de’.
69
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Su questo sonetto André Pézard scrisse un lungo articolo (Pézard
1965), sviluppando delle riflessioni interessanti, sebbene difficilmente
condivisibili. Il suo ragionamento parte dall’idea che la similitudine vegetale raffiguri un innesto malriuscito. L’infruttuosità del ramo sarebbe allora determinata dalla linfa della pianta su cui è innestato che non riesce
ad alimentarlo adeguatamente. Stando a Pézard, l’exemplum ovidiano indirizza verso la corretta interpretazione della «vera nutrice», Climene,
madre di Fetonte, assimilata nel mito alla rugiada che, dopo essere stata
assorbita dalla pianta, ne forma la linfa. La denominazione «vera propago», attribuita a Fetonte nelle Metamorfosi (II, 38), può aver suggerito
il nesso «vera nutrice», ma nel contesto del sonetto dantesco quest’espressione non sembra rimandare al racconto ovidiano, designa più semplicemente una crescita predisposta dall’ordine naturale, per cui in condizioni
favorevoli dall’albero nascono necessariamente i fiori e i frutti. Dante
torna sulla stessa immagine nel Paradiso, utilizzandola come metafora
della natura dell’uomo che, se è condotto dal proprio libero arbitrio, agisce
sempre secondo giustizia: «Ben fiorisce ne li uomini il volere; / ma la
pioggia continua converte / in bozzacchioni le sosine vere» e «vero frutto
verrà dopo ’l fiore» (Pd. XXVII, 124-126, 148 [corsivi miei]).
La lunga descrizione del ‘legno senza radice’ è stata avvicinata, altrettanto arbitrariamente, alle accuse di incostanza amorosa che sono mosse
a Cino in Io mi credea, dove è paragonato al classico pesce preso all’amo,
e soprattutto in Degno fa voi, che lo ritrae come un cieco mai realmente
toccato da una passione sincera.15 Dante pertanto assumerebbe in tutto il
carteggio un atteggiamento ingiustificatamente ostile nei confronti di
Cino, mutando parere – ed è strano – soltanto in Io sono stato. Di fatto, il
legno non simboleggia Cino, ma una donna troppo giovane per poter corrispondere al suo amore: Dante adopera l’immagine della pianta sradicata,
del ramo tagliato, per imprimere bene nella mente dell’amico la totale
inadeguatezza, anzi la potenziale pericolosità, di una fanciulla inesperta.
Il consiglio di non cedere a una donna «a cotal guisa», contraddistinta da
ben precise caratteristiche, in questo contesto non può riferirsi unicamente
alla proposta ciniana, che è formulata in modo assai generico: ‘guardati
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Leyla M. G. LIVRAGHI
Dante (e Cino) 1302-1306
da una giovane che è «verde così come la descrivi» (Giunta in Alighieri
2011: 444, nota a v. 9), come tu, Cino, mi hai scritto’, ma si deve intendere
invece: ‘fa’ bene attenzione a una donna che è verde nella maniera in cui
te l’ho rappresentata io, Dante, interpretando il tuo pensiero, cioè fronzuta
e fiorita, incapace però di fruttificare, troppo giovane per l’amore’.
Caduta così l’ipotesi che identifica la pianta sterile in Cino, devono essere riconsiderate anche le difficoltà che incontravano Barbi-Pernicone
nel connettere questo sonetto con altri componimenti danteschi. Dante
dichiara apertamente di parlare per esperienza personale: «[una donna cotale] talor per gli occhi sì a dentro è gita / che tardi poi è stata la partita».
Né Cino, quindi, attribuendo alla donna il colore verde, pensava a qualche
luogo dantesco specifico, che sembrerebbe azzardato, ma neppure Dante,
nel rispondere all’amico, si accontentava delle solite considerazioni, altrimenti il parere di chi, come lui, fosse sottoposto al dominio di Amore
e stesse scrivendo a un compagno che condivideva lo stesso servizio difficilmente si sarebbe espresso per un diniego tanto risoluto. Dante non
poteva consigliare a Cino di perseverare nell’inchiesta, perché le dure
conseguenze le aveva provate sulla sua pelle. Non si può escludere che
Dante, invitato a discutere di una passione novella e presumibilmente
acerba, ripensasse agli amori passeggeri per quelle sfocate figure che s’incontrano qua e là nelle sue liriche, ovvero in particolare alla Pietra o alla
Pargoletta. In Al poco giorno ed al gran cerchio d’ombra, la donna amata
compare proprio «vestita a verde» (v. 25); nella sestina come nel sonetto,
ciò non è indizio sufficiente per decidere se Dante stia riportando un dato
realistico oppure alluda a uno specifico personaggio letterario, come vorrebbe Pézard, che nella chiusa di I’ ho veduto legge in filigrana le disavventure di un Merlino invaghitosi follemente di Viviana, dama
verde-vestita (Pezard 1965: 354-380).16 Il vestito rappresenta in primis
l’habitus interiore che si manifesta all’esterno tramite un’immagine tangibile, visualizzando le caratteristiche psicologiche del soggetto che determina: quindi Beatrice sarà «d’umiltà vestuta» (Tanto gentile 6),
l’impenetrabile Pietra «veste sua persona d’un diaspro» (Così nel mio
71
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parlar 5) e una giovanissima palesa la sua inesperienza, che si converte
facilmente in crudeltà verso l’amante, nei panni verdi che indossa.
Nel prossimo sonetto, Perch’io non truovo, Dante riprende un dialogo
interrotto, forse documentato dai componimenti ciniani Novelle non di
veritade ignude e Se sapessi ben com’io aspetto, che sono però destinati
a un ‘amico’ indefinito e di conseguenza ammessi solo in via dubitativa
nella corrispondenza. Dante non può che rivolgersi a Cino, non avendo
nessun altro con cui confidarsi. La prima quartina adotta un linguaggio desunto dal formulario amoroso: il poeta desidera qualcuno con cui ‘ragionare d’amore’, così si appella al sodalizio che lega chi serve lo stesso
signore, «a cui» – come ribadisce a Cino – «siete voi ed io», dicendosi impaziente di riferire i suoi «pensamenti boni», i pensieri che nascono dalla
contemplazione della bellezza femminile.17
Perch’io non truovo chi meco ragioni
del signore a cui siete voi ed io,
convienmi sodisfare al gran disio
ch’i’ ho di dire i pensamenti buoni.
Il resto del componimento tratteggia una situazione sconsolante, dove
Amore, metro di civiltà, diserta e per il bene pare non esserci più spazio.
Dante è totalmente disanimato, non perché un conflitto emotivo gli sconvolga il cuore, come richiederebbero le regole del genere lirico, ma più in
concreto a causa del mutare dei tempi, delle condizioni storiche, che si accaniscono contro di lui e contrastano con gli ideali costitutivi della poesia
d’amore. La risposta di Cino, Dante, i’non odo, tenta di scampare l’amico
dalla disperazione e dall’inattività, ricordandogli l’importanza di non arrendersi alla sorte, di non abbandonare la fede e le operazioni virtuose, soprattutto di non rinunciare alla scrittura.
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Diletto frate mio, di pene involto,
mercé per quella donna che tu miri,
d’opra non star, se di fe’ non sè sciolto.
