Butera Futuro Professionale. I frantumi ricomposti

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Butera Futuro Professionale. I frantumi ricomposti
Futuro professionale: dal taylor- fordismo ai
nuovi modi di produzione
I frantumi ricomposti, 1971-2015 1
di Federico Butera
Indice
Executive summary
Abstract
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1. La grande trasformazione dell’organizzazione e del lavoro degli anni ’70
1.1 Grande impresa accentrata e divisione del lavoro
1.2 Il lavoro in frantumi nella produzione di massa
1.3 Il post-taylor fordismo: i frantumi ricomposti
1.3.1 Ideologia e struttura nel declino del taylorismo in America
1.3.2 Il declino del taylorismo in Europa e in Italia: le esperienze delle
isole di montaggio
1.3.3 L’emergere di nuove forme di organizzazione del lavoro
1.3.4 Il taylorismo proteico
1.3.5 Perché quelle innovazioni non sono diventate un nuovo modello?
1.4 La destrutturazione dell’impresa accentrata: reti di organizzazioni e imprese rete
1.5 La crescita dei lavoratori della conoscenza
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2. All is melting into the air?: i fattori strutturali che hanno sgretolato il
vecchio modo di produzione (ma che potrebbero sostenerne di nuovi
2.1 Cambia tutto ma si guarda ad un mondo nuovo con categorie vecchie
2.2 Globalizzazione e competizione internazionale: l’impresa in frantumi o
la spinta a costruire modelli nuovi d impresa e di lavoro?
2.3 L’economia dei servizi: produrre servizi per il cliente finale e per le
organizzazioni interne alle imprese
2.4 Tecnologie digitali, comunicazioni e comunità: il mito del villaggio globale
2.5 Il lavoro senza rappresentazione e senza governo
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3. Possibili percorsi di ricomposizione
3.1 Imprese integrali
3.2 L’impresa rete e le reti di imprese
3.3 Riorganizzazione delle Pubbliche Amministrazioni e il nuovo sviluppo locale
3.4 I lavori, i mestieri, le professioni dei servizi
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Bibliografia di riferimento
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Studi organizzativi n. 2, 2014 – Sezione progetti e politiche organizzative
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Executive summary2
Costruire posti di lavoro: è questa l’emergenza delle economie europee e
italiane. Rimuovere vincoli e incentivare le imprese e le altre organizzazioni a
crescere, ad assumere e a tenere al lavoro le persone è l’oggetto principale delle
politiche pubbliche: modifiche normative, fiscalità, politiche attive del lavoro,
formazione, ma anche, incentivi alle imprese, lavori pubblici e altro.
Ma quali organizzazioni e forme di lavoro si vogliono sviluppare? L’impresa
chandleriana, la burocrazia weberiana, le occupazioni industriali del taylor
fordismo non esistono più. E attraverso quale percorso di job and organization
design verranno costruiti i nuovi lavori e le nuove organizzazioni? Organigrammi e
mansionari emanati dagli uffici organizzazione, contrattazioni sui tempi e cottimi
non esistono più.
La politiche pubbliche avranno effetti rilevanti solo se i posti di lavoro e le
organizzazioni create saranno “di qualità”, ossia tali da aumentare la competitività
delle imprese e l’efficacia delle pubbliche amministrazioni e saranno tali da
assicurare alle persone flessibilità, sicurezza, identità, qualità della vita di lavoro.
Non solo: ciò avverrà solo se verranno attivati nuovi percorsi virtuosi per
progettare, sperimentare e formare le persone. Soluzioni e percorsi di qualità
esistono già nei molti casi esemplari basati su nuovi paradigmi organizzativi e
professionali che in questi anni si sono dimostrati capaci di generare ricchezza e
lavoro. Non vi è oggi cosa più pratica che valorizzare questi casi e i modelli che
essi incarnano affinché essi siano diffusi e soprattutto affinché possano essere
oggetto di condivisione fra imprese, governo, istituzioni educative e di gestione del
mercato del lavoro, sindacati, organi di stampa.
Manca però nell’Italia del 2015 uno o più modelli organizzativi della
produzione dei beni e servizi condiviso a cui si riferiscano i sistemi di regolazione
del lavoro, la Pubblica Amministrazione, il sistema di istruzione, le relazioni
industriali.
Ma cos’è e a cosa serve “un modello organizzativo di produzione di beni e
servizi”? L’esempio più chiaro che tutti conosciamo è il taylor-fordismo e quello
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© 2015 Federico Butera
Una versione breve in inglese è stata presentate all’International Colloquium Capitalism and
the Corporation: Today and Yesterday Bocconi University October 23 –25, 2014.
Ringrazio chi ha voluto commentare le idee di questo lavoro e in particolare Franco
Amatori, Sebastiano Bagnara, Giovanni Costa, Giorgio De Michelis, Gianfranco Dioguardi,
Giovanni Fattore, Roberta Morici, Angelo Pichierri, Enrico Sassoon, Francesco Silva.
Naturalmente la responsabilità di queste pagine è solo mia.
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che esso rappresentò dall’inizio del secolo fino agli anni ‘70 in tutto il mondo
occidentale. Il taylor fordismo, con tutti i suoi gravissimi limiti economici e sociali,
a combattere i quali ho dedicato la mia vita professionale, era una struttura
solidissima che attuava una strategia dominante: un modello per sviluppare
l’economia della produzione di massa e regolare l’economia dei consumi, ottenuto
attraverso coordinamento gerarchico e divisione del lavoro. Esso offriva alle
imprese una modalità “scientifica” di programmare e gestire le risorse, ai lavoratori
le certezze di una cittadinanza occupazionale, alle istituzioni di sviluppare sistemi
educativi e di welfare e soprattutto alle parti sociali e ai governi regole del gioco
che assicuravano a tutti identità istituzionale.
Questo contributo ripercorre sinteticamente la storia della crisi e del
superamento dei modelli di organizzazione e del lavoro taylor-fordisti iniziata negli
anni ‘70, con particolare riferimento al caso italiano.
Richiama poi i ribollenti mutamenti avvenuti da allora che hanno visto
profonde trasformazioni nelle forme di organizzazione e di lavoro innovative, dalla
catena di montaggio alle isole di produzione, dalle mansioni ai ruoli responsabili,
dall’orologio all’organismo, dal castello alla rete (Butera, 1984, 1987, 1990),
sperimentati in un gran numero di casi esemplari.
Questo lavoro mette in evidenza che queste innovazioni di grande rilievo nate
dagli anni 70 in poi tuttavia non si consolidarono in uno o più nuovi complessivi
paradigmi alternativi. Al contrario si generò un senso di disorientamento di fronte
alla percezione che “all is melting into the air” e ebbero luogo nuove gravi forme
di decomposizione del lavoro e dell’organizzazione, con gravi problemi economici
e sociali.
Per questo politiche industriali, politiche attive del lavoro, concertazione,
accordi fra governo, imprenditori, sindacati, corporazioni professionali non
trovarono metodologie nuove rispetto al periodo del taylor-fordismo, anche perché
le organizzazioni e il lavoro di cui gli attori sociali parlavano non erano più quelli
di una volta.
I fattori strutturali che a partire dagli anni 70 hanno contribuito a decomporre
il vecchio modello furono principalmente il mutamento sociale, la globalizzazione,
l’economia dei servizi, le nuove tecnologie di prodotto. A partire dagli anni 2000
ad esse si aggiunsero l’emergenza dei BRIC, la finanziarizzazione, lo sviluppo
travolgente di internet, la forte crescita dei lavoratori della conoscenza. Essi hanno
influenzato profondamente a livello macro la geopolitica, l’economia mondiale, le
culture, la distribuzione della ricchezza, le istituzioni degli Stati, i modelli di
business e a livello micro la macro e micro organizzazione delle imprese e delle
pubbliche amministrazioni, il lavoro.
In questo saggio, in cui mi occupo solo di quest’ultimo livello, sostengo che
per valorizzare le innovazioni organizzative e del lavoro potentemente e
disordinatamente introdotte a partire dagli anni ’70 e per delineare e ricomporre i
modi innovativi di produzione di beni e servizi, occorre che tali innovazioni siano
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assonanti ad alcuni fattori strutturali dominanti. Tali fattori strutturali sono a mio
parere oggi principalmente la globalizzazione e la competizione internazionale, i
mutamenti climatici e ambientali, l’economia dei servizi all’utente finale e alle
unità organizzative intermedie della produzione, i bisogni di equità, integrità e
umanità, il web e il cloud, lo sviluppo del lavoro e dei lavoratori della conoscenza.
La lezione di Chandler sul legame reciproco fra strategie e struttura torna
fondamentale, anche se le strategie sono totalmente diverse da prima e le strutture
non si fondano più principalmente su gerarchia e divisione del lavoro spinta.
In questo saggio formulo quattro proposte sui principali driver che possono
attivare e rendere condiviso un nuovo modo di produzione, quattro paradigmi
riproducibili di organizzazione e di lavoro che diano senso e diffusione a
cambiamenti già avvenuti.
Il primo è l’impresa integrale ossia l’armonizzazione fra obiettivi economici
e obiettivi sociali nelle imprese (Butera, 2009), non solo attraverso regole da
dettare all’impresa ma rafforzando l’impresa perché possa essere essa stessa sia
fattore di produzione di ricchezza che anche generatore di culture e di socialità, una
“impresa enciclopedia” (Dioguardi, 2014). Il modello proposto fa riferimento allo
sviluppo di imprese che siano strutturate per conseguire simultaneamente
efficienza economica e responsabilità sociale, il che assomiglia a ciò che in Italia
fu chiamato impresa “olivettiana”.
Il secondo è il paradigma delle imprese rete e delle reti di imprese
governate ossia la progettazione e sviluppo di reti di imprese di estensione
planetaria che potenzino la differenziazione produttiva e valorizzino le piccole e
medie imprese oltre che le grandi imprese con meccanismi win win (Eccles e
Nohria, 1992; Butera, 1990, Dioguardi, 2012). Questo paradigma ha il massimo
rilievo per l’economia italiana che vede la stragrande presenza di piccole e medie
imprese. In esso tutti i nodi delle reti (imprese, pubbliche amministrazioni e
professioni) godono di reale autonomia, sono in forte connessione fra loro e con il
mondo e sono messe in grado di sprigionare la loro vitalità senza essere dominate
dall’impresa pivotale ma valorizzandone il suo ruolo di “testa di filiera” ossia una
“testa d’ariete” che guidi la penetrazione nei mercati internazionali.
Il terzo è la riorganizzazione delle singole Pubbliche Amministrazioni in
rapporto ad nuovo sviluppo locale, ossia percorsi intenzionali di reinventing
governement di singole amministrazioni centrali e locali (Butera e Dente, 2009)
che sviluppino servizi di qualità a basso costo in una nuova rinnovata relazione con
i territori e le imprese. In tale percorso la Pubblica Amministrazione riduce i propri
costi e offre servizi migliori per valorizzare i beni comuni di un territorio e i
processi innovativi delle imprese. In questo percorso PA, imprese e comunità
possono prosperare in un condiviso gioco win-win.
E infine il quarto paradigma è lo sviluppo delle professioni di servizio
all’interno delle organizzazioni ossia lo sviluppo delle professioni nelle
organizzazioni centrate sui processi di servizio basati sulle conoscenze, sul
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rafforzamento delle identità professionali delle persone, sulla protezione della
Qualità della Vita di Lavoro (Butera, 2013). Questo paradigma unifica il lavoro
dipendente e il lavoro autonomo, il lavoro astratto e il lavoro artigiano, il lavoro ad
alta qualificazione e il lavoro “umile”.
Questi quattro paradigmi non sono già un nuovo modello di produzione ma
possono avviare processi per svilupparne uno generato da emergenti casi esemplari
e basato su una concezione dell’impresa, del mercato, delle pubbliche
amministrazioni, delle economie territoriali e del lavoro radicalmente diverse e
migliori da quelle alla base del taylor-fordismo ma altrettanto comprensibili e
efficaci per consentire ai soggetti sociali di progettare, gestire e interagire entro
“regole del gioco” condivise.
Il metodo proposto in questo contributo richiama quello che fu anche alla base
del mio libro “I frantumi ricomposti” del 1971: connettere fattori strutturali e
nuove idee di organizzazione e di lavoro, valorizzare i casi di esperienze virtuose,
aprire grandi e piccoli cantieri di progettazione, attivando un percorso che chi
scrive ha chiamato “ Italy by design”.
Per sviluppare nuovi paradigmi non sono necessarie ideologie organizzative o
piani globali, ma la moltiplicazione, valorizzazione, diffusione dei casi esemplari
attraverso un modo di interpretare e concettualizzare comprensibile e condivisibile.
D’altro canto il taylor-fordismo non fu altro che la diffusione di un caso esemplare
realizzato nelle officine Ford di cui vennero identificati concetti e metodi poi
adottati dalle aziende, dalle istituzioni, dalle scuole, dai sindacati in USA e in tutto
il mondo. La lean production non fu altro che un caso esemplare sviluppato nelle
fabbriche Toyota, concettualizzato da un Phd student del MIT, trasformato poi in
un programma di ricerca e formazione dal JUSE (Japan Union of Scientists and
Engineers), e diffuso in tutto il mondo. I casi esemplari italiani di imprese e di
pubbliche amministrazioni di successo, gli esempi di progettazione e sviluppo di
nuove professioni nelle organizzazione, evocano una originale Italian Way of
Doing Organizations e sono disponibili per un percorso analogo.
