Le proposte di sostegno al reddito

Transcript

Le proposte di sostegno al reddito
Le proposte di sostegno al reddito
Dossier a cura di Vincenzo Menna, Marta Simoni, Elisa Agolini
Dossier n. 3 - Dicembre 2013
Indice
Premessa
3
Reddito minimo garantito o reddito di cittadinanza?
4
Cosa accade in Europa
5
Le proposte in Parlamento
9
Le misure di contrasto alla povertà previste dal Governo
10
Le esperienze a livello locale
11
Le proposte di Acli e Caritas e di altri soggetti del terzo settore
12
2
Premessa
La povertà è in aumento nel nostro paese. Gli ultimi dati Istat evidenziano come la recessione
abbia determinato un aumento significativo dell’intensità del disagio economico: dal 2007 al 2012
il numero di individui in povertà assoluta è raddoppiato da 2,4 a 4,8 milioni. Quasi la metà (2,3
milioni) sono al Sud e di questi poco più di 1 milione sono minori. Aumentano le famiglie che
comprano meno: il 65%. Peraltro, le situazioni di povertà assoluta, specie nell’ultimo anno, si sono
estese anche a fasce di popolazione che, tradizionalmente, presentano una diffusione del
fenomeno molto contenuta grazie al tipo di lavoro svolto o al secondo reddito del coniuge. Sono
dunque in difficoltà anche le famiglie che dispongono di redditi da lavoro e di pensione, segno
evidente che la crisi colpisce anche i ceti lavoratori.
I dati dell’Istat trovano conferma nella recente ricerca che le Acli hanno realizzato sulle
dichiarazioni dei redditi presentate ai Caf Acli. Dal primo Rapporto Acli sui redditi di lavoratori e
famiglie emerge, infatti, che i redditi dichiarati nel quadriennio 2009-12 sono in calo dell’1,08% a
livello complessivo e del 3,1% per quanto riguarda il lavoro dipendente. L’immagine che risulta da
questi dati è dunque quella di un Paese unito nella povertà e nell’impoverimento delle famiglie.
Un aumento così rilevante delle diseguaglianze sociali è un’ipoteca che grava pesantemente sulle
prospettive di ripresa. Per tale ragione, le Acli hanno deciso, in collaborazione con la Caritas
Italiana, di elaborare la proposta del Reddito d’inclusione sociale (REIS), da collocare in un piano
nazionale contro la povertà. Inoltre, abbiamo aderito insieme a molte altre forze sociali, sindacali
istituzionali ad un’Alleanza contro la povertà in Italia. Peraltro, gli stessi mondi impegnati a
lanciare la proposta del REIS hanno contribuito al lavoro della Commissione governativa istituita
con lo scopo di definire la proposta dell’esecutivo. Tale sinergia non mi sorprende, poiché lo stesso
ministro del Lavoro e delle Politiche Sociali, Enrico Giovannini, lo scorso 24 luglio in occasione del
lancio della proposta sul Reddito d’inclusione sociale, aveva annunciato davanti ai vertici di Acli,
Caritas, Cgil, Cisl e di altre organizzazioni che danno vita al Patto contro la povertà, la volontà di
procedere in tal senso.
Purtroppo, devo rilevare che le risorse destinate alla lotta alla povertà, sulla base
dell’emendamento alla legge di stabilità votato dal Senato, sono largamente insufficienti: appena
40 milioni all’anno - contro i 900 che servirebbero per avviare un progetto come il Reddito di
inclusione sociale - che oltretutto risultano destinati all’estensione, in via sperimentale e solo in
alcune aree metropolitane, della nuova carta acquisti: uno strumento con una sua funzionalità,
seppur limitata, ma che da solo non configura minimamente un intervento pianificato e
sistematico di contrasto alla povertà.
Per finanziare l’avvio di un piano nazionale contro la povertà è indispensabile la definizione di un
quadro certo ed adeguato di investimenti senza il quale risulterebbe poco realistico immaginare la
costruzione di un sistema locale di servizi idoneo alla lotta contro l’esclusione sociale. Questa
costruzione richiede investimenti, sviluppo di competenze e programmazione: gli enti locali, il
terzo settore e le organizzazioni sociali impegnate nel territorio potranno realizzarla solo se
riceveranno un’appropriata stima economica e previsionale. È necessario che Governo e
Parlamento, nella lotta alla povertà, operino un deciso cambio di marcia affinché ci sia una
risposta commisurata alla grave emergenza sociale che vive il Paese.
