Discorso Joël Vaucher-de-la-Croix
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Discorso Joël Vaucher-de-la-Croix
Joël Vaucher-de-la-Croix Andare insieme Allocuzione per il natale della Patria Novazzano, I agosto 2015 Dedico questo discorso a mio nonno Rino Tavazzi, che di Novazzano fu sindaco, e che più di tutti gli altri mi ha insegnato che se uno svizzero vuole creare qualcosa della sua vita deve impegnarsi prima di tutto a fare opera utile al bene comune e a mia nonna Filea, che dopo i terribili anni della guerra con le SS in casa, fu costretta ed emigrare in Svizzera, dapprima in una fredda e ostile Zurigo, poi in Ticino che divenne subito patria accogliente e solidale, dove ricominciare a vivere. 2 D a dieci anni ormai sono un cittadino delle cosiddetta “Quinta Svizzera”1, ovvero uno dei 746’885 svizzeri all’estero e in particolare uno dei 51’353 svizzeri che vivono e lavorano in quel paese bellissimo, grande ma fragile e contraddittorio che è l’Italia. Sono andato a Firenze, non ancora ventenne, per, come si dice, «sciacquare i panni in Arno»: l’espressione è di Alessandro Manzoni, che per il capoluogo toscano aveva una predilezione pari solo a quella per il risotto che veniva a gustare poco lontano da qui all’Antica Osteria di Seseglio2. A Firenze ho potuto studiare in istituzioni culturali antiche e prestigiose, una fra tutte l’Accademia della Crusca, e ho maturato quella passione per la ricerca, che occupa ancora oggi la mia attività quotidiana. A Firenze ho cercato di restare fedele alla mia patria lontana, dedicandomi allo studio dei profondi rapporti che hanno legato nei secoli, come le statue nell’atrio della stazione di Chiasso, l’Italia e la Svizzera. La mia tesi di laurea triennale era dedicata alla Grammatica inferiore della lingua italiana di Stefano Franscini 3 (1821), che mai venne usata in Ticino, ma che fu adottata per più di settant’anni nelle scuole toscane3: sembra incredibile, ma paradossalmente fu il ticinese Franscini ad insegnare l’italiano a tre generazioni di giovani discendenti di Dante Alighieri e proprio il più importante studioso della Divina Commedia dell’Ottocento fu uno svizzero italiano, il grigionese Giovanni Andrea Scartazzini4. Questo eccezionale legame culturale fra la Svizzera e il capoluogo toscano ha lasciato segni ancora evidentissimi: basti pensare che una delle più importanti istituzioni di cultura a Firenze ancora oggi attive, il Gabinetto Vieusseux, fu fondato dal ginevrino Giampietro Vieusseux all’inizio dell’Ottocento; numerosi artisti svizzeri furono attivi a Firenze, come il basilese Arnold Bocklin che visse e morì sulle colline di Fiesole5, e il ticinese Antonio Ciseri6. Il Circolo Culturale Svizzero di Firenze esiste ed è attivo da più di 150 anni e associa i circa 300 Svizzeri residenti a Firenze e in provincia. Denis de Rougemont sosteneva che quando gli svizzeri «riescono a svincolarsi dal loro cantone […] essi raggiungono l’universale»7: Borromini, Maderno e 4 Fontana, Le Corbusier, Rousseau, Honegger, Jung, Klee, Giacometti sono tutti stati “Svizzeri all’estero”. Io non sono di certo arrivato a tanto, ma credo che gli svizzeri fuori dai loro confini diano senza mezzi termini il meglio di loro. Quando un cittadino svizzero si rende conto che la Svizzera non è il centro del mondo, quando la visione da lontano permette di vedere, in un più vasto panorama di contesti differenti, anche i nostri difetti, quando insomma capisce davvero che non è necessariamente il migliore in tutto quello che svolge e che la sua visione del mondo non è sempre quella più corretta, allora, in quel momento, comincia a dare il meglio di sé: e dare il meglio per uno svizzero all’estero significa cercare di capire il paese dove vive senza giudicare, senza presupporre, senza dare lezioni, significa condividere e vivere pienamente senza dissimulare, significa riuscire ad adattarsi ai colori dell’ambiente, significa rendersi utile, portare il proprio contributo, fedele