Organizzazioni innovative e competitive e di mestieri e professioni di nuova
concezione possono assicurare un futuro professionale non solo a quel 50% di
lavoratori della conoscenza che si stanno trasformando in “professionisti dei
servizi” avanzati ma a tutti coloro che ricoprono posti di lavoro che possono essere
valorizzati. Per far ciò occorre ridisegnare ruoli e professioni centrate su
responsabilità, sui risultati ottenibili, qualità delle relazioni, le prassi operative,
competenze. Occorre inoltre far emergere le potenzialità delle persone “the
workplace within”. Il grande sociologo delle professioni Wilensky nel 1970
scriveva un memorabile articolo intitolato “The professionalization of everyone”:
allora ciò era prematuro. Ora è possibile e necessario perché sappiamo cosa sono le
nuove professioni, in che tipo di organizzazioni operano, di quali reti sono
componenti, di quali sistemi pubblico/privato fanno parte. Conosciamo i fattori
strutturali che impongono o favoriscono questa valorizzazione professionale.
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Questa è una sfida con cui gli attori delle imprese, delle organizzazioni pubbliche,
del sistema educativo sono oggi in grado di misurarsi concretamente.
Questo saggio racconta vicende che ho vissuto personalmente: la fine di un
modello di produzione, le ricerche i progetti e le idee per l’innovazione
dell’organizzazione e del lavoro, la confusione degli anni 2000, la crisi economica
che ancora permane, il lavoro di oggi nelle imprese e nelle pubbliche
amministrazioni per attuare le quattro proposte che qui richiamo. Con il lettore mi
scuso se questa agenda forse rispecchia troppo la mia storia scientifica e
professionale ma voglio assicurargli che queste pagine sono il risultato di lavori e
di impegni nella realtà delle organizzazioni e nel continuo dialogo con le persone e
non solo la sintesi di libri che parlano con altri libri.
Parole chiave: impresa rete, reti di imprese, professioni di servizio.
Abstract
This paper briefly traces the history of the crisis of Taylor-Fordist organization
and work models that started in the 70s, with special reference to the Italian case. It
sums up the bubbling changes that occurred since then. It discusses the lack of new
models institutionally solid as the Taylor-Fordism was. Finally it aims to identify
and design some new paradigms of organization and work, that may actually be
developed also because of structural factors in economy and society.
Classical organization stemming from the mass production model was rooted
on two key ideas: hierarchal coordination and control system and severe division of
labor. These models was leaving much of the remaining uncertainty outside the
“castle walls”. They fully rationalized organization and work with the result of a
dramatic increase in productivity per unit of product.
The work of the great mass of workers and employees was broken in small
fragments (“travail en miettes”, according to Friedman), resulting in alienation and
poor quality of working life. But that production model seemed unbeatable as far
the productivity was concerned. This model was shared among entrepreneurs, public authorities, unions; it became the basis on which public infrastructure investment policies were built, educational systems and social mobility patterns were developed, and industrial relations systems developed based upon “production
games” to achieve “manufacturing consent”. Since the 70s the increased market
turbulence was no longer sufficiently left outside the walls of the large corporations, new information technologies began to develop, the workers’ dissatisfaction
became manifest through absenteeism and sabotage. As a result new organizational
forms were developed that mitigated the rigidity of hierarchical bureaucracy and
introduced new roles responsible for results and new methods of work based on
relatively self-regulated working groups. The post Taylor-Fordism had begun.
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New process units were born both in production and in services: a wide variety
of teams became the backbone of service organizations (face-to-face and remote
teams); process governance and process innovation took command; forms of nonhierarchical organizational structures spread out; network enterprises and network
of enterprises were diffused. Almost all of the organizational forms mentioned had
in common a) self-regulated co-operation; b) knowledge sharing; c) increasing
ability to communicate; d) development of human communities supported by ICT.
In those thirty years, a large number of organizations evolves from clockworks to
organisms, from castles to networks, just to adopt some metaphors.
But in early 2000, even though tasks were often recomposed, work and organizations seem to go towards new and different forms of decomposition: outsourcing and offshoring were largely diffused; work become a kaleidoscope of occupations: the expansion of informal economy and criminal economy creates
wealth and forms of organization and work ominously efficient; the economic and
organizational crisis of the Public Administration was not adequately tackled by
reforms. It was too difficult get sound agreements among government, entrepreneurs, unions, professional corporations as happened in the taylor-fordism development. The main structural factors that may favour new social agreements, new
“principles of reality” on which organization and work change can be seriously
based seem to be the following: international competition which requires the development of innovative business models and the enhancement of high quality
knowledge work; service economy which requires the development of new combinations of products and services and of service professions; digital technologies
which require to create powerful virtual networks of agile real organizations.
Four paradigms may give sense to the changes that have already occurred but
that we are not yet fully aware of :
• integral enterprise (Butera, 2009), that is a firm capable of harmonizing economic efficiency and social responsibility
• governed network enterprise (Eccles e Nohria, 1992; Butera, 1990; Dioguardi,
2012), where all the nodes of a network (enterprises, public administrations and
professions) enjoy a real autonomy and have the opportunity to unleash their vitality without being dominated by the pivot company
• public administrations, enterprises and territories networks (Velz, 1998), in
which the assets of a territory and the company innovation processes support
each other in a win-win game
• development of broad service professions accustomed to operate within large
organizations or in connection with them: knowledge workers (who use theoretical knowledge, practical knowledge but always contextual knowledge) aimed at
providing services to the end user or to intermediate structures inside organizations, in a word service professions.
Keywords: integral enterprise, network enterprise, service professions.
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1. La grande trasformazione dell’organizzazione e del lavoro degli anni ‘70
1.1 Grande impresa accentrata e divisione del lavoro
Chandler (1976) aveva rappresentato il profilo della grande corporation
come una grande struttura intesa a concentrare gli investimenti e a
fronteggiare le incertezze dell’ambiente anche con strutture multi
divisionali a seguito della diversificazione dei mercati. Perrow (2005)
rilevò che l’economia degli Stati Uniti alla fine dell’800 era composta
prevalentemente da piccole e medie imprese mentre le grandi corporation
quasi non esistevano, tranne che in alcuni settori come le ferrovie; ma a
seguito di una legislazione che le favoriva assorbirono una importante
quota di attività prima svolta da piccole imprese e professioni e internalizzarono una parte rilevante del mercato dei prodotti e del lavoro assumendo
di fatto il ruolo di Organizing America.
Nella grande impresa vennero accumulate le risorse, razionalizzati i
processi innovativi e produttivi, concentrato al vertice il rapporto con
l’esterno. Burocrazia industriale e organizzazione scientifica del lavoro
furono adottati come paradigmi di riferimento negli Stati Uniti prima e
nell’occidente e nel blocco sovietico dopo, paradigmi che presero
ispirazione dalle analisi di Max Weber (1922) e dalle prescrizioni di
F.W.Taylor (1911) e che vennero sviluppate al massimo livello da Henry
Ford nella sua azienda di automobili. Il lavoro si differenziò fra pochissimi
manager, pochi professional e moltissimi lavoratori addetti a mansioni
razionalizzate e ristrette composte da compiti parcellari.
Quella centralizzazione dell’impresa e frammentazione del lavoro (il
“castello” e il “lavoro in frantumi”) furono un potente strumento per
sostenere la produzione di massa: mercati crescenti e alti volumi. Esse
lasciavano fuori dalle mura del “castello” gran parte della residua
incertezza del mondo esterno e razionalizzavano organizzazione e lavoro
aumentando vertiginosamente la produttività per unità di prodotto.
Una caratteristica saliente del taylor-fordismo fu che esso divenne
presto un modello di regolazione dell’economia e del lavoro condiviso fra
imprenditori, poteri pubblici, istituzioni educative, sindacati: tutti sapevano
“a che gioco si stava giocando”. Non fu solo un modello di organizzazione
operativa, ma un sistema condiviso in cui, malgrado altisonanti e acute
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controversie ideologiche e politiche, il lavoro era “forza produttiva” e fonte
di identità individuale e collettiva. Si costruirono su questo modello
politiche di investimenti pubblici infrastrutturali, si svilupparono sistemi
educativi, percorsi di mobilità sociale, sistemi di relazioni industriali in cui
i “giochi di produzione” per conseguire un manufacturing consent
(Burawoy, 1979) divennero l’arena delle relazioni quotidiane del
management e del sindacato.
Il lavoro in frantumi della grande massa di operai e impiegati
(Friedman e Naville, 1963), generò alienazione e cattiva qualità della vita
di lavoro. Psicologi, sociologi, riformatori sociali denunciarono questo
degrado del lavoro, ma il modello taylor-fordista nella grande impresa
sembrava non avere possibili alternative per produttività e capacità di
governare l’incertezza dei processi economici, produttivi e sociali. Anche
chi era critico verso il sistema capitalistico, riteneva che non vi fosse
alternativa a quel modo di produzione, a cominciare da Lenin.
A partire dagli anni ‘70 la accresciuta turbolenza dei mercati non veniva più sufficientemente assorbita dalle grandi imprese.
La crisi di quel modello di produzione fu generata dal turbolent
enviroment degli anni ‘70 (Emery e Trist, 1965; Thompson, 1967,
Lawrence e Lorsh, 1967) ossia da alcuni imponenti fenomeni strutturali di
carattere economico e sociale. L’insoddisfazione dei lavoratori in fabbrica
si faceva sentire con assenteismo e sabotaggi, in USA e in Europa il 68
portava studenti e operai nelle piazze. Si accentuava la globalizzazione, il
capitale finanziario prendeva il comando sul capitale industriale,
prorompeva l’economia dei servizi, le tecnologie digitali irrompevano nei
processi produttivi con l’automazione e nei prodotti elettronici. Per effetto
di questi fenomeni la grande impresa monolitica si decomponeva:
emergevano forme di impresa che si allontanavano dal modello di
produzione integrata e “chiusa nelle mura del castello” che si avvalevano in
misura crescente di subforniture. Frattanto insieme all’aumento del livello
di istruzione aumentava vertiginosamente la proporzione dei posti di lavoro
dei lavoratori della conoscenza.
Per tutto questo, più che a causa del prevalere di politiche pro-labor o
di umanitarie nuove ideologie di management, in USA, Svezia, Francia e
Italia si svilupparono sempre più diffusamente forme organizzative che
attenuavano la rigidità della burocrazia gerarchica e introducevano in
fabbrica e negli uffici nuove forme di organizzazione del lavoro come job
enlargement, job enrichment, work group e altre forme innovative che
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verranno illustrate nei prossimi paragrafi. Sembrò in quegli anni che
l’organizzazione industriale potesse diventare più umana oltre che
efficiente e che i frantumi in cui si era ridotto il lavoro si potessero
ricomporre, almeno quelli delle mansioni parcellari degli operai massa e
degli impiegati esecutivi.
Il post taylor-fordismo stava cominciando. Ma dopo? Che cosa c’era
dietro l’angolo?
1.2 Il lavoro in frantumi nella produzione di massa
Organizzazione è portare ad unità elementi dispersi. Nelle grandi
imprese e amministrazioni pubbliche, in base alla teoria organizzativa
classica, ciò veniva ottenuto principalmente attraverso due idee chiave che
discendevano da un modo di produzione che aveva dato all’industria del
‘900 con la produzione di massa i sistemi di coordinamento e controllo
gerarchico e la divisione del lavoro spinto.
Le strutture gerarchiche fissavano i confini e l’autorità per esercitare il
coordinamento e il controllo; le mansioni formalizzavano e prescrivevano
una divisione del lavoro fra pochissime posizioni di comando, alcuni ruoli
specialisti e una gran quantità di mansioni con compiti parcellari.
Il modello di coordinamento e controllo gerarchico si basava sulla
persuasione che il modo migliore per governare i processi produttivi e
amministrativi fosse quello di “affidarli” ad autorità legittime dedicate alla
loro gestione, come Max Weber (1922) aveva limpidamente descritto.
Anche Williamson (1986) chiama l’organizzazione hierarchy. Anche oggi
di fronte ad un’organizzazione che va male si va alla ricerca del manager
demiurgo che la salvi. La gerarchia rende rapido il processo decisionale e
assegna responsabilità chiara ma impegna le proprie risorse in primo luogo
a regolare rapporti di potere e a rappresentare la stratificazione sociale e
solo in secondo luogo a fare avvenire le cose, secondo la regola prussiana
“prima si costituisce il reggimento e poi si vede quali battaglie fare”.
La seconda idea, proposta originariamente da Adam Smith (1776) e da
Babbage (1832) e sviluppata poi da Taylor e Ford, riguardava la divisione
del lavoro: i processi di lavoro dovevano essere ben studiati per poi essere
suddivisi in compiti parcellari da affidare a lavoratori, che li avrebbero
eseguiti molto velocemente. Il taylor-fordismo si fondava sulla fiducia di
poter tenere disturbi e varianze al di fuori del luogo di produzione diretta e
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non richiedeva alcuna partecipazione e responsabilizzazione dei lavoratori
sulla qualità ed economicità dei processi.
La divisione del lavoro fu la carta vincente dello sviluppo industriale
degli Stati Uniti. Ad essa era stata associata la costituzione del mercato del
lavoro industriale che aveva attratto e dato grandi opportunità di sviluppo
sociale in USA ad una grande quantità di manodopera non alfabetizzata e
immigrata. Lo stesso avvenne su scala minore negli altri paesi occidentali.