Gianni Bottalico
3
Reddito minimo garantito o reddito di cittadinanza?
In questo periodo il tema delle misure di sostegno al reddito è nuovamente al centro del dibattito
politico. In proposito si ravvisa, però, una certa varietà lessicale che può generare qualche
confusione. Esiste, infatti, una distinzione fondamentale tra reddito di cittadinanza (o reddito di
base o universale) e reddito minimo garantito (o d’inserimento), spesso usati impropriamente in
modo interscambiabile. Il primo è un reddito incondizionato, universale e illimitato nel tempo,
rivolto a tutti gli individui dotati di cittadinanza e di residenza (compresi gli occupati e chi non ha
mai lavorato); il secondo è, invece, un reddito condizionato la cui erogazione è soggetta a una
serie di criteri definiti in base al reddito, la disponibilità a lavorare o altri ancora.
Anche se spesso le due espressioni vengono usate come sinonimi, tra i due tipi di misura esiste
dunque una differenza sostanziale: il reddito di cittadinanza viene assicurato vita natural durante
ad ogni individuo e a prescindere dalla sua disponibilità a lavorare, il reddito minimo garantito è
invece limitato nel tempo e condizionato alla disponibilità del beneficiario di accettare un’offerta
di lavoro o a partecipare a programmi di formazione finalizzati al suo reinserimento nel mercato
del lavoro. Ad esempio, il disegno di legge sull’introduzione in Italia di un “reddito di cittadinanza”
presentato dal Movimento 5 stelle è a tutti gli effetti una misura di sostegno destinata solo a
particolari categorie di persone e non a tutti i cittadini a prescindere dal reddito a loro disposizione
come indurrebbe a pensare il titolo dato alla proposta presentata in Parlamento.
Gli esempi concreti di reddito di cittadinanza attualmente in vigore si contano sulle dita di una
mano e l’unico caso propriamente detto il Permanent Fund Dividend Program in Alaska, grazie al
quale dal 1982 viene ridistribuita a ogni cittadino residente da almeno un anno una quota del
profitto ricavato dalle concessioni petrolifere sotto la forma di vero e proprio dividendo. Altri
schemi parziali sono presenti in vari paesi in via di sviluppo, dove si cercano nuove forme di
contrasto alla povertà assoluta e alla deprivazione materiale. Ne è un esempio la legge promulgata
dal Presidente Lula da Silva in Brasile nel 2004 per l’introduzione progressiva di un reddito di base
(il programma Bolsa Família). Per accedere alla Bolsa i soli vincoli da rispettare sono i seguenti: le
donne incinte e i bambini in fase di allattamento devono presentarsi per esami medici presso i
centri pubblici di assistenza sanitaria; i bambini fino ai 6 anni di età devono essere vaccinati
secondo il calendario del Ministero della Sanità; i bambini dai 7 ai 16 anni devono frequentare la
scuola, con una percentuale di presenza alle lezioni pari almeno all’85%. C’è consenso tra i
ricercatori economici brasiliani rispetto agli effetti positivi del Programma Bolsa Família anche se
non mancano i problemi, come l’iscrizione fraudolenta al programma e il rifiuto di offerte
lavorative perché accettare un lavoro può significare la perdita del sussidio nel momento in cui il
reddito da lavoro supera il tetto di reddito stabilito per accedere al programma.
È evidente che un reddito di cittadinanza propriamente detto, per il nostro paese così come per
molti altri, non sarebbe economicamente sostenibile, se non a costo di smantellare il welfare
pubblico e sostituirlo con servizi privati, dalla scuola alla sanità, che i cittadini pagherebbero
proprio con quel trasferimento monetario. Pertanto, quando in Italia si parla di misure di contrasto
alla povertà o di sostegno al reddito, si fa riferimento al reddito minimo garantito, al di là delle
etichette con cui viene indicato. Il reddito minimo garantito non va confuso nemmeno con alte
forme di sostegno destinate solo a determinate categorie di poveri, come la carta acquisti per gli
anziani o le famiglie con figli, o la pensione sociale spettante ai disabili o agli anziani poveri.