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Dante (e Cino) 1302-1306
Il tono grave dei due poeti, unito alla mancanza di riferimenti all’allontanamento di Cino dalla sua città, potrebbe far datare lo scambio al primo
periodo dell’esilio di Dante, che dopo aver stipulato il patto di San Godenzo (1302) e fino al definitivo abbandono degli altri fuoriusciti, in
tempo per evitare la sconfitta della Lastra (1304), viveva di fatto nella
condizione terribile del ribelle che si contrappone alla sua stessa patria.
A dire il vero, i versi 9-10 di Perch’io non truovo («Donna non ci ha
ch’Amor le venga al volto, / né omo ancora che per lui sospiri») vengono
normalmente accostati al quadro descritto in Amor, da che convien pur
ch’io mi doglia, facendo slittare in avanti la data di composizione del sonetto. Nella ‘montanina’, Dante è circondato da un paesaggio montano e
inospitale, dove manca un pubblico avvezzo alla poesia e all’amore («non
donne qui, non genti accorte», v. 67). Ma, rispetto al sonetto, la condizione
di isolamento del poeta, inevitabile in un scenario alpestre lontano dalla
civiltà, si risolve in maniera affatto differente, poiché nella canzone Dante
riesce a trovare comunque una donna di cui innamorarsi, malgrado il
luogo non sia congeniale. Contini, a sua volta, avanzava l’ipotesi che i
versi 7-8 di Dante, i’ non odo («lo ben sa’ tu che predicava Iddio / e nol
tacea nel regno de’ dimoni») rimandassero al racconto della venuta di Cristo nel Limbo e che quindi diversi canti dell’Inferno fossero stati completati quando Cino scriveva. Alla stessa conclusione lo portava un passaggio
del sonetto ciniano Dante, i’ ho preso l’abito di doglia, che sollecita il
corrispondente a escogitare un «novo tormento» (v. 12) di cui Cino non
sia stato ancora preda. Il nesso ricorre effettivamente in Inferno VI, 4
(«novi tormenti e novi tormentati»), ma è presente anche in Cavalcanti e
in Dino Frescobaldi.18 Per quanto riguarda la leggenda della discesa di
Cristo all’inferno, essa è narrata nel vangelo apocrifo di Nicodemo, da
cui Cino potrebbe aver tratto spunto, così come più tardi ci avrebbe attinto
Dante per il poema.
La successiva coppia di sonetti, assegnata concordemente all’esilio ciniano, seppur con qualche incertezza sulla data precisa, derivante dalla
vecchia questione se Cino fosse di parte bianca o nera, riguarda una consulenza amorosa che Dante è chiamato a fornire. In Dante, quando per
73
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caso, Cino chiede all’amico se è possibile passare da un amore a un altro
quando si verificano determinate condizioni. Il sonetto non è di facile lettura, in più la lezione del verso 13 è certamente guasta e non sanabile avvalendosi soltanto della supposta ripresa verbale nell’incipit della replica
dantesca, come era stato proposto da Barbi, che aveva emendato: «Da te,
insieme stato dentro ed extra».
Ma prima che m’uccida il nero e il bianco,
Dante, † in quine † stato dentro ed extra,
vorre’ saper se ’l mi’ creder è manco.
Il riferimento politico alle fazioni cittadine è indubitabile, al contrario
di quanto postulava Pézard, muovendo dalla cosiddetta ‘ballata del fiore
bianco’, Io guardo per li prati ogni fior bianco, dove Cino esaspera l’immagine memoriale già franta e rapsodica dell’amata lontana, rammentandone esclusivamente lo sguardo, che si riduce a una composizione
elementare dei due colori fondamentali, il bianco della cornea e la scura
pupilla: «mi rimembra de la bianca parte / che fa col verdebrun la bella
taglia».19
Ma qui si tratta di un momento di estrema felicità poetica, tra l’altro
neppure estraneo a un senso ulteriore sottinteso sub littera: la reiterazione
della parola ‘bianco’, il candore che risplende nel prato ricoperto di fiori
ridotti a impressionistiche macchie di colore puro, il bianco della cornea
che da solo risveglia immaginifiche passioni, quello stesso bianco cela lo
sconforto di chi si è visto sottrarre la donna amata dalla contrapposizione
delle parti politiche. Pézard, viceversa, riduceva alle sole implicazioni
erotiche tanto l’antitesi coloristica della ballata, quanto il luogo affine di
Sì m’ha conquiso la selvaggia gente, dove Cino rievoca drammaticamente
i conflitti che dilaniano la sua città, che «è bianca e negra» (v. 18), nonché
quello celeberrimo della Dolce vista e il bel guardo soave, in cui il deprecato «gran contrario ch’è dal bianco al negro» (v. 27) è colpevole di aver
diviso il poeta dalla sua donna. A conferma del messaggio pienamente
politico, Boccaccio elimina proprio questi versi, anzi l’intera stanza, dalla
sua riscrittura della Dolce vista inserita nel Filostrato, poiché troppo com74
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Dante (e Cino) 1302-1306
promessi con una questione scomoda che avrebbe turbato la medietas di
una passione amorosa volutamente costruita su banalità cortesi e vaghi
stereotipi.20
D’altronde l’esilio, insieme alla successiva morte di Selvaggia, divenne
in quel periodo il principale stimolo della riflessione ciniana attorno all’amore lontano, le cui conclusioni sarebbero state riassunte proprio nell’ultimo sonetto del carteggio con Dante. La lontananza della donna, resa
più forte dalla condizione di esiliato, lascia due possibili prospettive: la
contemplazione dell’immagine impressa nella memoria, che può innalzarsi fino alla conoscenza intellegibile dei principi astratti da cui la bellezza della donna deriva (è la strada variamente percorsa da Dante, dalla
conclusione della Vita nova, al processo di allegorizzazione della donna
gentile, fino alla visione mistica di Beatrice, ormai figura theologiae, nella
Commedia, ma tentata con risultati notevoli anche da Cino, in particolare
nelle liriche in morte di Selvaggia, Omè lasso quelle trezze bionde e Io fui
sull’alto e sul beato monte), oppure riconoscere che la fedeltà all’unico
amore possa esprimersi in persone fisicamente distinte. Un approccio di
questo tipo, rivendicato da Cino per smentire le accuse di volubilità che
gli venivano mosse, non è estraneo neppure a Dante, le cui passioni giovanili, come l’infatuazione per la seconda donna dello schermo e soprattutto l’innamoramento per la donna gentile alla morte della gentilissima,
si reggono sullo stesso principio di somiglianza.
Fermati questi assunti, bisogna ritornare sulla terzina conclusiva di
Dante, quando per caso e considerarla nella sua interezza. Cino sta consultando Dante – è sottointeso – come esperto della questione: esperto
perché lungamente sottoposto al servitium amoris ed esperto di filosofia
che avrebbe potuto sciogliere i nodi speculativi del problema. Il verso 12
introduce il tema dell’esilio, che Dante riprende nell’intestazione dell’epistola premessa al suo sonetto responsivo, inviata «Exulanti Pistoriensi
Florentinus exul inmeritus», e implicitamente nella chiusa della stessa,
dove si raccomanda la lettura dei Fortuitorum Remedia e del vangelo giovanneo contro i colpi della sorte avversa. Da quello che si riesce a leggere
del verso 13, Cino sembrerebbe portare avanti l’allusione all’esilio, forse
75
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intendendo che Dante, poiché era stato intrinseco e poi anche estrinseco,
poteva ben capire la sua condizione di vittima delle controversie cittadine.
