L`immagine del nemico
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L`immagine del nemico
Rappresentazione e decostruzione dell’immagine del nemico Fabrizio Lertora “La malvagità dell’uomo è visibile nel fatto che l’uomo è omicida, la sua capacità di recupero nel fatto che l’uomo è poeta” (Brodskij) Il dato di partenza per questa mia riflessione, che si situa nell’ambito della ricerca pedagogica e che nasce dall’esperienza di lavoro educativo sui temi della pace e della gestione del conflitto, è che l’elaborazione e la decostruzione dell’immagine del nemico è un processo interno ed esterno, personale e sociale allo stesso tempo. Ha a che fare con la paura del diverso, le reazioni depressive e aggressive che essa suscita in ciascuno di noi, ma anche con processi sociali complessi legati alla percezione del proprio livello di sicurezza, sviluppo, potere. Rispondere alla radicalizzazione del dibattito in proposito - avvenuta in particolar modo dopo i fatti dell’11 settembre 2001 e la comparsa del famoso “nemico senza volto” che ne sarebbe all’origine - con l’appello al buon senso e ai buoni sentimenti mi sembra quanto mai fuori luogo; si tratta piuttosto di impegnarsi in uno sforzo di comprensione rispetto ai meccanismi alla base di tale fenomeno. Il primo contributo da cui vorrei partire è quello offerto da Franco Fornari (1921 – 1985) che all’interno dell’ambito psicoanalitico ha affrontato e sviluppato in modo organico il tema della guerra e della relativa “costruzione del nemico” sulla quale generalmente si basa. “La guerra anzichè difendere i propri oggetti d’amore li distrugge”: potrebbe essere questo l’esito del percorso di pensiero di Fornari in proposito. Nella sua ricerca sulla genesi dell’immagine del nemico Fornari osserva – anche a partire dai contributi della Klein sulle prime fasi di sviluppo del bambino e di Spitz sulla crisi dell’estraneo all’ottavo mese che il bambino percepisce l’estraneo come minaccia e di conseguenza lo fugge pur senza aver verificato aggressioni da parte sua; la sua ipotesi è che il bambino, ad un certo punto del suo sviluppo, proietti sull’estraneo, a partire dalla distorsione percettiva che la diversità – intesa come non conosciuto e non abituale – provoca, un proprio oggetto cattivo interno, una sorta di “proprio male” che porta dentro. Il mancato riconoscimento e la mancata elaborazione di questa sorta di “nemico interno”, considerato irriconoscibile e inaccettabile, porta, come conseguenza di un meccanismo di difesa, a proiettare questo “male” all’esterno, fuori di sé, di solito su di un soggetto, singolare o plurale, che, anche a partire da una serie di caratteristiche che presenta, si presta funzionalmente a tale operazione. Alla radice il processo di rappresentazione dell’immagine del nemico si configura quindi come un processo di proiezione di una parte negativa non riconosciuta, non accolta e non elaborata dentro di se, sia come persone che come gruppo. Siamo lontani quindi dall’idea della violenza come spinta innata; piuttosto essa è l’esito del rapporto a rischio che l’essere umano stabilisce con i propri oggetti d’amore – Fornari parla di rapporto con i propri ideali, i progetti culturali, le proprie idee - avvertiti come fragili e che quindi necessitano di protezione. E’ l’amore per tali oggetti a trasformarsi in odio per ciò che avvertiamo come loro minaccia. Per inciso, mi pare che in questo filone di pensiero può forse anche essere affrontata la questione delle “ragioni” della guerra, anche nel sua valenza più pragmatica. Ci sono sempre degli interessi da difendere (in genere economici), si dice, dietro ogni guerra. Non mi sembra che tale affermazione metta in discussione o relativizzi quanto detto: qualcuno può dubitare che l’interesse economico rappresenti l’oggetto d’amore per eccellenza per buona parte della storia dell’umanità? Ora è chiaro quanto difficile sia in un mondo plurimo e nella diversità culturale caratterizzante la famiglia umana non trovarsi continuamente di fronte a progetti culturali diversi, a visioni del mondo diverse, a paradigmi interpretativi diversi della realtà. Nel momento in cui tali visioni non sono elaborate, come diversi modi, fondati da diverse ragioni, di interpretazione della realtà, aperti ala possibilità di integrazione, ma piuttosto sono percepiti come esclusivi, incompatibili, non negoziabili, assurdi, allora la guerra è l’unica risposta: a muoverci contro il nemico non sarà immediatamente l’odio (quante volte i sostenitori della guerra affermano di ricercare la pace) ma paradossalmente sentimenti di amore, che le daranno la legittimazione e la dignità del “dovere” e dell’“onore”. Capire