Ma che cosa era una buona organizzazione? Era quella che funzionava
come un orologio: processi altamente prescritti, attività parcellizzate,
coordinamento per programmi e gerarchia, reparti e uffici come partizioni
delle macrostrutture, gestione delle persone limitata alla retribuzione e alle
relazioni industriali. L’esistenza delle strutture sociali (comunità di lavoro,
etc.) e dei processi sociali (cooperazione, conflitto, potere, etc.) rimanevano
celate dietro “lo squinternato concetto di organizzazione informale”
(Gouldner, 1957).
Quattro furono i principi dell’organizzazione scientifica che
riflettevano le convinzioni di Taylor sulla natura del lavoro, e sul ruolo
della tecnologia e delle persone: trovare il modo migliore di produrre (one
best way); scegliere le persone giuste e metterle al posto giusto; controllare,
premiare, punire; impiegare organismi di staff per pianificare e controllare.
Nella concezione di Taylor un ruolo importante era assegnato alla
tecnologia che doveva assorbire il più possibile lavoro umano esecutivo.
Davis (1973) descrive così la concezione dell’uomo e del suo lavoro
sottesa all’organizzazione scientifica:
• l’individuo e il compito assegnatogli sono la base su cui è costituita
un’organizzazione
• l’individuo fa ciò che non può essere fatto dalla macchina ed è inteso
come “estensione della macchina”
• i supervisori eliminano le incertezze e gli imprevisti che si verificano sul
posto di lavoro
• l’organizzazione tende a imporre ai dipendenti un comportamento
conforme a quello predefinito
• il frazionamento dei compiti è un modo per ridurre i costi del lavoro,
riducendo il contributo professionale discrezionale richiesto alle persone e
il loro costo
Una copiosa letteratura ha documentato gli impatti negativi di questo
modello sui lavoratori, tra cui: l’alienazione, la caduta di motivazione, le
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implicazioni sulla salute psico-fisica, il conflitto sociale e i problemi delle
relazioni industriali (Friedmann e Naville, 1963).
Le scienze economiche e organizzative (Galbraith, 1982) e la
letteratura manageriale avevano segnalato i limiti di efficacia ed efficienza
del modello organizzativo del taylor-fordismo: la rigidità del sistema
produttivo, la lentezza dei processi decisionali a fronte di turbolenza e
variabilità del contesto; gli elevati costi di attraversamento dei processi
lungo i silos delle piramidi organizzative; la scarsa capacità di far fronte
prontamente alle eccezioni. Era inoltre segnalata la caduta dei livelli di
qualità e di produttività correlata sia alla bassa motivazione e al limitato
impegno del personale sia alla elevata conflittualità sociale generata da tale
modello.
Ma, malgrado la degradazione del lavoro esecutivo e la sua rigidità
organizzativa questa concezione del lavoro era forte. Da una parte
rappresentava una “forza produttiva” ossia una componente essenziale della
produzione di massa. Dall’altra assicurava “identità” ai lavoratori,
assicurando agli operai, spesso ex contadini immigrati, una cittadinanza
industriale basata sulla sicurezza e sugli alti salari. Assicurava agli
impiegati, tecnici e manager prestigio e distinzione. Il sistema era un
sistema di regolazione chiaro: legislazione sul lavoro, contratti di lavoro,
forme di addestramento e formazione, modalità di relazioni industriali
erano chiare e altamente governabili dalle istituzioni, dagli imprenditori,
dai sindacati. Anche Gramsci ne rimase sostanzialmente affascinato nel suo
“Americanismo e fordismo”.
1.3 Il post-taylor fordismo: i frantumi ricomposti
1.3.1 Ideologia e struttura nel declino del taylorismo in America
Disaffection dei lavoratori manuali, rigidità nell’impiego della forza
lavoro, irresponsabilità su qualità e costi, peso del coordinamento, un inaspettato declino del taylorismo che inizia nei primi anni ‘70.
Nel 1971 usciva il libro di Federico Butera I frantumi ricomposti.
Ideologia e struttura nel declino del taylorismo in America (Butera, 1971).
Come aveva scritto Friedmann, (1946) il lavoro era ormai in frantumi nelle
fabbriche e negli uffici divenuti castelli altamente razionalizzati in cui i
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lavoratori erano parti di ricambio di grandi macchine. Fritz Lang e Chaplin
avevano filmato tutto ciò in Metropoli e in “Tempi Moderni”, Kafka
l’aveva raccontato in “America”, Simone Weil (1951) e Friedmann
l’avevano analizzato e criticato.
Il libro I frantumi ricomposti ebbe un significativo impatto in Italia
sulla progettazione dell’organizzazione e del lavoro e sulle relazioni
industriali perché mostrava che, in un mutato e più turbolento ambiente
economico e sociale, quel modello in parte si poteva e si doveva superare,
ricomponendo ruoli lavorativi in modo da renderli responsabili di ottenere
risultati e di gestire le relazioni e creando agilità nelle grandi organizzazioni
attraverso unità organizzative autoregolate che funzionassero come piccole
imprese e piccole società. Le nuove tecnologie e la accresciuta
scolarizzazione della forza lavoro creavano inoltre possibilità di
qualificazione della manodopera che prima non c’erano. Forme di
partecipazione dei lavoratori e delle loro rappresentanze erano ora possibili,
come si stavano sviluppando in Germania e in Scandinavia.
Il libro di Butera - frutto della sua esperienza di accompagnamento alla
progettazione delle isole dell’Olivetti che riassumeremo nel prossimo
paragrafo e di sei mesi di ricerca ad Harvard e MIT conclusa con un lungo
viaggio in America Coast to Coast - mostrava non solo che le scienze
sociali e manageriali americane stavano elaborando nuove idee, ma che
grandi imprese americane come la Texas Instruments, l’AT&T, la P&G, la
TRW e altre stavano concretamente ridisegnando le loro macro e
microstrutture, le loro organizzazioni del lavoro, i loro modelli
professionali, e i loro programmi di formazione, in funzione non di scelte
ideologiche, ma come conseguenza del passaggio dall’economia di scala
all’economia della flessibilità. Il modello taylor-fordista quindi non si
umanizzava, ma si trasformava per ragioni strutturali.
1.3.2. Il declino del taylorismo in Europa e in Italia: le esperienze delle
isole di montaggio
Nel corso degli anni ‘70 anche in Europa avevano avuto luogo alcune
esperienze di riorganizzazione del sistema di lavoro di stabilimenti di
produzione. Le esperienze più note furono quelle scandinave, associate o
meno al progetto di “democrazia industriale”: i progetti di Hunsfos, della
13
Norske Hidro, della Volvo di Kalmar. In Italia, nel 1969 vennero realizzate
le isole di montaggio della Olivetti (UMI, Unità di Montaggio Integrate).
La Olivetti, prima tra le maggiori imprese italiane, alla fine negli anni
’60 attua una profonda trasformazione dell’organizzazione del lavoro di
fabbrica in concomitanza con il passaggio dalle macchine per ufficio
meccaniche a quelle elettroniche. Le unità di montaggio integrate (UMI) o
isole di produzione erano piccole unità produttive formate da 15-20
lavoratori responsabili della qualità e del collaudo di un prodotto o di una
sua parte: non più un lavoro a catena fatto di operazioni semplici, della
durata di pochi secondi, ma un lavoro a senso compiuto e ricomposto in
ruoli che richiedono competenza e responsabilità, svolto in gruppi
relativamente autoregolati.
In questo percorso di Change Management Strutturale fu riqualificato il
lavoro di operai, tecnici e capi. Ciò fu fatto dalla Olivetti attivando, con
rara prontezza e competenza, un diffuso processo di partecipazione
all’innovazione tecnico-organizzativa, valorizzando le proprie “eredità
dinamiche” ossia quello scrigno di competenze tecniche, organizzative e
morali accumulate negli anni e proiettandole verso il futuro.
Questa soluzione infatti fu preparata da studi, progetti, idealità di una
classe di dirigenti, tecnici, operai che avevano assorbito la lezione di
Adriano Olivetti e che condividevano l’aspirazione a ricomporre e
valorizzare il lavoro umano in frantumi entro un’azienda efficiente e
moderna. Ma questa aspirazione si trasformò in progetto solo in virtù della
capacità di interpretare correttamente due fattori strutturali emergenti. Il
primo fu un nuovo contesto industriale legato al passaggio dalla meccanica
all’elettronica nei prodotti per ufficio che imponevano prodotti modulari,
frequenti cambiamenti di modelli, necessità di anticipazione sul mercato,
continui cambiamenti nei volumi: a questo cambiamento del
prodotto/mercato si rispose con inedite soluzioni organizzative basate su
criteri economici allora non convenzionali come qualità, flessibilità, time to
market, riduzione del lavoro indiretto e altro. Il secondo fattore era dato da
un nuovo contesto sociale e politico turbolento dell’Italia del ’68, a cui
venne data una risposta con soluzioni inquadramentali e retributive inedite
nella tradizione della fabbrica tayloristica (riqualificazione e premio UMI)
attraverso la formazione di decine di migliaia di operai. Il tutto fu condotto
con una gestione reciprocamente rispettosa delle relazioni industriali basata
su una sostanziale convergenza sugli obiettivi di fondo, ossia la
14
sopravvivenza e il successo economico dell’impresa e il miglioramento
della qualità della vita di lavoro.
1.3.3. L’emergere di nuove forme di organizzazione del lavoro
A differenza del Giappone, della Scandinavia, della Germania però
non nasce, in Italia un programma nazionale di riorganizzazione e un nuovo
assetto delle relazioni industriali: non la rivoluzione della qualità di Toyota
e JUSE in Giappone, non l’Industrial Democracy scandinava, non la
codeterminazione alla tedesca. Quest’ultima in particolare viene aborrita
dai sindacati e dalla Confindustria e l’idea di un “nuovo modo condiviso di
fare l’automobile” crolla anche con il rinforzo del piombo delle Brigate
Rosse, all’attacco degli innovatori della produzione3.
Ma malgrado ciò, a partire dagli anni ‘70, si sviluppano in Italia a
macchia di leopardo forme di organizzazione e di lavoro più o meno in
linea con i paradigmi individuati da “I frantumi ricomposti” e dalla
esperienza dell’Olivetti: in siderurgia, nella chimica, in alcune aziende
metalmeccaniche, nel settore del legno arredo e altre produzioni a lotti.
Sull’organizzazione e il lavoro cristallizzati in rigidi organigrammi e
mansioni, in molti casi prendono il sopravvento i processi; prendono il
comando le prestazioni (quantità, qualità, costi, flessibilità, innovazione);
ciò che modella le organizzazioni e il lavoro è la natura dei processi
(incertezza, grado di indeterminatezza, valore prodotto, etc.) e non
viceversa. Si afferma un principio diverso da quelli dell’organizzazione
classica: “prima si vede cosa c’è da fare e come farlo e poi si fanno le
strutture di coordinamento, le squadre operative e ci si distribuisce il
lavoro”.
Si sviluppano – in molti casi nella produzione e nei servizi – unità di
processo di concezione nuova chiamate process centred organisation, ossia
unità centrate sui processi come group technology, isole di produzione,
CHIM (Computer Human Integrated Manufacturing Units), UTE (Unità
3
Al “modo nuovo di fare l’automobile etc.” credevano fra l’altro Massaccesi dell’IRI,
Trentin della Fiom, Manghi della FIM, Bono della Fiat, Castellano dell’Ansaldo. I primi tre
furono fermati dalla Confindustria e dai sindacati confederali, Bono morì giovane, Carlo
Castellano venne ferito da una banda delle Brigate Rosse, che dopo poco assassinarono
Guido Rossa.
15
Tecnologiche Elementari) e molte altre. Una grande varietà di team va a
costituire la spina dorsale di organizzazioni di servizio (team face-to-face e
team remoti). Nell’industria e nei servizi divengono sempre più importanti
le strutture per il governo e l’innovazione dei processi: process owner, team
di progetto, team per il miglioramento continuo, team di qualità e altri.
Nella ricerca, nel lavoro artistico, nell’ingegneria, si diffondono task force,
excellence team, extreme teams, che si costituiscono e si dissolvono in
funzione dell’avanzamento del lavoro e del processo innovativo.
Si moltiplicano forme non-gerarchiche di strutture organizzative e si
modifica la tradizionale configurazione degli organigrammi e le modalità di
esercizio della leadership e del coordinamento/controllo: appaiono
organizzazioni snelle, organizzazioni piatte, organizzazioni con leadership
multiple, organizzazioni a matrice, che tendono a semplificare e ridurre il
carattere gerarchico e verticale delle burocrazie.
In quegl’anni, un gran numero di organizzazioni evolve da orologi a
organismi, da castelli a reti, per adottare alcune metafore (Butera, 1984,
1991).
Quasi tutte le forme organizzative citate hanno in comune quattro
dimensioni principali, che Butera (2009) ha identificato come il modello
4C: 1) processi di cooperazione in qualche misura autoregolata ma
condivisa fra management e persone; 2) modalità di condivisione delle
conoscenze fra le persone e fra esse e i sistemi tecnologici; 3) crescente
capacità di comunicazione di dati, fatti, significati all’interno e all’esterno
dell’organizzazione; 4) sviluppo di comunità umane interne
all’organizzazione che creano senso di identità, condivisione di valori e di
scopi, in una parola organizzazioni che non escludano, ma includano
piccole società.
Gran parte di queste forme organizzative sono state generate
pragmaticamente dai manager alla ricerca di efficacia, flessibilità e
innovazione imposta dalla emergente economy of scope. In alcuni casi esse
sono state anche progettate e sviluppate con processi di progettazione
organizzativa e di change management attivati in cooperazione fra manager
e consulenti di organizzazione, adottando metodologie rigorose.