Ciò che non è subito evidente è perché Cino faccia riferimento a questa
situazione biografica comune e cosa esattamente essa abbia a che fare
con la consulenza richiesta. Come esule, Dante avrebbe potuto comprendere la sofferenza di Cino, che era stato separato dall’amata a causa dell’odio di parte, e magari suggerirgli di trovare conforto in una nuova
passione.
Leggendola in parallelo all’attacco della risposta dantesca («Io sono
stato con amore insieme»), la locuzione «dentro ed extra» potrebbe valere:
‘fuori e dentro il regno di Amore’. Dante però testimonia di essere stato
innamorato dall’età di nove anni e infatti sarebbe impensabile che una
conversazione tra fedeli d’Amore, il «signore a cui siete voi e io» di Perch’io non truovo, contempli che uno dei due interlocutori possa aver soggiornato, anche per breve tempo, fuori dalla giurisdizione del dio. Dante
si rappresenta impegnato nello stesso servizio fino al definitivo congedo
dall’amico, dove le rime d’amore, che egli sta per abbandonare mentre
Cino strenuamente difende, sono ancora e per l’ultima volta «nostre».
Migliore è la parafrasi di Pinto che, interpretando il passo alla luce del
Convivio, su cui i sonetti ciniani della corrispondenza avrebbero sempre
un’intenzione riprensiva, ha pensato di collegare il ‘dentro’ alle passioni
che ricadono nella sfera sensitiva dell’anima, cioè quelle verso persone
ancora vive, mentre il ‘fuori’ a ciò che è al di là di tale facoltà, l’amore per
chi è già morto (cfr. Pinto 2009: 56). In effetti, per Dante la separazione
dalla donna che amava, causata dalla morte, era stata assai più radicale
della lontananza pur gravosissima da Firenze, dovuta all’esilio, ma non
era così per Cino, ai cui occhi le due cose si corrispondevano perfettamente. Pistoia, dove ancora risiedeva Selvaggia, assume nelle sue poesie
alcuni tratti della donna, come l’essere ‘fiera e disdegnosa’, mentre nel lamento dell’amante emerge l’imbattibile desiderio di ricongiungersi, insieme all’amata, alla propria città: «che ne vada lo spirito a Pistoia».21
Dante rispose all’appello ciniano, che nelle intenzioni doveva contenere sottointesi filosofici precisi e anche pacatamente saccenti, malgrado
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Dante (e Cino) 1302-1306
oggi non siano del tutto perspicui, con il sonetto Io sono stato e l’epistola
Eructuavit incendium. Nella prosa latina, l’ineluttabilità dell’amore sensuale è dimostrata attraverso argomenti aristotelici e allegando l’autorità
di Ovidio, prima di sviluppare una breve tornata consolatoria, che raccomanda ben altre letture, stavolta morali: lo (pseudo) Seneca e il vangelo
di Giovanni. Nei versi, al contrario, Dante si avvale dell’esperienza maturata durante il suo decennale servizio alle dipendenze di Amore.
Io sono stato con Amore insieme
dalla circulazion del sol mia nona,
e so com’egli afrena e come sprona
e come sotto lui si ride e geme.
Chi ragione o virtù contra gli sprieme
fa come que’ che [’n] la tempesta suona
credendo far colà dove si tuona
esser le guerre de’ vapori sceme.
Però nel cerchio della sua palestra
libero albitrio già mai non fu franco,
sì che consiglio invan vi si balestra.
Ben può co· nuovi spron punger lo fianco;
e qual che sia ’l piacer ch’ora n’adestra,
seguitar si convien, se l’altro è stanco.
Io sono stato è messo solitamente in relazione con la ‘montanina’, poiché entrambi i componimenti svolgono il tema della fol amor, dipingono
l’amore come una forza irrazionale e incontrastabile. Per mantenere una
certa prossimità cronologica con l’ultima canzone dantesca, Pasquini ha
quindi rilanciato una datazione bassa del sonetto, che non travalichi la
fine dell’esilio ciniano, ma che le si avvicini il più possibile. Invece Elisabetta Graziosi aveva proposto una datazione alta, fissata al 1303, anteponendo la stesura di Io sono stato anche all’inizio di quella del Convivio.
L’ipotesi di una datazione alta, che ritengo corretta, nel saggio della Graziosi si salda però alla tesi di un Cino bianco, che intorno al 1303, anno
di espulsione dei Neri, sarebbe stato costretto ad abbandonare volontariamente Pistoia perché le lotte intestine erano diventate troppo pericolose
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anche per un uomo della fazione vincitrice. Ne consegue che il verbo
‘exulo’, usato da Dante per identificare la situazione dell’amico («Exulanti Pistoriensi», esule pistoiese), non ricorrerebbe nell'accezione consueta di ‘esulare, trovarsi in esilio’, ma con il più generico significato di
‘risiedere fuori dalla propria patria’ (cfr. Graziosi 1997: 80-91). Quell’avvicendamento quasi fraterno tra esule ed esule perderebbe così buona
parte della sua forza drammatica, con Dante nel momento più tragico della
sua estromissione, alla vigilia della Lastra, e Cino più modestamente profugo volontario, e non basterebbe l’uniformità di parte pretesa dalla Graziosi a rinsaldarlo, poiché in quel periodo le alleanze politiche di Dante,
come ha documentato ad abundantiam Carpi, divennero molto più fluide
che nella precedente fase comunale.
La datazione alta, in ogni caso, non può essere negata. Anche Pasquini,
dopo aver collocato il sonetto «in giorni o mesi di poco anteriori alla montanina», è costretto ad ammettere: «Non si direbbe che appartenga alla
stessa epoca di questo dittico [Dante, quando per caso e Io sono stato] il
carteggio che vede coinvolto Cino, per il sonetto Cercando di trovar minera in oro, con destinatario Moroello, e Dante che risponde in persona
o in nome di Moroello stesso nel sonetto Degno fa voi trovare ogni tesoro.
[…] A così breve distanza, egli non poteva così radicalmente disdirsi o
contraddirsi» (Pasquini 2010: 4 e 9). Ma per Degno fa voi abbiamo, rara
avis nei dibattiti di questo tipo, una data pressoché certa, cioè il 1306,
anno a cui riporta la pace di Castelnuovo Magra, siglata da Dante come
procuratore dei marchesi Malaspina dello Spino Secco (6 ottobre 1306).
Oltretutto, questo scambio e il successivo, che è costituito da Io mi credea
e Poi ch’i’ fu’ e tratta ancora della volubilità ciniana, vengono normalmente situati entro la fine dell’esilio ciniano (aprile 1306).
A una datazione alta conduce perciò l’incompatibilità con la parte
estrema del colloquio fra i due poeti, ma anche il riferimento all’esilio di
Cino che, messo così in evidenza nell’epistola dantesca, parrebbe riguardare un evento recente. Il rapporto di amicizia che legò i due poeti si era
già stretto e allora fu rinsaldato dalla conformità di un medesimo, doloroso, destino. Tra il 1303 e l’inizio del 1304, mentre Cino si recava in esi78
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Dante (e Cino) 1302-1306
lio, Dante stava definendo il progetto del Convivio, dove molte parole
sono spese, aggiungendo palinodia a palinodia, per giustificare il tradimento nei confronti di Beatrice e il ritorno sulla scena della donna gentile,
che era stata congedata nel finale della Vita nova, seppur dopo una non
breve esitazione. Dante si preoccupa che le lodi riservate dopo la morte
di Beatrice a un’altra donna possano essere fraintese e ritenute sintomo di
incostanza caratteriale, quindi si appresta a comporre un trattato che possa
riabilitarlo agli occhi dei suoi lettori meno acuti o più malevoli, svelando
il senso allegorico sottostante il filtro lirico del linguaggio amoroso.
