fordismo a nuovi modi di produzione I frantumi
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fordismo a nuovi modi di produzione I frantumi
Working Paper Futuro professionale: dal taylor- fordismo a nuovi modi di produzione I frantumi ricomposti, 1971-2015 Federico Butera WP1 / 2015 Documento di lavoro È consentita la copia e la distribuzione a scopo divulgativo e didattico, citando la fonte. Sono consentite, inoltre, le citazioni purché accompagnate dall'idoneo riferimento bibliografico. Per ogni ulteriore uso, se ne vieta l'utilizzo senza il permesso scritto degli Autori. Fondazione Irso – Via Leone XIII, 14 - 20145 Milano Tel. +39 02 48016162 - Fax +39 02 48016195 - www.irso.it - [email protected] Executive summary Costruire posti di lavoro: è questa l’emergenza delle economie europee e italiane. Rimuovere vincoli e incentivare le imprese e le altre organizzazioni a crescere, ad assumere e a tenere al lavoro le persone è l’oggetto principale delle politiche pubbliche: modifiche normative, fiscalità, politiche attive del lavoro, formazione, ma anche, incentivi alle imprese, lavori pubblici e altro. Ma quali organizzazioni e forme di lavoro si vogliono sviluppare? L’impresa chandleriana, la burocrazia weberiana, le occupazioni industriali del taylor fordismo non esistono più. E attraverso quale percorso di job and organization design verranno costruiti i nuovi lavori e le nuove organizzazioni? Organigrammi e mansionari emanati dagli uffici organizzazione, contrattazioni sui tempi e cottimi non esistono più. La politiche pubbliche avranno effetti rilevanti solo se i posti di lavoro e le organizzazioni create saranno “di qualità”, ossia tali da aumentare la competitività delle imprese e l’efficacia delle pubbliche amministrazioni e saranno tali da assicurare alle persone flessibilità, sicurezza, identità, qualità della vita di lavoro. Non solo: ciò avverrà solo se verranno attivati nuovi percorsi virtuosi per progettare, sperimentare e formare le persone. Soluzioni e percorsi di qualità esistono già nei molti casi esemplari basati su nuovi paradigmi organizzativi e professionali che in questi anni si sono dimostrati capaci di generare ricchezza e lavoro. Non vi è oggi cosa più pratica che valorizzare questi casi e i modelli che essi incarnano affinché essi siano diffusi e soprattutto affinché possano essere oggetto di condivisione fra imprese, governo, istituzioni educative e di gestione del mercato del lavoro, sindacati, organi di stampa. Manca però nell’Italia del 2015 uno o più modelli organizzativi della produzione dei beni e servizi condiviso a cui si riferiscano i sistemi di regolazione del lavoro, la Pubblica Amministrazione, il sistema di istruzione, le relazioni industriali. Ma cos’è e a cosa serve “un modello organizzativo di produzione di beni e servizi”? L’esempio più chiaro che tutti conosciamo è il taylor-fordismo e quello che esso rappresentò dall’inizio del secolo fino agli anni ‘70 in tutto il mondo occidentale. Il taylor fordismo, con tutti i suoi gravissimi limiti economici e sociali, a combattere i quali ho dedicato la mia vita professionale, era una struttura solidissima che attuava una strategia dominante: un modello per sviluppare l’economia della produzione di massa e regolare l’economia dei consumi, ottenuto attraverso coordinamento gerarchico e divisione del lavoro. Esso offriva alle imprese una modalità “scientifica” di programmare e gestire le risorse, ai lavoratori le certezze di una cittadinanza occupazionale, alle istituzioni di sviluppare sistemi educativi e di welfare e soprattutto alle parti sociali e ai governi regole del gioco che assicuravano a tutti identità istituzionale. Questo contributo ripercorre sinteticamente la storia della crisi e del superamento dei modelli di organizzazione e del lavoro taylor-fordisti iniziata negli anni ‘70, con particolare riferimento al caso italiano. Richiama poi i ribollenti mutamenti avvenuti da allora che hanno visto profonde trasformazioni nelle forme di organizzazione e di lavoro innovative, dalla catena di montaggio alle isole di produzione, dalle mansioni ai ruoli responsabili, dall’orologio all’organismo, dal castello alla rete (Butera, 1984, 1987, 1990), sperimentati in un gran numero di casi esemplari. Questo lavoro mette in evidenza che queste innovazioni di grande rilievo nate dagli anni 70 in poi tuttavia non si consolidarono in uno o più nuovi complessivi paradigmi alternativi. Al contrario si generò un senso di disorientamento di fronte alla percezione che “all is melting into the air” e ebbero luogo nuove gravi forme di decomposizione del lavoro e dell’organizzazione, con gravi problemi economici e sociali. Per questo politiche industriali, politiche attive del lavoro, concertazione, accordi fra governo, imprenditori, sindacati, corporazioni professionali non trovarono metodologie nuove rispetto al periodo del taylor-fordismo, anche perché le organizzazioni e il lavoro di cui gli attori sociali parlavano non erano più quelli di una volta. I fattori strutturali che a partire dagli anni 70 hanno contribuito a decomporre il vecchio modello furono principalmente il mutamento sociale, la globalizzazione, l’economia dei servizi, le nuove tecnologie di prodotto. A partire dagli anni 2000 ad esse si aggiunsero l’emergenza dei BRIC, la finanziarizzazione, lo sviluppo travolgente di internet, la forte crescita dei lavoratori della conoscenza. Essi hanno influenzato profondamente a livello macro la geopolitica, l’economia mondiale, le culture, la distribuzione della ricchezza, le istituzioni degli Stati, i modelli di business e a livello micro la macro e micro organizzazione delle imprese e delle pubbliche amministrazioni, il lavoro. In questo saggio, in cui mi occupo solo di quest’ultimo livello, sostengo che per valorizzare le innovazioni organizzative e del lavoro potentemente e disordinatamente introdotte a partire dagli anni ’70 e per delineare e ricomporre i modi innovativi di produzione di beni e servizi, occorre che tali innovazioni siano assonanti ad alcuni fattori strutturali dominanti. Tali fattori strutturali sono a mio parere oggi principalmente la globalizzazione e la competizione internazionale, l’economia dei servizi all’utente finale e alle unità Working Paper 1 /2015 2 organizzative intermedie della produzione, bisogni di equità, integrità e umanità, il web e il cloud, lo sviluppo del lavoro e dei lavoratori della conoscenza. La lezione di Chandler sul legame reciproco fra strategie e struttura torna fondamentale, anche se le strategie sono totalmente diverse da prima e le strutture non si fondano più principalmente su gerarchia e divisione del lavoro spinta. In questo saggio formulo quattro proposte dei principali driver che possono attivare e rendere condiviso un nuovo modo di produzione, quattro paradigmi riproducibili di organizzazione e di lavoro che diano senso e diffusione a cambiamenti già avvenuti. Il primo è l’impresa integrale ossia l’armonizzazione fra obiettivi economici e obiettivi sociali nelle imprese (Butera, 2009), non solo attraverso regole da dettare all’impresa ma rafforzando l’impresa perché possa essere sia fattore di produzione di ricchezza che anche generatore di culture e di socialità, una “impresa enciclopedia” (Dioguardi, 2014). Il modello proposto fa riferimento allo sviluppo di imprese che siano strutturate per conseguire simultaneamente efficienza economica e responsabilità sociale, il che assomiglia a ciò che in