"Huaycan", un racconto di Alessandro Cerri
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"Huaycan", un racconto di Alessandro Cerri
ASPEm Onlus 27 Gennaio 2017 Alessandro Cerri #Civilisti in Penna Servizio Civile Nazionale/Internazionale Come tutte le mattine la sveglia suona alle sette, e, come tutte le mattine, è già da un’ora e mezza che mi giro e rigiro in dormiveglia nel letto della mia camera, al quarto piso dell’appartamento in Avenida Universitaria 460, distretto di San Miguel, Lima. Sì perché la vita da queste parti, a poche centinaia di metri dall’oceano pacifico, inizia presto. Appena sorge il sole, le tende verdi della stanza filtrano una forte luce smeraldo e dalla strada si alzano rumori di clacson (uno degli strumenti più utilizzati dal taxista peruano, molto più del freno!) e del fischietto del vigile che prova a impartire un ordine a quello sciame di auto che tutti i giorni invadono le vie limeña. L’Avenida Universitaria è una delle principali arterie di Lima, uno dei tanti vialoni che tagliano la città da ovest a est, dall’oceano pacifico ai piedi delle Ande, dalla ricchezza sfrenata alla povertà estrema. Questa è Lima, una città piena di contraddizioni, dove in poco tempo (relativamente poco, come relativo è il concetto di tempo da queste parti) puoi passare dalle strade in stile Miami, con palme a lato dell’oceano, alle periferie stile favelas, che a queste latitudini sono chiamati cerros. Per comprendere la disuguaglianza insita in questa città basta prendere uno dei tanti bus, chiamati in modo diverso secondo la loro grandezza, che portano dai distretti che si affacciano sull’oceano ai distretti ai piedi delle Ande. Mi è capitato più di prendere uno di questi bus e dirigermi dalla mia casa di San Miguel a uno dei cerros più lontani dal centro di Lima: Huaycán. Huaycán è una delle zone più remote di Lima ed è parte del distretto di ATE, uno dei 43 distretti che compongono la città. In questo distretto di circa 700000 mila abitanti sorge la “Comunidad Urbana Autogestionaria de Huaycán”. Questo luogo, cosi lontano dal centro di Lima (sono circa 35 km), è abitato principalmente da immigrati dalle Ande che si trasferirono da queste parti negli anni 80 – 90, per sfuggire alle violenze del conflitto armato che infuriava in quegli anni. Nei miei primi giorni a Lima e, in particolare, nei giorni precedenti alla mia prima volta di lavoro sul “campo” a Huaycán sono stato più volte avvertito della pericolosità del luogo, dell’alto tasso di delinquenza, del rischio di essere rapinato a ogni angola della strada, a maggior ragione considerata la scarsa pigmentazione della mia pelle. Insomma il GRINGO, com’è chiamato l’occidentale da queste parti, è visto come un portafogli ambulante, ergo un ricco bottino. La realtà mi è sembrata però molto diversa da quello che mi era stata raccontata. Le mie giornate a Huaycan sono, infatti, passate in un’assoluta e ingenua tranquillità. Perché, sebbene la povertà tangibile del luogo, non mi ero mai sentito in alcun momento in pericolo. Le giornate scorrevano tra incontri e interveste a socie di organizzazioni tessili di desplazadas (le persone costrette a lasciare le proprie città a causa del conflitto armato), che ci raccontavano un po’ di quello che facevano e delle loro storie, da cui filtrava la tristezza per quello che era accaduto negli anni del conflitto. Dalle loro parole s’intuiva che la ferita aperta dal conflitto, nonostante gli anni e i processi di pace, conclusi e in atto, sia lontana dall’essersi rimarginata. È bastata una sera di un giovedì qualunque di dicembre a risvegliarmi dalla mia ingenuità e a smuovermi dai miei “Huaycan non è per nulla pericoloso”. Infatti, la sera del primo di dicembre, circa due mila persone hanno attaccato la stazione di polizia di Huaycán, al lato del municipio, dove mi trovavo solo due giorni prima. Il tentato assalto, durato alcune ore, oltre ad aver lasciato qualche camionetta della polizia in cenere, ha avuto anche un suo sviluppo tragico nella morte di una signora cinquantunenne, colpita da un proiettile vagante, a poche centinaia di metri dal luogo degli scontri. Perché tutto ciò? Le ragioni che hanno portato a questo scontro con la polizia hanno dell’assurdo. Ad aver accesso la miccia sono state delle speculazioni, del tutto infondate, circolate sui social network, in particolare su Facebook. In questi “post” si avvertiva la cittadinanza di fare attenzione ai propri figli a causa della presenza in zona di alcune persone che sequestravano i minori allo scopo di rivenderne gli organi. Commercio. A farne le spese una coppia di sondaggisti. I due che giravano per il cerro con lo scopo di fare interviste, sono stati accusati di essere i famigerati trafficanti di organi ed hanno quindi rischiato di essere linciati dalla folla fino all’arrivo della polizia che, per la loro sicurezza, li ha scortati fino alla commissaria di Huaycán. Da lì l’attacco a uno dei centri di potere della zona. Ora, tralasciando il fatto di cronaca, per quanto importante e bizzarro nei suoi sviluppi, la sensazione che ha lasciato in me, analfabeta del mondo peruano, è che tutta questa rabbia, questa voglia di aggredire e combattere i simboli del potere, siano essi la polizia o i governi ai loro vari livelli e dimensioni, arrivi da lontano e sia qualcosa di più profondo di un “post” di face book. Credo sia un retaggio del conflitto armato, eredità di quelle ferite ancora aperte che si leggono negli occhi e nelle parole delle persone che s’incontrano a Huaycán o in tantissime altre comunità del Perù fortemente colpite dal conflitto armato dei decenni precedenti. Quello che è successo a Huaycán è una cartina di tornasole della situazione sociale del Perù di oggi, in cui, sebbene non evidente, il conflitto sia ancora latente e non del tutto risolto. Per quanto mi riguarda, da quel giorno di dicembre non ho più messo piede nella mia “città più sicura del mondo”. Comunque, spero di sbagliarmi riguardo a Huaycán e al Perù, d’altronde mi sono già sbagliato una volta.