a quei principi che sono la sua identità nativa e naturale: significa insomma imparare ad amare ed apprezzare, oltre la patria lasciata, anche il paese in cui si è trovato a vivere. Questo è dare il meglio di sé e non è 5 altro che quello che dovrebbe fare qualsiasi persona che si ritrovi a vivere e a lavorare in un paese diverso dal suo. Mi è capitato in questi anni di parlare in diverse occasioni, ufficiali e conviviali, del nostro Paese, del nostro sistema politico, del nostro paradosso nazionale, insomma di quel modello svizzero di cui siamo giustamente orgogliosi. Bene, da queste occasioni sono nate alcune riflessioni che vorrei proporvi in questa giornata in cui non si devono fare discorsi troppo politici, ma riflettere piuttosto su cosa significhi essere svizzeri oggi. 1. «La Suisse dans l’histoire aura le dernier mot \Puisqu’elle est deux fois grande, étant pauvre, et làhaut; \ Puisqu’elle a sa montagne et qu’elle a sa cabane». La Svizzera avrà l’ultima parola nella Storia…, diceva Victor Hugo con i suoi accenti lirici8. La prospettiva ci lusinga, ma sbaglierebbe chi volesse cercare nelle vicende svizzere una cronaca edificante che possa indicare, sulla sua scia, la strada da seguire per le generazioni future o porsi come esempio ad altri popoli. Non è la nostra storia la marcia lenta, ma sicura e consapevole di nobili spiriti verso un 6 ideale di giustizia e di libertà: abbiamo fallito troppe volte per ambire a questo titolo. Nonostante le numerose virtù che ci vengono riconosciute, la condizione d’innocenza che ci assicura la neutralità, la pace di cui abbiamo goduto per quasi tre secoli in un’Europa straziata da guerre fratricide, non possiamo ritenerci il Popolo Eletto, predestinato dalla Provvidenza per essere il suo testimone nel mondo: d’altronde le vie della Provvidenza sono infinite e le occasioni di cadere in errore sono numerose, lo sappiamo, anche per i Santi... Ma se la Svizzera è nei fatti meno esemplare ci ciò che potremmo pensare vi sono nonostante tutto delle costanti che nei secoli hanno attraversato la nostra storia e che sotto forme diverse e adattate ai tempi si ritrovano oggi nelle nostre istituzioni e nei nostri comportamenti. Queste costanti sono oggi solo delle forme folkloriche o hanno un significato profondo nel mondo attuale? La prima costante è sicuramente lo s p i r i t o d i resistenza, d’indipendenza individuale e c o m u n i t a r i a , fortemente repubblicana. Da secoli, ogni anno, la sera del primo d’agosto tutta la Svizzera 7 s’illumina delle fiamme dei falò sulle colline e sulle pubbliche piazze e canta, ricordando la «rivolta di pastori libertari», «i vaccari della Svizzera» contro il despota austriaco: ecco che proprio lo spirito di resistenza e l’indipendenza, oggi diremmo l’autodeterminazione del popolo, è la fiamma che accende il falò della nostra storia. Si tratta in realtà di volontà di difesa della libertà non tanto come ideale universale, ma piuttosto le libertà personali e private, i vantaggi e i privilegi dell’individuo e della comunità alla quale appartiene: i tre Waldstätten del Grütli, con il loro patto «fatto l’anno del Signore 1291, al principio del mese di agosto» non si consideravano certo come un consesso di giuristi, che stavano impostando le basi del buon governo per l’avvenire del mondo: in realtà non erano dei contadini, ma una delle popolazioni più ricche di privilegi di tutto l’Impero, non erano nemmeno troppo democratici, in quanto i loro baliaggi erano amministrati con una crudeltà prossima allo sfruttamento colonialista, né tutto sommato troppo ribelli: la loro unità era derivata ancora dalla dipendenza dall’imperatore. È probabile che il buon contadino Guglielmo, chiamato 8 Tell, ovvero “il semplice”, che più di tutti gli eroi nazionali rappresenta la libertà e l’indipendenza elvetica, non avrebbe capito una parola del latino in cui fu scritto quel patto9. Noi ticinesi siamo sempre stati i rappresentanti forse più tenaci