Italia fu chiamato impresa “olivettiana”. Il secondo è il paradigma delle imprese rete e delle reti di imprese governate ossia la progettazione e sviluppo di reti di imprese di estensione planetaria che potenzino la differenziazione produttiva e valorizzino le piccole e medie imprese oltre che le grandi imprese con meccanismi win win (Eccles e Nohria, 1992; Butera, 1990, Dioguardi, 2012). Questo paradigma ha il massimo rilievo per l’economia italiana che vede la stragrande presenza di piccole e medie imprese. In esso tutti i nodi delle reti (imprese, pubbliche amministrazioni e professioni) godono di reale autonomia, sono in forte connessione fra loro e con il mondo e sono messe in grado di sprigionare la loro vitalità senza essere dominate dall’impresa pivotale ma valorizzandone il suo ruolo di “testa d’ariete”. Il terzo è la riorganizzazione delle singole Pubbliche Amministrazioni in rapporto ad nuovo sviluppo locale, ossia percorsi intenzionali di reinventing governement di singole amministrazioni centrali e locali (Butera e Dente, 2009) che sviluppino servizi di qualità a basso costo in una nuova rinnovata relazione con i territori e le imprese. In tale percorso la Pubblica Amministrazione riduce i propri costi e offre servizi migliori per valorizzare i beni comuni di un territorio e i processi innovativi delle imprese. In questo percorso PA, imprese e comunità possono prosperare in un condiviso gioco win-win. E infine il quarto paradigma è lo sviluppo delle professioni di servizio all’interno delle organizzazioni ossia lo sviluppo delle professioni nelle organizzazioni centrate sui processi di servizio basati sulle conoscenze, sul rafforzamento delle identità professionali delle persone, sulla protezione della Qualità della Vita di Lavoro (Butera, 2013). Questi quattro paradigmi possono avviare processi per sviluppare un modo di produzione basato su una concezione dell’impresa, del mercato, delle pubbliche amministrazioni, delle economie territoriali e del lavoro radicalmente diverse e migliori da quelle alla base del taylor-fordismo ma altrettanto comprensibili e efficaci per consentire ai soggetti sociali di progettare, gestire e interagire entro “regole del gioco” condivise. Il metodo proposto in questo contributo richiama quello che fu anche alla base del mio libro “I frantumi ricomposti” del 1971: connettere fattori strutturali e nuove idee di organizzazione e di lavoro, valorizzare i casi di esperienze virtuose, aprire grandi e piccoli cantieri di progettazione, attivando un percorso che chi scrive ha chiamato “ Italy by design”. Per sviluppare nuovi paradigmi non sono necessarie ideologie organizzative o piani globali, ma la moltiplicazione, valorizzazione, diffusione dei casi esemplari attraverso un modo di interpretare e concettualizzare comprensibile e condivisibile. D’altro canto il taylor-fordismo non fu altro che la diffusione di un caso esemplare realizzato nelle officine Ford di cui vennero identificati concetti e metodi poi adottati dalle aziende, dalle istituzioni, dalle scuole, dai sindacati in USA e in tutto il mondo. La lean production non fu altro che un caso esemplare sviluppato nelle fabbriche Toyota, concettualizzato da un Phd student del MIT, trasformato poi in un programma di ricerca e formazione dal JUSE (Japan Union of Scientists and Engineers), e diffuso in tutto il mondo. I casi esemplari italiani di imprese e di pubbliche amministrazioni di successo, gli esempi di progettazione e sviluppo di nuove professioni nelle organizzazione, evocano una originale Italian Way of Doing Organizations e sono disponibili per un percorso analogo. Organizzazioni innovative e competitive e di mestieri e professioni di nuova concezione possono assicurare un futuro professionale non solo a quel 50% di lavoratori della conoscenza che si stanno trasformando in “professionisti dei servizi” avanzati ma a tutti coloro che ricoprono posti di lavoro che possono essere valorizzati. Per far ciò occorre ridisegnare ruoli e professioni centrate su responsabilità, sui risultati ottenibili, qualità delle relazioni, le prassi operative, competenze. Occorre inoltre far emergere le potenzialità delle persone “the workplace within”. Il grande sociologo delle professioni Wilensky nel 1970 scriveva un memorabile articolo intitolato “The professionalization of everyone”: allora ciò era prematuro. Ora è possibile e necessario perché sappiamo cosa sono le nuove professioni, in che tipo di organizzazioni operano, di quali reti sono componenti, di quali sistemi pubblico/privato fanno parte. Conosciamo i fattori strutturali che impongono o favoriscono questa valorizzazione professionale. Questa è una sfida con cui gli Working Paper 1 /2015 3 attori delle imprese, delle organizzazioni pubbliche, del sistema educativo sono oggi in grado di misurarsi concretamente.Questo saggio racconta vicende che ho vissuto personalmente: la fine di un modello di produzione, le ricerche i progetti e le idee per l’innovazione dell’organizzazione e del lavoro, la confusione degli anni 2000, la crisi economica che ancora permane, il lavoro per attuare le quattro proposte che qui richiamo. Con il lettore mi scuso se questa agenda forse rispecchia troppo la mia storia scientifica e professionale ma voglio assicurargli che queste pagine sono il risultato di lavori e di impegni nella realtà delle organizzazioni e nel continuo dialogo con le persone e non solo la sintesi di libri che parlano con altri libri. Abstract This paper briefly traces the history of the crisis of Taylor-Fordist organization and work models that started in the 70s, with special reference to the Italian case. It sums up the bubbling changes that occurred since then. It discusses the lack of new models institutionally solid as the Taylor-Fordism was. Finally it aims to identify and design some new paradigms of organization and work, that may actually be developed also because of structural factors in economy and society. Classical organization stemming from the mass production model was rooted on two key ideas: hierarchal coordination and control system and severe division of labor. These models was leaving much of the remaining uncertainty outside the “castle walls”. They fully rationalized organization and work with the result of a dramatic increase in productivity per unit of product. The work of the great mass of workers and employees was broken in small fragments (“travail en miettes”, according to Friedman), resulting in alienation and poor quality of working life. But that production model seemed unbeatable as far the productivity was concerned. This model was shared among entrepreneurs, public authorities, unions; it became the basis on which public infrastructure investment policies were built, educational systems and social mobility patterns were developed, and industrial relations systems developed based upon “production games” to achieve “manufacturing consent”. Since the 70s the increased market turbulence was no longer sufficiently left outside the walls of the large corporations, new information technologies began to develop, the workers’ dissatisfaction became manifest through absenteeism and sabotage. As a result new organizational forms were developed that mitigated the rigidity of hierarchical bureaucracy and introduced new roles responsible for results and new methods of work based on relatively self-regulated working groups. The post Taylor-Fordism had begun. New process units were