questo credo sia fondamentale, costo l’incapacità di affrontare davvero questo tema, di aprire un confronto profondo anche con chi non la pesa immediatamente come noi – sarebbe interessante confrontarci onestamente con l’immagine che ne percepiamo, è forse il nostro nemico? -, di tracciare percorsi di differenze in relazione. A questa prima matrice “personale” si associa e si intreccia poi un contributo per così dire “sociale”. Il nemico, strettamente inteso, è una costruzione anche e prevalentemente culturale, che, a partire da una condivisione di un “confine”, prefigura in un soggetto una minaccia reale, imminente e potenzialmente devastante verso i nostri oggetti d’amore, le nostre vite, i nostri valori, i nostri interessi. “Mors tua vita mea” è l’espressione forse più esplicita della visione dicotomica della realtà che gradualmente si impone, a partire da questa lente di osservazione, e che porta a restringere gli spazi di pensiero, di affetto, di azione: non c’è altro da fare che optare per l’eliminazione di una minaccia così grave e definitiva verso il nostro gruppo. L’immagine del nemico ha una precisa funzione di catalizzazione sociale. Ne abbiamo sentito parlare molte volte. Ma forse dovremmo provare a maturare su questa affermazione uno sguardo più profondo, capace di metterla in relazione con il percorso fatto dall’umanità. Questa funzione sociale è un dato valido sempre, in ogni tempo e per ogni gruppo umano? Gli studi, forse non molto conosciuti di Clastres, un antropologo francese, hanno evidenziato come la costruzione di un immagine del nemico certamente è funzionale alla costruzione di un’identità forte, attraverso un “noi” contrapposto ad un “loro”, ma tale processo sembra subire, nel corso dell’evoluzione del nucleo sociale che la vive, una radicale trasformazione. E’ interessante notare come tale processo di separazione superi il confine di gruppo ed entri sottilmente all’interno dello stesso; questo meccanismo viene strumentalizzato e piegato agli interessi propri di un semplice sottogruppo. Si tratta di una dinamica di conservazione e rafforzamento del potere a fronte di momenti di crisi e di difficoltà. “La minaccia del nemico ha sempre fornito ai governanti i mezzi del controllo ideologico e della disciplina sociali interni” (Thompson). Con il passare del tempo un meccanismo, che può anche rilevarsi non più funzionale, non scompare, ma piuttosto viene trasformato, facendo leva sulla sua matrice reattiva. Ora, la costruzione dell’immagine del nemico ha delle conseguenze. Le guerre, come già accennato, hanno bisogno di tale presupposto. Come si possono rafforzare e diffondere a livello sociale tali processi che sembrano avere luogo in primo luogo nel profondo di noi stessi? Per prima cosa se alla base dell’immagine del nemico compare una diversità, vissuta come incompatibile e minacciante, una cultura di guerra si proporrà di aumentare tale effetto di distorsione enfatizzando la distanza “percepita” tra noi e il nostro nemico. Tale operazione, ormai ampiamente studiata e documentata proprio a partire dall’analisi di tali dinamiche nel concreto di situazione di guerra – la prima e seconda guerra mondiale fino alle guerre del Golfo o alle guerre balcaniche –, si rende necessaria per attivare e sostenere la macchina bellica, soprattutto in riferimento al consenso che necessariamente la deve accompagnare. Si tratta di costruire e veicolare rappresentazioni disumane e malvagie, poco personalizzate, capaci di attingere e utilizzare gli stereotipi negativi probabilmente già attivi nei confronti di quel soggetto. La violenza deve sempre caratterizzarlo per primo, appare anzi come intrinsecamente legata a lui, praticata con continuità, disinvoltura e spietata intelligenza. Non sarebbe difficile analizzare quanto presenti e alle volte estremamente sofisticate, ad esempio nei mezzi utilizzati, sono state le campagne di costruzione dell’immagine del nemico in ogni occasione di guerra. Tale operazione si rende necessaria al fine di creare consenso intorno ad un’opzione che prevede l’uccisione spesso anche di persone innocenti, certamente poco mirata e “chirurgica”, e a distrarre l’attenzione dai problemi e dalle responsabilità che appartengono al gruppo di appartenenza. Altri sono poi i contributi interessanti che la ricerca ha offerto e continua ad offrire per l’esplorazione di queste tematiche. Per ragioni di brevità ne accenno solo alcuni. Una volta attivato e messo in moto il dispositivo della guerra diversi sono i meccanismi, a livello psicologico, che ne consentono lo sviluppo e la riuscita. In particolare quelli centrali appaiono finalizzati a favorire