di questo spirito – i Luganesi si sollevarono nel 1798 per rimanere «liberi e svizzeri» –, spirito che purtroppo però tende sempre più a diventare, sotto i ripetuti e urlati slogan e insulti del populismo dilagante degli ultimi vent’anni, quella che un importante storico ticinese da poco scomparso, Pompeo Macaluso – uomo di parte, ma studioso obiettivo e maestro indimenticabile – ha definito “ideologia di comunità”: «non ci si preoccupa degli interessi veri e generali della comunità, ma si ritiene che i diritti valgano solo per i rappresentanti diretti di quella stessa comunità; e per gli altri non valgano», questo è molto pericoloso perché facilmente può degenerare in forme d’odio e d’inciviltà come il razzismo e la paura dello straniero: oggi noi ticinesi non siamo xenofobi, né razzisti, ma ciò non significa, ricordiamolo, che non lo possano diventare i nostri figli domani. 9 Johann Heinrich Füssli, Il giuramento dei tre confederati, 1778-79 10 2. «La svizzera non è più antica democrazia del mondo». In effetti non si è avuto una d e m o c r a z i a svizzera se non episodicamente prima del 1848. Certo che le Landsgemeinde sono dal XIII secolo esempio di una summa di democrazia purissima reale e viva, ma quando nel 1755 i poveri Leventinesi si sollevarono contro i soprusi dei balivi urani, vennero eseguite undici esecuzioni capitali, tre a Faido davanti alla popolazione sottomessa, inginocchiata alla lettura della sentenza, e otto ad Altdorf per la soddisfazione e il divertimento del popolo sovrano. La democrazia è stata dunque nel corso della nostra storia ben lontana dall’immagine idilliaca immortalata da Albert Welti nell’affresco che decora la sala del Consiglio degli Stati a Palazzo Federale, Albert Welti, Die Landsgemeinde, 1907-14 11 tanto che Goethe poteva ben sostenere che la democrazia elvetica era «una vecchia leggenda conservata nell’alcool». Fatto sta però che grazie alle rivoluzioni liberali dei primi decenni dell’Ottocento, con l’introduzione del suffragio universale e del regime rappresentativo, la Svizzera diviene indubbiamente all’avanguardia rispetto agli altri paesi europei e con l’introduzione nel 1848 del referendum in tutte le sue forme la Confederazione si trasformò in democrazia diretta o semi-diretta, un regime che la rende unica ancora oggi in Europa: si possono cambiare e abolire le decisioni dei governi, ma non si può ignorare la volontà dei popoli e possiamo affermare che là dove si paventa il referendum inizia in qualche modo la saggezza dei nostri politici10. Solo qualche settimana fa, la Grecia, la nazione che ha dato origine alla civiltà occidentale, è stata chiamata ad un referendum ben più drammatico di quelli in cui frequentemente siamo chiamati ad esprimerci: la mente va alla statua del Socrate morente di Antokolski esposta al Parco Ciani di Lugano, davanti alla quale mia nonna mi portava a giocare da bambino e davanti alla quale passano tutti i giorni 12 centinaia di giovani liceali. Al di là dell’opportunità di un tale voto, una nazione che non molti decenni fa ha subito una feroce dittatura e che si affida oggi con tanta dignità e orgoglio alla democrazia nei momenti più drammatici della sua storia, può insegnare qualcosa anche a noi che pur godendo da secoli di un sistema democratico eccezionale, tendiamo sempre più spesso trascurare la partecipazione alle urne. La nostra democrazia è inoltre basata sulla p o l i t i c a d i c o n c o r d a n z a , e la concordanza pone la sua essenza nel dialogo e quindi sull’uso del mezzo che consente il dialogo: le parole. Noi Svizzeri naturalmente più portati a una sana contabilità del fare, piuttosto che ai fuochi d’artificio del dire (più Marta che Maria, dunque), tendiamo troppo spesso a trascurare l’importanza delle parole. La conoscenza di un alto numero di parole è garanzia di un maggior grado di democrazia, perché maggiore è numero delle parole conosciute e maggiore è la possibilità di esprimere e chiarire delle