Utopisti, esagerati - Pesaro Film Festival

Transcript

Utopisti, esagerati - Pesaro Film Festival
Il volume comprende saggi e interventi di: Antonio Albanese, Omero
Antonutti, Lorenzo Baraldi, Sandro Bernardi, Giulio Brogi, Laura Buffoni,
Cristina Bragaglia, Callisto Cosulich, Lorenzo Cuccu, Leonardo De
Franceschi, Franco Di Giacomo, Adriano Giannini, Maria Fancelli, Virgilio
Fantuzzi, Giulio Ferroni, Fabio Francione, Massimo Galimberti, Sebastiano
Gesù, Jean Gili, Marco Giusti, Tonino Guerra, Matilde Hochkofler, Pasquale
Iaccio, Tullio Kezich, Giuseppe Lanci, Margarita Lozano, Millicent Marcus,
Lino Miccichè, Franco Monteleone, Lina Nerli Taviani, Guido Pappadà,
Ivelise Perniola, Roberto Perpignani, Sandro Petraglia, Nicola Piovani, Farah
Polato, Eugenio Premuda, Galatea Ranzi, Franco Ruffini, Rosa Maria
Salvatore, Raffaella Setti, Robert Sklar, Pietro Toesca, Bruno Torri, Gaia
Tridente, Grazia Volpi, Vito Zagarrio.
In copertina: Paolo e Vittorio Taviani.
Nuovocinema
Utopisti, esagerati
Il cinema di
Paolo e Vittorio Taviani
a cura di Vito Zagarrio
Utopisti, esagerati
Sono davvero «utopisti ed esagerati» i fratelli Taviani, come li ha definiti
Miccichè in un suo antico saggio? Sono «sovversivi» e «fuorilegge», come si
chiede il libro giocando sul titolo di due loro film? E la loro carica trasgressiva e militante si è esaurita con la crisi dell’ideologia? O il loro cinema si è trasformato nel corso della loro ormai lunga carriera? Sono tutte domande che si
pone un libro dedicato a Paolo e Vittorio Taviani, due degli ultimi “maestri”
del nostro cinema, due autori su cui è stato scritto molto e a cui sono state
dedicate varie personali. Ma c’è senz’altro ancora uno spazio di riflessione su
un cinema come il loro, che può essere letto con occhi sempre diversi, via via
che passano gli anni, mutano le ideologie, si modificano gli approcci analitici.
I film dei Taviani – è la tesi di fondo del volume – vanno rivisti con strumenti
e metodi più moderni di quelli classici degli anni sessanta-settanta. È per questo che il cinema di Paolo e Vittorio Taviani è rivisitato da molteplici punti di
vista, da studiosi di estrazione e di età diverse, ed anche con il supporto di una
serie di testimonianze della loro “squadra” tecnico artistica, quella che è stata
definita una sorta di “bottega” rinascimentale. A dimostrazione di come il loro
universo autoriale sia sempre ricco e stimolante, aperto a nuove riflessioni e
interpretazioni.
Saggi Marsilio
SAGGI MARSILIO
NUOVOCINEMA/PESARO N. 57
Quaderni della Mostra Internazionale del Nuovo Cinema
C o l l a n a d i re t t a d a L i n o M i c c i c h è
Mostra Internazionale del Nuovo Cinema
UTOPISTI, ESAGERATI
Il cinema di Paolo e Vittorio Taviani
a cura di Vito Zagarrio
Marsilio Editori
A Lino
© 2004 BY MARSILIO EDITORI® S.P.A. IN VENEZIA
Il presente volume viene pubblicato in occasione del 18° Evento Speciale, manifestazione parallela alla 40ª Mostra Internazionale del Nuovo Cinema (Pesaro 25 giugno – 3 luglio 2004), organizzato in collaborazione con la Fondazione Centro Sperimentale di Cinematografia – Cineteca Nazionale.
La redazione del volume è di Enrico Carocci, Ofelia Catanea e Barbara Maio.
La Mostra Internazionale del Nuovo Cinema è stata realizzata con il contributo della Direzione Generale Cinema – Ministero per i Beni e le Attività Culturali, Regione Marche, Provincia
di Pesaro e Urbino, Comune di Pesaro, Commissione Europea - Programma Media.
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INDICE
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Sovversivi e fuorilegge? Introduzione di Vito Zagarrio
Gli “utopisti” e gli “esagerati” di Lino Miccichè
Il “nuovo cinema” di Paolo e Vittorio Taviani di Bruno Torri
Il cinema dei Taviani: ideologia e stile
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Lo stile come opposizione di Virgilio Fantuzzi
L’utopia dei Taviani di Pietro M. Toesca
Tra fondamentalismo e stile. I Taviani e l’ideologia
di Callisto Cosulich
Tecniche della messa in scena
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Il funambolo può solo camminare. La regia
di Eugenio Premuda
102 All’origine del mito di fondazione. Il suono di Farah Polato
112 Il piacere della narrazione. I dialoghi di Raffaella Setti
121 Partiture incompiute. La sceneggiatura di Ivelise Perniola
Cinema & letteratura
133 Il mito critico. Letteratura, simulacro, visione di Giulio Ferroni
136 Siamo tutti figli di Tolstoj. I Taviani e le fonti letterarie
di Cristina Bragaglia
145 L’ispirazione goethiana di Maria Fancelli
155 Pirandello e la Sicilia di Sebastiano Gesù
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INDICE
Cinema & Tv
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Diario di un esordio. “San Michele aveva un gallo” di Tullio Kezich
La televisione secondo i Taviani di Franco Monteleone
La “Resurrezione” dei Taviani di Lorenzo Cuccu
Pubblicità d’autore. I caroselli dei Taviani di Marco Giusti
Storia, psicanalisi, individuo
201 L’utopia come momento della verità. La presenza della Storia
di Pasquale Iaccio
213 Il paesaggio non indifferente di Sandro Bernardi
219 Documentario e memoria di Laura Buffoni
231 La costanza del desiderio di Rosa Maria Salvatore
Il teatro, l’attore
249 Scene di teatro di Franco Ruffini
256 Fra trasparenza e opacità. Il lavoro con gli attori di Leonardo De Franceschi
264 Mastroianni e “Allonsanfan” di Matilde Hochkofler
La fortuna critica all’estero
271 L’accoglienza in Francia di Jean A. Gili
279 L’accoglienza negli Stati Uniti di Robert Sklar
286 Insegnare con il cinema dei Taviani di Millicent Marcus
Il lavoro di gruppo
297 Dalla “bottega” dei Taviani. Testimonianze
a cura di Massimo Galimberti e Gaia Tridente
Produzione: Grazia Volpi
Sceneggiatura: Tonino Guerra, Sandro Petraglia
Fotografia ed effetti speciali: Franco Di Giacomo, Giuseppe Lanci, Guido Pappadà
Scenografia e costumi: Lorenzo Baraldi, Lina Nerli Taviani
Montaggio: Roberto Perpignani (a cura di Fabio Francione)
Musica: Nicola Piovani
Attori: Antonio Albanese, Omero Antonutti, Giulio Brogi, Adriano Giannini ,
Margarita Lozano, Galatea Ranzi
Strumenti
339 Filmografia a cura di Sergio Di Lino
345 Bibliografia a cura di Chiara Polizzi
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VITO ZAGARRIO
SOVVERSIVI E FUORILEGGE?
Introduzione
Mi è capitato più volte di introdurre i volumi editi in occasione delle
manifestazioni – i convegni, le retrospettive, i festival – della Mostra Internazionale del Nuovo Cinema. Mai con le emozioni contrastanti di questa
volta. Da un lato il piacere di dedicare un libro e un “evento speciale” (il
18mo di Pesaro) a Paolo e Vittorio Taviani: due degli ultimi maestri del
nostro cinema, che ho seguito da quando ero un giovanissimo spettatore
guardandoli come miti e modelli da imitare, due grandi cineasti che ho
avuto l’onore di conoscere da vicino, di seguire a volte su un set o durante
una lavorazione.
Dall’altro lato il dispiacere per un altro maestro, Lino Miccichè, che
non può essere della partita. Lino, che ha scritto sui Taviani pagine “storiche”, e che avrebbe dovuto essere tra i protagonisti di questo volume,
specie in un “evento speciale” che coincide con il quarantennale della
Mostra di Pesaro. A lui spettava di diritto l’intervista a Paolo e Vittorio,
come di tradizione, un vis à vis tra un decano della critica e i veterani del
“nuovo cinema”. Lino si è sentito male poche ore prima dell’appuntamento che aveva fissato con i due registi, e che ha dovuto disdire.
Non abbiamo voluto sostituire quell’intervista e pubblichiamo, invece,
un saggio di Miccichè sui Taviani che si intitola Gli “utopisti” e gli “esagerati”; titolo che non a caso ispira anche questo volume.
Per una rilettura critica dei Taviani
Ma veniamo al cinema dei Taviani e al taglio di questo libro loro dedicato.
La prima impressione di fondo che emerge da questo lavoro di riflessione sui loro film – sia commissionando i saggi a studiosi di varia forma11
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SOVVERSIVI E FUORILEGGE?
zione e di varie generazioni, sia valutando i risultati critici – è che i Taviani
possano e debbano essere ri-letti, oggi, con occhi nuovi.
Voglio dire che c’è una lettura acquisita del loro cinema, che è in parte
responsabile della loro fama, ma che rischia anche di ghettizzarli e di impedirne una lettura aggiornata agli anni duemila: è la lettura ideologica, che
li presenta come degli “utopisti” in senso politico e sociale, come dei “rivoluzionari” o dei nostalgici di una rivoluzione mancata o perduta, come
degli Autori “impegnati”, capifila di un cinema “civile”. Questa interpretazione è stata certamente valida, soprattutto in un contesto storico come
quello degli anni sessanta e settanta, ma nel momento della crisi dell’Ideologia degli anni ottanta e novanta ha forse impedito di seguire in modo
corretto l’evoluzione dell’universo etico ed estetico dei fratelli Taviani,
impedendone a volte una giusta valorizzazione.
Ne è esempio il saggio di Robert Sklar, noto storico del cinema americano e mondiale, che ricostruendo successi e insuccessi dei Nostri negli
Stati Uniti, tende a identificare la loro fortuna con la forza del loro impegno “militante”. In altre parole, i Taviani “sfondano” in America solo nel
momento in cui un pubblico socialmente “impegnato” vede nei loro film
un modello mitico e un’alternativa “politica” alle meno utopiche atmosfere locali. “When the spirit of radical change returns to U.S. politics and
culture – scrive Sklar – committed spectators will once again discover the
significance of the Taviani’s achievement”1. Un meraviglioso auspicio (e
del resto il saggio di Sklar è convincente), ma così facendo si rischia di
semplificare la authorship – per restare nei termini del dibattito americano
– dei Taviani. E si rischia, al tempo stesso di non capire i film della maturità dei due registi, inconsapevolmente fissando un “primo tempo” e un
“secondo tempo” della loro visione del mondo e svalutando, in quest’ottica, i loro film più recenti. I Nostri funzionano, allora, soltanto quando
sono “sovversivi” (come suona il loro titolo del ‘67) o “fuorilegge” (il gioco
di parole è con I fuorilegge del matrimonio, ‘63, firmato insieme ad Orsini);
quando propongono un’impossibile Utopia, quando si pongono fuori o
contro un “Sistema” di marcusiana memoria, sia in termini di modi produttivi che in termini di modi linguistici. Ma non funzionano più quando
accettano i meccanismi del mercato, o giocano coi codici dei generi o della
letteratura d’appendice; non funzionano quando le loro opere appaiono
prive di “messaggi”, non più capaci, mutati i tempi, di graffiare e di aggredire, o semplicemente di proporre utopie, con la U maiuscola o con quella
minuscola.
Allora, sono davvero “utopisti ed esagerati” i fratelli Taviani, come li
ha definiti Miccichè in quel suo antico saggio? Sono ancora, o sono mai
stati, “sovversivi” e “fuorilegge”, oppure hanno accettato un “compromesso” con la vita e la politica? E la loro carica trasgressiva e militante si
è esaurita con la crisi dell’ideologia, o il loro cinema si è trasformato nel
corso della loro ormai lunga carriera? Sono tutte domande lecite, ma sono
convinto che i loro film vadano oggi rivisitati al di là dei vecchi dibattiti e
dei vecchi schieramenti, applicando strumenti più adatti all’oggi; e magari
al di là delle loro stesse dichiarazioni teoriche, malgrado loro stessi.
Sui Taviani è stato scritto molto, sono state molte le occasioni di analisi dei loro film, varie le personali e le pubblicazioni; ma la sensazione è
che ci sia senz’altro ancora uno spazio di riflessione su un cinema come il
loro, che può essere letto con occhi sempre diversi, via via che passano gli
anni, mutano le ideologie, si modificano gli approcci analitici. I film dei
Taviani vanno rivisti con approcci e metodi più moderni – e funzionali alla
complessità dell’universo contemporaneo – di quelli classici degli anni sessanta-settanta.
Analizzare un film significa re-voir, propone Michel Marie: e “rivedere” significa vedere di nuovo in situazioni mutate, in mutati contesti,
con differenti situazioni emotive e psicologiche, con diverse capacità e
disponibilità analitiche. Si possono applicare al cinema dei Taviani metodi
che sono più gettonati nel dibattito contemporaneo: tanto per fare degli
esempi, cinema e psicanalisi, generi, gender, cultural studies, modi di produzione; poststrutturalismo, postmodernismo, attenzione all’elemento
carnascialesco, a quello autoriflessivo, ecc.
Provo a fare un esempio: gender. Sarebbe interessante analizzare, nella
cornice dei women studies, il ruolo delle figure femminili nel cinema tavianeo: dalla figurina moderna di Marina Malfatti, ritratta con i modi della
nouvelle vague in Un uomo da bruciare a quella forte, antica, di Lucia Bosé
in Sotto il segno dello Scorpione; dalle donne ritratte con i toni della contemporaneità in Fuorilegge e Sovversivi, a quelle “in costume” di Allonsanfan: la fascinosa Lea Massari, la seducente Mimsy Farmer, Laura Betti che
rimanda sempre “ad altro”. La complessa femminilità di Isabella Rossellini
nel Prato. Le star internazionali (Greta Scacchi, Nastassja Kinski, Isabelle
Huppert, Laetitia Casta), e quelle nazionali (Stefania Rocca, Sabrina Ferilli). Le “caratteriste” (Didi Perego, Lydia Alfonsi, Enrica Maria Modugno),
le molte donne del coro di La notte di San Lorenzo, con un cammeo dell’organizzatrice Grazia Volpi: come dire, la produzione al femminile. Margarita Lozano, personaggio carismatico ricorrente (La notte di San Lorenzo,
Kaos, Good Morning Babilonia, Luisa Sanfelice); interprete di un femminino che mi piacerebbe mettere in gioco con alcuni suoi ruoli precedenti: ad
esempio con la donna forte, la capofamiglia in Per un pugno di dollari, dove
trova un altro personaggio tavianeo, Gian Maria Volonté…
D’altra parte, ci sono molti elementi western nell’immaginario dei
Taviani, nelle musiche (Allonsanfan musicata non a caso da Morricone),
negli scontri di massa (ancora Allonsanfan), nei paesaggi (l’America di
Good Morning Babilonia su tutti, ma anche Padre padrone, Kaos, Tu ridi);
e persino in Un uomo da bruciare (Salvatore che sogna la sua morte, anche
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VITO ZAGARRIO
SOVVERSIVI E FUORILEGGE?
qui musicata alla western da Gianfranco Intra). E allora il discorso porterebbe a rintracciare gli elementi del “genere” (hollywoodiano o non) all’interno del loro cinema: il cappa e spada, il road movie, il film carcerario, il
melodramma, il feuilleton, persino il “film d’impegno civile” inteso come
filone.
Gli stessi due insiemi più tradizionali con cui si sono studiati i Taviani,
“cinema & storia” e “cinema & letteratura”, possono essere revisionati
con posizioni meno consuete. Si veda, a titolo indicativo, un libro che si
occupa di storia, inserendola però nell’ambito dei cultural studies statunitensi: in Revisioning History. Film and the Construcion of a New Past,
Robert Rosenstone cuce in un volume collettaneo (come è di moda tra gli
studiosi americani) una serie di interventi su film disparati: da Distant Voices, Still Lives di Terence Davies a Walker di Alex Cox, da Hiroshima mon
amour a Mississipi Burning. Ma vengono analizzati anche due film italiani:
Dal polo all’equatore della coppia Gianikian & Ricci-Lucchi, e La notte di
San Lorenzo dei fratelli Taviani. Il saggio è affidato a Pierre Sorlin.2 Anche
per quanto riguarda la relazione con la fonte letteraria, si può spostare l’attenzione, oltre alle tradizioni alte, alle “pratiche basse”, al feuilleton, alla
letteratura “popolare”, e spiegare così il matrimonio recente dei Taviani
con la “fiction” televisiva, la loro apertura e il loro interesse verso un immaginario di massa, verso un pubblico “di profondità” (è un problema che
si pone in questo volume, lavorando sul testo filmico, Lorenzo Cuccu
quando affronta gli ultimi due, controversi, film televisivi).
E perché non applicare ai Taviani le osservazioni di Bachtin sul carnevale, o quelle di Deleuze sulla voce fuori campo e sul continuum sonoro,
o quelle di Stam e di Grande sull’autoriflessività?
È per questo che il cinema di Paolo e Vittorio Taviani è rivisitato, in questo volume, da molteplici punti di vista, da studiosi di età culturale ed anagrafica diverse. Ci sono i testimoni del dibattito critico, quelli che hanno
vissuto il fervore della battaglia culturale, da Bruno Torri a Callisto
Cosulich a Tullio Kezich (quest’ultimo testimone in diretta degli esordi dei
Taviani in tv), da Pietro Toesca a Virgilio Fantuzzi. Ci sono gli studiosi che
hanno seguito l’opera dei Taviani in Italia e all’estero, da Sandro Bernardi a
Jean Gili. E ci sono critici, ricercatori, studiosi anche non specialisti di cinema, di varie generazioni che approfondiscono relazioni già note: cinema &
televisione (Monteleone, Giusti), cinema & letteratura (Bragaglia, Ferroni,
Fancelli), cinema & teatro (Ruffini), cinema & storia (Iaccio), o tentano
approcci inediti: il rapporto con l’inconscio (Salvatore), tema fondamentale eppure ancora tutto da scoprire nei Taviani, oppure l’analisi delle tecniche della messa in scena, come la sceneggiatura, il suono, i dialoghi (Perniola, Setti, Polato). In questo ambito, cruciale è l’analisi della regia (qui il
compito è affidato a Eugenio Premuda), un tema che mi sta particolarmente a cuore e su cui tornerò fra un attimo con più precisione.