4
Un altro aspetto che può generare ambiguità, è dato dal fatto che le diverse proposte di sostegno
al reddito sono spesso accompagnate da differenti impostazioni “ideologiche” che
contrappongono da un lato chi ne sostiene la necessità, in base alla convinzione che il sistema
economico non possa più essere in grado di garantire una buona e piena occupazione (per non
parlare delle posizioni più radicali che vedono nel reddito minimo di cittadinanza la possibilità di
una “liberazione dal lavoro” oppure la possibilità di una radicale trasformazione dei rapporti di
forza); dall’altro lato, quanti sono contrari ai trasferimenti monetari come “compensazione” per
l’impossibilità di accedere ad un’occupazione, ritenendo che la priorità sia sempre e comunque
quella di garantire un lavoro.
D’altro canto l’esistenza del welfare e di trasferimenti di reddito rilevanti sono importati fattori al
sostegno della domanda aggregata, e quindi al mantenimento di elevati livelli di occupazione. Il
che ovviamente non significa coniugare trasferimenti di reddito a chi è al di sotto della soglia di
povertà con una maggiore flessibilità del mercato del lavoro volta a favorire l’aumento
dell’occupazione.
5
Cosa accade in Europa
L’Europa fin dal 1992, ovvero dal momento in cui il Consiglio Europeo ha adottato la
Raccomandazione 92/441/CEE, ha chiesto agli Stati membri di riconoscere, nell’ambito di un
piano di lotta contro l’esclusione sociale, il diritto fondamentale d’ogni individuo a vivere in
conformità alla dignità umana; di dare accesso a tale diritto senza limiti temporali e di stabilire una
quantità di risorse sufficienti in tale proposito. Ha inoltre cercato di seguire lo sviluppo del
processo di attuazione dei sistemi di reddito minimo.
L’“appello” del Parlamento Europeo, pur essendo stato lanciato con uno strumento “legislativo”
non vincolante come la Raccomandazione, col tempo, è stato accolto dalla quasi totalità degli Stati
Europei: in questi 21 anni quasi tutti i paesi dell’Europa a 28 hanno adottato forme di reddito
minimo garantito per coloro che sono a rischio di esclusione sociale: giovani in attesa di prima
occupazione, disoccupati e persone in condizione di marginalità, attribuendo a ognuno almeno il
60% del reddito medio riferito a ciascun Paese (oltre a misure aggiuntive come aiuti o tariffazioni
agevolate per gas, luce, affitti e trasporti o per spese straordinarie e urgenti).
Solo il nostro paese, insieme alla Grecia, non si è adeguato alla raccomandazione di Bruxelles sul
sostegno pubblico ai disoccupati, nonostante le richieste dell’Unione si siano ripetute nel corso
degli anni: dalla Comunicazione della Commissione Ue COM (2006)44, alla raccomandazione
2088/867 CE, fino alla Risoluzione 2010/2039 del Parlamento Ue, che sottolinea “il diritto
fondamentale della persona a disporre di risorse e prestazioni sufficienti per vivere
conformemente alla dignità umana”. Più recentemente, in una lettera che la Bce ha inviato al
governo nell’agosto 2011 si chiede di introdurre “un sistema di assicurazione dalla
disoccupazione” e tra i 39 punti della richiesta di chiarimenti del novembre 2011 si legge della
necessità di “rivedere il sistema dei sussidi di disoccupazione oggi molto frammentario entro la
fine del 2011″.
Ancora oggi In Europa non c’è uniformità a questo riguardo: il principio base può essere lo stesso,
ma le applicazioni che ne sono state date sono molto diverse, anche se la tendenza generale è
quella di legare il sostegno a misure volte a rafforzare il mercato del lavoro in modo da aumentare
l’occupazione e ridurre il numero dei beneficiari. Inoltre, nella maggior parte dei casi, il reddito
minimo garantito è affiancato da una legge sul salario minimo.
In linea generale, in ambito Comunitario, vigono di 3 diversi modelli di reddito minimo:
1) quello centro europeo, che vede paesi come Belgio e Olanda attuare queste forme già dagli anni
Settanta del novecento;
2) il modello anglosassone, che ha nella sua specificità le ristrettezze dettate dal means test, che
alcuni definiscono forma di controllo vero e proprio sugli individui percettori;
3) quello scandinavo che prevede un ampio ventaglio d’interventi sociali tra i quali il sostegno al
reddito è uno dei capisaldi.