Temo la infamia di tanta passione avere seguita, quanta concepe
chi legge le sopra nominate canzoni in me avere segnoreggiata
(Cv. I, II, 16).
Dico che pensai che da molti, di retro da me, forse sarei stato ripreso di levezza d’animo, udendo me essere dal primo amore mutato (Cv., III, I, 11).
In entrambi i casi, alle suddette dichiarazioni segue la rivendicazione
di ciò che rende impareggiabile il nuovo amore: è stato stimolato da una
deliberazione intellettuale, da un orientamento virtuoso, non da una passione dell’animo, poiché la donna a cui il poeta ha deciso di consacrarsi
è la rappresentazione allegorica del naturale bisogno umano di conoscenza. Il punto di vista di Io sono stato sembra del tutto sovvertito, nondimeno la liceità di passare da una passione a un’altra è comunque
riconosciuta, purché il nuovo amore coincida con l’amore per la Sapienza.
In altre parole, il fine della dimostrazione è lo stesso, ma più stringenti diventano le condizioni necessarie a che possa essere soddisfatto. La differenza di prospettiva sarebbe motivata dall’esigenza di giustificare, nel
primo caso, il mutamento di una passione intesa come fatto puramente
sensitivo, conforme alle esigenze del destinatario, Cino, poeta dell’amor,
cioè dell’amore sensibile; nel secondo caso, Dante deve dare invece una
spiegazione compatibile alla sua poetica della virtus e idonea quindi a legittimare una transizione amorosa che avviene nelle facoltà più alte dell’anima. Tuttavia, si può dire che in fondo entrambe le opere, il Convivio
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e il prosimetro in formato minor composto da sonetto ed epistola, siano
funzionali allo stesso scopo: difendere la reputazione di Dante, anzi istituire una sua nuova fama di filosofo. Questa doppia volontà è espressa
proprio all’inizio del Convivio: «Movemi timore d’infamia, e movemi disiderio di dottrina dare» (I, II, 15), e qualcosa di simile è detta anche in
Eructuavit incendium, dove Dante ringrazia Cino per avergli proposto
una questione, «ut in declaratione rei nimium dubitate titulum eius [=Dantis] nominis ampliaret» (Epistula III, par. 2; Alighieri 1979: II, 532).
Inoltre, l’apparente inconciliabilità tra gli argomenti esclusivamente
naturalistici dell’Epistola III e il Convivio, dove la conversione al nuovo
amore è determinata dall’influenza celeste, svanisce quando per Dante
entrambe le posizioni diventano sintomatiche di un identico traviamento,
di una temporanea dispersione dall’unico vero amore che avrebbe dovuto
seguire. Se infatti una passione folle, cavalcantianamente atteggiata, nella
Commedia non è più ammissibile, la palinodia che Dante predispone nel
canto VIII del Paradiso, giunto ormai al cielo di Venere, rispetto a quanto
aveva sostenuto nel Convivio, dimostra che a un certo punto qualsiasi
amore al di fuori di quello per Beatrice è giudicato allo stesso modo e
trattato come principio di errore e di degenerazione morale.22
3. I toni cambiano radicalmente nella parte conclusiva del carteggio,
che si colloca a un’altezza cronologica in cui Dante metteva ormai mano
al poema e non poteva più fare alcuna concessione alla mutevolezza amorosa del corrispondente. Cino scrive a Moroello Malaspina, aspettandosi
di ricevere una risposta vergata proprio da Dante, che allora svolgeva
mansioni diplomatiche e segretariali presso i marchesi Malaspina dello
Spino Secco. Nella sua ricerca spasmodica di una donna che sia l’espressione stessa della gentilezza, simile quindi all’oro, il poeta è incorso in una
spina che gli ha ferito il cuore, tanto che ormai sta morendo per la perdita
di sangue.
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Cercando di trovar minera in oro
di quel valor cui gentilezza inchina,
Leyla M. G. LIVRAGHI
Dante (e Cino) 1302-1306
punto m’ha ’l cor, Marchese, mala spina,
in guisa che versando il sangue moro;
e più per quel ched io non trovo ploro.
L'incipit del sonetto, pur chiaro nel suo senso generale, presenta una
difficoltà sintattica che ne ostacola la perfetta comprensione, facendo sorgere il dubbio che il verso 1 sia irrimediabilmente guasto. La determinazione retta da «minera» dovrebbe corrispondere a un complemento di
materia, come specifica Pellegrini, del tipo ‘poltrona in pelle’, che non
sembra realizzabile in questa forma nell’italiano del tempo. Da «minera»
dipenderebbero poi due specificazioni consecutive, «in oro» e «di quel
valore cui gentilezza inchina». Per evitare l’eccessivo sbilanciamento del
periodo, Pellegrini leggeva, secondo il codice Veronese Capitolare 445,
‘con quel valor etc.’, spiegando che Cino cercava l’oro guidato dalla sua
nobiltà d’animo (cfr. Pellegrini 1898: 313-319 e 317). Questa possibilità
si esclude facilmente, su basi filologiche (la lezione è meno sicura) e dal
confronto con la risposta di Dante, che afferma di aver trovato, al contrario
di Cino, il minerale in cui una tale virtù si affina. La complicazione sintattica, tuttavia, persiste. Giunta ha notato che «L’una e l’altra difficoltà
[cioè i due problemi appena enunciati: l’anomalo complemento di materia
e l’infelice costrutto del secondo verso] scompaiono se s’intende invece
‘Cercando di trovar tracce di roccia o di metallo vile (minera) dentro l’oro
(in oro)’, con riferimento alla procedura di raffinamento dei metalli preziosi» (in Alighieri 2011: 506, nota ai vv. 1-2). Gli esempi fatti seguire
dal critico mostrano che il processo era attuato mediante il calore, sfruttando come si fa oggi, benché in modo più primitivo, il differente punto
di liquefazione dei vari metalli. Ma così si risolve un problema per crearne
un altro, come lo stesso Giunta è subito costretto a riconoscere. Non si capisce in che modo Cino possa imbattersi in una «mala spina» mentre sta
raffinando l’oro attraverso un procedimento quasi alchemico, per cui sono
richiesti particolari strumenti e un forno molto caldo. Peggio, non torna
l’affermazione: «e più per quel ched io non trovo ploro»; perché Cino dovrebbe lamentarsi di non aver trovato, secondo l’interpretazione di Giunta,
il metallo vile nell’oro? Vorrebbe dire che l’oro è purissimo e che il poeta
81
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può sperare di essere corrisposto, in quanto il suo amore ricade nella sfera
della gentilezza, al pari della donna paragonata al prezioso metallo.