Il modo di produzione dei Taviani
Ma anche l’analisi del “modo di produzione” è fondamentale, a maggior ragione per i Taviani, che vengono da una formazione marxista. Nel
loro caso, infatti, si possono applicare le varie sfumature della formula: il
loro cinema si può inserire in un dibattito ideologico di ampio spettro,
relativo al capitalismo contemporaneo, ma i loro film possono essere analizzati dal punto di vista dei finanziamenti, delle modalità con cui l’operazione produttiva è stata gestita, dei tipi di relazione tra costi e organizzazione della produzione; e le loro “opere” possono essere analizzate alla
luce del team produttivo e tecnico, dai collaboratori artistici alla tipologia
di maestranze. Nel loro caso, il “modo di produzione” può essere inteso
come interrelazione e mutua influenza tra il dato tecnico-artistico della
divisione professionale del lavoro e l’espressività autoriale, tra
l’“apparato” cinematografico e lo stile del film, oppure connotare un
intero sistema industriale in una data epoca, il micro-sistema della società
o dell’industria cinematografica italiane.
Nei loro confronti, si può coniugare una riflessione sulle “professioni”
e sui “mestieri” del cinema con l’analisi del fatto estetico e della testualità
filmica. La “tecnica”, per loro, può essere intesa in ampio modo, come
analisi delle tecnologie, strumenti del “racconto” filmico, coniugata con
l’espressività, vale a dire con lo stile, il segno riconoscibile, l’autorialità.
Da qui la serie di testimonianze che ho deciso di pubblicare, interventi,
contributi e ricordi della loro “squadra” tecnico artistica, quella che è stata
definita una sorta di “bottega” rinascimentale, un gruppo affiatato e irrinunciabile che è certamente co-autore del cinema di Paolo e Vittorio. Un
esempio di storia orale utilissima a ricostruire un universo espressivo. Dare
la parola a Grazia Volpi (prima organizzatrice e poi produttrice dei loro
film), a Roberto Perpignani (montatore di tutti i loro film da Sotto il segno
dello Scorpione in poi), alla costumista (nonché moglie di Paolo) Lina Nerli
Taviani, ai direttori della fotografia Lanci e Di Giacomo, al musicista
Nicola Piovani, ormai diventato personaggio di rilievo internazionale,
ecc., vuol dire ricostruire quel modello produttivo, quel team e quella
“famiglia”.
Un modello di cinema “povero” che fa dell’esiguità delle risorse una
sfida stilistica. Come negli scenari scarni di Sotto il segno dello Scorpione,
o nel set praticamente unico di San Michele. Anche quando, nel Prato,
appare improvvisamente l’elicottero, si nota come lo sforzo produttivo sia
ottimizzato: e così la scena finale di Giovanni morente in elicottero porta
con sé anche altre inquadrature dall’alto, come quella aerea dei bambini
– bella invenzione poetica – che danzano in fila verso il bosco al suono del
pifferaio magico. Ed è in questa prospettiva che Allonsafan può essere considerato un film “di svolta”, proprio se si analizza il salto distributivo che
il “gruppo” fa in questo film, e che fa capire l’esigenza di spettacolo che i
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SOVVERSIVI E FUORILEGGE?
Taviani accentuano rispetto alla loro stessa, innata, voglia di raccontare
spettacolarmente.
Elementi di stile
E veniamo, partendo da questi campi lunghi dall’alto, ad alcune osservazioni sulla regia e sullo stile dei Taviani, che nella loro carriera hanno passato vari “periodi” e varie fasi, mutando a volte – come è naturale per qualsiasi artista – tono e registro, ma conservando sempre una decisa impronta
personale e presentando tanti elementi ricorrenti, quasi una “firma” autoriale che rendono i loro film riconoscibili. Parlavo, ad esempio, di visioni
dall’alto: ecco, i campi lunghi connotano il cinema dei Taviani, soprattutto
nei loro primi film. Ricordo il bel piano sequenza dell’occupazione dei campi in Un uomo da bruciare, quando le masse si muovono con una coreografia di rara emozione, riprese dalla macchina fissa, appunto dall’alto. Oppure i campi lunghi e lunghissimi di Sotto il segno dello Scorpione, crudi, a volte sgradevoli. Perché è un linguaggio filmico, quello dei Taviani, anti-televisivo anche quando i loro film sono finanziati o supportati dalla televisione. Il loro stile di regia passa da un impianto abbastanza classico, seppur
venato di elementi di “modernità” (Un uomo da bruciare) alla nouvelle
vague di Sovversivi, dalla sperimentazione pura e acompromissoria (Sotto il
segno dello Scorpione) alla svolta estetica di Allonsanfan, ideato per un pubblico più generalizzato; dallo stile crudo e autoreferenziale sino alla provocazione di Padre padrone e de Il prato alle fabulae di La notte di San Lorenzo
e Kaos; e poi a una nuova svolta “internazionale”, verso un cinema che esca
dal ghetto cinefilo per andare verso il grande pubblico e le grandi platee,
anche televisive (da Good Morning Babilonia a Luisa Sanfelice).
I Taviani sperimentano continuamente, anche quando sembrano strizzare l’occhio allo spettatore. Prendiamo ad esempio Allonsanfan, film
“formalista” se lo si mette in relazione con le precedenti durezze (spesso,
ad esempio, la macchina da presa indugia su orpelli, stucchi, colori, quasi
a dichiarare un’estetica), e destinato al grande pubblico (vedi la scelta di
Mastroianni al posto di Brogi), eppure pieno di “rotture” dello stile classico della messa in scena. Come indizio, cito un paio di sequenze: la prima
è la cena di Fulvio, travestito da frate, a casa dei fratelli. Qui i Taviani rompono volutamente le regole della grammatica filmica, giocando sui campi
dei commensali escludendo il controcampo del protagonista; e creando
così, grazie al montaggio, una geografia stridente di personaggi e di sentimenti. La seconda è la sequenza in cui Fulvio e Charlotte fuggono dalla
casa paterna del protagonista, portandosi via l’altro Fulvio, il nipotino, su
un calesse. Qui l’azione è raccontata in maniera sincopata, eliminando in
ripresa e in montaggio gli snodi narrativi: il bambino visto in soggettiva,
la mano che lo aiuta a salire, il carro che se ne va, ecc., ancora una volta
spiazzando la percezione tradizionale dello spettatore.
I Taviani hanno poi delle vere e proprie “ossessioni” che popolano i
loro film. Proverò qui ad elencarne qualcuna.
Il doppio e il travestimento. Il cinema dei fratelli Taviani è spesso basato
sul tema del “doppio”. Tema classicamente psicanalitico, il rapporto con
l’“altro”, con un altro da sé che è spesso una proiezione dell’inconscio.
Intanto i Taviani sono “doppi” per scelta, sono due fratelli (non gemelli
come altri registi, i Frazzi ad esempio), ma specularmente si completano,
agiscono all’unisono. Le loro inquadrature, girate alternatamente da uno
dei due, costituiscono un unico insieme. Spesso, sul set, i registi integrano
i ruoli: se uno è al combo (il controllo video) e ha la cuffia (per il controllo
della presa diretta), l’altro è vicino alla macchina da presa e agli attori, per
dominare la scena da vicino. È fortemente autobiografica la storia dei due
fratelli di Good Morning Babilonia, “artigiani” toscani che approdano al
grande cinema conservando però quel gusto per la bottega rinascimentale.
In una scena i due fratelli raccontano alle loro girlfriends la storia di
quando, da bambini, l’improvvisa perdita di parità (uno dei due vince un
coltello a una riffa) provoca la lite e il disastro: sembra una confessione dei
“veri” fratelli Taviani sul loro bisogno di essere doppi, ma a pari dignità.
Pena la fine del loro cinema.
Doppie e ambigue sono le scelte dei personaggi dei loro film:
Mastroianni non sa se mettersi o levarsi la giubba rossa dei rivoltosi, in
Allonsanfan, perché non sa se la “rivoluzione” è riuscita o no, e muore nell’ambiguo gesto di una giacca infilata a metà. «Non è vero (…) allora è
vero», continua a dire anche mentre sta per morire. E infatti il cinema dei
Taviani è pieno di allusioni al vero-falso: «è tutto finto», dice Fulvio a proposito dell’impresa rivoluzionaria, finte sono le armi e finta è la convinzione politica. Il “tradimento” è d’altronde un altro leit motiv dei Taviani,
da Allonsanfan (il continuo tradimento di Fulvio) a Luisa Sanfelice (l’involontario tradimento di Luisa).
Brogi gioca col suo “doppio” per tutto il film, in San Michele aveva un
gallo; dialoga con il suo alter ego, con il suo fantasma. In Luisa Sanfelice,
molti anni dopo, le masse fedeli al re sono guidate da un “sosia” del principe, una sorta di “Kagemusha”.
Il tema del doppio e dell’ambiguità slitta facilmente in quello del travestimento, dello scambio d’abito, tema classico, del resto, del teatro e
della letteratura: vedi Plauto, Molière, Mozart-Da Ponte (Don Giovanni), Renoir (La regola del gioco). Un tema tipico della commedia degli
equivoci o del melodramma, ma anche un tema simbolico che ci riporta
al Marx citato prima: penso a quando, nel primo libro del Capitale, Marx
parla delle “maschere di carattere”. Ebbene, i film dei Taviani sono zeppi di travestimenti: in Allonsanfan Fulvio si traveste da frate per non farsi riconoscere dai fratelli, Lea Massari si traveste da uomo, i “fratelli” da
cacciatori, e Lionello da gelataio. E sul lago Fulvio incontra un gruppo
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SOVVERSIVI E FUORILEGGE?
mascherato da Carnevale (i dialoghi insistono sul tema delle “maschere”). Nel Prato, ovviamente, la maschera è il tema dominante, nel teatro
di strada di Eugenia, nei travestimenti degli attori, ma anche nelle
maschere sociali che i protagonisti portano. In Luisa Sanfelice (a dimostrazione di una linea coerente di sviluppo del cinema tavianeo), Luisa si
traveste da suora per sfuggire alla morte, ma alla fine si fa riconoscere
(come del resto Fulvio coi fratelli). E all’inizio del film un teatrino di corte impone il ricorso ad inquietanti maschere (anche stavolta simbolicamente “sociali”).
In La notte di San Lorenzo la ragazza “scambia” i tedeschi per americani, anzi per “siciliani”, e i soldati nazisti appaiono, per un momento, travestiti da contadini isolani, che portano fazzoletti da braccianti e offrono
pezzi di mito americano sotto vetro. È una visione in punto di morte, un’allucinazione, un sogno (il mito americano) ad occhi aperti.
Il sogno (a occhi chiusi o aperti) e la febbre. A dimostrazione di una possibile lettura psicanalitica del cinema dei Taviani, i loro film sono quasi
sempre “onirici”. C’è spesso un personaggio che “sogna” a occhi aperti:
massimo esempio è il racconto di Allonsanfan, a tutt’oggi uno dei momenti
più alti del loro cinema, che mente a Fulvio, coinvolgendolo in un sogno
ad occhi spalancati (eyes wide shut). Sogna ad occhi aperti anche Salvatore in Un uomo da bruciare, quando pensa a Wilma e la figurina di lei si
incarna in un intenso flash back; il quale sogna però anche ad occhi chiusi,
quando mette in scena la sua morte, in una sequenza fortemente metalinguistica.
Sognano ad occhi aperti i due fratelli di Good Morning, quando raccontano, in parallelo, il citato episodio infantile.
Chi sogna è spesso in uno stato febbrile, ed ecco allora le tante “febbri”
dei Taviani, che spesso sono metafore di una “febbre civile”, di un eroico
furore contro un mondo offeso. Ha sempre la febbre Fulvio in Allonsanfan:
all’inizio, quando viene catturato dai “fratelli sublimi”, e il film si apre alle
sue “soggettive malate”; verso la fine, quando è ferito e si ritrova, suo malgrado, in viaggio verso il sud. Ha la febbre Giovanni nel Prato, malato di
rabbia, ed anche Eugenia è febbricitante dopo lo spettacolo, tanto da dare
a tutto il film il tono di un racconto visionario, raccontato in uno stato di
trance. È stordito dalla stanchezza e dall’attacco di un avvoltoio anche uno
dei due fratelli in Good Morning Babilonia, non a caso prima dell’incontro
col treno e dunque col destino: anche qui un sonno comatoso che potrebbe
far leggere come onirica tutta la parte americana.
Ha la febbre Adriano Giannini, in Luisa Sanfelice, quando viene
accolto, ferito, in casa della protagonista, e galeotta è quella febbre, perché è l’incipit della passione che travolgerà i due amanti.
La passione e la sessualità. I Taviani sono appassionati e pasionari. Lo
sono politicamente, nelle loro scene epiche (quella già descritta di Allon-
sanfan, l’occupazione delle terre di Un uomo da bruciare, la straordinaria
sequenza dell’esplosione in chiesa in La notte di San Lorenzo, ecc) ed utopiche. Ma lo sono anche nella rappresentazione della sessualità: mi viene
in mente su tutte quella corale di Padre padrone, che coinvolge umani ed
animali; e poi il diffuso erotismo di La notte di San Lorenzo: la passione
senile tra Antonutti e la Lozano, quella più giocosa – e poi tragica – tra
Bigagli e la sua sposa, ma anche l’intenso ammiccamento sessuale tra Hendel e la giovane donna che giocano con una fetta di anguria…
Penso alla complicità erotica tra Salvatore e Wilma in Un uomo da bruciare, all’erotismo trasgressivo e ai nudi esibiti di Sovversivi ed Allonsanfan, alle scene d’amore ne Le affinità elettive, ai corpi nudi de Il sole anche
di notte e quelli sul palcoscenico teatrale, scoperti da un pubblico voyeur,
in Luisa Sanfelice.
Il metalinguaggio e la cinefilia. E siamo dunque a uno dei temi dominanti del cinema dei Taviani, l’elemento self-reflexive, autorefenziale, sia
come rappresentazione del cinema stesso (e del teatro, e dei mass media)
all’interno dei film, sia come esplicitazione-esibizione della macchinacinema, della finzione cinematografica. «Io sono un grande attore» – dice
del resto Mastroianni, nei panni di Fulvio che a sua volta ha indossato i
panni di un altro; e sembra dirlo a se stesso, al Mastroianni vero.
Parto proprio dall’ultimo film, Luisa Sanfelice, che è pieno di riferimenti, come si è visto, al teatro: il teatro reazionario o quello “rivoluzionario”, con Pulcinella in veste di liberatore. A teatro avviene una delle
“scene madri” del film, quando si interrompe la rappresentazione per dire
che i soldati di una roccaforte si sono fatti saltare in aria per non farsi prendere, e i francesi annunciano il loro ritiro da Napoli. È una (cosciente?)
citazione de La grande illusion, quando i soldati francesi prigionieri interrompono lo spettacolo en travesti per intonare La marsigliese.
D’altronde, i film dei Taviani sono pieni di citazioni, omaggi dichiarati
o forse, a volte, frammenti della loro memoria cinefila che emergono
inconsapevolmente: nel Prato, Germania anno zero diventa motivo trainante del plot e il suicidio di Edmund (che prelude al suicidio di Giovanni) viene fatto vedere nella scena del cineclub. Good Morning Babilonia, film programmaticamente metalinguistico, non solo mostra vere
sequenze di Intolerance, ma è pieno di omaggi, a volte divertenti, come
durante la traversata, quando i Taviani si divertono a citare Chaplin; o
come quando, nella parte ambientata a Hollywood – e dominata dall’americano Griffith –, tributano un saluto all’italianissimo Blasetti e al
Visconti di Bellissima: «Avete fatto il militare? E allora, dietro front, avanti,
marsch!». Ma il film, dicevo, è tutto autorappresentativo: Griffith sceglie
i due fratelli perché l’elefante che costruiscono, seppur distrutto dal “cattivo” direttore di produzione, viene “immortalato” dalla cinepresa; e i due
fratelli, proprio per immortalarsi, si filmano mentre muoiono.
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VITO ZAGARRIO
SOVVERSIVI E FUORILEGGE?
Anche questo, forse è un sottile – ma anche macabro – auspicio, da
parte dei fratelli Taviani, di eternarsi attraverso il mezzo cinematografico.
Il sopracitato sogno di Volonté in Un uomo da bruciare è preceduto da
un raffinato esercizio metalinguistico, pur nell’ambito di un film “di impegno civile”. Salvatore è al cinema (d’altra parte il film è ricco di rappresentazioni del mondo dei media: la radio, soprattutto), dove fanno un film
– un melodramma di serie B – che mostra a sua volta, in un gioco di mise
en abîme, il palcoscenico di un varietà. Nella scena vista da Salvatore, un
marinaio grida il suo amore e viene ucciso da un losco figuro, prefigurando
la stessa uccisione del protagonista; il tutto mentre canta una Carmen Villani d’epoca: si tratta, insomma, di un gioco quasi barocco, in cui la
“modernità” (la canzonetta, la sala cinematografica, la sceneggiata) si
incontra con i riti antichi della mafia.
Una citazione, soprattutto, mi appare inquietante, ed è quella del finale
di Paisà (i Taviani hanno sempre dichiarato, del resto, il loro amore per
Rossellini), in cui i partigiani vengono gettati nelle acque del Po, in silenzio. Bene, è come se questo drammatico epilogo rappresentasse, per i
Taviani, una sorta di trauma e di peccato originali, che entra incessantemente nel loro cinema.
Il tuffo nell’acqua. E qui apro alle reiterate ossessioni, ai motivi – psicanalitici e non – che ricorrono e si rincorrono nei film. Il tuffo mortale è
uno di questi: spesso dei corpi – a volte legati mani e piedi come in quella
scena madre di Paisà – si gettano o vengono gettati in acqua. In Sotto il
segno dello Scorpione sono le donne che cercano di suicidarsi. In San
Michele Giulio si getta in acqua dalla barca, con un gesto che è stato
oggetto di infinite disquisizioni. In Allonsanfan, Fulvio viene gettato in
acqua all’inizio del film dai compagni che lo accusano di tradimento; poi
lo stesso Fulvio provoca la morte – anche qui ambiguamente – di Lionello
che cade in acqua dalla barca, ma avrebbe dovuto gettarvisi. In Luisa Sanfelice, i corpi dei rivoluzionari vengono buttati in acqua, esattamente con
gli stessi gesti di Rossellini, una volta avvenuta la “restaurazione”. L’acqua
annega i corpi, ma anche accoglie e purifica, come in un battesimo laico
o in sacrificio purificatorio. L’acqua pulisce dalla merda in Un uomo da
bruciare, o dal sudore in La notte di San Lorenzo.