born both in production and in services: a wide variety of teams became the backbone of service organizations (face-to-face and remote teams); process governance and process innovation took command; forms of non-hierarchical organizational structures spread out; network enterprises and network of enterprises were diffused. Almost all of the organizational forms mentioned had in common a) self-regulated co-operation; b) knowledge sharing; c) increasing ability to communicate; d) development of human communities supported by ICT. In those thirty years, a large number of organizations evolves from clockworks to organisms, from castles to networks, just to adopt some metaphors. But in early 2000, even though tasks were often recomposed, work and organizations seem to go towards new and different forms of decomposition: outsourcing and offshoring were largely diffused; work become a kaleidoscope of occupations: the expansion of informal economy and criminal economy creates wealth and forms of organization and work ominously efficient; the economic and organizational crisis of the Public Administration was not adequately tackled by reforms. It was too difficult get sound agreements among government, entrepreneurs, unions, professional corporations as happened in the taylor-fordism development. The main structural factors that may favour new social agreements, new “principles of reality” on which organization and work change can be seriously based seem to be the following: international competition which requires the development of innovative business models and the enhancement of high quality knowledge work; service economy which requires the development of new combinations of products and services and of service professions; digital technologies which require to create powerful virtual networks of agile real organizations. Four paradigms may give sense to the changes that have already occurred but that we are not yet fully aware of : Working Paper 1 /2015 4 • integral enterprise (Butera, 2009), that is a firm capable of harmonizing economic efficiency and social responsibility. • governed network enterprise (Eccles e Nohria, 1992; Butera, 1990; Dioguardi, 2012), where all the nodes of a network (enterprises, public administrations and professions) enjoy a real autonomy and have the opportunity to unleash their vitality without being dominated by the pivot company • public administrations, enterprises and territories networks (Velz, 1998), in which the assets of a territory and the company innovation processes support each other in a win-win game • development of broad service professions accustomed to operate within large organizations or in connection with them: knowledge workers (who use theoretical knowledge, practical knowledge but always contextual knowledge) aimed at providing services to the end user or to intermediate structures inside organizations, in a word service professions. 1. La grande trasformazione dell’organizzazione e del lavoro degli anni ‘70 1.1 Grande impresa accentrata e divisione del lavoro Chandler (1976) aveva rappresentato il profilo della grande corporation come una grande struttura intesa a concentrare gli investimenti e a fronteggiare le incertezze dell’ambiente anche con strutture multi divisionali a seguito della diversificazione dei mercati. Perrow (2005) rilevò che l’economia degli Stati Uniti alla fine dell’800 era composta prevalentemente da piccole e medie imprese mentre le grandi corporation quasi non esistevano, tranne che in alcuni settori come le ferrovie; ma a seguito di una legislazione che le favoriva assorbirono una importante quota di attività prima svolta da piccole imprese e professioni e internalizzarono una parte rilevante del mercato dei prodotti e del lavoro assumendo di fatto il ruolo di Organizing America. Nella grande impresa vennero accumulate le risorse, razionalizzati i processi innovativi e produttivi, concentrato al vertice il rapporto con l’esterno. Burocrazia industriale e organizzazione scientifica del lavoro furono adottati come paradigmi di riferimento negli Stati Uniti prima e nell’occidente e nel blocco sovietico dopo, paradigmi che presero ispirazione dalle analisi di Max Weber (1922) e dalle prescrizioni di F.W.Taylor (1911) e che vennero sviluppate al massimo livello da Henry Ford nella sua azienda di automobili. Il lavoro si differenziò fra pochissimi manager, pochi professional e moltissimi lavoratori addetti a mansioni razionalizzate e ristrette composte da compiti parcellari. Quella centralizzazione dell’impresa e frammentazione del lavoro (il “castello” e il “lavoro in frantumi”) furono un potente strumento per sostenere la produzione di massa: mercati crescenti e alti volumi. Esse lasciavano fuori dalle mura del “castello” gran parte della residua incertezza del mondo esterno e razionalizzavano organizzazione e lavoro aumentando vertiginosamente la produttività per unità di prodotto. Una caratteristica saliente del taylor-fordismo fu che esso divenne presto un modello di regolazione dell’economia e del lavoro condiviso fra imprenditori, poteri pubblici, istituzioni educative, sindacati: tutti sapevano “a che gioco si stava giocando”. Non fu solo un modello di organizzazione operativa, ma un sistema condiviso in cui, malgrado altisonanti e acute controversie ideologiche e politiche, il lavoro era “forza produttiva” e fonte di identità individuale e collettiva. Si costruirono su questo modello politiche di investimenti pubblici infrastrutturali, si svilupparono sistemi educativi, percorsi di mobilità sociale, sistemi di relazioni industriali in cui i “giochi di produzione” per conseguire un manufacturing consent (Burawoy, 1979) divennero l’arena delle relazioni quotidiane del management e del sindacato. Il lavoro in frantumi della grande massa di operai e impiegati (Friedman e Naville, 1963), generò alienazione e cattiva qualità della vita di lavoro. Psicologi, sociologi, riformatori sociali denunciarono questo degrado del lavoro, ma il modello taylor-fordista nella grande impresa sembrava non avere possibili alternative per produttività e capacità di governare l’incertezza dei processi economici, produttivi e sociali. Anche chi era critico verso il sistema capitalistico, riteneva che non vi fosse alternativa a quel modo di produzione, a cominciare da Lenin. A partire dagli anni ‘70 la accresciuta turbolenza dei mercati non veniva più sufficientemente assorbita dalle grandi imprese. La crisi di quel modello di produzione fu generata dal turbolent enviroment degli anni ‘70 (Emery e Trist, 1965; Thompson, 1967, Lawrence e Lorsh, 1967) ossia da alcuni imponenti fenomeni strutturali di carattere economico e sociale. L’insoddisfazione dei lavoratori in fabbrica si faceva sentire con assenteismo e Working Paper 1 /2015 5 sabotaggi, in USA e in Europa il 68 portava studenti e operai nelle piazze. Si accentuava la globalizzazione, il capitale finanziario prendeva il comando sul capitale industriale, prorompeva l’economia dei servizi, le tecnologie digitali irrompevano nei processi produttivi con l’automazione e nei prodotti elettronici. Per effetto di questi fenomeni la grande impresa monolitica si decomponeva: emergevano forme di impresa che si allontanavano dal modello di produzione integrata e “chiusa nelle mura del castello” che si avvalevano in misura crescente di subforniture. Frattanto insieme all’aumento del livello di istruzione aumentava vertiginosamente la proporzione dei posti di lavoro dei lavoratori della conoscenza. Per tutto questo, più che a causa del prevalere di politiche pro-labor o di umanitarie nuove ideologie di management, in USA, Svezia, Francia e Italia si svilupparono sempre più diffusamente forme organizzative che attenuavano la rigidità della burocrazia gerarchica e introducevano in fabbrica e negli uffici nuove forme di organizzazione del lavoro come job enlargement, job enrichment, work group e altre forme innovative che verranno illustrate nei prossimi paragrafi. Sembrò in quegli anni che l’organizzazione industriale potesse diventare più umana oltre che efficiente e che i frantumi in cui si era ridotto il lavoro si potessero ricomporre, almeno quelli delle mansioni parcellari degli operai massa e degli impiegati esecutivi. Il post taylor-fordismo stava cominciando. Ma dopo? Che cosa c’era dietro l’angolo? 