Ad esempio, in Germania ogni singolo senza reddito ha diritto a circa 380 euro mensili, cui vanno
aggiunti l’assistenza sanitaria, sussidi per l’alloggio e il riscaldamento, e il sussidio aggiuntivo per
figli a carico (circa 290 euro per ogni figlio tra i 1 e i 18 anni, 250 tra i 6 e i 14 anni, 220 da 0 a 5
anni). La durata è illimitata, a patto che chi è abile al lavoro segua progetti di reinserimento e
accetti offerte congrue alla sua formazione. Oltre ai cittadini tedeschi ne hanno diritto gli stranieri
6
provenienti dai paesi dell’Unione che hanno firmato il Social Security Agreement e i rifugiati
politici.
In Belgio, esiste il revenu d'intégration, un salario mensile di circa 650 euro per chi è in condizioni
di povertà. In Lussemburgo c’è il Revenu minimum guaranti, un riconoscimento individuale
erogato “fino al raggiungimento di una migliore condizione personale”. Nei Paesi Bassi ci sono il
Bijstand (un diritto individuale e si accompagna al sostegno all’affitto, ai trasporti per gli studenti,
all’accesso alla cultura), ma anche il Wik di 500 euro, riservato a permettere agli artisti un minimo
di libertà creativa. In Austria c’è il Sozialhilfe, un minimo garantito che viene aggiunto al sostegno
per il cibo, il riscaldamento, l’elettricità e l’affitto per la casa. In Norvegia il “reddito minimo di
esistenza”, erogato a titolo individuale senza particolari restrizioni e senza limiti di età, è di circa
500 euro mensili, più la copertura delle spese d’alloggio ed elettricità.
La Danimarca basa il suo sistema sul pilastro del Kontanthjælp, ovvero dell’assistenza sociale. Il
sussidio fornito dal governo è uno dei più ricchi in assoluto: per un individuo maggiore di 25 anni,
escluso l’aiuto per l’affitto che viene elargito separatamente, il minimo garantito è di circa 1.300
euro, che possono arrivare fino a circa 1.750 euro per chi ha figli. Va però sottolineato che questo
reddito è tassabile ed evidentemente proporzionato al costo della vita danese. Chi beneficia del
reddito minimo, a meno di essere stato dichiarato inabile al lavoro, è obbligato a cercare
attivamente un’occupazione e ad accettare le offerte consone al proprio curriculum e al proprio
percorso formativo. La mancata ottemperanza a tale obbligo comporta la sospensione del diritto
al sussidio. Inoltre, se ci si assenta dal posto di lavoro senza giustificati motivi il sussidio viene
ridotto in base alle ore d’assenza, in modo da disincentivare comportamenti che vadano a inficiare
lo scopo per cui questo sussidio è stato creato.
Nel Regno Unito, l’Income-based Jobseeker’s Allowance, garantisce un reddito mensile di circa 300
euro a tempo illimitato, con l’aggiunta di sussidi specifici per i figli a coloro che sono disoccupati o
non hanno un lavoro full time (lavorano mediamente per un massimo di 16 ore settimanali).
Finché sussistono tali condizioni il sussidio ha durata illimitata e varia nell’importo al variare di età,
struttura famigliare, disabilità e risorse a disposizione dei beneficiari. Lo Stato fornisce anche
assegni per il mantenimento dei figli e un aiuto nel saldo dell’affitto. Coloro poi che si trovino nella
situazione di dover cercare un nuovo lavoro avranno diritto ad un secondo aiuto, dello stesso
importo, finché saranno iscritti alle liste di collocamento e daranno prova di cercare attivamente
lavoro recandosi ogni quindici giorni in un Jobcenter.