una sorta di “disinvestimento morale” (Caparra) e tra questi si evidenziano: appellarsi a principi ed entità superiori, condivisione della pratica della violenza a livello di gruppo, confronto e contrasto con condotte ritenute maggiormente riprovevoli, distorsione e minimizzazione delle conseguenze, spersonalizzazione delle vittime soprattutto se innocenti, dislocamento e diffusione delle responsabilità. E’ interessante notare quanto, rispetto allo sviluppo di tali meccanismi, possa contribuire l’informazione, la cui pianificazione e gestione è oggi, come ben sappiamo anche alla luce di tanti recenti avvenimenti, al centro delle strategie militari. Per riuscire a varcare la soglia rappresentata dalla scelta di usare la violenza, vale a dire una modalità d’azione intenzionalmente diretta alla distruzione dell’altro, è necessario superare una seria di freni inibitori che gli etologi hanno dimostrato esistenti a attivi rispetto alla violenza intraspecifica. Tale operazione può essere facilitata oggi dalla riduzione del nemico ad un bersaglio, all’estendersi della distanza da cui lo si può colpire, dall’evoluzione della tecnologia bellica che permette di non vederne il volto, di non riconoscervi emozioni e sentimenti. Nel pensiero di Fornari l’avvento della “guerra moderna”, con il suo devastante sviluppo tecnologico, rappresenta una tappa fondamentale all’interno di questo percorso. Non a caso i suoi lavori prendono avvio negli anni della guerra fredda e della minaccia atomica. La nuova qualità distruttiva della guerra, afferma Fornari, propone con forza il dilemma legato al fatto che la distruzione del nemico rischia di comportare la distruzione di me stesso; la distanza tra i miei oggetti d’amore e i miei oggetti d’odio si riduce, diventa più sottile, fino al punto che forse posso salvare il mio oggetto d’amore solo se salvo il nemico dal mio stesso attacco. C’è infatti un filo che lega sempre più i nostri destini. Si tratta, nel pensiero di Fornari, di uno scacco inevitabile di fronte al potenziale distruttivo della guerra moderna, che precede qualunque altra considerazione di natura “etica” e che, nel momento in cui si impone, può rappresentare un’occasione importante nel percorso di consapevolezza sulla realtà profonda della guerra. Si tratta di un’ulteriore stimolo a riconoscere quest’ultima come modalità inadeguata, oggi più che mai, di gestire e risolvere i conflitti, come scorciatoia di fronte alla complessità, sempre maggiore, dei problemi che ne sono alla base. La possibilità di nuove integrazioni, pur non essendo affatto scontata, è certamente favorita da situazioni che mettono in gioco la sopravvivenza. Si tratta di un’ulteriore occasione per comprenderla così come Fornari la presenta: “elaborazione paranoica del lutto”. La guerra è, a suo giudizio, una risposta paranoica ai problemi, al disagio, alla sofferenza in quanto pretende di eliminare queste realtà eliminando colui, soggetto singolare o plurale, che le rappresenta e le propone (il cosiddetto “nemico”). Si tratta di una risposta ad una mancanza, ad una crisi, che, incapaci ad attraversare, si è tentati di eliminare, cancellare, nel più breve tempo possibile, seppellendo i dubbi, le domande, le angosce, che propone sotto una sfolgorante enfasi e retorica fatta di miti, di eroi, di propaganda bellica. Ora, con la minaccia atomica, il confine tra ciò che deve essere distrutto e ciò che deve sopravvivere si fa sottile e difficile da tutelare. Lo scacco di fronte a questo dilemma può aprire forse una nuova visione sui problemi e nuove possibilità di scelta. Come possiamo allora arginare tali derive, come possiamo mettere in campo un’intenzionalità pedagogica e una progettualità educativa capace di favorire una elaborazione più “sana” della diversità? In primo luogo mi pare importante favorire e allargare una riflessione come quella che stiamo svolgendo. Si tratta di ampliare il più possibile la conoscenza di queste modalità di funzionamento che ci appartengono e che ci circondano, in modo tale da poterle riconoscere e conservare una distanza critica di fronte ai loro possibili esiti. Seguendo poi il ragionamento di Fornari, se la guerra è un’istituzione sociale, definita e formalizzata, finalizzata a contenere e curare derive di insicurezza, allora un primo passo fondamentale è rappresentato dal riconoscere e accogliere tale stato d’animo a livello personale, nominare le emozioni che lo colorano e intraprendere percorsi, certamente non semplici, per una sua trasformazione. Si tratta allora di riscoprirci feriti, fragili, aggressivi, e favorire una elaborazione dei conseguenti sentimenti di paura, di rabbia, di