1.2 Il lavoro in frantumi nella produzione di massa Organizzazione è portare ad unità elementi dispersi. Nelle grandi imprese e amministrazioni pubbliche, in base alla teoria organizzativa classica, ciò veniva ottenuto principalmente attraverso due idee chiave che discendevano da un modo di produzione che aveva dato all’industria del ‘900 con la produzione di massa i sistemi di coordinamento e controllo gerarchico e la divisione del lavoro spinto. Le strutture gerarchiche fissavano i confini e l’autorità per esercitare il coordinamento e il controllo; le mansioni formalizzavano e prescrivevano una divisione del lavoro fra pochissime posizioni di comando, alcuni ruoli specialisti e una gran quantità di mansioni con compiti parcellari. Il modello di coordinamento e controllo gerarchico si basava sulla persuasione che il modo migliore per governare i processi produttivi e amministrativi fosse quello di “affidarli” ad autorità legittime dedicate alla loro gestione, come Max Weber (1922) aveva limpidamente descritto. Anche Williamson (1986) chiama l’organizzazione hierarchy. Anche oggi di fronte ad un’organizzazione che va male si va alla ricerca del manager demiurgo che la salvi. La gerarchia rende rapido il processo decisionale e assegna responsabilità chiara ma impegna le proprie risorse in primo luogo a regolare rapporti di potere e a rappresentare la stratificazione sociale e solo in secondo luogo a fare avvenire le cose, secondo la regola prussiana “prima si costituisce il reggimento e poi si vede quali battaglie fare”. La seconda idea, proposta originariamente da Adam Smith (1776) e da Babbage (1832) e sviluppata poi da Taylor e Ford, riguardava la divisione del lavoro: i processi di lavoro dovevano essere ben studiati per poi essere suddivisi in compiti parcellari da affidare a lavoratori, che li avrebbero eseguiti molto velocemente. Il taylor-fordismo si fondava sulla fiducia di poter tenere disturbi e varianze al di fuori del luogo di produzione diretta e non richiedeva alcuna partecipazione e responsabilizzazione dei lavoratori sulla qualità ed economicità dei processi. La divisione del lavoro fu la carta vincente dello sviluppo industriale degli Stati Uniti. Ad essa era stata associata la costituzione del mercato del lavoro industriale che aveva attratto e dato grandi opportunità di sviluppo sociale in USA ad una grande quantità di manodopera non alfabetizzata e immigrata. Lo stesso avvenne su scala minore negli altri paesi occidentali. Ma che cosa era una buona organizzazione? Era quella che funzionava come un orologio: processi altamente prescritti, attività parcellizzate, coordinamento per programmi e gerarchia, reparti e uffici come partizioni delle macrostrutture, gestione delle persone limitata alla retribuzione e alle relazioni industriali. L’esistenza delle strutture sociali (comunità di lavoro, etc.) e dei processi sociali (cooperazione, conflitto, potere, etc.) rimanevano celate dietro “lo squinternato concetto di organizzazione informale” (Gouldner, 1957). Quattro furono i principi dell’organizzazione scientifica che riflettevano le convinzioni di Taylor sulla natura del lavoro, e sul ruolo della tecnologia e delle persone: trovare il modo migliore di produrre (one best way); scegliere le persone giuste e metterle al posto giusto; controllare, premiare, punire; impiegare organismi di staff per pianificare e controllare. Nella concezione di Taylor un ruolo importante era assegnato alla tecnologia che doveva assorbire il più possibile lavoro umano esecutivo. Working Paper 1 /2015 6 Davis (1973) descrive così la concezione dell’uomo e del suo lavoro sottesa all’organizzazione scientifica: • l’individuo e il compito assegnatogli sono la base su cui è costituita un’organizzazione • l’individuo fa ciò che non può essere fatto dalla macchina ed è inteso come “estensione della macchina” • i supervisori eliminano le incertezze e gli imprevisti che si verificano sul posto di lavoro • l’organizzazione tende a imporre ai dipendenti un comportamento conforme a quello predefinito • il frazionamento dei compiti è un modo per ridurre i costi del lavoro, riducendo il contributo professionale discrezionale richiesto alle persone e il loro costo Una copiosa letteratura ha documentato gli impatti negativi di questo modello sui lavoratori, tra cui: l’alienazione, la caduta di motivazione, le implicazioni sulla salute psico-fisica, il conflitto sociale e i problemi delle relazioni industriali (Friedmann e Naville, 1963). Le scienze economiche e organizzative (Galbraith, 1982) e la letteratura manageriale avevano segnalato i limiti di efficacia ed efficienza del modello organizzativo del taylor-fordismo: la rigidità del sistema produttivo, la lentezza dei processi decisionali a fronte di turbolenza e variabilità del contesto; gli elevati costi di attraversamento dei processi lungo i silos delle piramidi organizzative; la scarsa capacità di far fronte prontamente alle eccezioni. Era inoltre segnalata la caduta dei livelli di qualità e di produttività correlata sia alla bassa motivazione e al limitato impegno del personale sia alla elevata conflittualità sociale generata da tale modello. Ma, malgrado la degradazione del lavoro esecutivo e la sua rigidità organizzativa questa concezione del lavoro era forte. Da una parte rappresentava una “forza produttiva” ossia una componente essenziale della produzione di massa. Dall’altra assicurava “identità” ai lavoratori, assicurando agli operai, spesso ex contadini immigrati, una cittadinanza industriale basata sulla sicurezza e sugli alti salari. Assicurava agli impiegati, tecnici e manager prestigio e distinzione. Il sistema era un sistema di regolazione chiaro: legislazione sul lavoro, contratti di lavoro, forme di addestramento e formazione, modalità di relazioni industriali erano chiare e altamente governabili dalle istituzioni, dagli imprenditori, dai sindacati. Anche Gramsci ne rimase sostanzialmente affascinato nel suo “Americanismo e fordismo”. 