Sebbene la problematicità del verso 1 non si possa considerare risolta,
credo che sia l'oro il minerale di cui Cino va alla ricerca, forse applicando
la stessa tecnica utilizzata nell’unico altro sonetto che rappresenti una
scena simile, Io mi son tutto dato a tragger oro, adespoto nei Memoriali
bolognesi, ma attribuito anche a Guinizzelli (Vat. Lat. 3214) e proprio a
Cino (Chig. L VIII 305), dove l’ego loquens perlustra un fiume a caccia
di pepite.23 A questo punto, giova leggere la fronte di Cercando di trovar
alla luce di un passaggio della canzone ciniana in morte di Dante (Su per
la costa, Amor, dell’alto monte, vv. 19-21):
del suo aspetto si copre ognun basso,
sì come ’l duro sasso
si copre d’erba e talora di spini.
Cino è alla ricerca di una pietra d’oro, una pepita, ma quello che trova
è solo un comunissimo sasso, di materia vile, ricoperto per giunta dal contrassegno della meschinità: la spina. Similmente, alla morte del sommo
poeta, che si era erto a simbolo di dignità e rettitudine, ogni uomo vile riveste il simulacro della propria viltà, «si copre d’erba e talora di spini».
Anche il significato della seconda terzina è controverso, stavolta per
l’oscurità dei riferimenti, non a causa di un problema sintattico.
Ben poria il mio signore, anzi ch’io moia,
far convertire in oro duro monte,
c’ha fatto già di marmo nascer fonte.
È indicativo che Barbi-Pernicone ammettano preventivamente di «non
riuscire a dare una spiegazione accettabile dei versi 13-14» (in Alighieri
1969: 636, nota ai vv. 12-14). De Robertis è invece convinto che Cino
esibisca un «evidente ricordo» (in Alighieri 2005: 506, nota al v. 14) della
dantesca Io son venuto al punto della rota: «Saranne quello ch’è d’un
uom di marmo, / se ’n pargoletta fia per cuore un marmo» (vv. 71-72).
Inoltre, ritiene che sia «duro monte» e non «signor» il soggetto della re82
Leyla M. G. LIVRAGHI
Dante (e Cino) 1302-1306
lativa del verso 14, intendendo che la durezza della donna avrebbe provocato a Cino molti pianti. Respinge infine l’interpretazione concorrente,
proposta da Pellegrini e accettata, seppur con qualche incertezza residua,
da Giunta, che vorrebbe identificare Dio nel dominus a cui Cino si appella, riportando tutta la situazione al miracolo compiuto da Mosè in Exodus 17, 5-6, dove il profeta colpisce con il bastone una roccia e ne fa
zampillare l’acqua necessaria alla sopravvivenza del suo popolo nel deserto. Al contrario di quanto è sembrato fino a oggi, le due interpretazioni
non si escludono a vicenda, anzi soltanto combinandole si può dare una
spiegazione finalmente convincente della terzina.
La fonte, come già aveva notato di sfuggita ma puntualmente Ciccuto,
è proprio il racconto dell’Esodo, però nella rilettura che se ne fa in Psalmi
113, 8-9: «qui convertit petram in stagna aquarum et rupem in fontes
aquarum» (cfr. Ciccuto 2004: 335).24 Attraverso l’esegesi figurale dell’episodio mosaico, inaugurata da san Paolo e portata avanti dalla patristica, soprattutto nelle Enarrationes in Psalmos di sant’Agostino, la
liquefazione della pietra è stata interpretata come un’anticipazione simbolica dell’opera di Cristo, che avrebbe reso intellegibili i precetti di Dio
a chiunque avesse voluto ascoltarlo, meglio abbeverarsi direttamente alla
sua parola. Proverbiale divenne anche il parallelo fra la testardaggine del
Faraone che continuava a opporsi alla liberazione degli israeliti e la durezza della pietra da cui il profeta fece sgorgare l’acqua. L’espressione
evangelica di duritia cordis (Mt. 19, 8) si cristallizzò per rappresentare
un animo particolarmente refrattario al verbo divino. Al tempo di Dante,
il processo di pietrificazione, controparte negativa della miracolosa liquefazione mosaica, era entrato a pieno titolo nella lirica, come dimostrano
non soltanto le petrose, e specialmente Io son venuto, ma anche le analoghe immagini guinizzelliane e cavalcantiane.25
Cino aveva riposto la sua fede amorosa nell’oggetto sbagliato, in un
sasso privo di ogni gentilezza, che avrebbe mutato la sua natura pronta
all’amore nella stessa insensibilità inespugnabile della donna che non gli
si concedeva. La durezza della donna rende simile a sé l’innamorato, gli
serra l’anima in un processo di impetramento che riduce velocemente
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nella peggiore delle condizioni, una sofferenza a cui non è permesso neppure di sfogarsi col pianto. Il pronome «che» del verso 14 non potrà
quindi riferirsi alla «mala spina», che certo non possiede la capacità vivificante con cui Beatrice spezza le ultime resistenze peccaminose di
Dante («lo gel che m’era intorno al cor ristretto, / spirito e acqua fessi, e
con angoscia / de la bocca e de li occhi uscì del petto»; Pg. XXX, 97-99),
ma la cui durezza semmai blocca Cino in un annientamento senza speranza. Chi ha consentito al poeta di piangere («ha fatto già di marmo nascer fonte») è piuttosto l’invocato «signor», che probabilmente, in un
sonetto dall’atmosfera cortese e rarefatta come questo, deve riconoscersi
ancora in Amore, al quale sono però attribuite delle prerogative divine.
Dopo aver concesso al poeta di non bloccarsi in un amore che l’avrebbe
condotto alla perdizione, sciogliendo la fissità della sua ossessione amorosa nell’acqua delle lacrime, il signore potrebbe, se solo volesse, modificare anche la marmorea natura della donna, volgendola nell’oro simbolo
della perfetta gentilezza che Cino andava cercando. Si spiega così perché
tutta la terzina conclusiva della risposta dantesca insista proprio sulle lacrime di Cino, alle quali è negata la buona fede: Dante, che usa i medesimi
processi di pietrificazione e liquefazione di matrice biblica nelle petrose,
coglie subito il nodo critico dell’argomentazione ciniana e lo colpisce direttamente per esautorarlo di ogni legittimità.
Nella sua risposta, Dante riconosce che la capacità poetica di Cino lo
renderebbe degno di essere corrisposto da una donna gentile, ma il suo
cuore volubile, dove i dardi di Amore non hanno mai penetrato in profondità, glielo impedisce.
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Degno fa voi trovare ogni tesoro
la voce vostra sì dolce e latina,
ma volgibile cor ve ·n disvicina,
ove stecco d’Amor mai non fé foro.
Io che trafitto sono in ogni poro
del prun che con sospir si medicina,
pur trovo la minera in cui s’affina
quella virtù per cui mi discoloro.
Leyla M. G. LIVRAGHI
Dante (e Cino) 1302-1306
Non è colpa del sol se l’orba fronte
no·l vede quando scende e quando poia,
ma de la condizion malvagia e croia.
S’io vi vedessi uscir degli occhi ploia
per prova fare a le parole conte,
non mi porreste di sospetto in ponte.