disperazione. Nel linguaggio di tutti i giorni riscoprire a differenza fondamentale tra il dire “mi fai arrabbiare” e “sono arrabbiato”, assumendosi la responsabilità del nostro vissuto, ponendo una distanza, possibile spazio di riflessione e decantamento, tra il tumulto emotivo e l'azione. Niente a che vedere con il self control. La capacità di indugiare, di rallentare, di abitare queste nostre zone d’ombra rappresenta il passo giusto per attraversarle, per uscirne avendole comprese, cioè “prese con sé”, ri-conosciute e addomesticate, senza accettare di proiettarle all’esterno. Si tratta di proporre, questa almeno è la mia esperienza, dei percorsi di riconoscimento di ciò che ci abita, anche nei suoi aspetti meno idilliaci, del male che dentro di noi si attiva e si manifesta anche a partire da sollecitazioni, più o meno forti, che giungono dall’esterno. Probabilmente non basta, ma è certamente un primo passo importante. Si tratta anche di essere consapevoli di quali dinamiche sociali possono scaturire a partire da questa matrice più propriamente psicologica. Sul nostro senso di limite, di precarietà, di insicurezza, trovano terreno fertile le risposte “forti”, le soluzioni nette, le ricette immediate. Forse allora si tratta di essere più consapevoli di come tali difficoltà possono essere strumentalizzate a servizio di interessi e di poteri, conoscere i mezzi e gli strumenti che rendono tutto ciò possibile ed efficace. E infine si tratta di entrare in relazione anche con l’immagine del nemico che io rappresento o posso rappresentare per l’altro, che non necessariamente assomiglierà alla mia immagine del nemico. E’ fondamentale non dimenticarsi che l’altro non può mai essere completamente conosciuto e compreso. Rimane altro e come tale distanza e mistero. Forse si tratta di non stupirsi eccessivamente e non lasciarsi destabilizzare totalmente dalla percezione che l’altro può viverci anche come nemici, anche quando noi non ci sentiamo tali, non vogliamo essere tali. In seconda battuta provare a decodificare l’immagine che egli si è costruito di noi, anche alla ricerca di un collegamento con il nostro modo di stare nella relazione con lui. Che cosa ha contribuito a creare questa nostra immagine? Possiamo rimanere stupiti alle volte dalla scoperta che la nostra stessa nonviolenza può generare reazioni aggressive nell’altro. Forse ci stiamo relazionando con lui a partire da un linguaggio a lui ignoto, e che immediatamente è solo fonte di insicurezza. Che spazio riusciamo a fare a queste sue reazioni? Forse la nostra nonviolenza nei suoi confronti è davvero tale solo se siamo disponibili a fare spazio anche a tutto ciò, a lasciare le nostre convinzioni, a tenere al centro del nostro sguardo l’altro e soltanto l’altro, il suo essere persona diversa da noi. Gandhi diceva che preferiva parlare di avversario piuttosto che di nemico. Il nemico si distrugge, o perlomeno si distrugge ogni possibilità di relazione con lui. L’avversario si combatte, si pone e deve essere riconosciuto come l’altra parte all’interno di un conflitto che può essere affrontato solo se ne riconosciamo la naturale struttura relazionale. Con l’avversario si può avere una relazione, anche se faticosa e difficile, la si può trasformare e si può percorrere un cammino, anche se faticoso, verso la giustizia e la verità di noi stessi, dell’altro e della realtà che ci circonda. Impegnarsi in un percorso capace di gestire i fenomeni di costruzione del nemico significa in primo luogo predisporsi e scegliere di impegnarsi in un lavoro su di sé, su di una trasformazione interna continua, in una sempre maggiore consapevolezza delle ombre che ci abitano. Si tratta di un cammino, mai pienamente compiuto, verso l’integrazione profonda di ciò che siamo, delle sue diverse e non sempre affascinanti componenti. Si tratta di un percorso faticoso e a tratti doloroso, in cui c’è una sofferenza da mettere in conto, che può essere affrontata solo a partire dall’incontro con persone, in primo luogo figure di adulti educativamente significativi, capaci di annunciare questa possibilità, di indicare questa strada, di mostrare un impegno in prima persona nel percorrerla. Ci ricorda Fornari di diffidare delle nostre osservazioni dell’altro ogni volta che troveremo nell’altro qualcosa che non abbiamo trovato dentro noi stessi. E’ questa strada di ricerca dentro di sé che paradossalmente sembra rappresentare la via preferenziale per ridurre la distanza con l’altro. Paradossalmente solo “comprendendo” e “assumendo” il conflitto, dentro e fuori di noi, possiamo prendere le distanze dalla logica del nemico e della guerra che tende a rimuoverlo. 23.09.2003