In Francia il Revenu Minimum d’Insertion è stato adottato dal 1988 e nel 2009 è stato sostituito dal
Revenu de Solidarité Active. Ne ha diritto chi risiede nel paese da più di 5 anni, ha più di 25 anni,
chi è più giovane ma ha un figlio a carico o 2 anni di lavoro sul curriculum. Un singolo percepisce
circa 460 euro mensili, una coppia con 2 figli circa 960 euro. Il sussidio, che dura 3 mesi e può
essere rinnovato, aumenta con l’aumentare del numero di figli. Perché il sostegno non si trasformi
in un disincentivo al lavoro, il beneficiario deve dimostrare di cercare attivamente un’occupazione,
partecipare a programmi di formazione e l’importo del beneficio è modulare: man mano che
cresce il reddito da lavoro, diminuisce il sussidio, ma in questo modo il reddito disponibile
aumenta.
Di fronte a tale ricognizione, sia pur parziale, degli strumenti di sostegno al reddito adottati dai
diversi Stato Membri, è evidente il ritardo del nostro paese da quell’Europa che ha affrontato il
tema della protezione sociale e del reddito garantito fin dall’inizio degli anni ’90.
7
Certamente, anche molte delle forme di protezione sociale adottate all’estero non vanno lette
come la panacea di tutti i mali, ma sono perfettibili e al proprio interno presentano alcune
contraddizioni. Ad esempio, il fatto che molti di questi modelli di sostegno prevedono l’obbligo per
i beneficiari ad accettare qualsiasi lavoro pena la sospensione del benefit, ha come conseguenza
quella di allargare la fascia di lavori a bassa qualificazione.
Bisogna comunque ribadire che il sostegno al reddito è una misura che permette ai cittadini di
affrontare la propria quotidianità in modo meno pressante e vessatorio. Consente, infatti, a chi
boccheggia al di sotto della soglia di povertà di superarla e contribuisce ad alleviare le difficili
condizioni, anche psicologiche, in cui si trova chi è senza lavoro o di chi, pur lavorando, non ha
risorse sufficienti per una vita dignitosa.
8
Le proposte in Parlamento
Nonostante la UE solleciti da anni gli Stati a introdurre un il reddito minimo garantito, inteso quale
fattore d’inserimento nella società dei cittadini più poveri, solo in questo ultimo periodo in Italia si
è riaperto un dibattito in merito all’istituzione di un sostegno pubblico a quanti vivono una
condizione d’indigenza.
In 15 anni sono stati fatti diversi tentativi: nel 1998, il primo governo Prodi con Decreto Legislativo
18 giugno 1998, n. 237, istituì il Reddito Minimo di Inserimento, introdotto in Finanziaria per il
1998 e sperimentato su piccola scala – in una quarantina di comuni – in vista di una auspicabile
generalizzazione del programma alla scala nazionale. In seguito venne progressivamente
smantellato, fintantoché il governo Berlusconi smise di finanziarlo nel 2003. Quattro anni dopo, il
secondo governo Prodi ne annunciò la reintroduzione, tuttavia il Reddito Minimo di Inserimento
non è stato più finanziato.
Attualmente, in Parlamento giacciono le proposte del Pd, di Sel e quella del M5S, che hanno
presentato tre diversi disegni di legge per l’istituzione di nuovi strumenti di inclusione sociale e di
lotta alla povertà per i cittadini oggi più esposti agli effetti della crisi economica-finanziaria in
corso.
La proposta del PD, “Istituzione del reddito minimo di cittadinanza”, prevede per disoccupati,
inoccupati, lavoratori precariamente occupati e persone prive di lavoro un contributo di 500 euro
mensili, da incrementare di 1/3 per ogni componente del nucleo familiare a carico del beneficiario.
Possono averne diritto i maggiorenni, con un Isee non superiore ai 6.880 euro annui e che
posseggono solo la prima casa. Ne hanno diritto anche gli stranieri regolarmente soggiornanti in
Italia da almeno 3 anni. Il reddito dura un anno ed è rinnovabile per un ulteriore anno. L’erogazione
è sospesa nel caso in cui il beneficiario venga assunto con un contratto di lavoro subordinato a
tempo indeterminato o anche determinato, e dal secondo anno il contributo può essere
trasformato in dote salariale per l’azienda che assume.
La proposta di SEL prevede un beneficio di 600 euro mensili per tutti coloro che abbiano un reddito
personale imponibile non superiore ad ottomila euro, sono residenti in Italia da almeno 24 mesi e
iscritti nelle liste di collocamento dei Centri per l’impiego. Il sussidio, che scade ogni anno, può
essere rinnovato, e andrebbe ricalcolato in base al numero di familiari a carico. Perde il diritto al
contributo chi viene assunto con contratto a tempo indeterminato, chi svolge un’attività lavorativa
autonoma o chi rifiuti una proposta di lavoro adatta alle sue competenze.