idee e maggiore è il numero delle idee che si possono esprimere. La conquista dell’indipendenza e della dignità del cittadino 13 passa anche dalla conoscenza della lingua: il dialogo non esiste se non è paritario. Don Lorenzo Milani diceva: «è solo la lingua che ci fa uguali. Eguale è chi sa esprimersi e intende l’espressione altrui»11. Questo è il motivo per cui una scuola di qualità e per tutti costituisce le fondamenta della vera democrazia e in modo particolare della nostra, basata sulla concordanza, e la “scuola che verrà” dovrà avere per l’educazione linguistica un’attenzione particolare. La crisi della società contemporanea rivela una tragica dicotomia fra tra cultura e politica: occorre che coloro che assumono la direzione delle cose pubbliche accompagnino la conoscenza della propria sfera d’azione alla comprensione dei problemi dell’umana civiltà: l’ignoranza non è contagiosa, ma dovrebbe farci ben più paura della scabbia. 3. La costante federalista. Il federalismo è per la Svizzera, più che una scelta di sistema, una condizione di esistenza; se n’era accorto già Napoleone Bonaparte di fronte alla disfatta della Repubblica elvetica: «La natura ha fatto del vostro uno stato federale, voler vincere la natura non è scelta di uomo saggio». Pochi sanno che l’istituzione di 14 un governo federale, sintesi vivente delle unità e delle diversità, fu proposto nella sua forma attuale per la prima volta nel 1832 da un rifugiato politico, il toscano Pellegrino Rossi12. Il General Henri Guisan, settantacinque anni fa nel Rapporto del Grütli, nel parlare della eterogenea composizione delle truppe svizzere, affermava che «se il federalismo è la salvaguardia del paese, l’unificazione ne rappresenterebbe la fine […] Noi non vogliamo fonderci nello stesso stampo»: Sarebbe vano cercare di unificare gli svizzeri, quanto lo sarebbe tentare di livellare le loro montagne! Anche se le differenze non sono eliminabili, esse non nuocciono comunque alla coesione nazionale. Ginevra ha il suo Jeûne genevois e la sua Escalade, Zurigo il su Sechseläuten, Basilea il suo carnevale, Lucerna la sua festa di Sempach, Glarona il suo anniversario di Naefels, Vaud il suo 24 gennaio e il suo 14 aprile, Neuchâtel il suo primo marzo; tutta la Svizzera ha il suo Primo Agosto! L’amato Generale riprendeva un passo del grande romanziere zurighese Gottfried Keller che si rallegrava per il «fatto che non tutti gli Svizzeri siano usciti dallo stesso stampo» e che la nostra «varietà nell’unità» fosse la «vera scuola dell’amicizia». 15 Rino Tavazzi, Ritratto del Gen. Henri Guisan, 1940 Quest’anno cade un anniversario importante: un secolo fa, nel 1915, il leventinese Giuseppe Motta veniva eletto presidente della Confederazione, il primo ticinese a ricoprire la più alta magistratura dello Stato. A Bellinzona, il primo agosto di quell’anno, pronunciava delle parole, che a cento anni esatti di distanza sembrano ai nostri orecchi ancora attualissime: Il compito nostro è di scambiarci queste virtù e di imparare gli uni dagli altri; il dovere degli Svizzeri colti che appartengono alle nuove generazioni è d’apprendere le lingue nazionali affinché cessi in avvenire lo spettacolo di fratelli che non si comprendono o si guardano come stranieri. E quanto al dubbio o al sospetto che la Confederazione tratti il Ticino con sistemi di eccezione o come terra di diritto minore, oh! questa parola sciagurata che io non l’oda mai più! La Confederazione non fu e non sarà mai sorda a nessun legittimo bisogno del Ticino perché il Ticino […] è della madre comune come il figliuolo di predilezione13. 