La finestra e la trazzera. Verrebbe voglia di continuare a lungo, questa
topografia dei “luoghi” ricorrenti nei Taviani. Lo spazio non me lo consente, ma qualche esempio lo posso fare: la finestra, grande metafora di
molti film dei nostri registi. È simbolo dichiarato sin dalla prima inquadratura del film nel Prato, quando la mdp inquadra fissamente Brogi e
Marconi, con nel mezzo una finestra “aperta” sulla città moderna. Per
tutto il film, la finestra sarà un leit motiv ossessivo: finestra sui campi, o
sulla piazza, che può diventare porta o portone, e dà sempre su una dimensione “altra”, teatrale o onirica.
Dalla finestra guardano sia Volonté che i suoi nemici in Un uomo da
bruciare; le finestre sono décor ripetuto – stavolta ritoccate al computer –
in Luisa Sanfelice; dalla finestra la governante assiste al famoso coro sulle
note di “Dirindindin” in Allonsanfan, e dalla finestra Fulvio scruta i suoi
“compagni” travestiti da cacciatori, arrivati per riprenderselo quando lui
ha scoperto una vita tranquillamente “borghese”. Davanti a una finestra
su cui si staglia il cielo stellato, in La notte di San Lorenzo, la madre racconta alla figlia la “favola” di quella notte di quando era bambina.
Su una trazzera, su un viottolo, lungo una strada di campagna, si
avviano, spesso simbolicamente, i protagonisti dei “cori” tavianei: i profughi di La notte di San Lorenzo in una sorta di atipico travel film; o i teatranti del Prato – che giocano forse a citare Il fascino discreto della borghesia. Su una trazzera muore Salvatore in Un uomo da bruciare. Su un
viottolo polveroso e macchiato di sangue il re attraversa la Storia reale in
Luisa Sanfelice.
La favola. Un altro dato di fondo del cinema tavianeo è la presenza
della favola, che permette, come è stato già notato, di rileggere tutto i film
dei nostri registi, anche quelli più “impegnati”, come un grande racconto
di fiaba. Tutto La notte di San Lorenzo, film “resistenziale” e di “memoria
civile”, è in realtà una favola raccontata (alla finestra) in voce fuori campo.
E naturalmente fiabeschi sono tutti i modi della rappresentazione, dalla
già citata morte della ragazza che sogna di incontrare i “paesani” di
Brooklyn, alla bambina protagonista che riveste di elementi di gioco e di
magico tutta la drammatica vicenda.
Una favola viene raccontata da Fulvio a suo figlio, ed anche “messa in
scena” teatralmente (Mastroianni mette un panno verde sulla lampada per
creare un’atmosfera magica), sino a far magicamente apparire un vero
rospo. Che è in realtà un parto dell’immaginazione del bambino, ma
insieme dei “bambini Paolo e Vittorio”, eterni “fanciullini” alla ricerca di
una propria favola personale da raccontare: «San Michele aveva un gallo,
bianco rosso, verde e giallo…» – canta Gulio da piccolo. E in un paio di
film un bambino o dei bambini cresciuti – i Taviani stessi? – acchiappano
una lucciola: in Allonsanfan è Massimiliano, il figlio di Fulvio, in Good
Morning Babilonia sono Andrea e Nicola che offrono una lucciola alle
ragazze che corteggiano.
Potrei continuare per molte pagine ancora. Perché tutto il cinema dei
Taviani – pur con alti e bassi – è un cinema fiabesco, onirico, visionario,
che permette ai due registi di affrontare il presente storico ma di raccontare anche i loro ancestrali miti dell’infanzia, di rileggere la grande letteratura ma al tempo stesso di autorappresentarsi, di mettere in scena i propri luoghi (come il paesaggio toscano, ma anche quello siciliano che
diventa nuovo paesaggio archetipico) e i propri sogni prepuberali. Un
cinema visionario anche quando è “epico” e “politico”.
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VITO ZAGARRIO
All’uscita di Tu ridi, nel ‘98, in pieno dibattito sulla “crisi” del cinema
italiano, parlavo della inedita capacità visionaria in alcuni film del “nuovo
cinema” e aggiungevo: «Ma anche i Taviani esprimono un progetto estetico, seppure opposto: con Tu ridi rinunciano al piacere della storia ben
narrata e ben girata, confessano l’impotenza (del nostro tempo e forse in
particolare della loro generazione di cineasti) a raccontare la realtà, la
società, la storia, in maniera armonica. Diversamente dal Giotto che inutilmente il computer del bambino tenta di riprodurre, o dal Galileo evocato da Turi Ferro, l’artista o lo scienziato di oggi non riescono più a interpretare il mondo. Restano frammenti di storie, scatole cinesi di narrazioni
possibili che si incastrano l’una nell’altra, strutture volutamente disarmoniche come è disarmonica la realtà che viviamo. Il tutto raccontato senza
“piacere”, senza acrobazie della macchina da presa, con scarno rigore, con
scheletrica essenzialità. Con un rituale antico e ossessivo, con un battere
dei piedi a scandire il ritmo che viene da lontano (da Sotto il segno dello
Scorpione, da Allonsanfan), con una cadenza e una scadenza minacciosa,
come i dibattiti sul cinema italiano».
Sottoscrivo ancora quel giudizio. Dietro quella danza (macabra) di
Lello Arena c’è – altra ossessione ricorrente – la danza coi campanacci
degli scorpionidi, o la bellissima danza “di guerra” dei fratelli sublimi,
uniti nell’immaginazione di Allonsanfan ai contadini e ai paesani insorti.
Ci sono, insomma, una capacità visionaria e un invito alla visionarietà, che
i Taviani continuano a proporre, in maniera coerente e lineare, a dispetto
di chi vede nel loro cinema più recente una “involuzione”, o un compromesso, o addirittura un “tradimento”. Tema, del resto, che è radicato nella
critica italiana (vedi Aristarco e Visconti); ed è fortemente radicato, come
abbiamo visto, nella stessa cosmogonia tavianea.
1
«Quando la spinta ad un cambiamento radicale tornerà a far parte della politica e della
cultura statunitensi, il pubblico impegnato tornerà a scoprire il significato dell’impresa dei
Taviani».
2
R.A.Rosenstone, P. Sorlin, The Night of Shooting Stars. Fascism, Resistance, and the Liberation of Italy, in R. A. Rosenstone, Revisioning History. Film and the Construcion of a New Past,
Princeton, Princeton University Press, 1995.
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LINO MICCICHÈ
GLI “UTOPISTI” E GLI “ESAGERATI”
Giovane o no, il cinema degli anni sessanta fonda buona parte del proprio successo sul chiasso di un rumoroso apparato industriale, capace,
anche oltre i normali canali pubblicitari, di profonde penetrazioni mascherate all’interno della pubblicistica sul cinema. Per questo, dagli isolati
esordi di Fina e di De Bosio alle filmografie di Olmi e di De Seta, la ricerca
di voci autentiche del nuovo cinema italiano tra quelle che sembrano sommesse, soltanto perché lontane dal coro e non partecipi del chiasso, può
diventare quasi una regola storiografica.
Proprio in questo ristretto ambito di intellettuali schivi e seriamente
intenti in un lavoro di ricerca autenticamente problematico si collocano
le figure dei fratelli Paolo e Vittorio Taviani e di Valentino Orsini (la cui
filmografia procede congiunta sino alla metà del decennio), che sono un
esempio tra i più coerenti e tra i più costanti del nuovo cinema italiano
degli anni sessanta, dove essi esordiscono, nel 1962, con il lungometraggio Un uomo da bruciare. Ma il sodalizio fra i tre cineasti ha basi solide e
anteriori a tale data, risalendo a quando, all’inizio degli anni cinquanta, il
ventiquattrenne Orsini (nato nel 1926), il ventunenne Vittorio Taviani
(nato nel 1929) e il diciannovenne Paolo Taviani (nato nel 1931) prendono
a operare insieme nell’ambito del cinema: dapprima a Pisa dove fondano
cineclub e promuovono attività culturali, poi a Roma dove, alternandoli
ad alcune aiuto-regie, realizzano una serie di documentari pregevoli per
impegno politico, passione civile e rigore culturale, tra i quali il più noto
è San Miniato, luglio ‘44, uno tra i migliori risultati del cortometraggio
antifascista italiano. Legatisi, con rapporti che superano quelli tradizionali
tra autore e produttore, a un animatore di produzioni impegnate, Gaetano «Giuliani» De Negri – un antifascista ligure che già era stato dietro
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LINO MICCICHÈ
GLI “UTOPISTI” E GLI “ESAGERATI”
la produzione di Achtung! Banditi! (il primo e l’unico vero esperimento
cooperativistico del cinema italiano) e di Cronache di poveri amanti di Lizzani – i Taviani e Orsini diventano, per antonomasia, i registi dell’Ager
Film, la società che «Giuliani» aveva fondato assieme a Lizzani e Zavattini per la realizzazione di un progetto andato poi in fumo, un film sui fratelli Cervi. È appunto nell’inconsueto ed esemplare ambito di questo rapporto nuovo (tra un produttore che sente i problemi degli autori e autori
che si responsabilizzano anche da un punto di vista produttivo) che nasce
Un uomo da bruciare, qualificandosi, fin dalla proiezione veneziana del
1962, come un’esperienza doppiamente avanzata, sia dal punto di vista
ideologico-estetico che da quello produttivo.
Ispirati alla figura storica di Salvatore Carnevale (il sindacalista socialista ucciso dalla mafia) ma senza pretendere in alcun modo di restituirne
la vicenda con astratta «fedeltà storica», Orsini e i Taviani hanno voluto
offrire in Un uomo da bruciare il ritratto realistico di un protagonista popolare, rompendo però gli usuali schemi del “realismo” normativo e delineando invece una figura assolutamente antieroica con una implicita polemica nei confronti del logoro e inerte schema dell’eroe positivo. Completamente antitetico alla tradizione dei personaggi tutti di un pezzo – dotati
di una coscienza etico-politica paranoicamente priva di dubbi e tutti tesi
verso un futuro lucidamente previsto verso il quale chiamano a raccolta
masse sempre obbedienti e sempre combattive – il Salvatore di Un uomo
da bruciare è un uomo pieno di contraddizioni, prima fra tutte quella la
propria ambizione e vocazione di capo e l’istinto (più che la coscienza) di
classe. Le sue reazioni di fronte alla realtà, infatti, appaiono in primo luogo
come ispirate a un suo piano segreto, a una vocazione individuale, a un
suo disegno quasi personale. E il suo stesso essere sindacalista e il suo parteggiare a sinistra e difendere i diritti dei diseredati, appaiono a tratti più
materia esistenziale che materia ideologica. Tanto è vero che, quando
(dopo la riunione sindacale al teatro palermitano) si trova isolato, Salvatore continua, solo, a lottare come prima, limitandosi a ricordare gli antichi compagni, che prima lo seguivano e che ora lo disdegnano e addirittura lo sospettano. Mitomane, esaltato, sognatore, individualista, il protagonista di Un uomo da bruciare – proprio per questo coesistere in lui di
vistose contraddizioni, per questo suo non essere «angelo» contro i
«demoni» – è un personaggio di rara autenticità e in tale senso profondamente realistico perché non retoricamente popolare.
Valga l’esempio della morte del sindacalista. Nella vecchia e logora tradizione del «realismo socialista», l’eroe, premoriente, sarebbe stato protagonista di un possente e confortevole comizio imbandierato; oppure lo
avremmo visto messo a confronto con un segretario di sezione o di cellula
che schiudesse a lui e allo spettatore le gloriose vie del domani; o qualche
altra monumentale circostanza avrebbe determinato l’epitaffio ideologico,
buono a consolare le coscienze falsificate degli spettatori. Nulla di tutto
questo in Un uomo da bruciare. Sottolineando ancora una volta l’individualismo del protagonista, gli autori ne fanno precedere l’assassinio dalla
sua previsione nella fantasia del futuro assassinato che, ispirandosi a un
orribile fumetto filmato alla cui proiezione assiste, la prefigura in chiave
di eroismo popolaresco (cioè secondo i propri modelli culturali): terribile
e gloriosa. Ed invece la morte di Salvatore non è epica né eroica, non ha
aspetti sacrificali e non è irrorata dalla coscienza della storia: al contrario
è dura, semplice, atroce. E proprio per questo da annoverare tra le pagine
più belle del film.
ll lavoro di smitizzazione, compiuto nel film attorno ai luoghi comuni
del realismo canonico, non avviene soltanto spogliando di ogni possibile
“leggendarietà” l’immaginario protagonista. La mafia stessa è presente
senza i rituali d’obbligo e le identità nette, ma con facce di tutti i giorni:
tranquille, borghesi, a volte perfino pacifiche. Così come non li ha il Bene
(Salvatore), neppure il Male (la mafia) ha connotati eccezionali. D’altronde lo stesso paesaggio siculo – una Sicilia asciutta e arida, ma scevra
da ogni paesaggismo accattivante e da ogni inclinazione fascinosamente
folkloristica – non ha nulla che possa rientrare nella leggenda e nella mitologia meridionalistiche, essendo anche esso, dunque, sottoposto al generale processo di demitizzazione.
Opera lucidamente innovatrice, Un uomo da bruciare, nonostante qualche discontinuità linguistica, qualche astrazione intellettuale e qualche
meccanica soluzione narrativa, segna l’ingresso nel cinema italiano di personalità tanto interessanti e nuove da restare emarginate quanto altre mai
dal mercato. E le difficoltà di quell’opera d’esordio – che ha un’“uscita”
romana semiclandestina, in pieno luglio 1963 – non sono che parzialmente
superate dal successivo film del trio I fuorilegge del matrimonio (1963),
che pure si lega a una problematica specifica, quella del divorzio, e a un
episodio politico concreto, la presentazione di una proposta di legge
moderatamente divorzista da parte del senatore Renato Sansone. In realtà,
nonostante l’esplicito proposito di realizzare un film di diretto «impegno
civile», il rapporto con lo specifico tema giuridico-politico non è qui meno
mediato e indiretto di quanto lo era, rispetto al personaggio storico Salvatore Carnevale, la figura del protagonista di Un uomo da bruciare. D’altronde è uno degli autori, Vittorio Taviani, ad avvertire che «chi si aspettasse da I fuorilegge del matrimonio un’opera esauriente sul problema non
diciamo del divorzio ma anche (solo) del piccolo divorzio rimarrebbe
deluso. [...] Anche se il tema indubbiamente ci ha segnato precisi binari
di marcia, abbiamo cercato – e cercheremo – di fare affiorare altre suggestioni, altri umori, altri motivi di natura umana, culturale».
Il secondo lungometraggio di Orsini e dei Taviani è composto di sei
“novelle” corrispondenti agli altrettanti casi di scioglimento del matrimo-
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LINO MICCICHÈ
GLI “UTOPISTI” E GLI “ESAGERATI”
nio previsti dalla legge Sansone: una breve novella-prologo ambientata in
un manicomio, dove Rosanna, un’alienata mentale senza speranza di guarigione, è visitata da Giulio, il marito senza più speranza di una normale
vita coniugale (caso di scioglimento per pazzia inguaribile del coniuge);
una novella ispirata al Boccaccio – ma rovesciata rispetto all’originale –
dove il fratello perbenista di un ergastolano punisce con un’atroce beffa
la “infedeltà” della cognata Wilma (scioglimento per condanna dell’altro
coniuge a più di dieci anni di carcere); l’agonia di un rapporto ormai irrecuperabile fra una presentatrice televisiva, Margherita, e un professore
liceale, Francesco (scioglimento per separazione di fatto durante più di
quindici anni); gli stupori di due bambini, Stefano ed Enzo, di fronte alla
ricattatoria ricomparsa di Daniele, il marito della loro madre appena uscito
dal carcere per tentato uxoricidio (scioglimento per tentato omicidio di
un coniuge ai danni dell’altro); un ex “colonizzatore” italiano d’Abissinia
che, tornato in Italia convinto di essere vedovo, non può risposarsi perché in realtà sua moglie si è soltanto fatta monaca (scioglimento per abbandono almeno quindicennale del tetto coniugale); un dibattito rotale sulla
possibilità di scioglimento canonico (conclusivamente negato) del vincolo
matrimoniale di una donna la quale, sposatasi quindicenne a un sergente
americano che tornato negli Stati Uniti ha per proprio conto divorziato
risposandosi, non può ora sposarsi con l’uomo che ama (scioglimento per
divorzio all’estero del coniuge).
Tuttavia, pur così legate alla casistica prevista dalla proposta di «piccolo divorzio», le sei novelle confermano la «posizione di gruppo nei confronti di un cinema di idee che sia anche un cinema di ricerca espressiva»
che ha caratterizzato fin dagli esordi il trio di giovani autori e il loro rifiuto
di ridurre il tema civile «a una enunciazione, sia pure la più vibrante», di
«abdicare, in suo nome, alla propria autonomia appunto di autori, ai diritti
della fantasia, il contrario cioè dell’operazione tentata dal più grande poeta
didascalico del nostro tempo, Brecht», come essi stessi sottolineano esplicitando in quell’allusione brechtiana il riferimento culturale più costante
del loro cinema. Sentendosi insomma «lontani dal cinema rubato al quotidiano, sia esso il cinema verità [...] sia esso il cinema del pedinamento
zavattiniano», e ritenendo al contempo che «il film civile come libello cinematografico, di denuncia sociologica o di comizio politico, [...] abbia
perso [...] il ruolo che alcuni anni fa gli affidava la realtà della guerra,
prima, e di un dopoguerra guerreggiato, poi», gli autori dichiarano di
avere «inteso il dato civile obbligato come una sfida alla [...] fantasia» e,
una volta accettato il tema di partenza, di avere «cercato [...] di reinventarlo, di farlo divenire il momento provocatore» dei loro umori e della loro
ricerca estetica, culturale e umana. In altre parole i tre registi hanno inteso
approfittare della sfaccettatura narrativa e della compattezza ideologica
offerta loro congiuntamente dalla variegata casistica e dall’unità proble-
matica del tema per sperimentare una scelta realistica, che si rifà più alla
lezione brechtiana che a quella neorealistica, puntando a una posizione
poetica dialetticamente intrisa di passione e ironia, di partecipazione e
distacco nei confronti della materia».