16
1.3.4. Il taylorismo proteico
Il taylorismo non muore: come “il cervello del serpente” che rimane
nell’encefalo delle specie evolute, così le modalità di analizzare
minutamente e di prescrivere i compiti operativi di lavoro rimangono una
eredità presente in tutte le forme di lavoro più evolute. I compiti semplici e
ripetitivi quando non sono assorbiti dall’automazione divengono materia di
skill based o rule based behavior (automatismi o comportamenti su regole):
ma la totale scomparsa nel lavoro operaio del knowledge based behavior
(Rasmussen) tipico del taylor fordismo si attenua o scompare nelle citate
forme di lavoro che emersero alla fine degli anni 70. Ma la divisione del
lavoro fra chi pensa e chi non deve pensare cessa di essere una delle due
dimensioni fondative del modo di produzione come lo era stato nel taylor
fordismo.
Tuttavia taylor-fordismo come Proteo in alcuni suoi tratti riappare
apparentemente sotto nuove forme. Agli inizi degli anni ‘90 nelle
produzioni di massa riprendeva vigore la vocazione razionalizzatrice: i
modelli toyotisti giapponesi vengono introdotti in USA e in Europa nelle
grandi aziende manifatturiere, talvolta con forme ancora più estreme di
razionalizzazione e parcellizzazione delle mansioni, ma con processi inediti
di autorità di lavoro (l’andon), di impegno nel problem solving, di
partecipazione dei lavoratori al miglioramento della qualità creando, come
pioneristicamente avvenuto nello stabilimento della Nummi-Toyota di
Freemont, una cultura industriale e un patto produttivo diverso da quello
del taylor-fordismo (Osono, Shimizu, Takeuchi, 2008).
La razionalizzazione dei servizi vide trasferire metodi e soluzioni di
stampo tayloristico nella ristorazione (McDonald Jobs), nelle banche
(valorizzazione degli sportelli), nei call center, nell’informatica, nei servizi
sanitari e altri: ma la natura relazionale dei servizi ha impedito la
configurazione macchinale delle organizzazioni e la frantumazione del
lavoro in operazioni prive di senso, richiedendo al contrario forme nuove di
sense making e di contratti sociali (Butera, 1996).
La ventata del business process reengineering d’altra parte prometteva
la totale reinvenzione dei macro e microprocessi: ma oltre a vistosi tagli di
organici non sopravisse alle promesse e non introdusse alcuno nuovo
modello.
Permangono in occidente e assai più in Asia lavori degradati e
degradanti per l’assenza di una minima qualità della vita di lavoro (fatica
17
fisica, fatica psicologica, assenza di professionalità richiesta, condizioni
salariali, mancanza di identità): ma non si commetta l’errore di usare il
termine tayloristico come sinonimo di lavoro degradato.
Come vedremo nel prossimo paragrafo 2.5. inoltre il “lavoro in
frantumi” della produzione però sarà sempre più trasferito in altri paesi a
più basso costo e a minori protezioni del lavoro come in Cina, nel Far East
e anche nei paesi europei dell’Est.
1.3.5. Perché quelle innovazioni non sono diventate un nuovo modello?
Più che questi fenomeni di conservazione o riedizione di forme
tayloristiche, sono stati il carattere sparpagliato e la mancata diffusione
delle innovazioni organizzative a far si che dalle innovazioni organizzative
post-tayloristche citate stentassero a emergere nuovi modelli generali di
impresa, di organizzazione e di lavoro, oggetto di condivisi modelli di
impresa e di management, di politiche industriali, di relazioni industriali, di
politiche educative e formative, come lo era stato il taylor fordismo. Con
l’unica eccezione forse dei paesi scandinavi che adottano forme di
industrial democracy e della Germania che utilizzò in modo eclettico tutte
le forme esistenti di razionalizzazione, di valorizzazione del lavoro (fra cui
i facharbeit e la professionalizzazione dei tecnici), di flessibilizzazione
dell’impresa, entro il modello della partecipazione dei lavoratori alla
gestione dell’impresa, la Mitbestimmung.
1.4 La destrutturazione dell’impresa accentrata: reti di organizzazioni e imprese rete
Fra gli anni ‘70 e gli anni ‘80 ha luogo anche una profonda
trasformazione della struttura delle imprese, che modifica l’assetto della
grande impresa italiana e fa emergere altre forme di imprese fra loro
collegate in rete.
Ha luogo un ampio decentramento delle attività dall’impresa centrale
verso fornitori e subfornitori costituiti da aziende terze. Questo processo
chiamato correntemente “decentramento produttivo” aveva acquisito
dimensioni senza precedenti in Italia così come in altri paesi, dando luogo
non solo all’aumento di transazioni commerciali, ma a nuove caratteristiche
e tipologie di organizzazione aziendale.
18
Questo ampio processo di decentramento, di outsourcing, coinvolge
anche imprese che concentrano la “gestione industriale strategica” in patria
e si avvalgono di società situate all’estero che fabbricano parti o addirittura
il prodotto finale: quello che si chiamerà offshoring introdotto dalle
multinazionali americane e imitate da altre grandi e medie imprese europee.
L’impresa centrale, “pivotale”, non si limita a dare all’esterno la
produzione ma in molti casi tende a integrare i propri fornitori con le
proprie strutture interne: non lo fa attraverso strumenti gerarchici, ma
attraverso sistemi operativi (sistemi di pianificazione, Management
Information Systems, sistemi di reporting, ecc.), costituendo strutture miste
ad hoc (team, forze lavoro, comitati, ecc.) adottando strumenti soft
(comunicazione e induction di cultura aziendale, filosofia manageriale e
brand). Si diffondono imprese industriali “no manufacturing” che hanno
una percentuale di personale impegnato nella produzione inferiore all’1 per
cento, come Benetton e Arquati in Italia, Nike e Schwinn Bicycle in USA.
Una distinta classe di situazioni comprende le “filiere” (Bellon, 1984),
le “costellazioni” (Lorenzoni, 1985) ossia sistemi di imprese fra loro
interconnesse in un ciclo produttivo o su un territorio. Tali imprese non
hanno generalmente fra loro legami finanziari e societari e solo raramente
sottoscrivono accordi. Tuttavia, dispongono di sistemi operativi
interconnessi molto potenti, come acquisti, logistica produttiva,
distribuzione e altro. In Italia, questo era nel 1988 il caso, ad esempio, della
produzione nel settore dell’arredamento della Brianza, nel calzaturiero a
Napoli, nell’agroalimentare in Emilia, ecc.
Fioriscono i “distretti imprenditoriali” che secondo la definizione di
Beccattini (1979), sono sistemi che operano in specifici centri urbani
(Prato, Biella, Carpi, Sassuolo, Lumezzane in Italia) e che godono di un
“ambiente imprenditoriale” favorevole. I distretti alla fine degli anni ‘80
coprono una sfera non marginale delle strutture economiche e sociali
dell’Italia. Esse appartengono per lo più a quella che Bagnasco (1977) ha
identificato come “Terza Italia”. Michael Porter (1998) riprende questi
concetti con l’idea di “clusters”.
Si diffondono sistemi aziendali costituiti da imprese giuridicamente
autonome ma collegate attraverso forti legami associativi e che
condividono servizi comuni come i Consorzi o le Associazioni di
Produzione e di Consumo (come le Cooperative di produzione).
Frattanto alcune grandi imprese “si fanno piccole” ossia costituiscono
unità organizzative interne relativamente autonome che si comportano
19
come “quasi-imprese”, sebbene inserite in un’unica struttura proprietaria ed
organizzativa.
Tranne che in alcuni settori dove la conoscenza è proprietaria come la
farmaceutica, le grandi imprese decentrano anche processi ad alto livello di
conoscenza, come ricerca e sviluppo, produzione specialistica, vendita
qualificata, servizi ausiliari, processi dislocati verso imprese,
organizzazioni, unità organizzative, professioni specializzate di diverse
dimensioni e natura, spesso collocate in diversi paesi, creando così
efficienza nelle operazioni e massimizzando la catena del valore.
Viene anche decentrato il “lavoro in frantumi” della produzione in altri
paesi a più basso costo e a minori protezioni del lavoro, in Cina, nel Far
East e anche nei paesi europei dell’est. Si prepara quello che sarà il modo di
produzione dell’azienda attualmente di maggior successo, la Apple:
concezione, brand, pianificazione nell’impresa centrale; applicazioni
affidate a fornitori specializzati; produzione in Cina o in Vietnam, in
fabbriche di fronte a cui “Tempi Moderni” impallidisce.
Tutto ciò implica l’inverso dell’integrazione verticale che aveva
caratterizzato la prima rivoluzione industriale. La grande corporations che
Chandler e Perrow avevano descritto cambiano sia strategia che struttura:
non sono più castelli autosufficienti ma imprese ad alto livello di
transazioni (Butera, 1990; Costa, 1996).
Dopo la frammentazione delle mansioni, il secondo pilastro del
modello classico di organizzazione la gerarchia, perde la sua centralità con
l’avanzamento delle reti di impresa basata su ben più complessi sistemi di
coordinamento, di cui la gerarchia diviene solo uno di essi, e non il più
importante.
1.5. La crescita dei lavoratori della conoscenza
Si modifica frattanto nei paesi occidentali a più alta industrializzazione
la composizione della forza lavoro. La nostra ricerca, attingendo ai dati delle statistiche internazionali di cinque Paesi occidentali (Francia, Italia, Regno Unito, Spagna e Stati Uniti) aveva rilevato che le figure definite ad alta
qualificazione dopo il 1995 avevano fatto registrare una sorprendente crescita (Butera et al, 1997, 2008). Li avevamo chiamati, come Peter Drucker
(1989), knowledge workers, lavoratori della conoscenza.
20
Tabella 1 – Knowledge Workers sulla popolazione lavorativa complessiva
1995
2005
Italia
29%
41,49%
Regno Unito
34%
52,17%
Francia
38%
43,71%
USA
34%
38,65%
Spagna
23%
33,28%
-
48,19%
Germania
Fonte: Butera, Bagnara, Cesaria, Di Guardo (2008)
Abbiamo dati che confermano come in Francia e in Italia i lavoratori
della conoscenza continuano ad aumentare. Di Guardo nel 2011 aveva rilevato i seguenti valori per il 2008.
Tabella 2 – Knowledge Workers confronto dati 2000 e 2008
dati 2008
rispetto al 2000
Francia
46,09%
+3,94%
Italia
43,13%
+5,27%
Fonte: elaborazioni Di Guardo (2011)
Questi dati includono i soggetti laureati o diplomati che nelle organizzazioni o nelle libere professioni coprono le posizioni di manager; legislatori; dirigenti; imprenditori; professioni intellettuali, scientifiche di elevata
specializzazione e tutte le altre figure professionali nelle attività nelle quali
è richiesto un livello elevato di conoscenza e di esperienza in ambito scientifico, umanistico o artistico; technicians ossia le professioni tecniche che
richiedono conoscenze operative ed esperienza e che applicano, seguendo
protocolli definiti e predeterminati, conoscenze esistenti e consolidate.
Chi sono allora in sintesi i lavoratori della conoscenza? Sono quelli che
operano su processi immateriali per i quali la conoscenza è il principale
input e output di processi di lavoro, che impiegano diversi tipi di
conoscenza per svolgere il lavoro. Questi lavoratori utilizzano la loro
conoscenza professionale di vari tipi (ogni tipo di conoscenza, embrained
21
(ossia quella concettuale), embodied (ossia la conoscenza pratica);
encultured (ossia quella trasmessa dai valori) (Blackler, 1995).
Condividono la conoscenza fra le persone stesse, fra queste e
l’organizzazione e i sistemi informativi. Trasformano input conoscitivi
(dati, informazioni, immagini, concetti, segnali, simboli) in output di
conoscenza di maggior valore (soluzione di problemi, orientamento degli
eventi, dati e informazioni arricchite, innovazione e soprattutto servizi ai
clienti interni o esterni). Anche quando l’output di tali lavoratori è un
oggetto materiale (un artefatto artigiano o artistico, un dipinto o una statua,
un’opera musicale, una pietanza, etc.) esso assume il suo valore distintivo
in base alle conoscenze e alle abilità incorporate nell’oggetto. Anche
quando l’output è una relazione di servizio essa consiste in conoscenze
contestualizzate e personalizzate per fornire un servizio a una specifica
classe di utenti (per es. un consulto medico, un parere legale, una lezione,
un articolo giornalistico, etc.).
Anche chi cura una vigna, chi sorveglia un impianto siderurgico automatizzato, chi guida un autotreno, chi fabbrica un vaso, usa conoscenze
molto sofisticate, non solo conoscenze tacite, ma talvolta anche conoscenze
esperte. Questo 33% - 52% di posizioni di lavoratori della conoscenza è
quindi solo una parte di quelli che abbiamo rilevato nella nostra ricerca che,
rispetto agli altri, hanno la peculiarità di produrre output immateriali la cui
utilità, produttività, innovatività viene valutata solo da processi sociali ed
economici: output “astratti”. I lavoratori della conoscenza non producono
merci ma servizi basati sulla conoscenza.
I lavoratori della conoscenza sono diventati più numerosi degli operai
comuni e degli impiegati esecutivi messi insieme, superando la dimensione
della classe operaia.