16 La nostra condizione di periferia – politica, se si guarda da nord, culturale se si guarda da sud – mostra negli ultimi tempi tutti i suoi problemi e da troppo tempo manca un nostro rappresentante in seno al Consiglio Federale. Per imparare gli uni dagli altri occorre fiducia, la predilezione di cui parlava Motta ha bisogno, dopo cent’anni, di rinnovarsi; di rinnovarsi nell’ascolto, nella premura, nell’amicizia e soprattutto nella lealtà. E «lealtà passa tutto, e con vertà fa frutto». Una lealtà che può partire anche dalla lingua. È bellissimo sentire la lingua di Dante risuonare sotto la cupola di Palazzo Federale, ma è la bellezza delle cose rare, degli “accenti strani”. Noi ticinesi siamo così affezionati alla nostra lingua che ci offendiamo per la scarsa considerazione che le è accordata nell’amministrazione federale e ci opponiamo, anche ufficialmente, di fronte alla scomparsa per motivi economici delle cattedre d’italiano nelle scuole e nelle università della Svizzera interna, ma credo che le iniziative di legge per quanto efficaci debbano essere accompagnate anche da altre iniziative. La lingua altro non è che l’espressione di una cultura ed è inutile promuovere una 17 lingua senza promuovere prima la cultura che essa esprime. Il nostro cantone dovrebbe impegnarsi, con iniziative mirate, a dimostrare che studiare l’italiano è importante, è bello, è utile; che attraverso lo studio dell’italiano è possibile accedere a buone opportunità professionali, ma anche a una visione del mondo, a una cultura millenaria (fatta di genio, di letteratura, di arte, di pensiero) alla quale anche la Svizzera Italiana ha dato nei secoli il suo contributo. Se sapremo fare questo, sono sicuro che il resto verrà da sé14. 4. Politica di neutralità. Il nostro Santo Patrono Nicolao de la Flüe ne è in qualche modo uno degli ispiratori: alla Dieta di Stanz nel 1481 consigliava agli svizzeri di non «mettere il confine troppo lontano» e di «non mischiarsi alle dispute degli altri». Quasi una ispirazione divina consigliata d’altra parte anche dalla ragione. Nella battaglia di Marignano nel 1515, di cui quest’anno cade il cinquecentesimo anniversario, i Confederati presero coscienza della scarsa efficacia delle loro picche e delle loro alabarde di fronte alla micidiale artiglieria del Re di Francia. La neutralità svizzera ha attraversato le durissime 18 prove di numerose guerre che si svolsero alle sue frontiere e più che il rispetto per il nostro status, fu la preparazione e la volontà di difesa che ci hanno permesso di mantenere delle istituzioni libere e democratiche anche nel periodo in cui l’intero continente era sottomesso a regimi totalitari. Nonostante una neutralità che sembra a volte quasi «staccata dalla storia», «elevata a principio morale intangibile», essa non ha impedito che gli svizzeri prendessero posizioni coraggiose ed eroiche, e i ticinesi in questo si distinsero sempre: durante gli anni terribili dell’ultima guerra il Ticino fu terra ospitale per molti perseguitati dal regime fascista come i fratelli Rosselli e Pietro Nenni, che il consigliere di Stato Guglielmo Canevascini accompagnava all’alba in cima al Generoso per vedere il sole sorgere sull’Italia che un giorno sarebbe stata libera. E non possiamo dimenticare quest’anno, a 70 anni esatti dalla fine della guerra, il gesto eroico del colonnello Martinoni che il 28 aprile 1945 impedì nei giorni tremendi della ritirata tedesca un inutile spargimento di sangue all’interno dei nostri confini15. La posizione strategica che ci garantisce la neutralità ci ha 19 permesso inoltre di collaborare con efficacia alla pace mondiale e alla risoluzione, oggi come in passato, di diatribe internazionali anche molto difficili: nei terribili giorni dell’estate del 1944 il console svizzero a Firenze Carlo Steinhauslin, unica autorità rimasta in città parlante tedesco, si adoperò in tutti i modi in soccorso di Firenze, dei suoi monumenti e dei suoi abitanti. Il diplomatico svizzero riuscì a convincere il colonnello Fuchs, comandante militare della città occupata, a non distruggere un acquedotto che avrebbe privato i fiorentini dell’acqua potabile, e cercò con tutte le sue forze di impedire ulteriori sofferenze alla popolazione civile: «La invito a pensare un istante quale sarebbe il suo stato d’animo assistendo, senza poter far nulla, alle sofferenze dei suoi figli che la fame attanaglia; a pensare cosa sarebbe capace di fare sua moglie se si vedesse morire tra le braccia una sua creatura, perché non ha trovato il latte, unico alimento appropriato alla sua tenera età». 