1.3 Il post-taylor fordismo: i frantumi ricomposti 1.3.1 Ideologia e struttura nel declino del taylorismo in America Disaffection dei lavoratori manuali, rigidità nell’impiego della forza lavoro, irresponsabilità su qualità e costi, peso del coordinamento, un inaspettato declino del taylorismo che inizia nei primi anni ‘70. Nel 1971 usciva il libro di Federico Butera I frantumi ricomposti. Ideologia e struttura nel declino del taylorismo in America (Butera, 1971). Come aveva scritto Friedmann, (1946) il lavoro era ormai in frantumi nelle fabbriche e negli uffici divenuti castelli altamente razionalizzati in cui i lavoratori erano parti di ricambio di grandi macchine. Fritz Lang e Chaplin avevano filmato tutto ciò in Metropoli e in “Tempi Moderni”, Kafka l’aveva raccontato in “America”, Simone Weil (1951) e Friedmann l’avevano analizzato e criticato. Il libro I frantumi ricomposti ebbe un significativo impatto in Italia sulla progettazione dell’organizzazione e del lavoro e sulle relazioni industriali perché mostrava che, in un mutato e più turbolento ambiente economico e sociale, quel modello in parte si poteva e si doveva superare, ricomponendo ruoli lavorativi in modo da renderli responsabili di ottenere risultati e di gestire le relazioni e creando agilità nelle grandi organizzazioni attraverso unità organizzative autoregolate che funzionassero come piccole imprese e piccole società. Le nuove tecnologie e la accresciuta scolarizzazione della forza lavoro creavano inoltre possibilità di qualificazione della manodopera che prima non c’erano. Forme di partecipazione dei lavoratori e delle loro rappresentanze erano ora possibili, come si stavano sviluppando in Germania e in Scandinavia. Il libro di Butera - frutto della sua esperienza di accompagnamento alla progettazione delle isole dell’Olivetti che riassumeremo nel prossimo paragrafo e di sei mesi di ricerca ad Harvard e MIT conclusa con un lungo viaggio in America Coast to Coast - mostrava non solo che le scienze sociali e manageriali americane stavano elaborando nuove idee, ma che grandi imprese americane come la Texas Instruments, l’AT&T, la P&G, la TRW e altre stavano concretamente ridisegnando le loro macro e microstrutture, le loro organizzazioni del lavoro, i loro modelli professionali, e i loro programmi di formazione, in funzione non di scelte ideologiche, ma come conseguenza del passaggio dall’economia di scala all’economia della flessibilità. Il modello taylor-fordista quindi non si umanizzava, ma si trasformava per ragioni strutturali. Working Paper 1 /2015 7 1.3.2. Il declino del taylorismo in Europa e in Italia: le esperienze delle isole di montaggio Nel corso degli anni ‘70 anche in Europa avevano avuto luogo alcune esperienze di riorganizzazione del sistema di lavoro di stabilimenti di produzione. Le esperienze più note furono quelle scandinave, associate o meno al progetto di “democrazia industriale”: i progetti di Hunsfos, della Norske Hidro, della Volvo di Kalmar. In Italia, nel 1969 vennero realizzate le isole di montaggio della Olivetti (UMI, Unità di Montaggio Integrate). La Olivetti, prima tra le maggiori imprese italiane, alla fine negli anni ’60 attua una profonda trasformazione dell’organizzazione del lavoro di fabbrica in concomitanza con il passaggio dalle macchine per ufficio meccaniche a quelle elettroniche. Le unità di montaggio integrate (UMI) o isole di produzione erano piccole unità produttive formate da 15-20 lavoratori responsabili della qualità e del collaudo di un prodotto o di una sua parte: non più un lavoro a catena fatto di operazioni semplici, della durata di pochi secondi, ma un lavoro a senso compiuto e ricomposto in ruoli che richiedono competenza e responsabilità, svolto in gruppi relativamente autoregolati. In questo percorso di Change Management Strutturale fu riqualificato il lavoro di operai, tecnici e capi. Ciò fu fatto dalla Olivetti attivando, con rara prontezza e competenza, un diffuso processo di partecipazione all’innovazione tecnico-organizzativa, valorizzando le proprie “eredità dinamiche” ossia quello scrigno di competenze tecniche, organizzative e morali accumulate negli anni e proiettandole verso il futuro. Questa soluzione infatti fu preparata da studi, progetti, idealità di una classe di dirigenti, tecnici, operai che avevano assorbito la lezione di Adriano Olivetti e che condividevano l’aspirazione a ricomporre e valorizzare il lavoro umano in frantumi entro un’azienda efficiente e moderna. Ma questa aspirazione si trasformò in progetto solo in virtù della capacità di interpretare correttamente due fattori strutturali emergenti. Il primo fu un nuovo contesto industriale legato al passaggio dalla meccanica all’elettronica nei prodotti per ufficio che imponevano prodotti modulari, frequenti cambiamenti di modelli, necessità di anticipazione sul mercato, continui cambiamenti nei volumi: a questo cambiamento del prodotto/mercato si rispose con inedite soluzioni organizzative basate su criteri economici allora non convenzionali come qualità, flessibilità, time to market, riduzione del lavoro indiretto e altro. Il secondo fattore era dato da un nuovo contesto sociale e politico turbolento dell’Italia del ’68, a cui venne data una risposta con soluzioni inquadramentali e retributive inedite nella tradizione della fabbrica tayloristica (riqualificazione e premio UMI) attraverso la formazione di decine di migliaia di operai. Il tutto fu condotto con una gestione reciprocamente rispettosa delle relazioni industriali basata su una sostanziale convergenza sugli obiettivi di fondo, ossia la sopravvivenza e il successo economico dell’impresa e il miglioramento della qualità della vita di lavoro. 1.3.3. L’emergere di nuove forme di organizzazione del lavoro A differenza del Giappone, della Scandinavia, della Germania però non nasce, in Italia un programma nazionale di riorganizzazione e un nuovo assetto delle relazioni industriali: non la rivoluzione della qualità di Toyota e JUSE in Giappone, non l’Industrial Democracy scandinava, non la codeterminazione alla tedesca. Quest’ultima in particolare viene aborrita dai sindacati e dalla Confindustria e l’idea di un “nuovo modo condiviso di fare l’automobile” crolla anche con il rinforzo del piombo delle Brigate Rosse, all’attacco degli 1 innovatori della produzione . Ma malgrado ciò, a partire dagli anni ‘70, si sviluppano in Italia a macchia di leopardo forme di organizzazione e di lavoro più o meno in linea con i paradigmi individuati da “I frantumi ricomposti” e dalla esperienza dell’Olivetti: in siderurgia, nella chimica, in alcune aziende metalmeccaniche, nel settore del legno arredo e altre produzioni a lotti. Sull’organizzazione e il lavoro cristallizzati in rigidi organigrammi e mansioni, in molti casi prendono il sopravvento i processi; prendono il comando le prestazioni (quantità, qualità, costi, flessibilità, innovazione); ciò che modella le organizzazioni e il lavoro è la natura dei processi (incertezza, grado di indeterminatezza, valore prodotto, etc.) e non viceversa. Si afferma un principio diverso da quelli dell’organizzazione classica: “prima si vede cosa c’è da fare e come farlo e poi si fanno le strutture di coordinamento, le squadre operative e ci si distribuisce il lavoro”. 