Questo esplicito sperimentalismo de I fuorilegge del matrimonio fa sì
che il film manchi sostanzialmente di unità. Con una struttura estremamente indefinita esso evidenzia, praticamente di episodio in episodio, continue rotture di tono narrativo e di cifra stilistica oltreché un evidente dislivello di risultati estetici: assai notevoli per esempio nel quarto e nell’ultimo episodio (il problema visto dai bambini e il problema discusso dalla
Sacra Rota), ragguardevoli nel primo (la novella boccaccesca) e molto
meno persuasivi negli altri tre (il primo che non va molto oltre l’enunciato,
il secondo che risente di una fredda costruzione a tavolino e il quinto dove
la stessa presenza di Tognazzi imprime continue oscillazioni tra la satira
ironica e la farsa comica). Tuttavia, benché minore (significativo, ad esempio che nella più ampia pubblicazione sul cinema dei Taviani che sia
apparsa sino al 1975 – Cinema e utopia: i fratelli Taviani ovvero il significato dell’esagerazione, a cura della Cooperativa Nuovi Quaderni, Parma,
1974 – il film trovi uno spazio relativamente scarso) almeno rispetto agli
altri risultati della filmografia degli autori, I fuorilegge è, crediamo, una
tappa importantissima nel loro cinema, proprio per questo suo valore di
sperimentazione assolutamente libera che ne fa, in parte, un’opera che
porta avanti il discorso formale, e di “poetica”, già così egregiamente iniziato con Un uomo da bruciare, in parte, un preludio alle più mature conquiste successive che proprio qui trovano il loro primo terreno di verifica.
Se ad esempio, l’episodio della Sacra Rota riprende il «racconto su due
piani, quello dei pensieri e quello dei fatti» già seguito nel lungometraggio d’esordio, la terza novella, i cui protagonisti «ora si confessano direttamente al pubblico, ora si abbandonano ai loro pensieri, rimorsi, vagheggiamenti», prelude indirettamente ad alcuni momenti tra i più intensi del
capolavoro dei Taviani San Michele aveva un gallo (1971). Ma in fondo, a
ben vederle, nessuna delle sei novelle che compongono il film, pur nei
dislivelli che le caratterizzano, appare priva di conseguenze nella filmografia dei registi. I quali, dunque, confermano anche in questo caso una
rara e arrischiata (ma proprio per questo meritoria) “responsabilità della
forma” e una dinamica «visione della realtà come un corpo vivo, da non
contemplare soltanto, ma su cui operare attivamente».
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Il fatto che i Taviani e Orsini si rifiutino a ogni contemplazione (e a
ogni consolazione) del reale è significato, a contrario, dai loro lunghi silenzi
e dalle larghe pause che caratterizzano la loro filmografia. Cineasti che credono con fermezza e senza tentennamenti nella responsabilità del proprio
ruolo, i tre – e il quarto last but not least del “gruppo”, il loro produttore-
LINO MICCICHÈ
GLI “UTOPISTI” E GLI “ESAGERATI”
animatore Gaetano «Giuliani» De Negri – preferiscono chiudersi in pluriennali attese anziché cogliere una qualsiasi occasione a portata di mano
per inserirsi nel giro “professionistico” del “cinema come è”, in un clima
cinematografico (ma non solo) quietamente dominato dall’etica del compromesso e dalla pratica del cedimento. Se “professionisti” bisogna essere,
perché anche quella della sopravvivenza è una legge morale, meglio esserlo
senza infingimenti, senza raccontarsi (e raccontare) comode favole: meglio
insomma gli anonimi “caroselli”, i “documentari industriali” per l’acciaieria ligure o la fabbrica automobilistica torinese, la “scrittura” come
salariati specializzati. Le filmografie ufficiali dei Taviani e di Orsini ignorano (e fanno male) gli anonimi episodi dignitosamente alimentari che
riempiono il lungo quadriennio che separa I fuorilegge del matrimonio (che
pure ha un relativamente discreto successo di pubblico: 253 milioni di
incasso, pari a circa mezzo miliardo di lire) da Sovversivi che i Taviani,
autonomamente da Orsini, realizzano nel ‘67 e da I dannati della terra che
Orsini realizza da solo nel 1967-1968. Eppure in quella coerenza etica sta
una delle ragioni della coerenza estetica del “gruppo”, quella che lo mantiene solidamente unito attorno a «Giuliani» e all’Ager Film, anche nella
nuova e diversa prospettiva di lavoro che vede i due fratelli di San Miniato
separarsi dal pisano Orsini, dopo un sodalizio che – come già si è accennato – aveva preso avvio nel 1950 (con la regia teatrale di due spettacoli
scritti e diretti a tre), era proseguito lungo il decennio con un’intensa attività documentaristica (a parte il San Miniato, luglio ‘44, già citato, vanno
ricordati Curtatone e Montanara, Carlo Pisacane, Pittori in città, Moravia,
Lavoratori della pietra, Carvunara, Volterra, comune medievale, I pazzi della
domenica), si era consolidato attorno a Joris Ivens con la collaborazione
alla sceneggiatura e alla regia per il lungometraggio L’Italia non è un Paese
povero (1960), realizzato nel nostro Paese dal maestro olandese, e aveva
prodotto due lungometraggi di diverso livello ma di pari serietà.
Tanta pluriennale coerenza intellettuale ed esistenziale è il necessario
preludio a Sovversivi che, presentato a Venezia 1967, porta finalmente il
grosso della critica italiana e la critica straniera presente al festival ad
attribuire agli autori i primi rilevanti riconoscimenti critici. Alla base di
Sovversivi sta un’idea probabilmente suggerita ai Taviani dall’esperienza
de I fuorilegge: quella di una molteplicità di storie e di personaggi correlati fra loro da un identico problema che costituisce per tutti un banco di prova e una svolta esistenziale. La nuova conquista, che fa sortire
il film dallo “sperimentalismo” dell’opera precedente, è che, rendendo
questo problema diretta materia narrativa (e non esterno riferimento
“tematico”), gli autori possono far sì che esso diventi il punto di intersezione dei vari “personaggi” e delle loro “storie” in una sostanziale
unità-simultaneità di tempo, di luogo e di azione che fa quindi dell’opera un discorso sul dato collettivo dove non si soffoca in nulla il dato indi-
viduale e un discorso sul dato individuale, dove si implica senza forzature il dato collettivo.
Sovversivi è infatti il polittico di quattro “storie parallele”, cioè di altrettante vite aperte e in cerca di se stesse e del proprio ruolo, in un particolare momento della verità: i funerali di Togliatti, nell’estate 1964 visti
(«addio Togliatti, giovinezza nostra addio» scrive in una lettera un personaggio del film), come già nel pasoliniano Uccellacci e uccellini, quale
ultimo capitolo di un’epoca e inizio di nuova, più matura, e perciò più tormentata, adesione alle cose. Per Giulia, moglie apparentemente amata di
un funzionario di partito venuto a Roma per il funerale del leader comunista, è il momento di porre fine all’ipocrisia (o all’ignoranza di sé) con cui
ha fino ad allora trattenuto i propri istinti omosessuali, rimuovendoli e formando in nevrosi la propria insoddisfazione. Per Ettore, un giovane rivoluzionario venezuelano, è il momento di concludere il proprio esilio
romano per tornare in patria dove lo attende la lotta clandestina, anche se
ha paura di morire e desiderio di restare con Giovanna, la ragazza che ama
e con la quale, strappandola dalla famiglia, passa gli ultimi tre giorni di
“disimpegno”. Per Ermanno, quieto laureato in filosofia, è il momento di
rinunciare alla sicurezza che gli dà un rapporto di amicizia e di lavoro con
il fotografo Muzio, e di abbandonarsi alla propria creatività anche se l’anarchismo (durante i funerali di Togliatti aggredisce, apparentemente
senza motivi, un vecchio borghese e viene fermato dal servizio d’ordine
del Partito comunista), gli fa rischiare la solitudine. Per Ludovico, un regista cinematografico cui viene diagnosticata una malattia probabilmente
mortale, è il momento di superare lo sconforto per cercare, attraverso il
personaggio di Leonardo da Vinci, su cui sta facendo un film, di significare la necessità di fuggire dal mondo “come è” per cercare – e con ciò
affermare – il mondo come “dovrebbe essere”.
Per questi personaggi, e per le loro diverse e concomitanti “situazioni”,
la morte di Togliatti, anzi i suoi funerali (il film si chiude sulla partenza
dell’aereo di Ettore per il Venezuela e, subito dopo, al cimitero romano
del Verano, sulla «bara [che] spinta a fatica dagli uomini, scende nella
fossa»), costituiscono l’elemento scatenante di una mise en question radicale del proprio progetto esistenziale e/o politico, un simbolico “addio al
padre” che rende improvvisamente caduche le vecchie sicurezze, le incrostate assuefazioni, i rituali consuetudinari e necessarie nuove aperture problematiche, diverse prospettive, più arrischiate sperimentazioni. “Addio
al padre”, si diceva; ma non soltanto nel senso che «il vero argomento del
film è un dialogo serrato del comunismo posteriore a Togliatti con la sua
bara: un dialogo col padre morto, conflittuale e di qualità molto intima»
(Piovene); non soltanto cioè essenzialmente nel senso di «un dialogo, a circuito stretto, del comunismo con se stesso», con il che si connoterebbero
in modo troppo angustamente «politico» le qualità del film che è invece
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GLI “UTOPISTI” E GLI “ESAGERATI”
politico, ma senza virgolette proprio perché rifiuta la nozione di Politica
come campo d’azione specifico e “specialistico” (la tipica eredità idealistica che affligge, negli anni sessanta e oltre, molto cinema “politico” che
si vuole materialistico); bensì nel senso assai più vasto e coinvolgente di
ripensamento integrale di una generazione su se stessa, su un’epoca e sul
modo di viverla. L’“addio al padre” – cioè a qualcosa che si è amato, (o
odiato) e che ci ha reso come siamo (impedendoci anche di essere diversi
da ciò che siamo) – è insomma in Sovversivi il momento, liberatorio e angoscioso (e perciò commosso) in cui i personaggi vedono venir meno il
garante della loro tranquillità, della loro pacificazione con se stessi, della
loro quieta accettazione dell’inquietudine e, recuperando la propria
libertà (che ha come prezzo, s’intende, la precarietà), si riprogettano,
riprendendo a credere nell’utopia come momento della verità, a liberarsi
dalla paura dell’errore («Conviene sbagliare» fu il primo titolo che i
Taviani proposero per il film), a vedere positivamente l’“esagerazione” se
essa serve a tirare fuori il senso delle cose, a «contrapporre, a un presente
che rischia l’appiattimento per la lontananza della prospettiva, un futuro
immaginario e desiderato».
«In Sovversivi – chiarisce Vittorio Taviani in un’intervista ai «Cahiers
du cinéma» – tanti personaggi, come un unico personaggio. Come un
gruppo. Un gruppo in un momento di crisi, di passaggio. Un equilibrio è
finito e minaccia di coinvolgere il gruppo. Di qui la necessità – prima di
tutto fisiologica – di altri equilibri. Avere la forza di distruggere (ma non
per martoriarsi con i detriti del mondo distrutto, né per identificarsi
romanticamente con la sua distruzione). Ma per avere le mani libere per
ricominciare a cercare. Il funerale di Togliatti [...] è il funerale del padre
(il padre come mito, come padre naturale, come momento storico, come
neorealismo [...]). Una impresa luttuosa ma anche liberatrice. Disponibilità a nuove dimensioni: ancora a livello personale, nei personaggi del film,
ma come sintomo di una necessità più ampia». Sovversivi è insomma anche
un incontro con la morte: quella del proprio padre in se stessi e di se stessi
nel proprio padre; e rappresenta in tale senso una “fisiologica” reimmersione nel tempo – cioè nella dinamica della storia viva, dello scontro esistenziale vissuto, del dramma della vita privato di facili appigli e comode
consolazioni – quindi un superamento della fase “giovanile”, vissuta come
un eterno presente reso immoto da catechistiche ideologizzazioni, non più
credibili, ora, di fronte alla morte del proprio passato e all’immagine della
morte del proprio futuro che essa implica. Sovversivi è infine «un funerale
a un modo di guardare la realtà che, talvolta, è stato chiamato neorealismo» (Ponzi), proprio perché le uniche inquadrature “neorealistiche”,
quelle metonimicamente mortuarie dell’interramento, sono metaforizzate
in spunto iniziale di una dinamica di cui il film registra soltanto le prime
fasi di emergenza ma che si nega a qualsiasi “messaggio”, a qualsiasi “con-
clusione”, a qualsiasi “rispecchiamento”, in quanto il suo orizzonte è
altrove, nell’“utopia” (nel senso letterale di assenza di topos e di kronos),
in una tensione etico-politica e fisiologico-esistenziale che non può esattamente definirsi senza nuovamente ideologizzarsi, non può ricomporre
tutti i dati in una nuova sommaria sintesi, non può eliminare la contraddizione senza rischiare una nuova paralizzante ortodossia.
Non si tratta certo di un film esente da difetti. Se dovessimo indulgere
al vezzo delle classifiche non lo metteremmo né al primo né al secondo
posto di una filmografia per altro egregia come quella che da Un uomo da
bruciare ad Allonsanfan pone i Taviani fra gli autori di punta del cinema
italiano. Rispetto ai più maturi film successivi, nuocciono a quell’opera del
1967: un episodio non privo di slabbrature di sceneggiatura e di incertezza
di regia come quello di Giulia (per altro fondamentale a connotare la politicità, non virgolettata, del film), che non sempre si integra narrativamente
con il resto del polittico; la polifonica coesistenza di due o tre cifre stilistiche (pensiamo a quella assai elaborata che domina la storia di Ludovico,
il regista), non sempre persuasivamente orchestrate e fuse tra loro; la magmaticità a volte stridente del tono complessivo dove il patetico e il grottesco, il drammatico e l’ironico sono talora meccanicamente giustapposti.
Questi limiti valgono tuttavia, più che altro, a definire l’opera nel contesto del cinema dei Taviani, non certo a sminuirne il rilievo estetico e culturale. Innanzi tutto perché quelli che abbiamo rapidamente citato sono
appunto taluni tra gli scogli contro i quali i Taviani hanno volontariamente
deciso di dirigersi sapendo che essi costituivano l’ovvio rischio di fare un
film sul “superamento” che fosse anche un film di superamento e nel quale
pertanto gli stessi modelli del racconto cinematografico (presenti ancora,
nonostante tutto, in Un uomo da bruciare) dovevano essere accantonati,
nella ricerca di nuove vie per un coinvolgimento (democratico, cioè consapevole e dialettico) dello spettatore. Insomma, la scelta di un cinema
comportamentistico che offra la sintomatologia e non la diagnosi del reale
– e che dunque usa l’ideologia più come una chiave metodologica che
come un “grimaldello” interpretativo (più come strada per identificare i
problemi che come dispensa per scodellare soluzioni) – comporta un
grado di “apertura” che implica anche un livello di indefinizione, e quindi
pure di contraddizione, almeno fino a quando si resta ancora in una qualche misura legati al modello del personaggio “psicologicamente definito”.
Non a caso, a partire dal film successivo, i Taviani compiranno un ulteriore passo avanti proprio puntando a una più compatta unità stilistica, a
un maggiore fenomenologismo psicologico e a un programmatico “straniamento”.
Ma il rilievo di Sovversivi è soprattutto culturale, ed è in questa luce
che questo film va considerato tra i più significativi del periodo 1959-1968
da noi preso in esame. In pochi film come in questo coesistono positiva-
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mente forme di consapevolezza, estetica e politica, così (relativamente)
avanzate come: 1. la coscienza del superamento definitivo del
mito/illusione neorealistico e di ogni sua possibile ripresa, o mimesi, o
derivazione, superamento cui corrisponde per altro una ricerca che si
muove pur sempre nell’ambito realistico cercandone tuttavia una rifondazione; 2. la coscienza che l’unico modo per essere degli artisti politici
non è quello di fare dell’arte “politica” ma di fare politicamente l’arte, poiché, come ha detto Paolo Taviani, «l’utilità di un film non esiste al di fuori
di quella modificazione che esso è capace di apportare negli altri nel suo
campo specifico» («nel momento stesso in cui parli del Viet-Nam – chiarisce quindi Vittorio – non si tratta di usare il cinema per comunicare
alcuni dati informativi sul Viet-Nam. Ma piuttosto [...] di vietnamizzare il
linguaggio del film»); 3. la coscienza che dalla sclerosi delle vecchie certezze ideologistiche non si esce creandone delle nuove destinate a loro
volta a sclerotizzarsi, ma scegliendo, materialisticamente, il sistematico
confronto con la realtà in una feconda dialettica tra l’accettazione e la
messa in discussione continue di se stessi; 4. la coscienza che la “politica
del possibile” ha finito per emarginare l’“impossibile” dal voluto, ratificando ad aeternum la sua impossibilità, e che dunque occorre ridare uno
spazio politico all’utopia, alla trasgressione, all’esagerazione non solo
come modi di negazione dell’esistente ma come momenti vitali di trasformazione del mondo.
Queste forme di consapevolezza, espresse nel film senza alcuna presunzione profetica e senza alcuna lacrimosa autocommiserazione, anzi con
rigorosa (pur se partecipe e commossa) asciuttezza, fanno di Sovversivi un
film ricco di presentimenti sessantotteschi: nel senso che gli umori, i fervori, gli ardori, così come le spinte iconoclaste, antidogmatiche, anticatechistiche da cui il film è pervaso, troveranno parziale concretizzazione, di
lì a una stagione, nelle piazze, nelle fabbriche e nelle università (parziale:
ché soprattutto in queste ultime si formeranno rapidamente nuovi, e non
meno ottusi, rituali ideologistici). Ciò nonostante, o forse anzi proprio per
questo, Sovversivi è, sia nel cinema italiano del periodo sia nella filmografia dei Taviani, un’opera di transizione: nel cinema italiano, perché sembra far da ponte tra due diversi momenti della sua storia, quello degli iniziali anni sessanta carico di illusioni e in apparente ascesa, e quello del
riflusso post-sessantottesco che così pervicacemente maschererà la propria resa con periodiche impennate di “consumismo impegnato”; nella filmografia dei Taviani, perché è l’ultimo dei loro film direttamente legato
alla cronaca, l’ultimo di esorcizzazione neorealistica, l’ultimo in cui si ha
ancora una compresenza di livelli metaforici e di livelli metonimici (e una
netta prevalenza di questi ultimi), prima delle grandi metafore politiche
di Sotto il segno dello Scorpione (1968-1969), San Michele aveva un gallo
(1971), e Allonsanfan ( 1974), opere tutte che gradualmente confermano
(anche se più la prima e la seconda della terza) come la carriera artistica
dei Taviani sia tra le poche «che rivelano un pressoché continuo processo
di maturazione, cioè un sempre maggiore scavo tematico unito a una sempre maggiore consapevolezza espressiva» (Torri). Converrà intrattenersi
sulla prima di questo trio di opere, poiché se la prima proiezione pubblica
(a Venezia, nel settembre del 1969) la pone fuori del nostro campo di osservazione, la data delle riprese (estate del 1968) e quella del primo trattamento (autunno 1967) ve la fanno perfettamente rientrare.