La proposta del M5S prevede un sussidio di cui può beneficiare chiunque abbia perso il lavoro e
chi, pur lavorando, non riesca a superare la soglia di povertà: nel primo caso verrà erogato il
contributo massimo di 600 euro; nel secondo caso lo Stato provvederà ad integrare il reddito fino a
quota 600. L’importo sarà calcolato sulla base del nucleo familiare e l’aiuto è erogato ad ogni
membro. I centri per l’impiego offriranno a chi è disoccupato fino a tre offerte di lavoro adatte al
suo curriculum e al terzo rifiuto si perde il diritto al reddito.
9
Le Misure di contrasto alla povertà previste dal Governo
Nel mese di giugno 2013 una Commissione appositamente istituita presso il Ministero del Lavoro e
presieduta dal Viceministro Maria Cecilia Guerra ha elaborato, con il contributo di docenti
universitari, l’ipotesi di uno strumento chiamato Sia, “Sostegno per l'inclusione attiva”: una nuova
misura nazionale di contrasto alla povertà assoluta e all’esclusione sociale nel quale sono confluite
alcune delle principali proposte provenienti dal mondo dell’associazionismo e dal terzo settore.
Al centro della proposta non vi è il cittadino, ma la famiglia: riguarderebbe nuclei familiari che
vivono sotto la soglia di povertà assoluta e che necessitano di un integrazione al reddito. L’idea
dello strumento è quella di integrare il reddito di tutte le famiglie povere, in cambio di un patto di
inserimento con i beneficiari. L’obiettivo del SIA è, infatti, quello di permettere a tutti l’acquisto di
un paniere di beni e servizi ritenuto decoroso sulla base degli stili di vita prevalenti. Il sostegno
economico non è però incondizionato: il beneficiario s’impegna a perseguire concreti obiettivi
d’inclusione sociale e lavorativa.
Come aveva anticipato a settembre il Ministro Enrico Giovannini nel corso del suo intervento di
presentazione del SIA, la nuova misura, sia pur in seguito al maxiemendamento, è stata
parzialmente introdotta nella legge di stabilità. La sua applicazione avverrà, tuttavia, in via
sperimentale solo in alcune grandi aree metropolitane.
Secondo le stime il costo del SIA, a pieno regime, si aggirerebbe intorno ai sette miliardi di euro.
Tale cifra permetterebbe a tutte le famiglie di uscire dalla soglia di povertà assoluta. Proprio in
virtù di questo costo elevato, il Sia non era stato previsto nel Ddl Stabilità.
Tuttavia, con il maxiemendamento, è previsto lo stanziamento di quaranta milioni l’anno (120
milioni in tre anni), da recuperare dal contributo di solidarietà sulle pensioni d’oro: il 6% dalle
pensioni 14 volte sopra il minimo (a partire da circa 90 mila euro); il 12% da quelle tra 14 e 20
volte il minimo (128 mila euro); il 18% tra 20 e 30 volte il minimo (193 mila euro). Le risorse che
arriveranno saranno destinate alla carta acquisti ma anche a forme d’inclusione dei poveri, primo
passo verso l’introduzione di un reddito minimo.
10
Le esperienze a livello locale
A livello locale, le politiche di lotta alla povertà sono state sperimentate in diverse regioni, ma
sono poche le iniziative che si sono consolidate dando attuazione a un coerente, progressivo
impegno sul versante della lotta alla povertà. Dopo la sperimentazione del RMI a livello nazionale,
diverse Regioni si sono attivate con l’introduzione di misure di contrasto alla povertà che
abbinassero i contributi economici a programmi di inserimento sociale e/o lavorativo: le Province
Autonome di Trento (l.p. 14/1991 e successive modifiche) e Bolzano (l.p. 13/1991 e successive
modifiche), la Valle d’Aosta (l.r. n. 19/1994 e successive modifiche), la Basilicata (Programma di
promozione della cittadinanza Solidale - l.r. n. 3/2005), la Campania (Reddito di cittadinanza - l.r. n.