1 Al “modo nuovo di fare l’automobile etc.” credevano fra l’altro Massaccesi dell’IRI, Trentin della Fiom, Manghi della FIM, Bono della Fiat, Castellano dell’Ansaldo. I primi tre furono fermati dalla Confindustria e dai sindacati confederali, Bono morì giovane, Carlo Castellano venne ferito da una banda delle Brigate Rosse, che dopo poco assassinarono Guido Rossa. Working Paper 1 /2015 8 Si sviluppano – in molti casi nella produzione e nei servizi – unità di processo di concezione nuova chiamate process centred organisation, ossia unità centrate sui processi come group technology, isole di produzione, CHIM (Computer Human Integrated Manufacturing Units), UTE (Unità Tecnologiche Elementari) e molte altre. Una grande varietà di team va a costituire la spina dorsale di organizzazioni di servizio (team face-toface e team remoti). Nell’industria e nei servizi divengono sempre più importanti le strutture per il governo e l’innovazione dei processi: process owner, team di progetto, team per il miglioramento continuo, team di qualità e altri. Nella ricerca, nel lavoro artistico, nell’ingegneria, si diffondono task force, excellence team, extreme teams, che si costituiscono e si dissolvono in funzione dell’avanzamento del lavoro e del processo innovativo. Si moltiplicano forme non-gerarchiche di strutture organizzative e si modifica la tradizionale configurazione degli organigrammi e le modalità di esercizio della leadership e del coordinamento/controllo: appaiono organizzazioni snelle, organizzazioni piatte, organizzazioni con leadership multiple, organizzazioni a matrice, che tendono a semplificare e ridurre il carattere gerarchico e verticale delle burocrazie. In quegl’anni, un gran numero di organizzazioni evolve da orologi a organismi, da castelli a reti, per adottare alcune metafore (Butera, 1984, 1991). Quasi tutte le forme organizzative citate hanno in comune quattro dimensioni principali, che Butera (2009) ha identificato come il modello 4C: 1) processi di cooperazione in qualche misura autoregolata ma condivisa fra management e persone; 2) modalità di condivisione delle conoscenze fra le persone e fra esse e i sistemi tecnologici; 3) crescente capacità di comunicazione di dati, fatti, significati all’interno e all’esterno dell’organizzazione; 4) sviluppo di comunità umane interne all’organizzazione che creano senso di identità, condivisione di valori e di scopi, in una parola organizzazioni che non escludano, ma includano piccole società. Gran parte di queste forme organizzative sono state generate pragmaticamente dai manager alla ricerca di efficacia, flessibilità e innovazione imposta dalla emergente economy of scope. In alcuni casi esse sono state anche progettate e sviluppate con processi di progettazione organizzativa e di change management attivati in cooperazione fra manager e consulenti di organizzazione, adottando metodologie rigorose. 1.3.4. Il taylorismo proteico Il taylorismo non muore: come “il cervello del serpente” che rimane nell’encefalo delle specie evolute, così le modalità di analizzare minutamente e di prescrivere i compiti operativi di lavoro rimangono una eredità presente in tutte le forme di lavoro più evolute. I compiti semplici e ripetitivi quando non sono assorbiti dall’automazione divengono materia di skill based o rule based behavior (automatismi o comportamenti su regole): ma la totale scomparsa del knowledge based behavior (Rasmussen) tipico del taylor fordismo si attenua o scompare nelle citate forme di lavoro che emersero alla fine degli anni 70. Ma cessa di essere una delle due dimensioni fondative del modo di produzione come lo era stato nel taylor fordismo. Tuttavia taylor-fordismo come Proteo in alcuni suoi tratti riappare apparentemente sotto nuove forme. Agli inizi degli anni ‘90 nelle produzioni di massa riprendeva vigore la vocazione razionalizzatrice: i modelli toyotisti giapponesi vengono introdotti in USA e in Europa nelle grandi aziende manifatturiere, talvolta con forme ancora più estreme di razionalizzazione e parcellizzazione delle mansioni, ma con processi inediti di partecipazione dei lavoratori al miglioramento della qualità creando, come pioneristicamente avvenuto nello stabilimento della Nummi-Toyota di Freemont, una cultura industriale e un patto produttivo diverso da quello del taylor-fordismo (Osono, Shimizu, Takeuchi, 2008). La razionalizzazione dei servizi vide trasferire metodi e soluzioni di stampo tayloristico nella ristorazione (McDonald Jobs), nelle banche (valorizzazione degli sportelli), nei call center, nell’informatica, nei servizi sanitari e altri: ma la natura relazionale dei servizi ha impedito la configurazione macchinale delle organizzazioni e la frantumazione del lavoro in operazioni prive di senso, richiedendo al contrario forme nuove di sense making e di contratti sociali (Butera, 1996). La ventata del business process reengineering d’altra parte prometteva la totale reinvenzione dei macro e microprocessi: ma oltre a vistosi tagli di organici non sopravisse alle promesse e non introdusse alcuno nuovo modello. Permangono in occidente e assai più in Asia lavori degradati e degradanti per l’assenza di una minima qualità della vita di lavoro (fatica fisica, fatica psicologica, assenza di professionalità richiesta, condizioni salariali, mancanza di identità): ma non si commetta l’errore di usare il termine tayloristico come sinonimo di lavoro degradato. Working Paper 1 /2015 9 Come vedremo nel prossimo paragrafo 2.5. inoltre il “lavoro in frantumi” della produzione però sarà sempre più trasferito in altri paesi a più basso costo e a minori protezioni del lavoro come in Cina, nel Far East e anche nei paesi europei dell’Est. 1.3.5. Perché quelle innovazioni non sono diventate un nuovo modello? Più che questi fenomeni di conservazione o riedizione di forme tayloristiche, sono stati il carattere sparpagliato e la mancata diffusione delle innovazioni organizzative a far si che dalle innovazioni organizzative post-tayloristche citate stentassero a emergere nuovi modelli generali di impresa, di organizzazione e di lavoro, oggetto di condivisi modelli di impresa e di management, di politiche industriali, di relazioni industriali, di politiche educative e formative, come lo era stato il taylor fordismo. Con l’unica eccezione forse dei paesi scandinavi che adottano forme di industrial democracy e della Germania che utilizzò in modo eclettico tutte le forme esistenti di razionalizzazione, di valorizzazione del lavoro (fra cui i facharbeit e la professionalizzazione dei tecnici), di flessibilizzazione dell’impresa, entro il modello della partecipazione dei lavoratori alla gestione dell’impresa, la Mitbestimmung. 1.4 La destrutturazione dell’impresa accentrata: reti di organizzazioni e imprese rete Fra gli anni ‘70 e gli anni ‘80 ha luogo anche una profonda trasformazione della struttura delle imprese, che modifica l’assetto della grande impresa italiana e fa emergere altre forme di imprese fra loro collegate in rete. Ha luogo un ampio decentramento delle attività dall’impresa centrale verso fornitori e subfornitori costituiti da aziende terze. Questo processo chiamato correntemente “decentramento produttivo” aveva acquisito dimensioni senza precedenti in Italia così come in altri paesi, dando luogo non solo all’aumento di transazioni commerciali, ma a nuove caratteristiche e tipologie di organizzazione aziendale. Questo ampio processo di decentramento, di outsourcing, coinvolge anche imprese che concentrano la “gestione industriale strategica” in patria e si avvalgono di società situate all’estero che fabbricano parti o addirittura il prodotto finale: quello che si chiamerà offshoring introdotto dalle multinazionali americane e imitate da altre grandi e medie imprese europee. L’impresa centrale, “pivotale”, non si limita a dare all’esterno la produzione ma in molti casi tende a integrare i propri fornitori con le proprie strutture interne: non lo fa attraverso strumenti gerarchici, ma attraverso sistemi operativi (sistemi di pianificazione, Management Information Systems, sistemi di reporting, ecc.), costituendo strutture miste ad hoc (team, forze lavoro, comitati, ecc.) adottando strumenti soft (comunicazione e induction di cultura aziendale, filosofia manageriale e brand). Si