Lo scarto dalla prospettiva che Dante aveva espresso in Io sono stato
è decisamente compiuto: lì si giustificava, con argomenti filosofici di un
certo spessore, la necessità naturale di sostituire una passione con un’altra,
quando la prima fosse venuta meno, qui con intransigente irreversibilità
si condanna la recidiva incostanza sentimentale. In contrasto con il De
vulgari eloquentia, la perfezione linguistica raggiunta da Cino è invalidata
a fronte della sua debolezza morale. L’aequivocatio della parola-rima
«conte» rispetto all’accezione della proposta esprime questa risoluta presa
di posizione. Nella prima terzina di Cercando di trovar, Cino dice che
smetterà di raccontare le sue sofferenze, affinché il marchese non se ne
rallegri troppo: «E più le pene mie vi farei conte, / se non ched io non vo’
che troppa gioia / voi concepiate» (vv. 9-11). In Cino, quindi, il termine
sta semplicemente per le parole ‘raccontate, rese note’ (lat. cognitae),
mentre in Dante assume il significato di ‘eleganti, ricercate, insomma
poeticamente elegibili’ (lat. comptae), ma non vere, perciò incapaci di far
innamorare una donna gentile e ormai anche di «porre» Dante «di sospetto
in ponte», di farsi credere da lui.
Per costruzione poetica e raffinatezza del lessico, Cino sarebbe degno
della donna più bella e gentile, nobile di cuore e di lignaggio, ma la falsità
del suo amore non può essere riscattata da una poesia pure «dolce e latina» quanto altre mai. La coppia di attributi si può rendere con un semplice ‘dolce e piana’, anche se Foster-Boyde ipotizzano ragionevolmente
un'allusione al De vulgari eloquentia e alla definizione di volgare latium:
«it is possible that Dante is here using the epithet as he had done in the
DVE, especially I. xvi, to mean ‘linguistically pure’, pure ‘Italian’» (in
Alighieri 1967: 326, nota ai vv. 1-2). Cino avrebbe ancora il merito di
prediligere un lessico melodioso («dolce») e che attinge a una lingua pie85
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namente nazionale («latina»). In altre parole, il binomio riproporrebbe il
giudizio eccellente che Cino si era guadagnato nel De vulgari eloquentia,
svuotandolo dall’interno, poiché, senza disconoscergli il pregio della
forma, essa è dichiarata inutile, anzi ingannevole, mancando una sostanza
d’amore su cui poggiarsi. Se poi, come ha notato Gorni (1990: 53, nota
15), si legge nell’incipit una ripresa della prima canzone ciniana citata
nel De vulgari eloquentia, Degno son io di morte, affiora tutta la drasticità
della strategia palinodica di Dante, che usa questo sonetto della corrispondenza, come pure il successivo, per prendere le distanze dal comportamento dell’amico e per segnalare la propria svolta ideologica rispetto al
trattato.
L’ultima tenzone del carteggio, atto finale del colloquio poetico tra
Dante e Cino, nel tema è strettamente connessa allo scambio precedente,
incentrandosi di nuovo sulla questione della volubilità ciniana, ma se ne
distanzia affatto per il linguaggio che, da ricercato e volutamente arcaizzante, si stende adesso limpido e incisivo. I due sonetti danno voce ad altrettante personalità letterarie di primo piano, che, dopo un fecondo
sodalizio riflesso in una cospicua corrispondenza, si profilano nettamente
contrapposte. Se non l’importanza che assumono come esplicite dichiarazioni di poetica, almeno la purezza stilistica li ha resi la «coppia di sonetti di corrispondenza di gran lunga più gettonata, con 29 e 27
attestazioni rispettivamente», di cui ben «24 in comune» (De Robertis in
Alighieri 2002, 3, testi: 490). Anche il testo si è mantenuto sufficientemente fermo e nei primi versi di ciascun sonetto si presenta senza varianti
di rilievo, forse proprio grazie alla chiarezza con cui è esposto il pensiero,
specie nella fronte dantesca, dove la massima efficacia espressiva dipende
da una calcolata semplicità formale.
È Dante a riprendere la parola, dichiarando di prolungare lo scambio
di rime con Cino soltanto perché la condotta dell’amico lo impensierisce.
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Io mi credea del tutto esser partito
da queste nostre rime, messer Cino,
ché si conviene omai altro camino
Leyla M. G. LIVRAGHI
Dante (e Cino) 1302-1306
alla mia nave più lungi dal lito;
ma perch’i’ ho di voi più volte udito
che pigliar vi lasciate a ogni uncino,
piacemi di prestare un pocolino
a questa penna lo stancato dito.
Chi s’innamora sì come voi fate,
or qua or là, e sé lega e dissolve,
mostra ch’Amor leggermente il saetti.
Però, se leggier cor così vi volve,
prego che con virtù il correggiate,
sì che s’accordi i fatti a’ dolci detti.
Dopo aver sfruttato l’effetto di coagulo che la discussione con Cino ha
favorito, permettendogli di puntellare alcuni nodi essenziali del suo itinerario poetico, dalla passione autodistruttiva per una donna troppo giovane
in I’ ho veduto (dove forse si può intravedere una prima palinodia dell’episodio della pargoletta), alla giustificazione del passaggio da un amore
a un altro che è argomentata, probabilmente in contemporanea col Convivio, in Io sono stato, Dante ora comunica all’amico, prima di congedarlo
per sempre, il suo nuovo stile di vita, la sua rinnovata poetica, e lo fa indirettamente, alludendo a un cammino più degno e insieme rifiutando le
scelte di Cino. Il tema è quello di Degno fa voi, l’intollerabile incostanza
amorosa di Cino, che pure era stata legittimata con argomenti filosofici di
prim’ordine nell’epistola Eructuavit incendium, esposti in prosa latina,
oltre che sintetizzati icasticamente nel sermo calliopeus. Secondo la mia
ricostruzione, tra Io sono stato e Degno fa voi erano potuti trascorrere
fino a tre anni, un tempo sufficiente perché Dante passasse dalla necessità
di difendere i presupposti del Convivio (la sostituzione dell’amore per
Beatrice con quello per la donna gentile) a dover ribadire l’unicità e la
fermezza del suo amore verso la gentilissima. La riprovazione dei «dolci
detti» a cui non corrisponde un comportamento consono moralmente potrebbe rinviare, almeno in teoria, alla contemporanea stesura del quarto
libro del Convivio, che commenta la canzone Le dolci rime d’amor ch’io
solea, dove Dante rinuncia alla sua poesia consueta, caratterizzata dalla
tipica dulcedo stilnovistica, per trattare con stile filosofico la natura della
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Tenzone 13
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vera nobiltà. Tuttavia, l’inflessibile condanna della mutevolezza caratteriale di Cino sarebbe parsa ancora più urgente in un'ottica già tutta rivolta
alla Commedia.
La volontà di dedicarsi al poema si traduce nell’immagine che apre il
componimento e che finora era stata connessa essenzialmente al tòpos
della vecchiaia, quando la nave deve rientrare in porto, approdandoci con
le vele già ammainate. In realtà, mi pare che quest’insistenza sull’elegia
dell’uomo maturo a cui non si addicono più certi argomenti («queste nostre rime» d’amore) sia prodotta da un errore di lettura. Si è fatto dipendere «più lungi dal lito» da «nave» e quindi si è pensato che Dante
parlasse di età avanzata, mentre la specificazione va riferita all’«altro camino» del verso precedente ed esprime il proposito di solcare il mare
aperto, di tentare una materia più alta. Pur non rifiutando la tesi della relazione fra opera ed età, De Robertis è stato il primo a sostenere che «l’impresa della Commedia occupi alla fine la prospettiva di queste rime» (in
Alighieri 2005: 509). Con maggiore risolutezza, Pasquini estende la presenza allusiva della Commedia anche a Degno fa voi, affermando perentoriamente: «Quella sua “nave più lungi dal lito” non richiama tanto
Guido da Montefeltro (Inf. XXVII 79-91), ma già il passo parallelo del
Convivio (IV XXVIII 7-8), quanto piuttosto Purg. I 1 ss. (“Per correr miglior acque alza le vele / omai la navicella del mio ingegno…”) e 130 ss.