2/2004), il Friuli Venezia Giulia (Reddito di base per la cittadinanza - l.r. 6/2006, art. 59; F.do per il
contrasto ai fenomeni di povertà e disagio sociale - l.r. 9/2008, art. 9) e il Lazio (Reddito Minimo
garantito – l.r. 4/2009).
Molto più circoscritte a livello territoriale, seppur comunque assimilabili all’esperienza nazionale,
sono state la vicenda veneta e quella siciliana. Il Veneto (Reddito di Ultima istanza - DGR
1294/2004, DGR 2643/2007) ha finanziato il proseguo della sperimentazione nazionale del RMI al
Comune di Rovigo, mentre nel 2006 la Regione Sicilia ha finanziato i cosiddetti “cantieri di servizio”
(cantieri Servizi - l.r. n. 5/2005), cioè il sostegno economico di lavori socialmente utili destinati agli
ex-beneficiari del RMI nazionale.
Tuttavia, gli interventi realizzati si caratterizzano per un’estrema eterogeneità, per tipologia, per
destinatari a cui si rivolgono, per entità degli stanziamenti, e per una forte polarizzazione tra
un’assistenza economica tout court, decisamente prevalente, e percorsi di inserimento sociale e
lavorativo di categorie molto marginali. Sono poche le esperienze che hanno dato prova di
efficacia nel contrasto alla povertà, e alcune si sono concluse dopo poco tempo, talvolta per motivi
politici o per mancanza di risorse. Senza considerare che, di fatto, in molti casi, l’intervento è
consistito in trasferimento monetario, in cifra fissa, e quindi neppure correlato ai fabbisogni delle
famiglie povere. Inoltre, la percentuale di beneficiari rispetto ai richiedenti ammissibili è stata
decisamente bassa.
Probabilmente, ad oggi, la sperimentazione più significativa e longeva è quella del Reddito di
garanzia della Provincia Autonoma di Trento: è previsto un trasferimento monetario che porta a
6.500 euro annui il reddito disponibile equivalente (in base all’Icef, l’indicatore della situazione
economica familiare trentino), accompagnato da azioni di integrazione sociale e di attivazione al
lavoro. Introdotto nel 2009, il reddito di garanzia è ormai in atto da tre anni e mezzo.
Recentemente, di fronte al perdurare della crisi economica e l’aumento vertiginoso delle situazioni
di povertà nei territori, la Conferenza delle Regioni e delle Province Autonome, ha sottolineato la
necessità che il Governo intervenga con un piano organico di interventi centrati sulla difesa della
dignità delle persone e sugli investimenti per lo sviluppo umano, ferma restando la disponibilità
delle regioni a lavorare per costruire proposte e percorsi condivisi tra istituzioni e il vasto mondo
del terzo settore e del sociale.
Anche l’ANCI chiede alla politica un progetto nazionale pluriennale di contrasto alla povertà per
garantire il diritto ai cittadini di poter accedere almeno al minimo vitale. Un sostegno che superi
l’ottica assistenziale alle singole persone per mettere al centro dell’attenzione il nucleo familiare e
che porti chi è assistito a tornare indipendente dal sussidio attraverso progetti personalizzati.
11
Le proposte di Acli e Caritas e di altri soggetti del terzo settore
Le Acli, in collaborazione con la Caritas Italiana, hanno presentato a luglio una proposta di Reddito
d’inclusione sociale (REIS), da collocare in un piano nazionale contro la povertà. La proposta,
elaborata da un gruppo di lavoro coordinato dal professor Gori dell’Università Cattolica di Milano,
intende fornire risposta all’assenza nel nostro Paese di adeguate politiche per contrastare la
povertà assoluta. Il modello di riferimento è quello opposto allo statalismo e all’assistenzialismo: si
propone un sistema basato sulla sussidiarietà e sul protagonismo dei territori e dei soggetti
beneficiari degli interventi di sostegno che incoraggi ed incentivi chi è in difficoltà ad essere il
principale artefice della propria ripresa.