6. Se la politica di neutralità è prima di tutto un mezzo per mantenere l’indipendenza del paese, allora accanto ad essa vi deve essere la volontà di difesa e la preparazione militare, che da sempre ricopre un’importanza fondamentale per 20 la coesione nazionale: già Machiavelli parlava degli Sguizzeri «armatissimi e liberissimi». La figura del cittadino-soldato è da sempre il perno della coesione comunitaria nella responsabilità della difesa. Vorrei dunque rendere omaggio ai militi oggi in servizio e ricordare con affetto anche i 110 alabardieri della Guardia Svizzera Pontificia che da più di 500 anni si impegnano volontari per la difesa del Papa e per i valori della Chiesa, ma anche tutte le forze di polizia e i pompieri che quotidianamente il loro servizio per il bene della comunità. L’anno scorso abbiamo ricordato l’inizio della prima Guerra mondiale e la mobilitazione generale. Cento anni fa, nel “maggio radioso” del 1915 entrava in guerra anche l’Italia e il Ticino ne patì le gravi conseguenze a livello politico e militare, ma anche umano. I documenti ci dicono che 24 maggio 1915 partirono in guerra anche 10 cittadini italiani residenti a Novazzano e molti di loro non rividero più la nostra ridente collina. Non conosco i loro nomi, ma vorrei ricordare cento anni dopo anche loro che erano 21 Novazzanesi come noi, partiti per servire il loro paese, magari vicini di casa, colleghi di lavoro, amici dei nostri bisnonni che negli stessi anni erano mobilitati a difesa dei nostri confini. 5. La solidarietà verso gli ultimi e i bisognosi, propria di una civiltà cristiana come la nostra, è una delle costanti elvetiche e in modo particolare dei ticinesi. Durante l’ultimo conflitto la popolazione del nostro Cantone, in gran parte povera e che non superava le centomila anime, diede ospitalità e soccorso a più di 45000 profughi italiani che fuggivano dalla guerra. Oggi, di fronte ad un Europa vergognosa che ha lasciato l’Italia drammaticamente sola nell’emergenza, con una solidarietà intelligente, sostenibile e responsabile – che presta aiuto alle popolazioni anche in loco, rispetta le legittime speranze di una vita migliore, ma impedisce gli abusi – la Svizzera continua nella sua vocazione di aiuto a chi ne ha davvero bisogno, così come fecero i nostri nonni, con quel poco che avevano. Una solidarietà che ha ragioni profonde, indubbiamente, nelle radici cristiane della nostra storia. 22 Dopo tutto la nostra Costituzione si apre «In nome di Dio onnipotente» e le tre dita alzate del nostro caratteristico giuramento stanno ad indicare le Tre Persone della SS. Trinità, la nostra bandiera raffigura la Croce di Cristo e il nostro inno, bellissimo e insostituibile, è una preghiera che raccomanda la Patria alla Benevolenza divina. La famiglia, il rispetto per la vita e per il creato sono sempre stati il cuore del nostro Paese. Oggi, purtroppo, la giusta laicità che è necessaria ad uno Stato libero e indipendente, tende sempre più ad assumere i connotati di un laicismo intollerante e cinico: ma sono convinto che una società che ritiene il fatto religioso come elemento strettamente e unicamente individuale e lo relega nella categorie delle sottoculture non riuscirà mai a dialogare con quelle realtà sempre più emergenti dove la religione sta alla base della struttura dello stato ed è essenza stessa della società civile. 