22
2. All is melting into the air?: i fattori strutturali che hanno sgretolato il vecchio modo di produzione (ma che potrebbero sostenerne di nuovi)
2.1. Cambia tutto ma si guarda ad un mondo nuovo con categorie
vecchie
Insieme al superamento del modello produttivo di inizio secolo e lo
sviluppo di lavori e organizzazioni più qualificate e flessibili, a partire dagli
anni 2000 si registra però un senso di apparente decomposizione delle
organizzazioni come le avevamo conosciute e delle identità lavorative:
dopo la gerarchia e le mansioni, che cosa?
Altri fenomeni complicavano il quadro. La disarticolazione della
grande impresa che manteneva il controllo e i lavoratori qualificati al centro
e spostava le piccole imprese e il lavoro operativo in aree marginali o
all’estero. Iniziava lo sviluppo del web che illuse molti che gli atomi
sarebbero stati sostituiti dai bit e le comunicazioni avrebbero sostituito le
comunità (Negroponte, 1995). I nuovi mestieri e professioni apparivano
come un caleidoscopio di occupazioni di cui tutti perdevano il filo
conduttore. La crescita del lavoro autonomo di terza generazione, mentre
esaltava la professionalità dei lavoratori della conoscenza, dava luogo alla
crescita vertiginosa dei lavori precari entro un quadro di diminuzione
costante dell’occupazione. L’ampliamento dell’economia informale e
dell’economia criminale creava ricchezze e forme di organizzazione e di
lavoro sinistramente efficienti. La crisi fiscale e organizzativa delle
Pubbliche Amministrazioni non veniva adeguatamente fronteggiata da
riforme o da progetti di riorganizzazione.
La percezione di molti (che permane tuttora) allora fu, usando una
espressione di Marx, che All is melting into the air, ossia che ogni cosa si
stesse sciogliendo nell’aria. Si scioglieva nell’aria la fabbrica perché
dispersa nel territorio; si disperdeva nell’aria l’impresa che perdeva i suoi
confini; si vaporizzava il lavoro perché scompariva, cambiava si
remotizzava; si svuotavano le chiese e le sezioni di partito; i cinema si
spopolavano e così via.
In realtà, come all’inizio della rivoluzione industriale sembrarono
sciogliersi nell’aria le vecchie istituzioni economiche e sociali
precapitalistiche e non si comprese cosa stava nascendo al loro posto, anche
23
agli inizi degli anni 2000 non si comprendeva che stava per scomparire un
mondo noto e che stavano confusamente nascendo nuove forme di impresa,
di organizzazione, di sistemi pubblico privato e sopratutto nuove forme di
lavoro. Questa vista confusa, questo guardare le forme emergenti di
economia e società con le categorie di ieri permane tuttora ed è ancor più
aggravata dalla crisi. E quello che non viene compreso non può essere
gestito e meno che mai progettato.
Per questo politiche industriali, politiche attive del lavoro,
concertazione, accordi e altro fra governo, imprenditori, sindacati,
corporazioni professionali non trovarono metodologie nuove di relazionarsi
rispetto al periodo del taylor-fordismo, anche perché le organizzazioni e il
lavoro di cui gli attori sociali parlavano non erano a più quelli di una volta.
Guardiamo ora ad alcuni fattori che hanno decomposto il vecchio modo
di produzione che era fatto da comunità territorializzate, dalle
organizzazioni degli orologi e dei castelli, dal lavoro delle posizioni, delle
mansioni e del posto fisso. Nascono nuove strutture e sistemi che vanno
compresi e governati. I fattori di decomposizione del vecchio modo di
produzione e di sostegno alla nascita di uno nuovo sono la globalizzazione
e disarticolazione delle imprese, lo sviluppo dell’economia dei servizi, le
tecnologie digitali, la mutazione del mercato del lavoro.
2.2. Globalizzazione e competizione internazionale: l’impresa in
frantumi o la spinta a costruire modelli nuovi d impresa e di
lavoro?
Abbiamo visto che la turbolenza dei mercati ha condannato la
geometrica stabilità del modello taylor-fordista.
La globalizzazione, i grandi mutamenti geopolitici, l’esplodere della
questione ambientale e delle misure per ridurre il consumo energetico e le
emissioni, la profonda differenziazione sociale favoriscono la fine della
produzione di massa e lo sviluppo dell’economy of scope, rende superata la
grande impresa verticalizzata capace di “organizzare una nazione” come
quella grande corporation che offrì a tutti la scelta della Fort T “purché
fosse nera” e organizzò l’America, come scrisse Perrow (2005). Semmai
alcune multinazionali si candidano a organizing the world (Rampini).
Più che di ambiente turbolento occorre ora parlare di instabilità
permanente, economica, geopolitica, sociale.
24
Il mondo in realtà diviene sempre più g-locale come dice Bassetti
(2010): economia, cultura, comunicazioni delineano un mondo senza
confini e al tempo stesso si costituiscono o si rafforzano realtà locali
caratterizzate da flussi economici e culturali peculiari, con in Italia, il Nord,
Milano e altri.
Per questo la competizione internazionale su scala globale si è fatta più
severa non solo per le imprese italiane . Proprio per questo può e deve
sostenere il potenziamento dei territori e lo sviluppo di nuovi modelli di
organizzazione e di lavoro. Suzanne Berger (2006) del MIT si è chiesta
“come fanno le imprese per competere”. Michael Cusumano (2010) si è
chiesto “come è possibile tener duro” in questo contesto internazionale.
Berger, rileva che le 500 aziende più grandi del mondo primeggiano in
innovatività dell’offerta, qualità, miglioramento continuo, efficienza
gestione della supply chain, design, customer orientation,
internazionalizzazione, reputazione e qualità della vita di lavoro,
collocazione nella catena del valore che valorizza meglio la propria
competenza distintiva.
Cusumano da una indagine su grandi imprese leader dice, che in tale
contesto instabile, le aziende devono essere leader di piattaforma
(producendo i complementors, ossia i componenti di maggior valore nella
piattaforma); offrire servizi innovativi (manufacturing + services);
valorizzare capabilities interne (interactive strategy, change, operations);
partire dal mercato (pull); non competere sulle economia di scala con i
paesi emergenti (economy of scope); acquisire flessibilità strutturale
(strategic & operational flexibility).
In Italia si riducono di numero e di dimensioni le grandi imprese. In
Italia a fronte delle fusioni e dell’ulteriore sviluppo anche internazionale di
Eni, Enel, Finmeccanica, Fiat, Telecom Italia e altre, scompaiono o si
riducono grandi imprese storiche come Montedison, Italsider e altre.
L’impresa rete e le reti di imprese nel 1988 disponevano di una serie di
esempi di successo (Benetton, Arquati, SCM e i Distretti, le filiere, le
costellazioni) e apparivano come un possibile modello che sostituisse
l’impresa accentrata. Perfino la Fiat e la Finmeccanica restavano grandi
imprese avvalendosi ampliamente di sub-forniture a imprese rete. L’idea di
far convivere la capacità dell’impresa pivotale di generare profitti e
l’autonomia delle imprese fornitrici (noti della rete) in un processo win win
attraverso strategie innovative sia per se che per gli altri componenti della
rete (governance) in realtà venne verificata dagli studiosi in molti casi ex
25
post (Butera, 1990; Lorenzoni, 1985; Dioguardi, 2013), ma non diventò un
modello progettuale su cui orientare le politiche e la formazione del
management. Non si è fatta molta strada dalla “fumosa famosa, impresa
rete” espressione coniata da Charles Sabel nel Workshop Internazionale
dell’Istituto Irso a Camogli nel 1988.
Si diffonde un capitalismo molecolare delle microimprese in cui
impresa e famiglia si confondono e che rappresenta quote rilevante del PIL
italiano (Bonomi)
D’altro canto persisteva in Italia il nanismo delle piccole imprese che
non innovano e non investono, che inoltre vengono falcidiate dalla crisi
iniziata nel 2007. Tuttavia dal 2010 i giornali sono pieni di storie di “imprese che ce la fanno” e anche fra le piccole ve ne sono che presentano sorprendenti modalità per sopravvivere e crescere, ma possono sembrare episodi di caparbia e coraggiosa imprenditoria, difficilmente non riproducibili.
I contratti di rete fra le piccole imprese si moltiplicano e hanno finora coinvolto oltre 1800 imprese ma sono una goccia nel mare delle imprese che
operano di fatto in rete. Nell’agenda delle politiche pubbliche viene dato
grande rilievo e qualche finanziamento alle start up che stanno crescendo
soprattutto a Milano e nel Nord Italia ma come è ovvio poche di esse sopravvivono senza una inserzione di imprenditorialità: per giovani innovativi che operano sulle frontiere delle tecnologie informatiche ( app), o entro
le nuove tecnologie 3D o anche nelle aree tradizionali, il problema non è
farle nascere ma farle sviluppare, farle diventare up start .
Le medie imprese italiane migliori sono state il fenomeno positivo
negli anni 2000 nascendo piccole ma crescendo e internazionalizzandosi:
dai casi noti di imprese divenute grandi come Luxottica, Armani,
Technogym, Geox, Illy, Alessi, Mapei, ai casi meno noti di imprese di alta
tecnologia come IMA, Datalogic fino a quelli delle macchine tessili, delle
biotecnologie, dell’aerospazio, e tante altre. Ma a molti sono sembrate “perle isolate” risultato della genialità irripetibile degli imprenditori.
Molti lamentano la fine dell’Italia industriale, ma l’Italia rimane fra i
primi grandi paesi industriali dell’Europa e del mondo. In realtà si stanno
sviluppando modelli industriali diversi.
Invece proprio per la globalizzazione e per l’intensificarsi della
competizione internazionale oltre che per la perdurante crisi, emerge un
paradigma nuovo di imprese italiane: l’Italian Way of Doing Industry
(Butera e De Michelis, 2011). Esse sono imprese rete che fanno
un’innovazione diversa, cambiano in sintonia con i loro clienti, trasformano
26
i mercati in cui operano, producono meno a prezzi più alti facendo cose
sempre nuove e fatte ad arte, sono radicate nel territorio, sono anche nodi di
reti molto ampie, hanno come mercato il mondo. Molte di loro sono
“imprese integrali”, come vedremo più avanti. Le ragioni del loro successo
e il loro paradigma non sono ben noti e quindi il loro esempio si diffonde
meno di quanto potrebbe. Spesso esse stesse non hanno coscienza di sé. Di
conseguenza, imprese di questo tipo sono ancora poche e il tutto venne
aggravato dalla drammatica crisi economica del 2008.
La severità della competizione internazionale induce ora tutte le
imprese italiane che vogliono sopravvivere a:
• fare strategie internazionali sviluppando contemporaneamente le strutture
con cui realizzarle
• aprire e gestire nuovi mercati che richiedono competenze specifiche per
lo più nuove per le imprese italiane
• sviluppare e mantenere alleanze con partner e talvolta con competitori per
l’innovazione di prodotti/servizi, processi, mercati, organizzazione
• incorporare
nei
prodotti/servizi
valore
aggiunto
derivante
dall’immateriale come marchio, immagine, design, servizi post vendita.
Ciò implica anche una nuova visione della relazione fra le imprese e
territori, non meri contenitori di attività produttive, ma strutture di
produzione di servizi esse stesse (Perulli, 1992) e di beni comuni per la
competitività (Pichierri, 1999).
2.3. L’economia dei servizi: produrre servizi per il cliente finale e
per le organizzazioni interne alle imprese
Il secondo fattore strutturale che ha provocato la crisi del modello
taylor-fordista e che può oggi invece sostenere nuove forme di organizzazione e lavoro è lo sviluppo del terziario. Oltre il 75% del PIL è costituto da
attività nel settore dei servizi: finanza, istruzione, sanità, trasporti, turismo,
informatica, consulenza, etc. Questo ha creato una straordinaria crescita sia
di servizi offerti all’utente finale sia di servizi offerti all’interno della stessa
unità organizzativa (enti, imprese, etc.).
Momigliano e Siniscalco (1980) pioneristicamente avevano illustrato
l’espansione del settore terziario come il settore economico dominante e
avevano mostrato anche, oltre ai crescenti numeri del settore terziario per il
mercato prima citato, che il terziario interno alle attività industriali e
27
agricole è una realtà in grande sviluppo (servizi all’impresa interni, come
ricerca e sviluppo, planning, studi economici, marketing, HR, logistica,
etc.). Inoltre a ciò si aggiunga che i servizi sono sempre più parte della
stessa offerta manifatturiera: servizi venduti insieme ai prodotti (contratti di
manutenzione), prodotti venduti attraverso i servizi (auto vendute come
flotte, leasing, pay per use), prodotti venduti da aziende di servizi (banche,
assicurazioni) danno luogo alla “servitizzazione” dei prodotti (Merli, 2010).
La conoscenza in una parola non rimane chiusa dentro i processi
elaborativi di esperti specialisti ma si fa servizio per essere usabile dalle
persone e dalle organizzazioni. Nei servizi la persona/cliente può ottenere il
servizio da una interfaccia tecnologica, ma il più delle volte il servizio è
offerto da un’altra persona.
Fra fornitore (professionista del servizio) e cliente, in sintesi, non è
interposto niente: il servizio non è - come il prodotto – un intermediario
della relazione e della comunicazione, ma è la relazione e la comunicazione
stessa. La relazione è un evento strumentale ed espressivo al tempo stesso.
Professionisti dei servizi e clienti (persone sul mercato o all’interno delle
organizzazioni) intrattengono una relazione in cui si intrecciano “agire
performativo” e “agire comunicativo”, secondo la terminologia di
Habermas (1969). Il servizio ossia incorpora processi cognitivi,
comunicativi, affettivi, simbolici.