diffondono imprese industriali “no manufacturing” che hanno una percentuale di personale impegnato nella produzione inferiore all’1 per cento, come Benetton e Arquati in Italia, Nike e Schwinn Bicycle in USA. Una distinta classe di situazioni comprende le “filiere” (Bellon, 1984), le “costellazioni” (Lorenzoni, 1985) ossia sistemi di imprese fra loro interconnesse in un ciclo produttivo o su un territorio. Tali imprese non hanno generalmente fra loro legami finanziari e societari e solo raramente sottoscrivono accordi. Tuttavia, dispongono di sistemi operativi interconnessi molto potenti, come acquisti, logistica produttiva, distribuzione e altro. In Italia, questo era nel 1988 il caso, ad esempio, della produzione nel settore dell’arredamento della Brianza, nel calzaturiero a Napoli, nell’agroalimentare in Emilia, ecc. Fioriscono i “distretti imprenditoriali” che secondo la definizione di Beccattini (1979), sono sistemi che operano in specifici centri urbani (Prato, Biella, Carpi, Sassuolo, Lumezzane in Italia) e che godono di un “ambiente imprenditoriale” favorevole. I distretti alla fine degli anni ‘80 coprono una sfera non marginale delle strutture economiche e sociali dell’Italia. Esse appartengono per lo più a quella che Bagnasco (1977) ha identificato come “Terza Italia”. Michael Porter (1998) riprende questi concetti con l’idea di “clusters”. Si diffondono sistemi aziendali costituiti da imprese giuridicamente autonome ma collegate attraverso forti legami associativi e che condividono servizi comuni come i Consorzi o le Associazioni di Produzione e di Consumo (come le Cooperative di produzione). Frattanto alcune grandi imprese “si fanno piccole” ossia costituiscono unità organizzative interne relativamente autonome che si comportano come “quasi-imprese”, sebbene inserite in un’unica struttura proprietaria ed organizzativa. Tranne che in alcuni settori dove la conoscenza è proprietaria come la farmaceutica, le grandi imprese decentrano anche processi ad alto livello di conoscenza, come ricerca e sviluppo, produzione specialistica, Working Paper 1 /2015 10 vendita qualificata, servizi ausiliari, processi dislocati verso imprese, organizzazioni, unità organizzative, professioni specializzate di diverse dimensioni e natura, spesso collocate in diversi paesi, creando così efficienza nelle operazioni e massimizzando la catena del valore. Viene anche decentrato il “lavoro in frantumi” della produzione in altri paesi a più basso costo e a minori protezioni del lavoro, in Cina, nel Far East e anche nei paesi europei dell’est. Si prepara quello che sarà il modo di produzione dell’azienda attualmente di maggior successo, la Apple: concezione, brand, pianificazione nell’impresa centrale; applicazioni affidate a fornitori specializzati; produzione in Cina o in Vietnam, in fabbriche di fronte a cui “Tempi Moderni” impallidisce. Tutto ciò implica l’inverso dell’integrazione verticale che aveva caratterizzato la prima rivoluzione industriale. La grande corporations che Chandler e Perrow avevano descritto cambiano sia strategia che struttura: non sono più castelli autosufficienti ma imprese ad alto livello di transazioni (Butera, 1990; Costa, 1996). Dopo la frammentazione delle mansioni, il secondo pilastro del modello classico di organizzazione la gerarchia, perde la sua centralità con l’avanzamento delle reti di impresa basata su ben più complessi sistemi di coordinamento, di cui la gerarchia diviene solo uno di essi, e non il più importante. 1.5. La crescita dei lavoratori della conoscenza Si modifica frattanto nei paesi occidentali a più alta industrializzazione la composizione della forza lavoro. La nostra ricerca, attingendo ai dati delle statistiche internazionali di cinque Paesi occidentali (Francia, Italia, Regno Unito, Spagna e Stati Uniti) aveva rilevato che le figure definite ad alta qualificazione dopo il 1995 avevano fatto registrare una sorprendente crescita (Butera et al, 1997, 2008). Li avevamo chiamati, come Peter Drucker (1989), knowledge workers, lavoratori della conoscenza. Tabella 1 – Knowledge Workers sulla popolazione lavorativa complessiva 1995 2005 Italia 29% 41,49% Regno Unito 34% 52,17% Francia 38% 43,71% USA 34% 38,65% Spagna 23% 33,28% - 48,19% Germania Fonte: Butera, Bagnara, Cesaria, Di Guardo (2008) Abbiamo dati che confermano come in Francia e in Italia i lavoratori della conoscenza continuano ad aumentare. Di Guardo nel 2011 aveva rilevato i seguenti valori per il 2008. Tabella 2 – Knowledge Workers confronto dati 2000 e 2008 dati 2008 rispetto al 2000 Francia 46,09% +3,94% Italia 43,13% +5,27% Fonte: elaborazioni Di Guardo (2011) Questi dati includono i soggetti laureati o diplomati che nelle organizzazioni o nelle libere professioni coprono le posizioni di manager; legislatori; dirigenti; imprenditori; professioni intellettuali, scientifiche di elevata specializzazione e tutte le altre figure professionali nelle attività nelle quali è richiesto un livello elevato di conoscenza e di esperienza in ambito scientifico, umanistico o artistico; technicians ossia le Working Paper 1 /2015 11 professioni tecniche che richiedono conoscenze operative ed esperienza e che applicano, seguendo protocolli definiti e predeterminati, conoscenze esistenti e consolidate. Chi sono allora in sintesi i lavoratori della conoscenza? Sono quelli che operano su processi immateriali per i quali la conoscenza è il principale input e output di processi di lavoro, che impiegano diversi tipi di conoscenza per svolgere il lavoro. Questi lavoratori utilizzano la loro conoscenza professionale di vari tipi (ogni tipo di conoscenza, embrained (ossia quella concettuale), embodied (ossia la conoscenza pratica); encultured (ossia quella trasmessa dai valori) (Blackler, 1995). Condividono la conoscenza fra le persone stesse, fra queste e l’organizzazione e i sistemi informativi. Trasformano input conoscitivi (dati, informazioni, immagini, concetti, segnali, simboli) in output di conoscenza di maggior valore (soluzione di problemi, orientamento degli eventi, dati e informazioni arricchite, innovazione e soprattutto servizi ai clienti interni o esterni). Anche quando l’output di tali lavoratori è un oggetto materiale (un artefatto artigiano o artistico, un dipinto o una statua, un’opera musicale, una pietanza, etc.) esso assume il suo valore distintivo in base alle conoscenze e alle abilità incorporate nell’oggetto. Anche quando l’output è una relazione di servizio essa consiste in conoscenze contestualizzate e personalizzate per fornire un servizio a una specifica classe di utenti (per es. un consulto medico, un parere legale, una lezione, un articolo giornalistico, etc.). Anche chi cura una vigna, chi sorveglia un impianto siderurgico automatizzato, chi guida un autotreno, chi fabbrica un vaso, usa conoscenze molto sofisticate, non solo conoscenze tacite, ma talvolta anche conoscenze esperte. Questo 33% - 52% di posizioni di lavoratori della conoscenza è quindi solo una parte di quelli che abbiamo rilevato nella nostra ricerca che, rispetto agli altri, hanno la peculiarità di produrre output immateriali la cui utilità, produttività, innovatività viene valutata solo da processi sociali ed economici: output “astratti”. I lavoratori della conoscenza non producono merci ma servizi basati sulla conoscenza. I lavoratori della conoscenza sono diventati più numerosi degli operai comuni e degli impiegati esecutivi messi insieme, superando la dimensione della classe operaia. 