23 6. Sul frontone della Cappella di San Carlo a Hospental, sul passo del Gottardo, si legge: Qui le strade si separano. Amico, dove ti portano i tuoi passi? Scenderai verso Roma, l’eterna? Verso il Reno tedesco e Colonia, la santa? Oppure a ovest, lontano, nella terra di Francia? Oggi il S. Gottardo non è che una «piega sulla superficie terrestre, non è più la porta degli scambi commerciali, sociali e culturali d’Europa». Eppure «Il cuore dell’Europa batte qui», affermava Denis de Rougemont. È evidente che l’allergia viscerale degli svizzeri ai “giudici stranieri”, un riflesso di neutralità quasi isolazionista influisce sensibilmente a diminuire la loro v o c a z i o n e e u r o p e a . La ferma e legittima volontà degli svizzeri di non entrare nell’Europa unita, risponde prima di tutto proprio a quelle costanti che ho appena ricordato: solo nella misura in cui la Svizzera rimarrà indipendente e padrona della sua sovranità potrà meglio servire alla pace e alla collaborazione fra i popoli. Ma noi non possiamo per questo non dirci europei. Mi spiego. La Svizzera è europea in virtù della sua natura e del suo 24 paesaggio, la Svizzera è europea perché in sé vi si trovano le culture e le religioni che costituiscono la civiltà europea, la Svizzera è europea per la sua interdipendenza economica con i paesi che costituiscono l’Europa unita, per il suo 1'286’000 residenti tedeschi, francesi, italiani, spagnoli, portoghesi che formano la base della sua mano d’opera industriale; la Svizzera è europea per i suoi 462'049 cittadini che vivono nei vari paesi d’Europa. Gli accordi con l’Europa permettono tutti i giorni a migliaia di studenti svizzeri di migliorare la loro formazione all’estero, le università svizzere usufruiscono di fondi europei per sviluppare ricerche d’avanguardia ed essere protagoniste in ambito internazionale. È proprio dalla Svizzera che nel 1946 Wiston Churchill aveva lanciato il suo appello per l’unione dell’Europa. Le cronache recenti dimostrano chiaramente che l’Unione Europea di fatto non esiste: esiste un’unione monetaria europea, un’unione finanziaria e commerciale, ma l’Europa unita così come l’avevano immaginata quelle grandi anime cattoliche subito dopo la guerra fratricida, come i Servi di Dio Alcide De Gasperi e Robert Schuman, come Jean 25 Monnet, Konrad Adenauer non si è ancora realizzata. Era dopo tutto un’idea bellissima, quasi un miracolo volere uniti nella fratellanza nazioni che avevano passato gli ultimi cinquant’anni della loro storia ad ammazzarsi sui campi di battaglia. A quell’Europa la Confederazione, per la sua storia e per la sua struttura, poteva e può dare ancora un modello di federalismo e concordanza reale, efficiente, efficace. Credo che in questo la Svizzera potrà avere davvero «l’ultima parola nella storia». *** Concludendo, ho cercato di individuare quelle costanti che da secoli ormai caratterizzano il nostro paese, i nostri principi. Probabilmente se si trovassero attorno ad una bottiglia di bianco un contadino esecutore di Jodler dell’Appenzello, un operaio socialista ticinese, un banchiere ginevrino non avrebbero un gran che da dirsi e forse non si capirebbero. Ma questo a noi non importa. A noi importa che tutti siano fedeli e credano alla stesse 26 istituzioni, alle stesse regole comuni, che consentano ad ognuno di loro di restare, in pace, amicizia e rispetto, specificatamente diversi. Tutti noi siamo svizzeri non per qualche qualità comune, sia essa culturale, naturale o religiosa, ma perché stiamo insieme e vogliamo stare insieme. Il 14 luglio abbiamo celebrato il 150 anniversario della prima scalata della montagna che più ci rappresenta nel mondo e che è simbolo affettivo per tutti i popoli europei, il Cervino: la sua scalata è emblema di forza e di perseveranza, di unità, di coraggio, di solidarietà. Dobbiamo accontentarci, come svizzeri di quello che abbiamo in comune, più forte di tutte le divisioni. Dobbiamo accontentarci, come quei primi eroi che scalarono il Cervino, della strada che dovremo fare insieme, e che ci porterà tutti egualmente, senza distinzioni alla meta: e sarà un passo, un respiro, una cadenza, un destino solo, per tutti. Dopo i primi chilometri di marcia, le differenze saranno cadute come il sudore a goccia a goccia dai volti bassi giù sul terreno, fra lo strascicare dei piedi pesanti e il crescere del respiro 27 grosso; e poi ci sarà solo della gente stanca che si abbatte, e riprende lena, e prosegue; senza mormorare, senza entusiasmarsi troppo, perché è naturale fare quello che bisogna. Non c’è tempo per ricordare il passato o per pensare molto, quando si è stretti gomito a gomito, e ci sono tante cose da fare; anzi, la cosa da fare è forse una sola, fra tutte la più importante. Andare insieme. da Castel di Sotto di Novazzano, 1 agosto 2015. 