2.4. Tecnologie digitali, comunicazioni e comunità: il mito del villaggio globale
“Internet cambierà il mondo?” ci si chiedeva alla fine degli anni 90. Si
è stato così. Ma come e perché?
La comunicazione sociale attraverso il prorompente fenomeno di
internet sembrava dovesse soppiantare le comunità reali, rafforzando così
l’immagine di imminente decomposizione del reale. Per gli ottimisti
(Negroponte, 1995) tutto ciò sembrava fonte di libertà e liberazione perché
la comunicazione globale consentita dalle tecnologie ICT avrebbe creato le
condizioni per una pluralità di appartenenze a molteplici comunità. Ogni
individuo sarebbe divenuto "cittadino" del mondo, almeno del mondo
virtuale, del "villaggio globale". L’individuo sarebbe assomigliato a una
specie di Ulisse che naviga fra diverse comunità, ma senza vincoli di tempo
e spazio e senza fare esperienza fisica nè della dolce comunità di Nausicaa
28
nè della brutale comunità di Polifemo. La persona potrebbe essere egoista e
partecipativo al tempo stesso, potendo sempre scegliere di "scomparire" da
una comunità attraverso uno zapping senza più alcun limite ).
Per i pessimisti invece tutto ciò veniva vissuto come una delle cause
della dissoluzione delle strutture, dello sviluppo di una società liquida
(Bauman, 2006), come fonte di ansietà per la perdita di controllo
economico e sociale, come una sorta “erosion of character”(Sennet, 2008).
Le tecnologie hanno spesso contribuito a cambiare la società, le città,
l’organizzazione, il lavoro, la cultura. Non è ancora chiarito se sono state la
causa, il motorino di avviamento oppure sono state solo una componente
del cambiamento. Se pensiamo alle ferrovie, all’energia elettrica, al
telefono, ai grattacieli, all’automobile, al computer portatile, ci vengono
subito in mente le grandi e visibili differenze fra come era il mondo prima e
come appariva dopo la diffusione di massa degli artefatti appartenenti a
quei domini tecnologici. I termini adoperati nella letteratura scientifica e
nel linguaggio ordinario ne evocano spesso il carattere di “rottura” e di
pervasività: le “villes lumière” illuminate dall’energia elettrica, l’America
dei grattacieli, l’economia dell’automazione industriale, la civiltà
dell’automobile e tante altre. E’ giunto ora il tempo della società dell’ICT
(reti di Information and Communication Tecnology) più specificamente
della società di internet, soprattutto ora che la diffusione della larga banda
rende molto veloci ogni operazione.
Ci sono due pericoli nella enfatizzazione degli effetti delle tecnologie:
determinismo tecnologico e delega tecnologica.
Determinismo tecnologico e delega tecnologica sono basate su immagini distorte delle così dette rivoluzioni tecnologiche. Le rivoluzioni tecnologiche non sono mai state associate ad una singola invenzione per quanto
innovativa (ossia la scoperta di una nuova idea) ma ad una innovazione (ossia il processo lungo di applicazione di una nuova idea per creare un nuovo
processo o prodotto). Il modo cambia non solo perché c’è internet, ma perché cambiano le organizzazioni, il lavoro, la cultura. L’invenzione è una
sorpresa. L’innovazione, invece, ha un cuore antico, un grande orecchio e
l’occhio al futuro.
In realtà lo sviluppo delle tecnologie digitali e del web 2.0 è il principale driver dello sviluppo di nuove forme di organizzazione di lavoro. Esso
consente, in molti casi, di non aver più bisogno dello stesso numero di stabilimenti, uffici fisici: si sviluppano shared offices, fab labs e altre soluzioni che consentono di lavorare da casa appoggiandosi a strutture minimali.
29
Internet ha potenziato, in un modo che non ha precedenti, lo spazio delle comunicazioni a distanza, rendendo possibile tendenzialmente il global
reach, ossia la possibilità di raggiungere chiunque, in ogni luogo e in ogni
momento (anyone, anywhere, anytime reach). Internet consente di allargare
lo spazio della cooperazione, ossia di lavorare insieme a distanza sullo stesso processo di fabbricazione di servizio, di Ricerca e Sviluppo, attivando
sistemi di intelligenza distribuita fra uomini e sistemi tecnologici e cooperazione via web e telefono. Internet allarga la capacità di gestione della conoscenza, poiché consente la generazione, il trasferimento, la condivisione
di conoscenze fra soggetti remoti, fra questi e gli sterminati data base cui si
rende possibile l’accesso. Il web apre uno spazio delle transazioni a distanza con le applicazioni di e-commerce e di e-business e crea un vero e proprio electronic marketplace, un’area degli scambi via web che si affianca e
potenzia il mercato tradizionale, come è già avvenuto in modo massiccio
nel modo dei libri, della musica riprodotta, del software, del turismo e in
molti altri. Il rapporto fra tecnologia, organizzazione e consumo non riguarda più il rapporto fra centri di calcolo e organizzazione, ma è collocata
addosso a miliardi di individui, poiché sempre di più i dispositivi di ICT
sono mobili (smartphone, tablet e prodotti similari) esaltando la dimensione di raggiungibilità dell’utente anche quando è in moto. Con questo
Internet fa confluire nei processi di produzione e di scambio i produttori e i
consumatori, che si rendono parte attiva nello sviluppare processi e contenuti, produsers (Bruns, 2007).
Ottimisti e pessimisti convergevano sull’idea che davvero le comunicazioni soppiantassero le comunità. Ma malgrado le apparenze non vi è stata
dissoluzione delle strutture organizzative ma bensì lo sviluppo di nuove
strutture organizzative e di nuove comunità, di nuove forme di lavoro, integrate sia su una dimensione globale (processi planetari di commercio elettronico, e-procurement, logistica integrata, gestione di business e imprese
multinazionali, ecc.) sia sullo sviluppo locale (processi di cooperazione e
innovazione locali ed economia e società locali, comunità culturali, sistemi
professionali, gruppi): reti virtuali di organizzazioni reali (Butera, 2003).
2.5 Il lavoro senza rappresentazione e senza governo
A metà del 2014, lo spaventoso livello di disoccupazione e la forte
riduzione della popolazione occupata sono diventate il principale incubo e
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il tema centrale delle politiche economiche e sociali dell’Europa e in
particolare dell’Italia.
Causa prossima di tale crisi senza precedenti dell’occupazione è la
crisi economica mondiale, ma vi sono cause remote ancora più rilevanti. La
prima è la concorrenza dei paesi emergenti in cui il costo del lavoro è di
gran lunga più basso. La seconda è il profondo cambiamento dei mercati e
dei sistemi d’impresa, che spazza via intere categorie di lavori e di
lavoratori. La terza è lo sviluppo dell’economia criminale e del lavoro nero.
La quarta, e forse la più importante perché ha carattere strutturale, che
opera da oltre un cinquantennio e che ha avuto recentemente una
straordinaria accelerazione - è la disoccupazione tecnologica, in cui la race
against the machine - la gara degli uomini contro le macchine, il lavoro che
l’avanzamento dell’automazione lascia agli uomini, per alcuni autori
(Brynjolfsson e Mcafee, 2011) sta per essere definitivamente persa perché
le tecnologie sono in grado di sostituire quasi tutti i compiti umani.
Il lavoro oltre a diminuire cambia di natura. Il lavoro che rimane non è
al sicuro: instabilità, flessibilità senza garanzie,stress, erosion of character
colpiscono il lavoro autonomo e anche i lavori stabili ( Sennet, 1999).
I ruoli, le professioni e i mestieri emergenti o in via di trasformazione
non hanno spesso nomi o descrizioni plausibili. Le istituzioni di
regolazione del lavoro non si sono accorte fino in fondo della loro esplosiva
crescita: le scuole, il mercato del lavoro, l’organizzazione del lavoro sono
ancora largamente basati sui modelli del primo industrialismo o del libero
professionismo corporativo.
Le classificazioni del codice civile e dei contratti sembrano non tenere
più. La varietà di forme di gestione del lavoro si amplia enormemente
(lavoro dipendente a tempo indeterminato e a tempo determinato, lavoro a
progetto, prestazioni occasionali, partita iva, studi associati, società
semplice, etc.), nelle forme di stabilità dell’occupazione (dal posto fisso al
precariato), nei livelli di reddito (dai super rich ai knowledge workers sotto
la soglia della povertà), negli schemi di orari (da 8hx5gg all’always on),
nella configurazione dei luoghi di lavoro (una grande varietà di uffici/non
uffici), nelle situazioni assicurativa e previdenziale etc.
Non stupisce quindi che le identità al lavoro divengano labili. Manca
una modalità condivisa di rappresentare i lavori e a queste rappresentazioni
del lavoro di far seguire modalità di formazione e sviluppo e forme di
verifica delle performances. Mancano classificazioni condivise di attività
che abbiano la stessa forza sociale ed economica che nel passato avevano la
31
differenziazione, per esempio nel lavoro dipendente, in dirigenti, quadri,
impiegati, operai, tranne che per ragioni contrattuali.
Malgrado le loro differenziazioni i loro elementi comuni (come era
avvenuto per gli operai) sono numerosi: ma non sono condivisi. I nuovi
mestieri e professioni sono un oggetto misterioso. Non vi è consenso su chi
sono, quanti sono, come si denominano. Ma su tutto ciò fra i policy makers
regna la massima incertezza e confusione: il mondo dei mestieri e delle
professioni è in frantumi.
Il lavoro necessario per reggere la competizione internazionale, per
sviluppare un’economia della terziarizzazione, per convivere e avvalersi
delle tecnologie ICT, è certamente il lavoro della conoscenza: ma non
quello isolato delle “teste d’uovo” o quello mortificato della precarietà,
bensì quello che fa parte di comunità fra lavoratori che impiegano ogni tipo
di conoscenza che attraversa i tradizionali settori: per esempio la
meccatronica, il sistema moda, la sanità, l’informatica, l’agroalimentare, i
beni culturali, etc. Tali comunità che cooperano e si scambiano conoscenza
sono già diffuse e sono composte da lavori intellettuali o manuali,
professionali o artigiani, di diverso livello di competenze e di compensi ma
tutti caratterizzati dall’orientamento a fornire un servizio al cliente finale o
alle unità organizzative interne, operando attraverso reti di persone e di
organizzazioni.
Un esempio fra i tanti è quello dei professionisti della meccatronica che
sono parte essenziale di una piattaforma produttiva più strategica e
competitiva del manufacturig italiano: tali professionisti operano sia
all’interno di organizzazioni produttive (aziende grandi e piccole, start up )
sia nelle università e nei centri di ricerche sia nelle libere professioni non
tradizionali come partite iva. Tutte forniscono soluzioni/servizi sia
all’utente finale che alle strutture intermedie (unità organizzative aziendali,
laboratori di ricerca, università, etc). Emergono anche sempre più
frequentemente casi di “artigiani digitali” che producono direttamente un
artefatto fisico ottenuto attraverso le nuove tecnologie di fabbricazione
addittiva 3D realizzato nel proprio laboratorio o in un fab lab in cui si
condividono attrezzature fisiche e software sofisticate: anche essi loro
producono conoscenze (incorporate nel prodotto) attraverso conoscenze..
Tutti questi lavori in ogni caso sono componenti di reti, cluster, distretti,
comunità di pratiche, reti di persone anche ad estensione planetaria. La
piattaforma meccatronica quindi è popolata da mansioni, ruoli, mestieri,
professioni che si sviluppano qualitativamente e quantitativamente con
32
grande dinamismo ma che spesso non hanno nomi nè sistemi di
regolazione. Eppure esse sono una importante fonte di nuova occupazione e
l’acquisizione di risorse umane altamente specializzate e il potenziamento e
la ricerca di fornitori specializzati rappresentano due elementi cruciali di
competitività delle aziende che operano sulla piattaforma meccatronica.
3. Possibili percorsi di ricomposizione
Quattro, come anticipato, sono i possibili principali percorsi di
ricomposizione dell’impresa dell’organizzazione e del lavoro, quattro
paradigmi chiave su cui lavoriamo da anni, quattro driver per la costruzione
di nuovi modelli di organizzazione e di lavoro:
1. l’impresa integrale ossia quella che armonizza obiettivi economici e
obiettivi sociali, come fu la Olivetti di Adriano Olivetti e come oggi
sono Zambon, Cucinelli, Loccioni e moltissime altre
2. le imprese rete e le reti di imprese governate ossia la progettazione e
sviluppo di reti di imprese che potenzino la differenziazione produttiva e
valorizzino le piccole e medie imprese oltre che le grandi imprese, come
Boeing, Benetton, ST Microelectronics ieri e oggi la SCM, la IMA,
Eataly e molte altre. In rete sono le medie , piccole e piccolissime
imprese che sopravvivono e si sviluppano se operano operano su catene
del valore e processi robusti, se sono vitali e innovative, se valorizzano
tutte le forme di interconnessioni.