Un’isola di origine vulcanica (questo è il soggetto di Sotto il segno dello
Scorpione, che è opportuno esporre) sprofonda negli abissi marini. Trova
scampo una pattuglia di uomini, i più giovani, che cercano di approdare
sul continente. Invece sbarcano su un’altra isola, vulcanica anch’essa, in
tutto simile alla loro. L’isola è abitata da gente povera e semplice come
loro, il cui capo, Renno, è tutto saggezza, equilibrio e ricordi di gloriose
lotte fatte vent’anni prima per salvare gli isolani da un’eruzione vulcanica
e ricostruire il villaggio distrutto. Renno e i suoi, superata la prima fase di
diffidenza, accolgono i giovani, li rivestono li rifocillano li ospitano nelle
loro case. Ma non è questo che i giovani vogliono. Giunti in un’isola che
è esattamente come la loro, essi vi vedono gli stessi pericoli da cui sono
scampati: non vogliono correre altri rischi, non vogliono che si ripeta
quello che è già accaduto. Essi puntano a ottenere delle barche per lasciare
al più presto l’isola; o meglio ancora ad abbandonarla assieme agli isolani.
Per questo spiegano come fu atroce la tragedia da loro vissuta, descrivono
a lungo l’immane disastro e indicano a più riprese la necessità di ricominciare altrove una vita tranquilla, un nuovo corso sicuro, al riparo da sciagure, nel quale non sia più necessario vivere sempre provvisoriamente nell’attesa quotidiana del disastro. Gli isolani, specie i più giovani, sulle prime
stanno per convincersi, poi ricominciano ad avere qualche diffidenza nei
confronti dei giovani profughi, in ispecie verso Rutolo e Taleno. Questi
ultimi sono i più attivi tra i nuovi venuti e Renno finisce per farli imprigionare assieme ai loro compagni. Appena in tempo, perché già i più giovani del villaggio mancano di rispetto agli anziani, le donne del villaggio
e gli ospiti cominciano a occhieggiarsi, le discussioni tra le due collettività
si sono trasformate in dibattito interno e Renno stesso è guardato meno
reverenzialmente di prima. Per i giovani profughi sembra finita. Qualcuno
tra i più anziani propone perfino di ammazzarli. Poi Renno pensa una
diversa soluzione: diamo loro una barca, dice, e lasciamoli andare dove
vogliono purché ci lascino in pace. Così si appresta a fare, infatti, convinto
di avere risolto il problema e riprendendo in pace il lavoro nei campi. Ma
i giovani profughi non si contentano di avere le barche: una comunità
senza donne, una volta sul continente, è destinata a non sopravvivere. E
poco prima di imbarcarsi rapiscono le donne dell’isola, inclusa Glaia, la
moglie di Renno, inclusa la figlia dell’anziano che avrebbe voluto farli ucci-
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dere. E uccidono invece quanti si oppongono al ratto, facendo strage degli
abitanti dell’isola, tra cui Renno sorpreso a lavorare assieme alle sue donne.
Giunte sul continente assieme ai giovani, che esaminano intanto il terreno
su cui costruirsi un futuro, le donne, spinte da Glaia, decidono di suicidarsi piuttosto che di accettare la nuova condizione di spose forzate. Ma
le più giovani sono per la vita e non per la morte. E se alcune di esse sono
gettate a forza nel fiume dalle più anziane, altre cercano di sottrarsi e una
di loro va ad avvertire gli uomini. Questi accorrono e riescono a salvare
gran parte delle donne e si preparano a vivere con esse.
Se Sovversivi è un film sulla realtà che si libera dalle proprie costrizioni
trasgredendo la propria stessa logica, Sotto il segno dello Scorpione (il
titolo, su cui per altro si affannerà una fantasiosa esegetica, è ripreso, quasi
esclusivamente per ragioni affettive, dalla prima versione del copione di
Allonsanfan, allora appunto intitolata «Sotto il segno dello Scorpione»,
progetto al quale i Taviani debbono sul momento rinunciare) è «una parabola, come un apologo». Il film rappresenta, nel progressivo discorso filmografico dei Taviani, la realizzazione concreta di quanto in Sovversivi era
solo astrattamente possibile: il recupero della dimensione utopistica è già
possibilità della sua (fantastica) realizzazione. Ma la realizzazione utopica
può essere soltanto immaginata, appunto, in una atemporalità che,
negando il presente, collega passato mitico/storico e futuro utopico/politico poiché «in una realtà come la nostra europea, in cui non è
dato pensare al momento della sua sovversione, se non in tempi lunghi, il
salto rivoluzionario si presenta come favola, nei modi dell’utopia. Un’utopia. Non una evasione». Utopisticamente, dunque, «se i personaggi dei
Sovversivi cercavano [...] i protagonisti dello Scorpione trovano». Portatori di una “sovversione” (che in realtà corrisponde, materialisticamente,
alla propria autoconservazione), essi si scontrano con un gruppo che già
ha operato a suo tempo la propria “sovversione” – allorché, vent’anni
prima (la Resistenza?), quando nell’isola vi fu una spaventosa eruzione (gli
ultimi feroci sussulti del fascismo?), riedificò il villaggio distrutto (la Ricostruzione?) – e ora gestisce quella conquista come un definitivo eterno presente. Usciti da una drammatica esperienza (anche i loro padri avevano
resistito a una prima eruzione, anche i loro padri avevano ricostruito il villaggio, anche i loro padri si ritenevano al sicuro da nuove eruzioni), i nuovi
venuti cercano di persuadere gli isolani che bisogna fuggire dall’isola (cioè
dalla circolarità di un presente che riproduce il passato) e trasferirsi sul
continente (cioè su un nuovo e più vasto spazio dialettico). E poiché il loro
discorso viene rifiutato, usano la violenza per spezzare la catena di un presente riproduttivo del passato e per impadronirsi di un diverso futuro il
quale, d’altronde, neppure esso, ha alcunché «di definitivo, di consolatorio» e anzi, a sua volta, «contiene già in se stesso i motivi del suo superamento».
Tuttavia la comunità di Rutolo e Taleno non sembra destinata a riprodurre meccanicamente la stessa esperienza, vissuta da Renno a partire da
vent’anni prima, di “conservazione della rivoluzione” cioè di ideologizzazione del nuovo ordine. La contrapposizione isola/continente, così vistosamente sottolineata nel corso del film, è in questo senso significativa: così
come è significativo che Rutolo e Taleno non approdino a una nuova isola
bensì, appunto, nel continente. Ma il continente non si differenzia dall’isola per sue intrinseche qualità, ché anzi Rutolo e Taleno ne colgono la
sostanziale identità con il paesaggio insulare («Me lo immaginavo
diverso,» dicono), bensì per le condizioni strutturali: l’isola è appunto circolare, autosufficiente, solitaria, conosciuta; il continente è lineare, composito, abitato, sconosciuto. Insomma l’isola è un “microcosmo” che offre
un solo rischio noto e nessuna sorpresa; il continente è il “cosmo” pieno
di possibilità e di pericolo ignoti. A questo punto ci si accorge che la contrapposizione isola/continente è anche leggibile come teoria/praxis, ideologia/politica, mito/storia, e che dunque l’abbandono dell’isola (anzi la
violenza contro gli isolani) corrisponde all’abbandono dell’illusione ideologistica, della falsa coscienza consolante e paralizzante; così come l’approdo sul continente è la rimessa in circuito del moto storico e cioè il passaggio da un presente ripiegato su se stesso, come semplice rimozione del
passato, a un «presente nuovamente in rapporto col futuro». Nonostante
questa radicalità che sembra prefigurare un grado zero della storia, il rapporto continua in ogni caso a essere dialettico: la realtà dell’isola così violentemente negata ha un suo rilevante retaggio nella comunità di Rutolo
(Taleno muore sul continente spinto in acqua dalla moglie di Renno), un
retaggio che qualifica, come eredità accettata (anzi voluta) del passato-presente pur negato, i limiti della negazione stessa: le donne degli isolani, a
cominciare da Glaia, la moglie di Renno, cioè quel potenziale fisiologico
di futuro (la riproduzione della specie) che la comunità dell’isola aveva e
che quella di Rutolo non aveva, un qualcosa che apparenta il rapporto tra
le due comunità a quello distruttivo/nutritivo che Totò e Ninetto hanno
con il corvo pasoliniano di Uccellacci e uccellini. Anche da tale angolazione
Sotto il segno dello Scorpione torna a proporre il tema del “parricidio” che,
sintomaticamente, aleggia in molto cinema pre-sessantottesco e sessantottesco, e che d’altronde era già emergente in Sovversivi: la differenza è
che qui il padre da eliminare, come il figlio “parricida”, sono sostituiti
dallo scontro tra comunità, significando così la frantumazione dei mitici
archetipi individuali nella storia dei rapporti collettivi.
Sotto il segno dello Scorpione è, come hanno detto gli stessi autori, «un
film semplice»; e «così elementare nella struttura, così semplice nella linea
narrativa, appare come un film scandaloso». Ma «tutte le cose semplici
[...] implicano sempre una molteplicità di significazioni». Per questo esso
è anche un film ricchissimo, pieno di sottosensi e soprasensi, all’interno e
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all’esterno dello schema di prima lettura metaforica che esso offre e di cui
abbiamo sottolineato alcuni aspetti.
Lungi dall’essere dei corollari aggiuntivi rispetto a una interpretazione
base, queste molteplici possibilità di ulteriore lettura rivelano la vera identità dell’opera la quale – come sempre accade in un testo “poetico” – ha
nella polivalenza dei significati (e nella “galassia di significanti” che li
determinano) la propria fecondità conoscitiva e trova nella “pluralità
trionfante” delle proprie griglie semantiche la propria ragion d’essere.
Sotto il segno dello Scorpione è, ad esempio (anche), come ha rilevato Pascal
Kané in un suo lucido saggio, una rappresentazione critica di «come servirsi del linguaggio ideologico d’una società senza obbligatoriamente sottoscrivere le sue rappresentazioni dominanti». Ovvero è, come Otto e
mezzo di Fellini (ma volgendo in chiave materialistica e storica quanto ivi
era alluso in chiave idealistica e soggettiva), un film che include al proprio
interno, come struttura della propria struttura, la rappresentazione critica
di se stesso. Ma, contrariamente al capolavoro felliniano, non «costruita
in abisso» (film nel film), ma in una sorta di assoluta coincidenza strutturale per cui la «rappresentazione» non «contiene» ma «è anche» la critica
del modo di rappresentare, realizzando dunque quello che è un punto di
arrivo della pratica formale oggi necessaria: quello di proporsi anche (se
non innanzitutto) come diegesi di se stessa.
Infatti lo Scorpione è anche interpretabile come un film “comunicazionale”: sul tentativo di un gruppo (gli allogeni, i nuovi venuti) di comunicare a un altro (gli indigeni, i preesistenti abitanti) una propria verità e
di infrangere, dunque, con la coscienza della propria esperienza, la
coscienza della sua su cui quell’altro gruppo è attestato. Da questa
esigenza, che sostanzia interamente tutta la prima parte del film, nascono
i tentativi del gruppo allogeno di trasmettere al gruppo indigeno la storia
della propria esperienza. Questo tentativo ha due fasi nettamente distinte
e diversamente funzionali.
La prima fase, di tipo mimetico realistico, si limita a essere una “rappresentazione” del vissuto dagli allogeni fondata sull’“esagerazione” cioè
sulla “retorica” (Rutolo: «Facciamoli piangere, impauriteli, esagerate
anche...». Un compagno: «Ma chi? Loro? Perché?». Rutolo: «Devono
lasciare l’isola con noi, subito. Se no che andiamo a fare sul continente?».
Altro compagno: «È anche nel loro interesse, no?». Altro compagno: «Ma
per convincerli chissà quanto tempo ci vuole». Rutolo: «Appunto! Esagerate, impauriteli, fateli piangere». Taleno: «Senza esagerare, basta raccontare quello che è successo». Rutolo: «Ma no! Fate spettacolo, come se
l’isola stesse per saltare davvero»); ovvero uno «spettacolo» che cerca di
riprodurre il vissuto secondo un codice di referenti che i due gruppi hanno
in comune (l’eruzione, la paura, il dolore ecc.). Tale fase trova la propria
contraddizione fondamentale nel fatto che, proprio la comunanza del
codice e la verosimiglianza della «rappresentazione» finiscono per fare
emergere le differenze del vissuto, cioè in fondo per lasciare le due esperienze separate e incomunicabili («[...] tranquilli – conclude Renno – qui
non correte nessun pericolo. Anche qui c’è un vulcano! Come no? Ha
distrutto le nostre case, venti anni fa. Ma noi le abbiamo ricostruite, con
calma, con pazienza»).
La seconda fase del tentativo, di tipo mitico rituale, è allora quella della
“manifestazione” (la lunga, ossessiva danza dei campanacci), programmaticamente slegata da qualsiasi referenzialità e metonimicità, costituita
da relazioni indicative e non descrittive, e dunque radicalmente sottratta
al peso dell’«endoxalité», cioè, secondo il neologismo barthesiano, del
controllo che il discorso dominante opera sul verosimile. Tale fase trova
la propria contraddizione nel fatto che, risultando ai più illeggibile e inconoscibile – e per ciò stesso oscuramente minacciosa («L’inconscio – dice
Lacan – è il discorso dell’Altro») – determina nel gruppo indigeno il gesto
dell’esclusione, non solo quella dell’interdetto al discorso non più “assimilabile”, ma quella fisica degli stessi allogeni (Renno: «Ho una bella idea.
Nessuno di noi lascia l’isola. Quella gente va presa e rinchiusa. Li mettiamo nella fossa»).
È a questo punto, quando nessun “discorso” è più possibile perché o
viene assimilato o viene interdetto – e quando la sua esclusione classifica
chi se ne è fatto portatore come definitivamente Altro, Estraneo, Antagonista – che il confronto tra i due gruppi esce dalla chiusura dei reciproci
rinvii e delle reciproche elisioni per entrare nella dimensione storica, come
praxis, come violenza rivoluzionaria. Cosicché Sotto il segno dello Scorpione è anche leggibile (oltreché come uno dei più lucidi apporti al dibattito antico e nuovo sulla possibilità di organizzare discorsi sul “dover
essere” seguendo i modelli di produzione del senso del “mondo come è”),
come una parabola sui limiti oltre i quali la trasgressione verbale deve
essere seguita dalla trasgressione gestuale e questa da quella trasgressione
totale che è la Rivoluzione.
Ora non v’è dubbio che questa consapevolezza imbeve solo in parte il
tessuto, essenzialmente generazionale, della contestazione sessantottesca;
la quale, almeno nella sua fase più appariscente (che non coincide per altro
né con quella politicamente più importante, né con le mises en question
più radicali che essa operò ottenendo risultati positivi tali da contrassegnare una svolta “storica”), oscillò quasi sempre (per restare tra le
metafore dello Scorpione) tra la “rappresentazione” e la “manifestazione”,
cioè tra la “parola” e il “gesto”), intese ambedue come “spettacolo” e a
loro volta combattute alternativamente dal Sistema mediante l’assimilazione e/o l’esclusione, in una sostanziale impasse circolare, che sovente
ridusse la violenza dello scontro a ridondante rituale a conclusione del
quale non poteva esservi che la restaurazione. Ebbene ciò che rende Sotto
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LINO MICCICHÈ
il segno dello Scorpione non solo il più bel film dei Taviani assieme a San
Michele aveva un gallo (e assieme a esso tra i più belli del nostro «nuovo
cinema») ma anche uno dei più importanti culturalmente (e dunque anche
politicamente), è che, realizzato proprio mentre la contestazione si realizzava, esso vi partecipa con un’intensità pari alla lucidità critica, vivendone
riti e miti con convinzione e al contempo con distacco. Il fatto che «nel
breve periodo in cui “a sinistra” molti intellettuali, molti artisti rincorrevano – e non solo nel cinema l’“emergenza” politica, i Taviani manifestavano invece la loro presenza con un opera così filtrata, così lontana, così
trasgressiva, da risultare assolutamente intraducibile nelle formule (nonché nei facili furori) allora ricorrenti» (Torri), è una conferma, dopo la
indicazione già data con Sovversivi, di come questi due cineasti siano tra
i pochi (e non soltanto nel cinema italiano) a muoversi nella direttrice, certamente tuttora problematica ma in genere assai poco frequentata, di una
pratica formale materialistica e dialettica capace di vivere il presente storicizzandolo, cioè sottraendolo a qualsiasi ideologizzazione, e ponendo di
volta in volta in discussione se stessa come prima “illusione” da negare per
non precludersi il futuro.
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BRUNO TORRI
IL “NUOVO CINEMA”
DI PAOLO E VITTORIO TAVIANI
Gli inizi degli anni sessanta coincidono, com’è noto, con la piena affermazione di quel vasto fenomeno internazionale conosciuto come “nuovo
cinema”. Sotto questa dizione, anzi, sotto questa nozione, venivano rubricati tutti quei film che, già in fase progettuale, e poi negli esiti espressivi e
comunicativi, manifestavano vocazione per la ricerca, azzardo stilistico,
responsabilità semantica accompagnata spesso dall’apertura verso nuove
aree tematiche; e tutto ciò risultava molte volte collegato all’attuazione di
nuove formule realizzative, di nuovi modi di produzione. In alcuni Paesi
(in Francia con la nouvelle vague, in Brasile con il cinema nôvo, per fermarsi agli esempi più probanti) il “nuovo cinema” era derivato, anche, da
un’attività, intellettuale e organizzativa, di gruppo: era stato, cioè, il frutto di un movimento che puntava al rinnovamento, non soltanto generazionale, della cinematografia nazionale, per riqualificarla sotto il profilo
estetico; ma anche per conferirle una diversa valenza ideologico-politica
che, tra l’altro, presupponeva pure una diversa concezione e un diverso
atteggiamento nei confronti dello spettatore cinematografico.