(“Venimmo poi in sul lito diserto…”); o addirittura Par. II 2 ss. (“seguiti
/ dietro al mio legno che cantando varca, / tornate a riveder li vostri
liti…”)» (Pasquini 2010: 12). Veniva ricondotto al campo semantico della
vecchiaia anche lo «stancato dito» del verso 8, che evoca piuttosto la stanchezza derivante dall’impegno profuso nella nuova opera, oppure il disinteresse, insofferenza quasi, che Dante si accorge di provare verso la
rimerìa amorosa e nei confronti delle questioni futili (o meglio: percepite
adesso come tali) con cui Cino continuava a incalzarlo e che non rientravano più nel suo ordine di idee.
Nell’altra occasione in cui aveva avviato un dialogo con Cino, Dante
era immerso nel più nero sconforto, sulla soglia della disperazione. Il
bando non gli sarebbe mai stato revocato, però in Io mi credea, vinto lo
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Leyla M. G. LIVRAGHI
Dante (e Cino) 1302-1306
scoramento, Dante giunse ad asserire la sua nuova poetica, maturata dopo
un periodo di profonda riflessione che aveva prodotto il Convivio, il De
vulgari eloquentia e le grandi canzoni dell’esilio, e di cui si possono leggere gli snodi lungo la corrispondenza con Cino. Allora era dovuto intervenire l’amico per richiamarlo alla fede e alle opere, alla necessità di non
interrompere la lode della donna amata; adesso è Dante che, prima di concentrare tutte le sue forze nel poema, ricorda a Cino l’importanza dei comportamenti virtuosi, trovandolo smarrito nelle sue vane inchieste amorose.
Cino è condotto dal vento della sua passione «or qua or là» (come saranno
poi «menati» i lussuriosi «di qua, di là, di giù, di su»; If. V, 43), ma è ancora in tempo per ravvedersi, purché cambi definitivamente comportamento.
Cino ribatte che è stato l'esilio ad averlo allontanato dall'amata, alla
quale è tuttavia rimasto fedele, perché ha sempre cercato le tracce della
sua bellezza in tutte le donne con cui si è intrattenuto.
Poi ch’i’ fu’, Dante, dal mio natal sito
fatto per greve essilio pellegrino
e lontanato dal piacer più fino
che mai formasse il Piacer infinito,
i’ son piangendo per lo mondo gito
sdegnato del morir come meschino,
e s’ho trovato a lui simil vicino,
dett’ho che questi m’ha lo cor ferito.
Né da le prime braccia di Pietate,
onde ’l fermato disperar m’assolve,
son mosso, perch’aiuto non aspetti:
ch’un piacer sempre mi lega ed involve,
il qual convien ch’a simil di beltate
in molte donne sparte mi diletti.
Il sonetto si cala in una dimensione astratta e interiorizzata, assegnando
allo stato di esule un valore assoluto, al di là degli eventi politici che avevano effettivamente portato Cino ad abbandonare Pistoia. In particolare,
il riferimento al «Piacere infinito», Dio, in cui si contiene e su cui si mi89
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sura ogni bellezza terrena, anche quella della donna amata che più ne conserva l’impronta, suggerisce che la condizione di esule, e con essa l’implicata lontananza dall’oggetto del desiderio, si svincoli dalle circostanze
contingenti e venga trasferita su di un piano del tutto mentale. Le idee di
Bellezza e Perfezione sono contemplate in intellectu, attraversando l’impasse dell’immagine custodita nel cuore e ammirata nel ricordo che Cino
derivava dal Notaro. Le parole «essilio», «pellegrino», «lontanato», nominate in stretta successione, sembrano illuminarsi di una nuova consapevolezza del destino riservato al genere umano, composto da exules filii
Eva, che vagano gementi e piangenti confidando nella misericordia. Il
tòpos della morte che sdegna l’amante infelice e persino la mossa tipicamente ciniana del pianto si caricano di un significato ulteriore.
L’articolazione temporale della vicenda biografica ciniana, scandita
dalla consecutio temporum al passato («Poi ch’i’ fu’[…] fatto […] lontanato, i’ son piangendo gito…sdegnato…ho trovato…dett’ho»), farebbe
pensare che il suo esilio si fosse già definitivamente concluso, fermo restando che la datazione di questo sonetto e della proposta dantesca non
può essere spostata molto oltre il rientro di Cino a Pistoia (aprile 1306),
costituendo un tutt’uno con il precedente scambio. Parrebbe quasi che un
evento traumatico come l’esilio abbia dato origine a una condizione psicologica ormai indipendente dalla causa oggettiva che l'aveva prodotta
all'inizio. Soprattutto la sirma riporta al presente di uno stato esistenziale
perenne e rivendicato nella sua straordinaria peculiarità. Il poeta è serenamente sconfortato e ci tiene a rimarcare il suo «fermato disperar», mentre in circostanze analoghe le convenzioni avrebbero richiesto piuttosto un
amante fermo nella sua speranza incrollabile.26 Cino potrebbe approfittarne per correggere se stesso e l’ingenua fiducia che aveva dimostrato in
L’alta speranza che mi reca Amore, dove la sua donna insolitamente ben
disposta si ricoverava nelle «braccia di Pietade» (v. 10),27 da cui il poeta
è qui costretto a sciogliersi.
Le precedenti proposte ciniane non si erano risolte nella semplice richiesta di conforto e consiglio a un amico da parte di un poeta naïf, incapace di non farsi catturare da «ogni uncino», ma avevano tentato di
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Leyla M. G. LIVRAGHI
Dante (e Cino) 1302-1306
richiamare l’attenzione di un grande esperto su un problema centrale
dell’amore cortese, l’unicità della passione. Almeno per un periodo, poi,
più che un sotterraneo ammonimento come pensa Pinto, è manifesta una
patente collaborazione, con Cino che, forse conoscendo il progetto del
Convivio e di certo la condizione di esule o meglio di ribelle estrinseco in
cui Dante si trovava, offre il destro all’amico perché possa riabilitare il suo
buon nome. In Io mi credea, Dante dichiara quanto le sue idee fossero
cambiate, imponendo al sodale di difendere quelle posizioni che erano
state benignamente accolte, anzi appoggiate, al momento di dover giustificare la celebrazione della donna gentile. Cino, che aveva fornito sino
ad allora gli spunti per una riflessione dantesca più generale, può infine
innalzare anche il suo discorso a un livello universale ed esporre precisamente la propria poetica. Secondo Calenda, Cino «si allineerebbe a sua
volta sulle posizioni del Dante maggiore» (1995: 124), ma in un certo
senso è vero il contrario.. Dante stava (ri)scoprendo l’esistenza della sola
strada maestra che conduce, a ritroso attraverso i gradi dell’essere, dall’amore per la donna fino all’estasi mistica. Cino contrappone al perentorio e definitivo stacco dantesco la propria interpretazione dell’unicità
amorosa, abbracciando inconsapevolmente una posizione ben più moderna. Come Zeusi aveva ritratto delle sue modelle solo ciò che ciascuna
aveva di più bello, così Cino può fruire dell’amore effimero e parziale
per molte donne diverse, cogliendo in ognuna di esse una parte della bellezza superiore dell’unica amata che veramente riconosca, la quale è a
sua volta perfetta immagine di Dio.