3. la riorganizzazione delle singole Pubbliche Amministrazioni e il nuovo
sviluppo locale ossia un percorso programmato di reinventing
governement di singole amministrazioni centrali e locali che sviluppi
servizi di qualità a basso costo in una forte relazione con i territori e le
imprese, come il comune di Reggio Emilia, il Tribunale di Monza, i
nuovi Poli museali e un gran numero di altri; le professioni di servizio
nelle organizzazioni ossia lo sviluppo di nuove professioni nelle
imprese, nelle Pubbliche amministrazioni e nelle unità di lavoro
autonomo. Esse sviluppano processi di servizio basati sulla conoscenza
che danno elevati contributi nei settori trainanti dell’economia,
rafforzano le identità professionali delle persone, assicurano una buona
Qualità della Vita di Lavoro, come i knowledge owner dell’ENI
33
4. le professioni di servizio dell’INPS, le professioni sociali, gli “artigiani
digitali” dei Fab Lab, i professionisti della meccatronica della
piattaforma dell’Emilia Romagna e un gran numero di altri.
Sono quattro linee di progettazione che riconoscono che dentro il
dinamismo e la mutevolezza delle nuove forme di impresa consentono di
superare l’angoscia che all is melting into the air. Esse possono descrivere,
interpretare, progettare nuove forme di strutture flessibili capaci di
assorbire la complessità e la variabilità del nuovo contesto economico e
sociale e di assicurare una buona qualità della vita di lavoro. Sono quattro
cardini di un nuovo modo di produzione: economia e società, modelli di
impresa, rapporto pubblico privato, modelli di lavoro. E soprattutto
possono rappresentare paradigmi che consentano l’esercizio di scelte e
progetti da parte dei soggetti collettivi istituzionali, imprenditoriali, sociali,
che riprendano a condividere “ a che gioco giochiamo.
3.1. Imprese integrali
Un nuovo modo di produzione non può che partire dall’impresa.
L’intrinseco contrasto fra profitto e bene sociale, in un percorso di
ridefinizione del modo di produzione non può non essere risolto in prima
battuta dalla natura e dal comportamento dell’impresa stessa.
Su questa linea di riflessione si sono mossi approcci tesi a inglobare e
a superare la nozione di responsabilità sociale dell’impresa tra gli altri in
Italia Mauro Ceruti e Tiziano Treu, Mauro Magatti, Marco Vitale,
Giuseppe Berta, Nicola Costantino e in USA J.K Galbraith e recentemente
Michael Porter (2011) in USA. Una visione ispirata e lungimirante è quella
di Gianfranco Dioguardi con la sua idea di “impresa encyclopedie”
(Dioguardi, 2014).
Avevo proposto e ripropongo la nozione di “impresa integrale”
(Butera, 2010) che ho sviluppato apprendendola da casi eccellenti italiani e
internazionali come la Olivetti di Adriano Olivetti: è una “impresa
responsabile” che persegue obiettivi economici ma anche che rispetta
l’ambiente, produce servizi e prodotti utili, promuove il benessere del
territorio, è attenta alla qualità della vita di lavoro, ha condotte eticamente
integre, etc. E fa ciò non solo per la necessaria compliance a norme e
regolamenti ma sulla spinta della propria modalità di fare strategia e
struttura.
34
Il concetto di impresa integrale va oltre quello di “responsabilità
sociale” e di “impresa responsabile”, “impresa illuminata”, nozioni che
hanno avuto grandi meriti ma sono state criticate per le loro connotazioni
moralistiche e idealistiche o per la loro sostenibilità economica.
Parliamo di una impresa “normale”. Essa non è un modello ma un
percorso energico e faticoso per definire valori, strategie, per “render conto”. E soprattutto per realizzare risultati e mettere in pratica quei valori,
ogni giorno e per tutti.
L’impresa integrale per chi scrive è il risultato del rafforzamento del
duplice legame di reciprocità fra impresa e società. Essa è un’istituzione
economica che non solo importa dal contesto socio-economico valori,
norme e regole sociali, ma che vi esporta anche valori, conoscenze,
cooperazione. Questa reciprocità avviene attraverso prodotti, servizi,
progetti, ma soprattutto attraverso le persone “vere”, cresciute e socializzate
nella e con l’impresa: manager, professional, tecnici, artigiani, semplici
lavoratori, e anche clienti e fornitori, cittadini di una società della
conoscenza. Essa è in qualche modo una istituzione.
Ciò che determina l’essere un’impresa integrale non sono solo le
qualità morali individuali o le caratteristiche valoriali e carismatiche
dell’imprenditore e del gruppo dirigente (sempre fondamentali), ma le reali
pratiche operative e di management dell’impresa.
L’impresa integrale ha alcune caratteristiche chiave:
1. fonda la sua identità su sviluppo, produzione e commercializzazione
di beni o servizi socialmente utili per i clienti e le comunità. Esclusi i
casi di prodotti ostensibilmente dannosi come la droga o le sigarette,
o i servizi basati sulla debolezza del cliente come l’usura e il “pizzo”,
In ogni società esiste una discussione su cosa è utile, superfluo o
dannoso: la definizione di prodotti “socialmente apprezzabili” è
naturalmente del tutto contingente ai valori, alla cultura,
all’economia di ogni specifica società
2. poiché tende ad essere fra le best in class nel suo settore o nel suo
mercato, è capace di difendersi dalle diseconomie esterne e di
attivare propositivamente economie esterne. Ossia, interviene
positivamente sul mondo esterno insieme alle istituzioni (pensiamo
al miglioramento dell’ambiente fisico, all’intervento positivo sui
processi di istruzione pubblica, alla reazione al “pizzo”, in sintonia
con le istituzioni)
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3. altro elemento chiave dell’apprezzabilità sociale è costituito dalla
eccellenza del processo di concezione, realizzazione e consegna del
prodotto e servizio: l’intensità della ricerca, l’impiego di tecnologie
avanzate, la qualità dell’organizzazione, l’impiego e la
valorizzazione delle competenze
4. è una organizzazione integrata ossia è internamente coerente e
strategicamente appropriata: sviluppa cioè un’efficace integrazione
di strategie, processi, organizzazione, ruoli, valori, leadership
5. è costituita da comunità che interagiscono, dialogano, lavorano,
confliggono, convergono, decidono, operano sul territorio e che oggi
si possono avvalere delle straordinarie potenzialità delle tecnologie
dell’Informazione e della Comunicazione per creare comunità
planetarie
6. accumula nel tempo un consistente “capitale sociale”: attrae
investimenti di investitori, fornitori e clienti, fertilizza comunità,
sistemi economici territoriali, Pubbliche Amministrazioni, altre
imprese
7. produce soprattutto persone, persone vere cresciute e socializzate
nella e con l’impresa: manager, professional, tecnici, artigiani,
semplici lavoratori, e anche clienti e fornitori. Product of work is
people (Herbst, 1976).
8. il suo governance system, la sua organizzazione interna, la sua
cultura di impresa, le relazioni stabili con le istituzioni e le
organizzazioni del territorio sono caratterizzati da impegni e
responsabilità, valori dichiarati e effettivamente praticati a tutti i
livelli, fra cui trasparenza, correttezza, collaborazione, fiducia,
passione, energie e altre: ciò ne determina l’identità
9. nell’impresa integrale operano soggetti che possono avere pregi e
difetti, eroismi e storture di ogni genere, ma in tutti i casi sono
stakeholder che svolgono con impegno le proprie funzioni
economico-sociali a cui l’impresa dà visibilità e importanza:
l’imprenditore che assicura l’equilibrio economico e fa fare nuove
cose; gli azionisti che apportano risorse economiche all’impresa
invece di esportare capitali nei paradisi fiscali; i dirigenti che
promuovono il cambiamento; i professional che innovano o
sostengono l’apprendimento degli altri; gli operai e gli impiegati che
realizzano i processi fondamentali che partecipano al miglioramento
36
continuo; i clienti che sono parte ineliminabile dell’impresa, e così
via
10. dispone di una vasta serie di solidi indicatori economici e finanziari
(redditività, ROI, ROE, etc.), di efficacia commerciale (customer
satisfaction, etc.) e di efficacia sociale (bilancio di sostenibilità,
inchieste nella comunità di riferimento, indagini di clima, analisi
della qualità della vita di lavoro, etc.)
3.2. L’impresa rete e le reti di imprese
Abbiamo visto che la riarticolazione delle imprese, l’outsourcing,
l’offshoring sono stati visti come un processo di decomposizione
dell’impresa con effetti perversi su molti stakeholders (le piccole imprese, i
lavoratori meno qualificati, etc.). Ma le reti di impresa e le imprese rete
possono produrre benefici per tutti gli stakeholders, a condizione che la rete
sia progettata, governata e gestita come “quasi impresa” integrale.
L’apparente “impresa in frantumi” si può rivelare in realtà una impresa di
concezione nuova, quando ha la capacità di fare strategia e di gestire una
struttura, con livelli di piena accountability.
Il sistema produttivo italiano è costituito prevalentemente da piccole e
piccolissime imprese. La crisi le sta falcidiando. Tengono quelle che hanno
un’offerta di mercato/prodotto distintiva che soddisfa in modo competitivo
bisogni di nicchia oppure che è idonea all’esportazione, che ha più
potenzialità di crescita dimensionale oppure che è in grado di mettersi in
rete con altre imprese più grandi o della stessa dimensione entro distretti,
cluster, filiere. E in tutti casi che sono capaci di sviluppare una governance
adeguata, di gestire in modo ottimale la propria “organizzazione reale”, di
operare entro le proprie reti (Butera, 2012).
Le startup di imprese nuove ad alto contenuto tecnologico o alta
innovazione della “business idea” attivate soprattutto da giovani - spesso
come spinoff di università e centri di ricerca - è un fenomeno crescente e
favorito da politiche industriali e iniziative imprenditoriali e formative.
Anche per queste vale quanto abbiamo detto prima: il loro successo non
dipenderà solo da quanto l’idea brillante o l’innovazione dell’offerta si
affermerà sul mercato, ma soprattutto da quanto esse diventeranno imprese
vere capaci di padroneggiare la gestione e l’innovazione a 360°, inclusa
ovviamente quella che riguarda l’organizzazione e il mercato.
37
In una parola le piccole imprese che sopravvivranno e cresceranno
saranno quelle capaci di operare entro reti di imprese.
Butera (1990) aveva definito reti di impresa naturali quel sistema di
riconoscibili e multiple connessioni e strutture entro cui operano nodi ad
alto livello di autoregolazione capaci di cooperare tra loro in vista di fini
comuni o di risultati condivisi. Aveva chiamato imprese rete governate
quelle in cui soggetti imprenditoriali individuali o collettivi, privati o
pubblici, provvedono in maniera intenzionale a progettare, gestire,
mantenere nel suo complesso un sistema di organizzazioni.
Io sostenevo che esse si possono progettare e gestire: se questo è vero
allora una parte della apparente “liquidità” del post chandlerismo e del post
taylor fordismo risulta l’effetto di non vedere una emergente realtà che
abbiamo davanti. Una economia e una società fatta di reti interorganizzative non è uguale a quella fatta prevalentemente di singole
imprese “castello”.
Gli elementi costitutivi dell’Impresa Rete e della Rete Organizzativa
che la rendono analizzabile e progettabile sono:
a) i processi (interfunzionali, interaziendali e interistituzionali) che
attraversano imprese e unità organizzative diverse
b) la valorizzazione che avviene attraverso una doppia catena del valore: il
valore economico e il valore sociale
c) “nodi” vitali, capaci cioè di sopravvivere e prosperare autonomamente;
“nodi produttivi” (imprese, unità organizzative, ruoli professionali) e
“nodi istituzionali” (enti pubblici, comuni, scuole, gruppi sociali) che
operano nella stessa “arena decisionale”
d) legami deboli e forti che connettono tali nodi (scambi economici,
procedure, informazioni, comunicazioni, relazioni sociali, rapporti di
potere, ecc.);
e) strutture multiple che devono essere fra loro coerenti e adatte alle
strategie e alle sfide (gerarchia, mercato, sistema informativo, sistema
telematico, sistema di knowledge management, strutture sociali, strutture
politiche, ecc.)
f) proprietà operative peculiari come i nuovi sistemi decisionali, di
regolazione dei conflitti, di rafforzamento dell’appartenenza alla rete,
ecc. Il più importante dei sistemi operativi è il sistema di governo
(governance system).
38
Per progettare e gestire reti organizzative intervenendo su tali
componenti costitutivi delle reti, occorre affrontare e risolvere alcune
questioni che brevemente elenchiamo di seguito:
1. Diagnosi. L’organizzazione a rete è oggi scarsamente riconoscibile.
Come diagnosticarla, come identificarne le caratteristiche strutturali e
comprenderne i problemi critici?
2. Sviluppo e progettazione. L’organizzazione a rete si può supportare con
adeguati servizi, sviluppare intenzionalmente o addirittura progettare,
come qui si sostiene.
3. Composizione degli interessi. Come i singoli nodi di una rete (piccola
impresa, professione, persona) possono contribuire ad una rete in cui vi
è un soggetto forte che tende ad essere dominante e ad appropriarsi della
maggior parte del valore? Quali nuovi meccanismi operativi riescono a
trasformare subforniture subordinate in rapporti cooperativi win win?
4. Stabilità e mutamento. Ogni nodo o soggetto della rete fa parte di reti
diverse, in alcuni casi abbandona le une per legarsi ad altre. Come
combinare l’estrema mutevolezza di queste multiple appartenenze con
l’esigenza di stabilità e crescita di ogni singolo nodo, come far sì che
l’intera rete si comporti come un “attore collettivo”?
5. Risultati. Se e come definire obiettivi economici e sociali e ri-articolarli
velocemente nel tempo? Come valutare i risultati?