28 Gustave Doré, La prima ascensione del Cervino, 1865 29 NOTE 1 Questo scritto costituisce la versione rivista e ampliata della mia allocuzione tenuta sulla pubblica piazza di Novazzano in occasione della Festa nazionale. Pur rivedendo il testo e aggiungendo uno snello apparato di note, ho scelto tuttavia di mantenere quegli elementi di oralità che lo caratterizzano come testo pensato per essere letto davanti ad un pubblico. 2 Le frequentazioni dell’autore dei Promessi sposi col Ticino furono numerose: da ragazzo aveva studiato al Collegio S. Antonio di Lugano retto dai Padri Somaschi. 3 Grammatica inferiore della lingua italiana compilata da Stefano Franscini, Milano, Dalla Società tipografica dei Classici Italiani, MDCCCXXI. 4 Sullo Scartazzini si vedano Giovanni Andrea Scartazzini, Scritti danteschi, a cura di M. Picone e J. Bartuschat, Pro Grigioni Italiano, Locarno, Armando Dadò editore, 1997 e il mio Filologia e culto di Dante in Svizzera nell’età del Risorgimento, in Culto e Mito di Dante dal Risorgimento all’Unità. Atti del Convegno internazionale di Studi (Firenze, 23-24 novembre 2011), a c. di E. Benucci e E. Ghidetti, Firenze, Le Lettere, 2013, pp. 539-63. 5 Il quadro più famoso di Arnold Bocklin, L’isola dei morti, fu ispirata al cimitero acattolico fiorentino di Porta Pinti, oggi noto come Cimitero degli Inglesi, dove vennero sepolti illustri membri della comunità riformata svizzera. 6 Sulla presenza degli svizzeri a Firenze si veda il bel volume Svizzeri a Firenze dal Cinquecento ad oggi, Ticino Management, 2010. 7 DENIS DE ROUGEMONT, La Svizzera. Storia di un popolo felice, prefazione di Emilio Raffaele Papa, Locarno, Armando Dadò editore, 1998, p. 191. 8 VICTOR HUGO, La Légende des siècles, 1e série, édition Hetzel, 1859, tome 2, vv. 7-9. 9 Cfr. DE ROUGEMONT, La Svizzera, cit., p. 30. 10 Lo notava, non senza ironia, l’ex-consigliere federale GEORGE-ANDRÉ CHEVALLAZ, Constantes Helvétiques Identité vaudoise, Lausanne, Fondation Jean Monnet pour l’Europe et Centre de recherches européennes, 1985, p. 20. 30 DON LORENZO MILANI, Lettera di una professoressa, Libreria Editrice Fiorentina, Firenze, 1967, p. 96. 12 WILLIAM RAPPARD, La Constitution féderale de 1848, p. 68: «Nato a Carrara, giunto in Svizzera come rifugiato politico agli inizi della Restaurazione, egli fu il primo professore cattolico all’Accademia di Calvino e il fiore all’occhiello del Consiglio rappresentativo ginevrino, prima di diventare ambasciatore e pari di Francia, e di morire assassinato, quando era a capo del governo pontificio di Pio IX, nel 1848. Dotato di un’eccezionale capacità di lavoro, di un grande talento espositivo e di un’eloquenza “da far sciogliere il marmo”, come rilevò il suo collega sangallese a Lucerna, egli fu il relatore della commissione e uno dei principali redattori del progetto che, del resto a torto, porta il nome di patto Rossi». 13 Si cita dal quotidiano Popolo e libertà del 2 agosto 1915, p. 1, che riportava integralmente il discorso del Presidente della Confederazione. 14 Mi permetto di rimandare alle riflessioni che facevo qualche anno fa nell’articolo Italiano e italianità nella Confederazione Elvetica oggi, in «Lingua nostra», Vol. LXVI, n. 12, pp. 104-118, 2005. 15 Le vicende di quei drammatici giorni della primavera del 1945 sono ripercorsi e analizzati nel bellissimo catalogo della mostra 28 aprile 1945 I Fatti di Chiasso, a cura di I. Quartoni, N. Poncini, J. Binaghi, M. Canova, Chiasso, Comune di Chiasso, 2010. 11 31 32