91
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2012
NOTE
Si muovono in questa direzione gli storici contributi ciniani di De Robertis
e su tutti De Robertis 1950.
1
Infra gli altri difetti del libello 8. Secondo l’autore del sonetto, assegnato
dubitativamente a Cino, Dante avrebbe taciuto la presenza di Onesto bolognese
tra i lussuriosi purganti nella sesta cornice: se la sua paternità fosse confermata,
Cino potrebbe aver voluto alludere a se stesso dietro la maschera dell’altro poeta,
di cui era stato corrispondente. Sui sonetti anti-danteschi attribuiti a Cino, è fondamentale la ricostruzione di Rossi 1988.
2
L’uso delle due perifrasi è esaminato da Tavoni in Alighieri 2011: 1289-1290,
nota a Dve I, XIII, 4. A proposito della questione di Lapo contro Lippo, che qui
non è il caso neppure di accennare, la si trova discussa in Gorni 1981a.
3
Tavoni giustamente chiosa: «L’affermazione di Dante, che assertivamente
presenta questo uso terminologico come un dato di fatto, e lo ribadisce al § 4, in
realtà, più che registrarlo, vuole instaurarlo» (Tavoni in Alighieri 2011: 1263,
nota a Dve I, XII, 2).
4
Al di là della breve sintesi proposta, il magistrale Trovato 1987 va riletto interamente.
5
Cino da Pistoia, Degno son io ch’io mora 39-42. Si confronti con gli analoghi
explicit danteschi: «ché bello onor s’acquista in far vendetta» (Così nel mio parlar vogli’esser aspro 83) e «camera di perdon savio uom non serra, / ché ’l perdonare è bel vincer di guerra» (Tre donne intorno al cor mi son venute 106-107).
6
Le somiglianze esistenti tra la poesia di Dino Frescobaldi e quella di Cino
sono evidenziate da De Robertis 1952. A parte Cino, Dino è l’unico stilnovista
che, talvolta seguendo proprio spunti ciniani, arricchisce la tipica eredità dello Stil
nuovo con elementi eterogenei, come le comparazioni ferine (su cui fa il punto
Sala 2006). Invece, per maggiori approfondimenti riguardo il tema del latrocinio
amoroso tra Cino e Dino, mi si permetta di rimandare al mio LIVRAGHI 2013.
7
8
Si veda Pica 1994: 76.
La questione della posizione politica di Cino è stata assai dibattuta in passato,
ma l’intervento di Barbi 1941, che lo considera di parte nera, l’ha sostanzialmente
chiusa.
9
92
Leyla M. G. LIVRAGHI
Dante (e Cino) 1302-1306
Ricevuta la procura a negoziare per conto dei tre marchesi, il 6 ottobre 1306
Dante sottoscrisse la pace di Castelnuovo Magra con il vescovo di Luni, Antonio
di Nuvolone da Camilla. Dell'argomento si è occupata in maniera esaustiva Vecchi 2008. Bertin 2005 aveva già valutato la possibilità di attribuire alla mano di
Dante il proemio, o arenga, dell’atto di pace.
10
Cfr., nell’ordine: Carpi 2004 (tutto il capitolo terzo, «Fra Tuscia e Romandiola», e particolarmente i paragrafi 1-5, alle pp. 465-622), Fenzi 2009 e Pinto
2009.
11
Oltre che da Dante, infatti, Cino è accusato di volubilità da Cacciamonte (cfr.
Cino da Pistoia 1969: 770-771), Gherarduccio Garisendi (cfr. Cino da Pistoia
1969: 788-789 e 792-793) e Guelfo Taviani (cfr. Cino da Pistoia 1969: 806-807
e 810-811). Giunta (2002: 371-372) ritiene che tali accuse debbano avere un
«fondamento nella realtà» autobiografica di Cino; eppure, ciò che disturbava i
suoi detrattori, e Dante in special modo, credo non fosse il fatto che Cino potesse
essere coinvolto in più relazioni amorose contemporaneamente, ma che volesse
elevare questa condizione biografica a precisa scelta di poetica.
12
13
Cfr. Barbi-Pernicone in Alighieri 1969: 521, nota al v. 8 e Contini in Alighieri 1998: 139, nota al v. 8.
14
Lo ha riscontrato Giunta in Alighieri 2011: 442, nota ai vv. 1-2.
Tale è essenzialmente la posizione di Calenda 1995: 117-119, di Gorni
1981b: 43 e di Pica 1994: 92.
15
D’accordo con Pézard, PICONE 1995 si serve della medesima fonte arturiana
per interpretare certi luoghi di Al poco giorno ed al gran cerchio d’ombra.
16
Il significato specifico dei «pensamenti boni» si chiarisce confrontando il
nesso con i versi 63-65 di Amor che nella mente mi ragiona: «Sua biltà
piove fiammelle di foco / animate d’un spirito gentile / ch’è creatore d’ogni penser bono». Il parallelo è segnalato da Giunta (in Alighieri 2011: 448, nota al v. 4).
17
18
Guido Cavalcanti, Perché non fuoro a me gli occhi dispenti, v. 5; Dino Frescobaldi, No spero di trovar giammai pietate, v. 13.
Cino da Pistoia, Io guardo per li prati ogni fior bianco, vv. 4-5. Cfr. Pézard
1960.
19
Esistono varî studi sulla ripresa e la transcodificazione di questo testo: l’ormai classico Balduino 1976, Barsella 2000, Furlan 2000 e Perrus 2000. A questi
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si può aggiungere un breve saggio sul riuso trecentesco di Io guardo per li prati,
ovvero Stefanini 1997.
Cino da Pistoia, La dolce vista e ’l bel guardo soave, v. 50. Questa tesi è sostenuta da Keen 2000.
21
22
Circa questa celebre ritrattazione, si veda Barolini 1993: 56-76.
23
La correlazione era già stata registrata da Pellegrini 1898: 316, nonché da
Contini (in Alighieri 1998: 198, nota al v. 1), ed è ora riproposta da Giunta (in
Alighieri 2011: 595).
Vinciguerra 1999 esamina alla luce della fonte salmistica i processi di pietrificazione/liquefazione operanti nella poesia dantesca.
24
«I’ vo come colui ch’è fuor di vita, / che pare, a chi lo sguarda, ch’omo sia
/ fatto di rame o di pietra o di legno» (G. Cavalcanti, Tu m’hai sì piena di dolor
la mente, vv. 9-11); «remagno como statua d’ottono, / ove vita né spirto non ricorre, / se non che la figura d’omo rende» (G. Guinizzelli, Lo vostro bel saluto e
’l gentil sguardo, vv. 12-14).
25
«Fermato disperar: the phrase is a paradoxical inversion of the normal expressions of resolve to hope» (Foster e Boyde in Alighieri 1967: 329, nota ai vv.
9-11).
26
L’edizione di De Robertis permette di evidenziare il parallelo tra i due componimenti, grazie alla nuova lettura del verso 9, che precedentemente era stampato, con Barbi: «Né dalle prime braccia dispietate» (Alighieri 1969: 641).
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