In Italia quest’ultimo aspetto non si è verificato; non c’è stata una precedente elaborazione teorica, né il coordinamento operativo e la diretta
collaborazione tra cineasti che condividevano un comune orientamento o
addirittura un’identica idea di cinema, come avveniva altrove in alcune
realtà nazionali. Ci sono stati, tuttavia, alcuni registi esordienti i quali, in
maniera autonoma e consapevole, si sono mossi in direzione del “nuovo
cinema”, favorendo la sua crescita e il suo primato artistico e culturale.
Tra questi registi cui va riconosciuta la qualifica di autori – il “film d’autore” è stato, oltre che una pratica artistica, una delle principali categorie,
quasi un sinonimo, del “nuovo cinema” – una posizione di primissimo pia39
BRUNO TORRI
IL “NUOVO CINEMA” DI PAOLO E VITTORIO TAVIANI
no è occupata da Paolo e Vittorio Taviani, i quali, con la loro opera prima, Un uomo da bruciare, girata nel 1962 assieme a Valentino Orsini, si
pongono subito tra i suoi esponenti più rappresentativi, proprio in virtù
della “diversità” e dei marcati tratti di originalità esibiti in questo film.
Anche se non vi mancano tracce della lezione neorealistica, Un uomo
da bruciare è tutto il contrario di un’opera epigonica: il suo impegno contenutistico, pur molto evidente, trova sempre il giusto equilibrio con le
scelte formali che lo veicolano, e che infatti, valorizzando le potenzialità
insite nel linguaggio cinematografico, finiscono per rafforzare il discorso
sviluppato nel film. Pur muovendosi ancora sulla strada del realismo filmico, i fratelli Taviani e Orsini introducono nella struttura narrativa e nelle soluzioni figurative degli elementi elaborati dalla fantasia e dall’immaginazione, costruendo così un’unitaria pluralità di livelli espressivi e comunicativi che riesce a rendere meglio la complessità del reale, a coniugare
l’interno e l’esterno del personaggio su cui si incentra la vicenda narrata,
ad accrescere la spinta referenziale del film. Un uomo da bruciare è, prima
di ogni altra cosa, la storia di un uomo; quindi il suo processo creativo presenta come principale motivazione, come ragione espressiva fondante, la
costruzione del protagonista, per il quale gli autori prendono spunto da
una persona realmente esistita (il sindacalista e poeta Salvatore Carnevale), ma inventano anche diverse componenti caratteriali e comportamentali e diversi avvenimenti esistenziali che ne fanno una figura sostanzialmente nuova, staccata dal modello originario. Nella narrazione-rappresentazione del Salvatore di Un uomo da bruciare non c’è discontinuità tra
la dimensione privata e la dimensione pubblica del personaggio, nel senso che non viene dato un maggiore rilievo a una di queste dimensioni, mentre ne vengono messi costantemente in rilievo i nessi intercorrenti, l’interazione dialettica, i condizionamenti reciproci. Pertanto, l’introspezione
psicologica e l’azione sociale del personaggio diventano, nel racconto filmico, le due facce di un’unica medaglia: una mostra l’individualità del tutto particolare di Salvatore, l’altra descrive la sua militanza ideologico-politica, il segno da lui lasciato nell’ambito in cui ha agito; l’una e l’altra danno il senso di un destino umano che è, insieme, voluto e subìto, e che contemporaneamente serve anche a delineare un preciso contesto sociale.
Ambientato in Sicilia nella fase di transizione che vede la mafia riorganizzarsi al proprio interno per spostare la sua influenza e la sua attività
criminale dal feudo all’edilizia, Un uomo da bruciare dispiega e approfondisce la vita di un agitatore politico-sindacale il quale non solo vuole lottare contro il potere mafioso, ma anche, e insieme, contro le ingiustizie
sociali che – come il film mette bene in risalto – sono possibili e si perpetuano proprio per le complicità esistenti tra la mafia stessa e altri poteri,
economici e politici. Nello svolgimento di questo tema, e focalizzando
sempre l’attenzione sul vissuto del protagonista, il film coglie tutte le pecu-
liarità della sua lotta politico-sindacale e, al contempo, della sua personalità più intima, mettendo in luce pulsioni e contraddizioni, grandezze e
miserie di una vita comunque eccezionale. In tal modo Un uomo da bruciare va oltre l’opera di denuncia, così come non resta impaniato nella retorica dell’“eroe positivo”: senza trascurare la Storia, e anzi lasciandone
emergere il movimento e i condizionamenti, il film riesce a dare spessore
e credibilità a una tipologia umana molto singolare la quale, in ciò che
maggiormente la connota e la distingue, apparirà più volte nel cinema dei
fratelli Taviani. Il personaggio di Salvatore, infatti, è quello del “rivoluzionario”, dell’“utopista”, dell’“esagerato”, di colui che vuole forzare i
tempi (storici) per anticipare l’avvento di un futuro diverso e migliore; un
personaggio anche ambiguo, dalla natura passionale, i cui entusiasmi
manifestano o, altrimenti, “rimuovono” illusioni, narcisismi e paure radicate nel mondo infantile, e al quale appare sempre riservata, nel bene e nel
male, una sorte estrema.
Tra i tanti meriti che vanno ascritti a Un uomo da bruciare vi è anche
quello concernente le sue modalità produttive, vale a dire la scelta del basso costo, la costituzione, sostanziale anche se non formalizzata, di un sistema produttivo di tipo cooperativistico e, in sintonia con tutto il resto, la
simbiosi nata sul set tra gli autori e il produttore Giuliani De Negri, il quale in seguito parteciperà, ricoprendo un ruolo non soltanto economico ma
anche intellettuale, alla realizzazione di tutti i film dei Taviani e di Orsini.
Rispetto a Un uomo da bruciare, il loro secondo film, I fuorilegge del
matrimonio, girato nel 1963, appare meno caratterizzato dalla ricerca “linguistica”, dallo sforzo di guadagnarsi uno stile personale; e, conseguentemente, la sua resa estetica e la sua portata culturale risultano meno rilevanti, o più esattamente, risultano più corrispondenti a una tradizione
cinematografica, sì ancora valida e riproponibile, ma ormai più legata al
passato che volta al futuro. Con questo film nato, per così dire, su commissione e che non ambisce prioritariamente alla bellezza bensì all’utilità,
i registi, accettando appunto una sorta di mandato sociale, prendono posizione a favore di una battaglia civile, cioè il sostegno di un disegno di legge che intendeva introdurre, sia pure in misura limitata, il divorzio in Italia. Composto di sei episodi ognuno dei quali illustra altrettanti casi in cui
l’applicazione del “piccolo divorzio” (così era definito quel disegno di legge) poteva essere ammissibile, I fuorilegge del matrimonio rivela una funzionale seppure un po’ facile didascalicità, che supporta adeguatamente i
suoi scopi informativi ed esplicativi. Tuttavia solo in due racconti, quello
dei concubini costretti a vivere separatamente e quello della Sacra Rota,
il linguaggio cinematografico appare davvero sperimentato e risolto felicemente nel tracciato narrativo, mentre nel suo insieme il film tradisce l’assenza di un’autentica ispirazione, di una intrinseca necessità.
Molto differente, in quanto molto sentito e molto pensato, oltre che
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BRUNO TORRI
IL “NUOVO CINEMA” DI PAOLO E VITTORIO TAVIANI
molto innovativo, è invece Sovversivi, diretto nel 1967 da Paolo e Vittorio
Taviani, i quali intanto avevano interrotto amichevolmente il sodalizio con
Orsini. Sovversivi conferma la tendenza dei registi, ravvisabile specialmente negli anni sessanta, di fare film ogni volta diversi, pur lasciando trapelare in tutto il loro cinema alcune componenti costanti. Anche Sovversivi si caratterizza per la perseguita intenzione di tenere uniti l’impegno
ideologico-politico e la ricerca artistica; anche questo film coniuga l’interesse per i contenuti, quindi per i significati, e la tensione stilistica. Tutto
ciò, che investe subito l’essenziale della poetica dei Taviani, corrisponde
anche, e nel migliore dei modi, alla specifica materia e alle specifiche finalità, estetiche ed etiche, del film, dal momento che Sovversivi intende riflettere un momento di crisi e di passaggio: non solo dei registi, ma anche di
un largo settore della sinistra italiana e segnatamente dei comunisti italiani, settore del quale gli stessi Taviani facevano parte, sia pure in maniera
molto più critica che ortodossa. C’è una dichiarazione degli autori, dai toni
molto accesi, che rende bene il clima in cui il film era nato e le motivazioni che lo animavano:
Sono parole, queste, che denotano molta consapevolezza, ma anche
molto coinvolgimento emotivo; e che inoltre svelano l’aspetto autobiografico del film, suggerendo però che si tratta di un’autobiografia molto
mediata, molto filtrata, in cui il momento generazionale, che è insieme anagrafico, politico ed esistenziale, prevale su quello strettamente privato.
Non a caso Sovversivi è un film corale a struttura episodica. Il ricorso a
diversi personaggi e a diverse storie, quelli e queste riconducibili a circostanze coincidenti e a problematiche analoghe, rispondono appunto all’esigenza di trattare lo stesso tema, vale a dire la crisi del comunismo italiano, da diverse angolazioni e con diverse prospettive.
Nel film tutti i protagonisti sono, sia pure in maniera differenziata, dei
comunisti; tutti vanno a Roma per partecipare allo stesso avvenimento (i
funerali di Togliatti); tutti si trovano in una situazione molto particolare
che li costringe a interrogarsi, a fare i conti con se stessi, a mettersi in gioco; tutti devono fronteggiare una crisi che non è soltanto di natura ideologico-politica, ma anche, e in alcuni casi soprattutto, di natura individuale, intima; e in ciò si ritrova un aspetto caratteristico del cinema dei
Taviani, vale a dire la compresenza e l’interazione dell’ideologico e del fisiologico nei loro personaggi, e nei moventi di questi. Tutti i protagonisti di
Sovversivi sono o diventano essi stessi “sovversivi”, in quanto, per volontà
o per necessità, devono sovvertire il loro precedente ordine esistenziale,
devono chiudere la loro precedente esperienza vitale anche se non sempre sanno quale sarà lo sbocco di quella che stanno per intraprendere. Il
linguaggio e il racconto filmico sono ancora di stampo prevalentemente
realistico, tuttavia includono anche dei risvolti simbolici; i funerali di
Togliatti, ad esempio, assumono nel film una triplice funzione e un triplice significato: in primo luogo sono quello che erano stati, un fatto storico
esattamente datato, ripreso in quanto tale come pretesto narrativo; quindi divengono, nel dispiegarsi della narrazione stessa, l’occasione, lo stimolo intellettuale e affettivo, che mette i diversi personaggi nella condizione di dover scegliere; inoltre acquisiscono, in ciò prefigurando l’itinerario umano dei diversi personaggi, la parvenza simbolica di una fase di
passaggio, il passaggio dal comunismo italiano del dopoguerra, appunto
il comunismo togliattiano, a un’altra forma di comunismo di cui peraltro
ancora non si conoscono gli elementi peculiari e gli sviluppi storici. Non
solo: la morte di Togliatti, comportante la perdita, ancora una volta reale
e simbolica, del capo carismatico, del “padre” che lascia i suoi figli come
“gattini ciechi”, proprio per il modo in cui viene mostrata e “discussa” nel
film, non è soltanto un fatto tragico, recante dolore e lutto; è anche presentata come un’opportunità per ripensare il proprio passato, per imparare a fare a meno dell’autorità e della guida “paterna” dimostrandosi davvero adulti, davvero capaci di assumere le proprie responsabilità, di scegliere autonomamente la propria strada, che può benissimo essere la strada di molti, se molti ne condividono la meta. In Sovversivi, intorno al tema
centrale della crisi del comunismo italiano, colta soprattutto nella crisi di
alcuni militanti comunisti afflitti anche, come si è accennato, da malesseri del tutto soggettivi, del tutto compresi nella sfera del privato e della psicologia, ne ruotano altri, tra cui quello, complesso e controverso, della
“creazione artistica”, che i Taviani trattano, in una chiave ancora coerentemente e discretamente autobiografica, con precisione espressiva e
coscienza metalinguistica.
Opera aperta e problematica, revisionista nel senso più appropriato e
incisivo del termine, Sovversivi – proprio perché è bene innervata nella
contemporaneità, proprio perché riesce a implicare e capire lo spirito del
tempo – si fa anche portatrice di futuro. Questo traspare, nel modo più
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Si stava soffocando. La vita politica, culturale e privata stagnava; mancava una
direttrice unica che coinvolgesse energie, desideri, odi. Tutto pareva cristallizzato in un equilibrio pacificante e un po’ enigmatico: che era invece il coperchio posato sulla fossa dei leoni, sul nido delle vipere. Sono momenti di svilimento, squallidi… Non volevamo soffocare. Sentivamo il bisogno, fisiologico
prima di tutto, di rompere quello pseudoequilibrio. Come? Non esisteva un
movimento di massa. Le avanguardie sarebbero balzate fuori dopo, proprio
da questo putridume. La sola rottura possibile era a livello personale. Essere
costretti a questo significava già dare testimonianza di quei giorni. Sovversivi
è la storia di cinque personaggi che cercano di far saltare il loro stato di quiete apparente. Cercano qualcosa. Non sanno bene cosa. Vogliono cambiare.
Forse sbagliando. Ma “conviene sbagliare”: questo sarebbe potuto essere il
sottotitolo del film.
BRUNO TORRI
IL “NUOVO CINEMA” DI PAOLO E VITTORIO TAVIANI
netto e convincente, dalle parole e dagli atti del più giovane dei protagonisti: un personaggio che, per il suo radicale dissenso nei confronti dell’esistente, per la sua impazienza, per il suo estremismo, insomma per le sue
personali “esagerazioni”, sembra preannunciare molto di quel grande
evento sociale e storico che di lì a poco, nel cruciale anno 1968, sarà conosciuto – in Italia e nel mondo – con l’appellativo di “contestazione globale”, e che comporterà una carica di emancipazione assieme a rischi degenerativi.
Per alcuni aspetti contenutistici, Sovversivi è avvicinabile a Sotto il
segno dello Scorpione, il film successivo girato da Paolo e Vittorio Taviani
nel 1969, che tuttavia è, anche questa volta, molto diverso dagli altri che
lo hanno preceduto, tanto da segnare una svolta importantissima nella loro
filmografia. La strutturazione espositiva e la cifra stilistica rendono Sotto
il segno dello Scorpione un’opera tanto originale quanto avanzata. Raggiunta ormai la maturità espressiva, i Taviani riprendono il confronto con
la realtà coeva da una posizione più distaccata per puntare a un maggiore spessore discorsivo, senza più ricorrere alla testimonianza partecipe,
all’autobiografismo indiretto, alla verosimiglianza realistica ravvisabili in
Sovversivi. Al contrario, Sotto il segno dello Scorpione si affida interamente ai linguaggi traslati; è una favola politica, o se si preferisce, un apologo
politico tutto racchiuso in un metaforico spazio estetico, il cui senso ultimo, più interrogativo che assertivo, va letto tra le righe, anche se non mancano scoperti richiami all’attualità. Così il film, in armonia con i propri
presupposti artistici e con le proprie intenzioni comunicative, non esalta
bensì “raffredda” in un ragionato artificio formale i requisiti ideologici che
pure lo sostanziano. Gli autori, per meglio creare un film politico idoneo
anche ad alimentare la discussione politica interna alla sinistra, hanno
voluto evitare qualsiasi sacrificio artistico, nella consapevolezza che il
“cinema politico” non deve mai sottintendere una preponderanza dell’aggettivo sul sostantivo, pena altrimenti di fare del cattivo cinema e, insieme, della cattiva politica. Inoltre, l’intendimento di risarcire compiutamente le potenzialità artistiche del linguaggio cinematografico ha anche
evitato il pericolo di ridurre alla sola dimensione della politica le molteplici dimensioni dell’umano. E infatti, puntando tutte le loro carte sulla
riuscita estetica, Paolo e Vittorio Taviani riescono a realizzare un’opera
ricca di contenuti, lasciandovi permanere un margine di positiva ambiguità; un’opera che si apre, in virtù della sua calibrata costruzione metaforica, a una pluralità di interpretazioni.
Ambientata in un tempo e in un luogo preistorici, la vicenda narrata
in Sotto il segno dello Scorpione mette a confronto e, nello stesso tempo,
sollecita la riflessione su due diversi modi di pensare e di vivere la rivoluzione. Nel film si avverte l’eco del dibattito ideologico allora in corso: l’opposizione dialettica tra chi propugna la prassi rivoluzionaria come palin-
genetica realizzazione dell’utopia, come definitiva liberazione dell’umanità dal peso della Storia (anche se nel film la Storia trapela come Natura,
una natura ostile), e chi ritiene, con atteggiamento più realistico ma anche
più compromissorio, che la rivoluzione può essere solo parziale, resta sempre incompiuta, e dunque bisogna sapersi fermare per salvaguardare quel
tanto, o poco, che è stato conquistato. L’alternativa posta dal film, sempre
con riferimento schematico alla realtà e agli scontri politici di quegli anni,
rimanda a quella tra la sinistra istituzionale, parlamentare, e la nuova sinistra, quest’ultima considerata non soltanto nelle sue enunciazioni teoriche
ma anche nelle sue manifestazioni esteriori, e specialmente nelle nuove
forme di lotta del movimento studentesco. Le due piccole comunità primordiali che nel film si fronteggiano raffigurano emblematicamente queste due diverse concezioni rivoluzionarie; e dalla loro conflittualità, dapprima solo verbale poi cruenta, traspare anche un discorso, di taglio etico
oltre che politico, sulla violenza del potere e sul potere della violenza, con
tutte le ricadute esistenziali su chi il potere stesso esercita o subisce. Più
in particolare, e sempre per il tramite dell’apologo e della metafora, Sotto
il segno dello Scorpione mette in scena, ricorrendo anche a tecniche stranianti nella recitazione e nella gestualità degli attori, i comportamenti politici dei nuovi soggetti politici: l’“assemblearismo”, le “provocazioni”, l’uso “terroristico” delle parole, la purezza delle aspirazioni e (a volte) il cinismo delle azioni, la “spettacolarizzazione” della politica stessa. Di conseguenza il film, la cui gestazione risale al 1967 (e quindi conferma le intuizioni anticipatrici rintracciabili in molto cinema dei Taviani) si pone anche
come un’inedita rappresentazione dei miti e dei riti della Contestazione,
che gli stessi autori non intendono documentare direttamente o raccontare in chiave realistica, ma alla quale, con il loro speciale codice artistico,
alludono con chiarezza, scartando e l’assunzione di una visione pregiudiziale e il pronunciamento di un giudizio conclusivo, lasciando così allo
spettatore, disposto all’attività ermeneutica, la possibilità di rielaborarne
uno proprio.