Il REIS prevede un percorso graduale, fattibile e sostenibile economicamente per introdurre una
misura capace di rispondere efficacemente alle carenze del nostro paese in materia. Il REIS,
costituisce un livello essenziale delle prestazioni ai sensi dell’art 117 della Costituzione, ed è
destinato alle famiglie in povertà assoluta (2012 erano il 6,8% dei nuclei in Italia), comprese quelle
di origine straniera se regolarmente residenti in Italia da almeno 12 mesi. Per avviare un progetto
come il Reddito di inclusione sociale si stima uno stanziamento di 900 milioni da recuperare con
modalità oggetto di varie ipotesi.
Il REIS in sintesi:
Utenti
Tutte le famiglie in povertà assoluta legittimate a vario titolo alla presenza sul
territorio italiano e regolarmente residenti nel paese da almeno dodici mesi.
Importo
La differenza tra il reddito familiare e la soglia Istat di povertà assoluta.
Variazioni
geografiche
Le soglie d’accesso e gli importi variano secondo il costo della vita delle diverse
aree del paese (nord/centro/sud) ed alla dimensione del comune
(piccolo/medio/grande).
Servizi alla persona
Al trasferimento monetario si accompagna l’erogazione di servizi: servizi per
l’impiego, contro il disagio psicologico e/o sociale, per esigenze di cura e altro
Il Reis viene gestito a livello locale grazie all’impegno condiviso di Comuni,
Terzo Settore, servizi per formazione/impiego e altri soggetti. Il Comune ha il
ruolo di regia e il Terzo Settore co-progetta insieme ad esso, esprimendo le
proprie competenze in tutte le fasi dell’intervento.
Welfare mix
Lavoro
Livelli essenziali
Tutti i membri della famiglia tra 18 e 65 anni ritenuti abili al lavoro devono
attivarsi in tale direzione. Si tratta di cercare un lavoro, dare disponibilità a
iniziare un’occupazione offerta dai Centri per l’impiego e a frequentare attività
di formazione o riqualificazione professionale.
Il Reis costituisce il primo livello essenziale delle prestazioni nelle politiche
sociali.
Le Acli hanno inoltre promosso l’Alleanza contro la Povertà in Italia, un insieme molto
rappresentativo di soggetti sociali, sindacali, del terzo settore, istituzionali che intende
12
promuovere adeguate politiche contro la povertà assoluta. Tutti gli aderenti all’Alleanza stanno
lavorando per arrivare a presentare una proposta organica che, partendo da un lavoro di revisione
del REIS, conduca alla predisposizione di uno strumento di contrasto alla povertà assoluta da
presentare al Governo.
Un’altra proposta di riforma delle politiche socio-assistenziali è quella è stata sviluppata da Ars,
associazione non profit, con la collaborazione dell’Irs e del Capp dell’Università di Modena e
Reggio Emilia, e presentata in occasione del convegno Costruiamo il welfare di domani. In risposta
all’urgenza di individuare politiche efficaci e sostenibili di contrasto alla povertà in Italia, è
proposto un programma, chiamato “Reddito Minimo di Inserimento” (RMI). La misura prevede un
mix di erogazione monetaria e servizi di natura socio-assistenziale e si rivolge a tutte le famiglie
residenti in Italia, italiane e straniere. L’intervento suggerito andrebbe a integrare i redditi di tutte
le famiglie in condizione di povertà fino a consentire loro di raggiungere la “soglia” della povertà
assoluta. Il trasferimento monetario continuerebbe ad essere corrisposto con l’appoggio dell’Inps
su base mensile per un anno - con possibilità di rinnovo - previa verifica della permanenza dei
requisiti economico-patrimoniali e socio-anagrafici delle famiglie. Gli Ambiti Territoriali si
occuperebbero invece di curare, attraverso specifici protocolli d’intesa, i rapporti con gli attori del
territorio deputati all’avvio ed alla realizzazione dei percorsi di inclusione lavorativa e sociale
(terzo settore, Centri per l’Impiego, ecc.) e definiscono, di concerto con i suddetti soggetti, gli
obblighi e gli impegni per i beneficiari.
Il finanziamento delle erogazioni economiche del RMI a regime avrebbe un costo addizionale di 5,8
miliardi di euro, in uno scenario di “contesto economico normale” che riflette la distribuzione del
reddito anteriore alla fase attuale di grave crisi economica; mentre crescerebbe a 7,2 miliardi di
euro sulla base dei dati sulla povertà assoluta di fonte Istat relativi al 2012.
13