6. Decisioni e misura. L’organizzazione a rete – come e più dell’impresa
tradizionale – cambia per repentine innovazioni, per adattamento, per
micro-decisioni, per miglioramento continuo, è il risultato di scelte su
cosa fare dentro e cosa comprare, su quali funzioni accentrare e quali
decentrare, su quando acquisire o vendere unità aziendali e su quando
fare accordi, dove allocare geograficamente le attività. Vi sono criteri e
metodi da adottare, per operare in questi contesti di agilità, velocità e
rapidità di processi decisionali? E soprattutto quali forme di
governance?
7. Sistemi. Quali tecniche o sistemi operativi adatti all’impresa rete devono
essere sviluppati? Per esempio quali sistemi di pianificazione e controllo
di gestione dell’impresa rete? È possibile stabilire standard di qualità per
la rete? Come sviluppare dimensioni quali linguaggi, culture, politiche
di marchio e di visibilità? Come potenziare le comunità, come
promuovere formazione e apprendimenti?
8. Strutture. Le reti di impresa includono una grande varietà di forme Quali
processi interorganizzativi? Quali sistemi informativi e di
39
telecomunicazioni sono adatti per la rete di imprese? Quali sistemi
logistici? Quali regole e contratti formali? Quali flussi finanziari? Le
risorse umane in tutta la rete si possono gestire e sviluppare? E in che
modo? E che dire dei sistemi di controllo della qualità?
9. Nascita e morte. La rete di imprese e soprattutto i suoi “nodi” hanno un
tasso di natalità/mortalità più elevato dell’impresa tradizionale. Gestire
la nascita e la morte delle imprese diventerà ancora più importante che
gestire le imprese. Chi lo farà e come?
3.3. Riorganizzazione delle singole Pubbliche Amministrazioni e il
nuovo sviluppo locale
La Pubblica Amministrazione è un problema e un’opportunità. Le
Pubbliche Amministrazioni italiane hanno, come è noto, seri problemi di
efficienza e di efficacia che incidono sullo sviluppo economico e sociale.
Ma essa è anche centrale nel sistema di erogazione dei servizi e un potente
volano economico. Per affrontare il problema e cogliere l’opportunità, il
percorso proposto da tempo (Butera e Dente, 2009) è quello di un
reinventing governement di singole amministrazioni centrali e locali
attraverso progetti orientati al risultato, al cambiamento, alla cooperazione
interna ed esterna che sviluppino servizi di qualità a basso costo in una
nuova rinnovata relazione con i territori e le imprese.
Tutto ciò è un driver principale per sviluppare un nuovo modo di
produzione. Esso dovrebbe servire a: a) misurare e conseguire risultati
tangibili di miglioramento dei servizi, riduzione della spesa, promozione
della crescita e b) potenziare la capacità amministrativa e organizzativa
delle Pubbliche Amministrazioni attraverso progetti orientati al risultato, al
cambiamento, alla cooperazione interna ed esterna, ottenendo crescita e
valutabilità dei dirigenti e dei funzionari.
Questi percorsi non si dovrebbero limitare al miglioramento del
funzionamento interno delle amministrazioni ma dovrebbero favorire lo
sviluppo di forme originali di reti fra imprese, territori e Pubbliche
Amministrazioni:
• la cooperazione fra impresa, pubbliche amministrazioni e strutture sociali
del territorio (Velz, 1998; Perulli, 1998)
• lo sviluppo delle piattaforme industriali, ossia i sistemi composti da
componenti indipendenti, in cui ciascuno è soggetto di innovazione, come
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le macchine utensili, il settore del Legno-Arredo, l’informatica,
l’agroalimentare, i beni culturali (Cusumano, 2010)
• l’estensione dei processi produttivi ai consumatori (prosumers) e la
valorizzazione dei prodotti attraverso l’open innovation e il
crowdsourcing (Fuggetta e De Michelis, 2010)
• la cooperazione e condivisione delle conoscenze fra le persone nelle reti
web al di là dei processi controllati dalla singola impresa e creando valore
non appropriabile (Rullani, 2004)
3.4. I lavori, i mestieri, le professioni dei servizi
Abbiamo già mostrato come si stanno sviluppando service professions
che potenziano la capacità dei knowledge workers di proporre le loro
competenze ai clienti finali e intermedi, divenendo protagonisti della
condivisione della conoscenze, della cooperazione, della comunicazione e
della promozione delle comunità all’interno delle organizzazioni, che proprio per questo divengono più flessibili, innovative e competitive.
Professionisti dei servizi non sono solo gli infermieri e i medici, gli
insegnanti, gli assistenti sociali, gli artisti, i consulenti, gli operatori di front
office dell’INPS e dell’Agenzia delle Entrate, etc. che usano le loro
conoscenza per offrire servizi ad un cliente individuale o collettivo ma sono
professionisti dei servizi anche i lavoratori della conoscenza che hanno
successo se “vendono” le loro conoscenze all’utente finale o a unità
organizzative intermedie, lo sono gli scienziati che sanno proporre le loro
scoperte a chi le può approfondire e usare, lo sono i progettisti che devono
combattere perche i loro progetti siano approvati e realizzati, lo sono gli
specialisti che per avere successo devono farsi capire all’interno
dell’organizzazione e una infinità di altri, lo sono gli artigiani che devono
produrre il “ben fatto”, riempirlo di conoscenza e di senso e renderlo
apprezzabile al cliente (Micelli).
Essi, oltre a produrre conoscenza per mezzo di conoscenza, forniscono
output economicamente e socialmente molto tangibili, ossia servizi ad alto
contenuto di conoscenza agli utenti finali (persone, famiglie, imprese) o
servizi a strutture interne alle organizzazioni (servizi per la produzione di
beni e servizi, terziario interno). Al primo gruppo appartengono ad esempio
- oltre alle libere professioni sempre più svolte all’interno di organizzazioni
(medici, avvocati, architetti, dottori commercialisti, geometri, giornalisti
41
etc.) anche nuove professioni non “ordiniste” come le professioni sociali
(badanti, assistenti sociali, etc.) che occupano oltre un milione di persone e
sono in crescita, i consulenti, gli informatici etc. Esempi di professioni dei
servizi all’interno delle organizzazioni – ossia che insieme con altri
forniscono servizi alle strutture interne di una organizzazione - sono ad
esempio le professioni dell’ICT, i progettisti di prodotto e servizio, i
professionisti del marketing e della comunicazione, i pianificatori, gli
esperti di amministrazioni, i venditori e soprattutto i manager come
professionisti. Emerge un repertorio di “professioni strategiche” che
offrono servizi ad altissimo contenuto di conoscenza e sono il motore di
mutazioni nel modello economico e organizzativo delle organizzazioni di
produzione (aerospazio, meccatronica, chimica, farmaceutica, fashion, etc.)
e delle organizzazioni dei servizi (sanità, istruzione, giustizia, turismo, ICT,
logistica e portualità, agroalimentare, water management e molte altre).
Pensiamo anche a specialisti e funzionari pubblici che operino come parte
attiva di un ciclo di servizio.
Questi mestieri e professioni dei servizi includono sia il lavoro della
conoscenza teorica e pratica in tutte le sue accezioni (il sapere perché, il
sapere che cosa, il sapere come, il sapere per chi, il sapere usare le routine,
il sapere usare le mani, etc.) sia il lavoro di relazione con il cliente esterno o
interno sia soprattutto la responsabilità di fornire un risultato.
Oggi non serve più la ricomposizione delle mansioni degli anni ’70, ma
serve la ricomposizione del lavoro intorno a professioni capaci di governare
complessi processi di servizio e di dare identità professionale alle persone.
Il lavoro non si svolge più nei “castelli” esclusivamente in forma
dipendente, ma anima le reti fra imprese, amministrazioni, territori, che
possiede un robusto statuto professionale e dispone di flessibilità e
sicurezza.
Di fronte alla drammatica crisi occupazionale che colpisce i giovani, è
comprensibile l’incoraggiamento di alcuni giornalisti e studiosi brillanti a
non attendere l’assunzione della grande impresa ma a esplorare aree
emergenti di lavoro, di cui vengono forniti vivide rappresentazioni. Ma i
numeri sono così bassi e così scarso è l’aiuto attualmente fornito nella
formazione e nell’inserimento di queste opportunità entro strutture solide,
che si rischia di creare illusioni: avviarsi verso un futuro artigiano in un
quadro di crescente richiesta di qualità nella manifattura o nell’informatica
(Micelli), richiede forti supporti formativi e nuovi patti occupazionali;
fondare startup (Luna) richiede un sostegno nel difficile compito di fare
42
impresa. Molte buone pratiche di sostegno alle start up e alla formazione
sono nell’agenda delle politiche industriali nazionali e regionali ma al
momento vengono toccati grandi numeri né si configura modelli emergenti
di modi di produzione.
Non essendo possibile competere con i BRICS sul costo del lavoro, la
competizione si gioca nell’aggiungere valore alla manifattura,
nell’integrare prodotti e servizi, nel produrre servizi di alto valore e non
tentando invece di creare lavori marginali ad apparente facile occupabilità
(Boeri, 2011). La competitività del fattore lavoro è affidata ai lavoratori
della conoscenza e in particolare ai professionisti dei servizi nelle
organizzazioni. Essi vanno formati da scuole e università migliori, vanno
regolati da sistemi fiscali e regolativi che incentivino il loro impiego, vanno
inseriti in forme di organizzazione del lavoro che ne potenzino produttività
e creatività, in sistemi professionali che riconoscano e sviluppino il loro
emergente paradigma.
Le professioni dei servizi nelle organizzazioni raccolgono l’eredità e
superano sia i caratteri di razionalità delle occupazioni industriali che
hanno potenziato nel XX secolo la produttività del lavoro (aggiungendo
oggi ad esse autonomia e responsabilità), sia il lavoro artigiano vecchio e
nuovo che assicura qualità e bellezza (aggiungendo ad esso capacità di
fornire servizi di alto valore insieme a tutta l’organizzazione), sia la
formazione, giurisdizione e responsabilità delle libere professioni
(aggiungendo ad esse la cooperazione all’interno delle organizzazioni).
Una visione elitaria del lavoro? Un approccio che non risolve il più
drammatico problema del lavoro oggi, la disoccupazione? No, al contrario.
La disoccupazione si combatte principalmente:
• creando posti di lavoro che siano componenti chiave di nuovi modi
di produzione e che contribuiscono in modo prioritario sulla crescita
e competitività dei servizi: servizi del terziario totale e servizi del
terziario per il sistema produttivo, ossia la stragrande maggioranza
delle attività produttive.
• creando mestieri e professioni che costituiscono nodi vitali delle reti
di impresa e delle imprese integrali.
• valorizzando il potenziale di conoscenza, creatività, impegno,
competenze operative delle persone e in particolare delle giovani
generazioni, the workplace within (Hirshorm, 1990)
43
• cogliendo le enormi opportunità degli strumenti individuali e
collettivi offerti dalle tecnologie per un lavoro senza confini e
favorendo l’open innovation su scala planetaria.
• creando posti di lavoro della conoscenza che ne presuppongono o ne
creano altri. Come dimostrato da Enrico Moretti (2013) in una analisi
empirica in California, per ogni nuovo job della conoscenza (definiti
in modo più restrittivo di noi) creato nascono altri 5 posti di lavoro.
• qualificando davvero la manodopera a tutti i livelli. Il modello delle
professioni di servizio è un paradigma di riferimento anche per i
lavori più umili o che non richiedono elevata formazione scolastica.
E’ il paradigma di un fair job, good module of work (Davis) che sia
esercitabile da tutti coloro che imparano o vengono abilitati a
svolgere lavori basati sulla responsabilità, ruoli che contengano
contenuti operativi continuamente migliorabili e perfezionabili, che
conseguano apprezzabili risultati di servizio, che gestiscano
positivamente le relazioni, che attivino adeguate competenze. Un
percorso di professionalizzazione del genere per esempio è stato
proposto e spesso realizzato nei lavori di vendita, nei call center,
nella ristorazione, nell’accoglienza alberghiera, negli ospedali, nel
lavoro sociale, nei lavori di front office della pubblica
amministrazione, nei lavori dedicati alla sicurezza, nei lavori
manifatturieri a base artigiana, nello sport, nello spettacolo e molti
altri. I migliori percorsi scuola/lavoro sono spesso basati su questi
principi.
Occorre, in sintesi, costruire concretamente e rafforzare un “futuro
professionale” per tutti, knowledge workers e lavoratori operativi,
dipendenti e partite iva, professionisti e artigiani, nuovi entranti nel mercato
del lavoro e senior da riconvertire.
Da quanto precede, i mestieri e professioni di nuova concezione, il 50%
di lavoratori della conoscenza che si stanno trasformando in “professionisti
dei servizi” avanzati possono essere la locomotiva di un futuro
professionale per tutti coloro che ricoprono lavori che possono essere
valorizzati sia rafforzando i risultati ottenibili sia sviluppando le
competenze e potenzialità delle persone, “the workplace within”. Il grande
sociologo delle professioni Wilensky nel 1970 scriveva un memorabile
articolo intitolato “The professionalization of everyone”: allora ciò era
prematuro. Ora è possibile e necessario perché sappiamo cosa sono le
44
nuove professioni, in che nuovi modelli di imprese operano, di quali reti
sono componenti, di quali sistemi pubblico/privato fanno parte. Sappiamo
che ci sono fattori strutturali che impongono o favoriscono questa
valorizzazione professionale. Questa è una sfida con cui gli attori delle
imprese, delle organizzazioni pubbliche, del sistema educativo sono oggi in
grado di misurarsi concretamente.
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