Pur essendo, per le sue opzioni e per le sue soluzioni formali, un’opera del tutto eccentrica, oltre che del tutto risolta sul piano dell’innovazione stilistica e della densità espressiva, Sotto il segno dello Scorpione permette di individuare il metodo operativo e i fattori compositivi che più
contraddistinguono il cinema dei Taviani, in particolare quello degli anni
sessanta e del decennio successivo. Metodo e fattori che possono essere
sintetizzati, contestualmente, nei punti seguenti: la valorizzazione di ogni
specificità del mezzo espressivo; la preferenza per le tematiche ideologico-politiche calate, oltre che nel sociale, nell’interiorità dei personaggi;
l’inclinazione a narrare le tensioni e le contraddizioni del presente; la tendenza a fondere le categorie del reale e del fantastico, sia a fini estetici, sia
per aumentare le implicazioni critico-conoscitive dei film; l’attivazione di
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BRUNO TORRI
una dialettica interna alle opere, che non concerne soltanto la trattazione
dei temi prescelti, ma anche il rapporto tra le diverse componenti espressive, ad esempio tra le immagini e il sonoro, e che rende le opere stesse
più polisemiche e più problematiche, dunque più rispettose delle facoltà
critiche degli spettatori. I quattro film realizzati da Paolo e Vittorio Taviani negli anni sessanta hanno costituito un cospicuo contributo all’affermazione di un “nuovo cinema” italiano, hanno dato agli stessi autori un
meritato prestigio, anche in campo internazionale, e hanno determinato il
pieno sviluppo della loro personalità artistica, così da consentire, nel 1971,
la realizzazione di San Michele aveva un gallo, il loro capolavoro.
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STRUMENTI
FILMOGRAFIA
a cura di Sergio Di Lino
1962 – UN UOMO DA BRUCIARE
Regia: Paolo e Vittorio Taviani, Valentino Orsini; soggetto e sceneggiatura: Paolo e Vittorio Taviani, Valentino Orsini; fotografia: Toni Secchi; montaggio: Lionello Massobrio;
scenografia: Piero Paletto; musiche: Gianfranco Intra; interpreti: Gian Maria Volonté (Salvatore), Didi Perego (Barbara), Spyros Focas (Jachino), Lydia Alfonsi, Marina Malfatti,
Vittorio Duse, Alessandro Sperlì, Marcella Rovena, Giampaolo Serra, Alfonso D’Errico,
Turi Ferro, Ignazio Roberto Daidone, Franco Facciolo, Giulio Girola, Renato Montalbano, Ida Carrara, Giuseppe Lo Presti, Pierluigi Manetti, Vanni Tumminello, Vincenzo
Tumminello, Carmen Villani; produzione: Giuliani G. De Negri e Henryck Chrorscicki
per Ager Film, Sancro Film e Cinematografica (Italia); origine: Italia; durata: 92’.
1963 – I FUORILEGGE DEL MATRIMONIO
Regia: Paolo e Vittorio Taviani, Valentino Orsini; soggetto: Lucio Battistrada, Giuliani
G. De Negri, Renato Nicolai, Valentino Orsini, Paolo e Vittorio Taviani, ispirato alla
proposta di legge sul “piccolo divorzio” del Senatore Luigi Renato Sansone; sceneggiatura: Lucio Battistrada, Giuliani G. De Negri, Renato Nicolai, Valentino Orsini, Paolo
e Vittorio Taviani; fotografia: Erico Menczer; montaggio: Lionello Massobrio; scenografia: Lina Nerli Taviani; costumi: Lina Nerli Taviani; musiche: Giovanni Fusco; interpreti: Ugo Tognazzi (Vasco), Annie Girardot (Margherita), Romolo Valli (Francesco), Marina Malfatti (Rosanna), Scilla Gabel (Wilma), Isa Crescenzi (Giulia), Didi Perego (Caterina), Gabriella Giorgelli, Renato Nicolai, Giuseppe Lo Presti, Enzo Robutti, Luigi Scavran, Giampaolo Serra, Lionello Zanchi, Nando Angelini, Carlo Maria Badini, Armando Bertuccelli, Emy Eco, Franca Lumachi, Alberto Masini, Ghilka Matteuzzi,
Mariangela Matteuzzi, Riccardo Ricci, Fleano Serra, Sandro Vignocchi; produzione: Giuliani G. De Negri per Ager Film, Film Coop e D’Errico Film (Italia); distribuzione:
Cidif; origine: Italia; durata: 100’.
1967 – SOVVERSIVI
Regia: Paolo e Vittorio Taviani; soggetto e sceneggiatura: Paolo e Vittorio Taviani; fotografia: Gianni Narzisi, Giuseppe Ruzzolini; montaggio: Franco Taviani; scenografia: Lina
Nerli Taviani; costumi: Lina Nerli Taviani; musiche: Giovanni Fusco; interpreti: Giulio
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FILMOGRAFIA
FILMOGRAFIA
Brogi (Ettore), Marija Tocinowski (Giulia), Lucio Dalla (Ermanno), Pier Paolo Capponi
(Muzio), Ferruccio De Ceresa (Ludovico), Giorgio Arlorio (Sebastiano), Fabienne Fabre
(Giovanna), Lidija Jurakic (Paola), Filippo De Luigi, Nando Angelini, Barbara Pilavin,
Maria Cumani Quasimodo, Raffaele Triggia, José Torres, Feodor Chaliapin; produzione:
Giuliani G. De Negri per Ager Film (Italia); distribuzione: Cidif; origine: Italia; durata:
110’.
Gavino Ledda (Se stesso), Pierluigi Alvau, Giuseppino Angioni, Fabio Angioni, Giuseppe Brandino, Mario Cheri, Giuseppe Chessa Perle, Domenico Deriu, Pier Paolo Fauli,
Mario Fulghesu, Antonio Garrucciu, Patrizia Giannichedda, Roberto Giannichedda,
Vincenzo Giannichedda, Pietro Giordo, Antonello Gloriani, Costanzo Mela, Domenico
Moranti, Luigi Muntoni, Giuseppina Perantoni, Cristina Piazza, Matteo Piu, Maria
Immacolata Porcu, Cosimo Rodio, Marco Sanna, Stefano Satta, Mario Spissu, Salvatore
Stangoli, Marco Unali; produzione: Giuliani G. De Negri per Cinema S.r.L., Rai Rete 2
(Italia); distribuzione: Cidif; origine: Italia; durata: 117’.
1969 – SOTTO IL SEGNO DELLO SCORPIONE
Regia: Paolo e Vittorio Taviani; soggetto e sceneggiatura: Paolo e Vittorio Taviani; fotografia: Giuseppe Pinori; montaggio: Roberto Perpignani; scenografia: Gianni Sbarra; costumi: Lina Nerli Taviani; musiche: Vittorio Gelmetti; interpreti: Gian Maria Volonté (Renno), Lucia Bosè (Glaia), Giulio Brogi (Rutolo), Samy Pavel (Taleno), Daniele Dublino
(Femio), Steffen Zacharias (Il vecchio isolano), Saro Liotta, Sergio De Vecchi, Giuseppe
Scarcella, Alessandro Haber, Massimo Castri, Giuliano Disperati, Renato Scarpa, Bruno
Cattaneo, Olimpia Carlisi, Milvia Deanna Frosini, Claudia Rittore, Laura De Marchi, Piera Degli Esposti, Anita Saxe, Caterina Altieri, Stefano Guerrieri, Antonio Cataldi, Luciano Odorisio, Napoleone Bizzarri, Vito Rocca, Biagio Pelligra, Marcello Di Martire, Antonio Piovanelli, Giovanni Brusatori, Maggiorino Porta, Maria Teresa Piaggio; produzione:
Giuliani G. De Negri per Ager Film (Italia) e Rai Radiotelevisione Italiana; distribuzione:
Cidif; origine: Italia; durata: 100’.
1971 – SAN MICHELE AVEVA UN GALLO
Regia: Paolo e Vittorio Taviani; soggetto: Paolo e Vittorio Taviani, liberamente ispirato al
racconto Il divino e l’umano di Lev Tolstoj; sceneggiatura: Paolo e Vittorio Taviani; fotografia: Mario Masini; montaggio: Roberto Perpignani; scenografia: Gianni Sbarra; costumi: Lina Nerli Taviani; musiche: Benedetto Ghiglia; interpreti: Giulio Brogi (Giulio Manieri), Daniele Dublino (Il carceriere), Renato Cestiè (Giulio Bambino), Vito Cipolla, Virginia Ciuffini, Marcello Di Martire, Vittorio Fanfoni, Francesco Sanvilli, Giuseppe Scarcella, Renato Scarpa, Sergio Serafini; produzione: Giuliani G. De Negri per Ager Film e
Rai-tv (Italia); distribuzione: Cidif; origine: Italia; durata: 90’.
1974 – ALLONSANFAN
Regia: Paolo e Vittorio Taviani; soggetto e sceneggiatura: Paolo e Vittorio Taviani; fotografia: Giuseppe Ruzzolini; montaggio: Roberto Perpignani; scenografia: Gianni Sbarra;
costumi: Lina Nerli Taviani; musiche: Ennio Morricone; interpreti e personaggi: Marcello
Mastroianni (Fulvio), Lea Massari (Charlotte), Mimsy Farmer (Francesca), Laura Betti
(Esther), Claudio Cassinelli (Lionello), Bruno Cirino (Tito), Benjamin Lev (Vanni), Luisa De Santis (Fiorella), Ermanno Taviani (Massimiliano), Renato De Carmine (Costantino), Alderice Casali (La governante), Stanko Molnar (Allosanfan), Biagio Pelligra (Il prete), Michael Berger, Raul Cabrera, Roberto Frau, Cirylle Spiga, Francesca Taviani, Stavros Tornes, Pier Giovanni Anchisi, Luis La Torre, Carla Mancini, Bruna Rigetti; produzione: Giuliani G. De Negri per “Una cooperativa cinematografica” (Italia); distribuzione: Istituto Luce – Italnoleggio Cinematografico; origine: Italia; durata: 115’.
1979 – IL PRATO
Regia: Paolo e Vittorio Taviani; soggetto e sceneggiatura: Paolo e Vittorio Taviani; fotografia: Franco Di Giacomo; montaggio: Roberto Perpignani; scenografia: Gianni Sbarra;
costumi: Lina Nerli Taviani, Renato Ventura; musiche: Ennio Morricone; interpreti: Saverio Marconi (Giovanni), Isabella Rossellini (Eugenia), Michele Placido (Enzo), Giulio Brogi (Sergio, papà di Giovanni), Angela Goodwin (Giuliana, mamma di Giovanni), Remo
Remotti, Ermanno Taviani, Mirio Guidelli, Giuseppe Rocca, Francesca Taviani, Maria
Toesca, Alessandra Toesca, Giovanni Bacciottini, Giacomo Pardini, Massimo Bertolaccini; produzione: Giuliani G. De Negri per Rai Radiotelevisione Italiana e Filmtre S.r.L.
(Italia); distribuzione: Cidif; origine: Italia, 1979; durata: 118’.
1982 – LA NOTTE DI SAN LORENZO
Regia: Paolo e Vittorio Taviani; soggetto: Paolo e Vittorio Taviani; sceneggiatura: Paolo e
Vittorio Taviani e Giuliani G. De Negri, con la collaborazione di Tonino Guerra; fotografia: Franco Di Giacomo; montaggio: Roberto Perpignani; scenografia: Gianni Sbarra;
costumi: Lina Nerli Taviani; musiche: Nicola Piovani; interpreti: Omero Antonutti (Galvano), Claudio Bigagli (Corrado), Massimo Bonetti (Nicola), Dario Cantarelli (Il prete),
Sergio Dagliana (Olinto), Giuseppe Furia (Requiem), Paolo Hendel (Dilvo), Margarita
Lozano (Concetta), Laura Mannucchi (Signora Naldini), Norma Martelli (Ivana), Rinaldo
Mirannalti (Avvocato Migliorati), Enrica Maria Modugno (Mara), Mauro Monni (Dante),
Franco Piacentini (Padre di Nicola), Donata Piacentini (Madre di Nicola), David Riondino (Giglioli), Massimo Sarchielli (Marmugi padre), Sabina Vannucchi (Rosanna), Antonio Prester (Tuminello), Gianfranco Salemi (Uomo nel bus), Mario Spallino (Bruno), Mirio
Guidelli (Duilio), Titta Guidelli (Alfredina), Antonella Guidelli (Renata), Giovanni Guidelli (Marmugi figlio), Micol Guidelli (Cecilia), Miriam Guidelli (Bellindia), Samanta Boi
(Rosanna bambina), Beatrice Bardelli (Donna in cantina), Marco Fastame (Gino), Edoardo Gazzetti (Egisto), Carlo Gensini (Ruggero), Vinicio Gioli (Padre di Bellindia), Andrea
Giuntini (Gufo), Guido Marziali (Nardini), Gianfranco Moranti (Seminarista); produzione: Giuliani G. De Negri per Rai Radiotelevisione Italiana e Ager Cinematografica (Italia); distribuzione: Cidif; origine: Italia; durata: 105’.
1977 – PADRE PADRONE
Regia: Paolo e Vittorio Taviani; soggetto: Paolo e Vittorio Taviani, dall’omonimo romanzo di Gavino Ledda; sceneggiatura: Paolo e Vittorio Taviani; fotografia: Mario Masini;
montaggio: Roberto Perpignani; scenografia: Gianni Sbarra; costumi: Lina Nerli Taviani;
musiche: Egisto Macchi; interpreti: Saverio Marconi (Gavino ragazzo), Omero Antonutti
(Padre di Gavino), Marcella Michelangeli (Madre di Gavino), Fabrizio Forte (Gavino bambino), Marino Cenna (Il pastore), Stanko Molnar (Sebastiano), Nanni Moretti (Cesare),
1984 – KAOS
Regia: Paolo e Vittorio Taviani; soggetto: Paolo e Vittorio Taviani, liberamente tratto da
Novelle per un anno di Luigi Pirandello; sceneggiatura: Paolo e Vittorio Taviani, Tonino
Guerra; fotografia: Giuseppe Lanci; montaggio: Roberto Perpignani; scenografia: Francesco Bronzi; costumi: Lina Nerli Taviani; musiche: Nicola Piovani; interpreti: Margarita
Lozano (Madre), Orazio Torrisi (Cola Camizzi), Carlo Cartier (Giovane dottore), Claudio
Bigagli (Batà), Enrica Maria Modugno (Isidora), Massimo Bonetti (Saro), Anna Malvica
(Madre di Sidora), Ciccio Ingrassia (Don Lollò), Franco Franchi (Zi’ Dima), Biagio Barone (Salvatore), Laura Mollica (Figlia), Salvatore Rossi (Patriarca), Franco Scaldati (Padre
Sarso), Pasquale Spadola (Barone), Omero Antonutti (Luigi Pirandello), Regina Bianchi
(Madre di Pirandello), Laura De Marchi (Nonna di Pirandello giovane), Giovanna Tavia-
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FILMOGRAFIA
FILMOGRAFIA
ni (Madre di Pirandello bambina), Giovanni Blandino, Veronica Campo, Giovanni Catania, Danilo Corasanti, Saro Di Martino, Lorenzo Randisi, Enzo Rizza, Enzo Alessi, Maria
Lo Sardo, Matilde Piana, Maria Teresa Di Fede, Giovanni Marsala, Enzo Gambino, Angelo Mezzasalma, Giuseppe Sorge, Domenica Gennaro, Salvatore Mignosi, Toni Sperandeo, Claudio Gazziano, Fernando Jelo, Giorgio Gurrieri, Valentina Taviani, Giuliano
Taviani, Frida Terranova, Maria Terranova, Bartolo Vindigni, Nello Accardi, Sabrina Belfiore, Marcello Bruno, Daniele Chessari, Salvatore Chessari, Maddalena De Panfilis,
Maria Lauretta, Giuseppe Meli, Francesco Nicolosi, Silvana Puglisi, Giovanni Scivoletto, Tania Vicari; produzione: Giuliani G. De Negri per Rai Radiotelevisione Italiana e Filmtre s.r.l. (Italia); distribuzione: Sacis; origine: Italia; durata: 190’ (versione televisiva) – 140’
(versione cinematografica).
Lovecchio, Angela Fraccalvieri; produzione: Giuliani G. De Negri per Raiuno – Radiotelevisione Italiana e Filmtre s.r.l. (Italia), CAPOUL – INTERPOOL – SARA FILM (Francia), DIREKT FILM (Germania); distribuzione: SACIS; origine: Italia; durata: 113’.
1987 – GOOD MORNING BABILONIA
Regia: Paolo e Vittorio Taviani; soggetto: Paolo e Vittorio Taviani, da un’idea di Lloyd
Fonvielle; sceneggiatura: Paolo e Vittorio Taviani, con la collaborazione di Tonino Guerra; fotografia: Giuseppe Lanci; montaggio: Roberto Perpignani; scenografia: Gianni Sbarra; costumi: Lina Nerli Taviani; musiche: Nicola Piovani; interpreti: Vincent Spano (Nicola), Joaquim De Almeida (Andrea), Greta Scacchi (Edna), Désirée Becker (Mabel), Omero Antonutti (Bonanno), Charles Dance (David Wark Griffith), Béreangère Bonvoisin
(Mrs. Griffith), David Brandon (Grass), Brian Freilino (Thompson), Margarita Lozano (La
veneziana), Massimo Venturiello (Duccio), Andrea Prodan (Operatore irlandese), Dorotea Ausenda, Ugo Bencini, Daniel Bosch, Renzo Cantini, Marco Cavicchioli, Fiorenza
d’Alessandro, Lionello Pio Di Savoia, Maurizio Fardo, Domenico Fiore, Mirio Guidelli,
John Francis Lane, Ubaldo Lo Presti, Luciano Macherelli, Sandro Mellegni, Elio Marconato, Michele Melega, Mauro Monni, Lamberto Petrecca, Diego Ribon, Antonio Russo, Giuseppe Scarcella, Leontine Snel, Egidio Termine, Francesco Tola, Pinon Toska;
produzione: Giuliani G. De Negri per Filmtre Rai (Italia), MK2 Productions, Films A2
(Francia), Edward Pressman Film Corporation (USA); distribuzione: Istituto Luce; origine: Italia; durata: 117’.
1993 – FIORILE
Regia: Paolo e Vittorio Taviani; soggetto: Paolo e Vittorio Taviani; sceneggiatura: Paolo e
Vittorio Taviani, Sandro Petraglia; fotografia: Giuseppe Lanci; montaggio: Roberto Perpignani; scenografia: Gianni Sbarra; costumi: Lina Nerli Taviani; musiche: Nicola Piovani; interpreti: Claudio Bigagli (Corrado/Alessandro), Galatea Ranzi (Elisabetta/Elisa),
Michael Vartan (Jean/Massimo), Lino Capolicchio (Luigi), Costanze Engelbrecht (Juliette), Athina Cenci (Gina), Giovanni Guidelli (Elio), Norma Martelli (Livia), Pier Paolo
Capponi (Duilio), Chiara Caselli (Chiara), Renato Carpentieri (Massimo anziano), Carlo
Luca De Ruggieri (Renzo), Laurent Schilling (Il tenente), Fritz Mueller Schertz (Il professore), Laura Scarimbolo (Alfredina), Elisa Giani (Simona), Ciro Esposito (Emilio), Giovanni Cassinelli (Massimo bambino), Giancarlo Carboni (Nobile toscano), Sergio Dagliana (Vecchio contadino), Dominique Proust (Ufficiale), Mario Andrei (Tenente fascista),
Massimo Grigò (Milite fascista), Adelaide Foti (Vecchia contadina), Paul Muller (Inserviente), Massimo Tarducci (Lido), Massimo Salvianti (Fattore), Consuelo Ciatti (Contadina), Sergio Albelli (Giovane innamorato), Salvatore Corbi (Capo dei partigiani), Guido
Cioli (Giovane partigiano), Juraj Chmel (Sacerdote), Marco Giorgetti (Capitano fascista),
Andrea Kaemmerle (Partigiano), Riccardo Naldini (Partigiano), Elena D’Anna (Cameriera), Barbara Gai Barbieri (Giovane signora), Daniela Pini (Contadina Capponi), Riccardo
Rombi (Contadino), Antonio Rugani (Avvocato), Folco Salani (Francese in acqua), Nicolò
Chiaroni, Cecilia Vannini, Franco Millotti, Eli Siosopulos; produzione: Grazia Volpi per
Filmtre s.r.l. – Gierre Film, con la collaborazione di Pentafilm (Italia), Florida Movies –
La Sept (Francia), Roxy-Film – K.S.-Film (Germania), con la partecipazione di Canal+
(Francia), e con il sostegno del fondo “Eurimages” del Consiglio d’Europa; distribuzione: Penta; origine: Italia; durata: 118’.
1996 – LE AFFINITÀ ELETTIVE
Regia: Paolo e Vittorio Taviani; soggetto: Paolo e Vittorio Taviani, dall’omonimo romanzo di J. W. Goethe; sceneggiatura: Paolo e Vittorio Taviani; fotografia: Giuseppe Lanci;
montaggio: Roberto Perpignani; scenografia: Gianni Sbarra; costumi: Lina Nerli Taviani;
musiche: Carlo Crivelli; interpreti: Isabelle Huppert (Carlotta), Fabrizio Bentivoglio (Ottone), Jean-Hugues Anglade (Edoardo), Marie Gillain (Ottilia), Massimo Popolizio (Marchese), Laura Marinoni (Marchesa), Stefania Fuggetta (Agostina), Consuelo Ciatti (Governante), Massimo Grigò (Cameriera), Adelaide Foti (Albergatrice), Giancarlo Carboni
(Medico), Giancarlo Giannini (Voce narrante); produzione: Grazia Volpi per Filmtre-Gierre Film (Italia), in collaborazione con Rai Radiotelevisione Italiana, Florida Movies, France3 Cinéma (Francia), con la partecipazione di Canal+ (Francia); distribuzione: Filmauro; origine: Italia; durata: 98’.
1990 – IL SOLE ANCHE DI NOTTE
Regia: Paolo e Vittorio Taviani; soggetto: Paolo e Vittorio Taviani, dal racconto Padre Sergio di Lev Tolstoj; sceneggiatura: Paolo e Vittorio Taviani, con la collaborazione di Tonino Guerra; fotografia: Giuseppe Lanci; montaggio: Roberto Perpignani; scenografia:
Gianni Sbarra; costumi: Lina Nerli Taviani; musiche: Nicola Piovani; interpreti: Julian
Sands (Padre Sergio), Charlotte Gainsbourg (Matilda), Patricia Millardet (Aurelia), Rüdiger Vogler (Re Carlo III di Borbone), Margarita Lozano (madre di Sergio), Pamela Villoresi (Giuseppina), Massimo Bonetti (Principe Santobuono, aiutante di campo del Re),
Nastassja Kinski (Cristina), Lorenzo Perpignani (Sergio bambino), Gaetano Sperandeo
(Gesuino, brigante e padre del bambino muto), Geppy Gleijeses (Il vescovo), Sonia Gessner (Duchessa Del Carpio), Matilde Piana (La contadina), Vittorio Capotorto (Padre di
Matilda), Riccardo Patrizio Perrotti (Duca Del Carpio), Salvatore Rossi (Eugenio), Teresa
Brescianini (Concetta), Biagio Barone (Biagio), Ferdinando Murolo (Avvocato), Aleksander Mincer (Organista), Ubaldo Lo Presti (Ministro degli Interni), Carlo Luca De Ruggieri (Figlio di Gesuino), Maria Antonia Capotorto (Livia), Marco Di Stefano (Ufficiale in
carrozza), Morena Turchi (Giuseppina bambina), Giovanni Cassinelli (Fratello di Cristina), Antonella Visini (Sorella di Cristina), Massimiliano Scarpa, Lucia Bastianini, Pino Patti, Francesco Ferrante, Mario Sandro De Luca, Peppe Bosone, Giovanni Fois, Carlo Di
Maio, Fausto Lombardi, Dora Romano, Miana Merisi, Antonella Cocciante, Federica
Paulillo, Ilaria Borrelli, Luigi Laurito, Agostino Belloni, Massimo Abate, Ezio Nandi,
Giorgia Palombi, Tonino Maresca, Nicoletta Barberio, Daniele Lovecchio, Claudio
1998 – TU RIDI
Regia: Paolo e Vittorio Taviani; soggetto: Paolo e Vittorio Taviani, dalle novelle di Luigi
Pirandello; sceneggiatura: Paolo e Vittorio Taviani; fotografia: Giuseppe Lanci; montaggio: Roberto Perpignani; scenografia: Gianni Sbarra; costumi: Lina Nerli Taviani; musiche: Nicola Piovani; interpreti: Antonio Albanese (Felice), Sabrina Ferilli (Nora), Luca
Zingaretti (Migliori), Giuseppe Cederna (Rambaldi), Elena Ghiaurov (Marika), Dario
Cantarelli (Il dottore), Piero De Silva (Collega di Felice), Turi Ferro (Ballarò), Lello Arena (Rocco), Steve Spedicato (Vincenzo), Orio Scaduto (Primo sequestratore), Ludovico
Calderera (Secondo sequestratore), Roberto Fuzio (Terzo sequestratore), Luciano Virgilio,
342
343
FILMOGRAFIA
Roberto Nobile, Carmelo Carnemolla, Biancamaria D’Amato, Alessandra Costanzo,
Filippo Dini, Andrea Di Casa, Riccardo Mosca, Gianluca Valenti, Frida Bruno, Nanà Torbica, Valentina Barresi, Elvira Anna Elena Feo, Donatella Furino, Maurilio Scaduto; produzione: Grazia Volpi per Filmtre s.r.l., in collaborazione con Dania Film, Rai – Cinemafiction (Italia); distribuzione: Istituto Luce; origine: Italia; durata: 99’.
2001 – RESURREZIONE
Regia: Paolo e Vittorio Taviani; soggetto: Paolo e Vittorio Taviani, dal romanzo omonimo di Lev Tolstoj; sceneggiatura: Paolo e Vittorio Taviani; fotografia: Franco Di Giacomo; montaggio: Roberto Perpignani; scenografia: Lorenzo Baraldi; costumi: Lina Nerli
Taviani; musiche: Nicola Piovani; interpreti: Stefania Rocca (Katiuša), Timothy Peach
(Principe Dimitri Neclyudov), Giulio Scarpati (Simonson), Marina Vlady (Zia Duchessa),
Antonella Ponziani (Vera), Cecile Bois (Marietta), Marie Baumer, Eva Christian, Sonia
Gessner, Giulia Lazzaroni, Michele Melega, Vania Vilers, Daniela Bakerova, Maria Barintova, Ian Bidlas, Imra Boraros, Vladmir Cech, Karol Chalik, Vlado Durdic, Hana Frejkrova, Milan Gargula, Jan Jirabeta, Vladimir Javorosky, Robert Jaskow, Zora Ulla Keslerova, Josef Kramar, Jana Krausova, Pavel Kriz, Martin Kubacak, Jan Kuzelka, Vit Marecek, Matej Matejka, Bara Milova, Stefan Misovich, František Nemec, Pepa Nos, Zdnek
Peckacek, Eni Rabova, Jhoanna Rezkova, Michal Rosen, Ja’n Sedal, Jiri Sieber, Hana Stedova, Vera Uzelakova, Peter Varga, Karel Zima, Jakub Zinduk; produzione: Grazia Volpi per Rai Fiction e Filmtre s.r.l. (Italia), Pampa Productions, France 2 (Francia), Bavaria Film (Germania); distribuzione: Rai Radiotelevisione Italiana, Rai Trade; origine: Italia; durata: 110’.
2004 – LUISA SANFELICE
Regia: Paolo e Vittorio Taviani; soggetto: Paolo e Vittorio Taviani, dal romanzo omonimo di Alexandre Dumas; sceneggiatura: Paolo e Vittorio Taviani; fotografia: Franco Di
Giacomo; montaggio: Roberto Perpignani; scenografia: Lorenzo Baraldi; costumi: Lina
Nerli Taviani; musiche: Nicola Piovani; interpreti: Laetitia Casta (Luisa Sanfelice), Adriano Giannini (Salvato Palmieri), Cecilia Roth (Regina Carolina), Marie Baumer (Lady
Hamilton), Emilio Solfrizzi (Re Ferdinando), Lello Arena (Pasquale De Simone), Linda
Batista (Eleonora Pimentel), Mariano Rigillo (Luciano Sanfelice), Johannes Silberschneider (Lord Nelson), Margarita Lozano (Marga), Yari Gugliucci (Michele), Carmelo Gomez
(Cardinale Ruffo), Jeany Vesberteloot (Championnet), Teresa Saponangelo (Assunta),
Aketza Lopez (Granduca Francesco), Steffen Wink (Andreas Baker), Antonino Iuorio (Fra’
Pacifico), Roberto Nobile (Conte Ascoli), Cristiana Capotondi (Maria Clementina), Lello
Giulivo (Garat), Glauco Onorato (Carramanico), Mario Aterrano, Marcello Belotti, Carmine Borrino, Ludovico Caldarera, Ciro Capano, Carlo Damasco, Antonio D’Avino, Mitchel Dawson, Susi Del Giudice, Raffaele Esposito, Andrea Fiorillo, Emiliano Fittipaldi,
Angelo Gullotti, Ferdinando Maddaloni, Bruno Marinelli, Giuseppe Mastrocinque, Giuseppe Miale, Adriano Mottola, Isabella Orsini, Ivan Polidoro, Ruben Rigillo, Andrea Ivan
Refuto, Odoardo Trasmondi, Peter Aczel, Luiza Cernuskovà, Jozef Fila, Monika Fiserovà, Lubo Pavlovic, Lucia Srncovà, Frantisen Velecky; produzione: Grazia Volpi e Riccardo Tozzi per Rai Radiotelevisione Italiana, Ager3 e Cattleya (Italia), Victory Media
Group, Pampa Production (Francia), con la collaborazione di France 2 e Alquimia Cinema; distribuzione: Rai Radiotelevisione Italiana; origine: Italia; durata: 181’.
344
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a cura di Chiara Polizzi
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RECENSIONI , ARTICOLI E SAGGI SUI SINGOLI FILM
“UN UOMO DA BRUCIARE”
Carlo Lizzani, In che direzione vanno i giovani nel cinema italiano?, in «Rinascita»,
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Morando Morandini, Vita e morte di un sindacalista, in «Stasera», 30/8/1962.
Jean Douchet, “Un uomo da bruciare” Venise 1962, in «Cahiers du Cinéma», n. 136,
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Lorenzo Pellizzari, Chi ha la pelle viva è un uomo da bruciare, in «Cinema Nuovo», n.
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Giacomo Gambetti, “Un uomo da bruciare” di Taviani e Orsini, in «Cineforum», n. 18,
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Giuseppe Marotta, L’impavido ometto che dice sempre “Noi”, in «L’Europeo»,
4/11/1962.
Guido Aristarco, La resistibile ascesa all’avventura dell’eclisse, in «Cinema Nuovo», n.
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Pio Baldelli, Gaetano Carancini, Gian Maria Guglielmino, E Comu Cristu muriu ammazatu, in «Il Nuovo Spettatore Cinematografico», n.s., n. 36 giugno 1963, pp. 114-118.
Maurizio Ponzi, Lettre d’Italie – Trois Cinéastes, deux films, in «Cahiers du Cinéma»,
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Sandro Zambetti, Il Mezzogiorno d’Italia e il cinema, in «Cineforum», n. 57, settembre
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Bruno Torri, Poesia e ideologia nel cinema dei Taviani, in «Cinemasessanta», n. 95, gennaio-febbraio 1974, pp. 8-9.
Callisto Cosulich, Un uomo da bruciare, in «Paese Sera», 23/5/1986.
“SOVVERSIVI”
Pietro Bianchi, La malinconicità del ricordo della rivoluzione, in «Il Giorno», 7/9/1967.
Ugo Casiraghi, La lieta sorpresa è venuta da un film irregolare, in «L’Unità», 8/9/1967.
Lino Miccichè, Sovversivi, in «Avanti», 8/9/1967.
Mino Argentieri, Parliamo di domani?, in «Rinascita», 15/9/1967.
Adelio Ferrero, Una bella giornata e pochi sovversivi operanti, in «Cinema Nuovo», n.
189, settembre-ottobre 1967, pp. 341-342.
Jean-André Fieschi, “Sovversivi” Venise 1967, in «Cahiers du Cinéma», n. 195, settembre 1967, p. 25.
Giacomo Gambetti, Cinema, sesso e politica, in «Cineforum», n. 69, novembre 1967,
pp. 699-704.
Maurizio Ponzi, Sovversivi, in «Cinema & Film», n. 4, autunno 1967, pp. 460-461.
Guido Piovene, Firmano l’impegno in bianco. Ne “I Sovversivi” dei Taviani il mondo
comunista si guarda e si testimonia come è, in «La Fiera Letteraria», 30/11/1967.
Gianni Toti, I Sovversivi, in «Cinema 60», n. 64, 1967, pp. 47-50.
Mario Verdone, “Sovversivi” di Paolo e Vittorio Taviani, in «Bianco e Nero», n. 1-2,
gennaio-febbraio 1968.
Alberto Pesce, Sovversivi, in «Cineforum», n. 73, marzo 1968, pp. 183-197.
Goffredo Fofi, Torri Gianfranco, Studiare Mao, in «Ombre Rosse», n. 4, marzo 1968,
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Giuseppe Peruzzi, L’ombra di Karl Marx nel cinema italiano d’oggi, in «Cinema Nuovo», n. 214, novembre-dicembre 1971, pp. 421-431.
“I FUORILEGGE DEL MATRIMONIO”
Nazareno Fabretti, I fuorilegge del matrimonio, in «Cineforum», n. 27, luglio 1963, pp.
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Alberto Cerretto, I fuorilegge del matrimonio, in «Corriere della Sera», 3/7/1963.
Maurizio Ponzi, I fuorilegge del matrimonio, in «Cahiers du Cinéma», n. 160, Novembre 1963, p. 67.
Corrado Terzi, I fuorilegge del matrimonio, in «Avanti», 30/11/1963.
Ugo Casiraghi, I fuorilegge del matrimonio, in «L’Unità», 27/12/1963.
Callisto Cosulich, I fuorilegge del matrimonio, in «ABC», 5/1/1964.
Ercole Patti, I fuorilegge del matrimonio, in «Il Tempo», 11/1/1964.
Tullio Kezich, I fuorilegge del matrimonio, in «Incom», 12/1/1964.
Tommaso Chiaretti, I fuorilegge del matrimonio, in «Mondo Nuovo», 26/1/1964.
Lorenzo Pellizzari, I fuorilegge del matrimonio, in «Cinema Nuovo», n. 167, gennaiofebbraio 1964.
“SOTTO IL SEGNO DELLO SCORPIONE”
Mino Argentieri, Il segno dello scorpione sul mondo che si trasforma, in «Rinascita»,
11/4/1969.
Ugo Casiraghi, Apologo moderno in favola cifrata, in «L’Unità», 26/8/1969.
Giovanni Grazzini, L’innocuo morso dello Scorpione, in «Corriere della Sera»,
26/8/1969.
Gian Luigi Rondi, Simboli in un clima d’apologo per l’esordio italiano a Venezia, in «Il
Tempo», 26/8/1969.
Adelio Ferrero, Indulgenza e rivolta nel recente cinema italiano di contestazione, in
«Cinema Nuovo», n. 200, luglio-agosto 1969, p. 280.
Adriano Aprà, Franco Ferrini, Tropico dello Scorpione, in «Cinema & Film», n. 9, estate 1969, pp. 277-283.
Edoardo Bruno, Manifesto dell’essenzialità, in «Filmcritica» n. 200, settembre 1969.
Mario Verdone, Sotto il segno dello Scorpione, in «Bianco e Nero», n. 9-10, settembreottobre 1969.
Guido Aristarco, Gli dei, lo Scorpione: il destino come fato e la storia, in «Cinema Nuovo», n. 202, novembre-dicembre 1969, pp. 448-455.
Tonino Paoletti, Desiderio e paura come molle dell’evoluzione, in «Cinema 60» n. 72,
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