2. All is melting into the air?: i fattori strutturali che hanno sgretolato il vecchio modo di produzione (ma che potrebbero sostenerne di nuovi) 2.1. Cambia tutto ma si guarda ad un mondo nuovo con categorie vecchie Insieme al superamento del modello produttivo di inizio secolo e lo sviluppo di lavori e organizzazioni più qualificate e flessibili, a partire dagli anni 2000 si registra però un senso di apparente decomposizione delle organizzazioni come le avevamo conosciute e delle identità lavorative: dopo la gerarchia e le mansioni, che cosa? Altri fenomeni complicavano il quadro. La disarticolazione della grande impresa che manteneva il controllo e i lavoratori qualificati al centro e spostava le piccole imprese e il lavoro operativo in aree marginali o all’estero. Iniziava lo sviluppo del web che illuse molti che gli atomi sarebbero stati sostituiti dai bit e le comunicazioni avrebbero sostituito le comunità (Negroponte, 1995). I nuovi mestieri e professioni apparivano come un caleidoscopio di occupazioni di cui tutti perdevano il filo conduttore. La crescita del lavoro autonomo di terza generazione, mentre esaltava la professionalità dei lavoratori della conoscenza, dava luogo alla crescita vertiginosa dei lavori precari entro un quadro di diminuzione costante dell’occupazione. L’ampliamento dell’economia informale e dell’economia criminale creava ricchezze e forme di organizzazione e di lavoro sinistramente efficienti. La crisi fiscale e organizzativa delle Pubbliche Amministrazioni non veniva adeguatamente fronteggiata da riforme o da progetti di riorganizzazione. La percezione di molti (che permane tuttora) allora fu, usando una espressione di Marx, che All is melting into the air, ossia che ogni cosa si stesse sciogliendo nell’aria. Si scioglieva nell’aria la fabbrica perché dispersa nel territorio; si disperdeva nell’aria l’impresa che perdeva i suoi confini; si vaporizzava il lavoro perché scompariva, cambiava si remotizzava; si svuotavano le chiese e le sezioni di partito; i cinema si spopolavano e così via. In realtà, come all’inizio della rivoluzione industriale sembrarono sciogliersi nell’aria le vecchie istituzioni economiche e sociali precapitalistiche e non si comprese cosa stava nascendo al loro posto, anche agli inizi degli anni 2000 non si comprendeva che stava per scomparire un mondo noto e che stavano confusamente nascendo nuove forme di impresa, di organizzazione, di sistemi pubblico privato e sopratutto nuove forme di lavoro. Questa vista confusa, questo guardare le forme emergenti di economia e società con le categorie di Working Paper 1 /2015 12 ieri permane tuttora ed è ancor più aggravata dalla crisi. E quello che non viene compreso non può essere gestito e meno che mai progettato. Per questo politiche industriali, politiche attive del lavoro, concertazione, accordi e altro fra governo, imprenditori, sindacati, corporazioni professionali non trovarono metodologie nuove di relazionarsi rispetto al periodo del taylor-fordismo, anche perché le organizzazioni e il lavoro di cui gli attori sociali parlavano non erano a più quelli di una volta. Guardiamo ora ad alcuni fattori che hanno decomposto il vecchio modo di produzione che era fatto da comunità territorializzate, dalle organizzazioni degli orologi e dei castelli, dal lavoro delle posizioni, delle mansioni e del posto fisso. Nascono nuove strutture e sistemi che vanno compresi e governati. I fattori di decomposizione del vecchio modo di produzione e di sostegno alla nascita di uno nuovo sono la globalizzazione e disarticolazione delle imprese, lo sviluppo dell’economia dei servizi, le tecnologie digitali, la mutazione del mercato del lavoro. 2.2. Globalizzazione e competizione internazionale: l’impresa in frantumi o la spinta a costruire modelli nuovi d impresa e di lavoro? Abbiamo visto che la turbolenza dei mercati ha condannato la geometrica stabilità del modello taylorfordista. La globalizzazione, la fine della produzione di massa e lo sviluppo dell’economy of scope, rende superata la grande impresa verticalizzata capace di “organizzare una nazione” come la grande corporation che organizzò l’America, come scrisse Perrow (2005). Semmai alcune multinazionali si candidano a organizing the world (Rampini). Più che di ambiente turbolento occorre ora parlare di instabilità permanente, economica, geopolitica, sociale. La competizione internazionale su scala globale si è fatta più severa non solo per le imprese italiane. Proprio per questo può e deve sostenere lo sviluppo di nuovi modelli di organizzazione e di lavoro. Suzanne Berger (2006) del MIT si è chiesta “come fanno le imprese per competere”. Michael Cusumano (2010) si è chiesto “come è possibile tener duro” in questo contesto internazionale. Berger, rileva che le 500 aziende più grandi del mondo primeggiano in innovatività dell’offerta, qualità, miglioramento continuo, efficienza gestione della supply chain, design, customer orientation, internazionalizzazione, reputazione e qualità della vita di lavoro, collocazione nella catena del valore che valorizza meglio la propria competenza distintiva. Cusumano da una indagine su grandi imprese leader dice, che in tale contesto instabile, le aziende devono essere leader di piattaforma (producendo i complementors, ossia i componenti di maggior valore nella piattaforma); offrire servizi innovativi (manufacturing + services); valorizzare capabilities interne (interactive strategy, change, operations); partire dal mercato (pull); non competere sulle economia di scala con i paesi emergenti (economy of scope); acquisire flessibilità strutturale (strategic & operational flexibility). In Italia si riducono di numero e di dimensioni le grandi imprese. In Italia a fronte delle fusioni e dell’ulteriore sviluppo anche internazionale di Eni, Enel, Finmeccanica, Fiat, Telecom Italia e altre, scompaiono o si riducono grandi imprese storiche come Montedison, Italsider e altre. L’impresa rete e le reti di imprese nel 1988 disponevano di una serie di esempi di successo (Benetton, Arquati, SCM e i Distretti, le filiere, le costellazioni) e apparivano come un possibile modello che sostituisse l’impresa accentrata. Perfino la Fiat e la Finmeccanica restavano grandi imprese avvalendosi ampliamente di sub-forniture a imprese rete. L’idea di far convivere la capacità dell’impresa pivotale di generare profitti e l’autonomia delle imprese fornitrici (noti della rete) in un processo win win attraverso strategie innovative sia per se che per gli altri componenti della rete (governance) in realtà venne verificata dagli studiosi in molti casi ex post (Butera, 1990; Lorenzoni, 1985; Dioguardi, 2013), ma non diventò un modello progettuale su cui orientare le politiche e la formazione del management. Non si è fatta molta strada dalla “fumosa famosa, impresa rete” espressione coniata da Charles Sabel nel Workshop Internazionale dell’Istituto Irso a Camogli nel 1988. D’altro canto persisteva in Italia il nanismo delle piccole imprese che non innovano e non investono, che inoltre vengono falcidiate dalla crisi iniziata nel 2007. Tuttavia dal 2010 i giornali sono pieni di storie di “imprese che ce la fanno” e anche fra le piccole ve ne sono che presentano sorprendenti modalità per sopravvivere e crescere, ma possono sembrare episodi di caparbia e coraggiosa imprenditoria, difficilmente non riproducibili. I contratti di rete fra le piccole imprese si moltiplicano e hanno finora coinvolto oltre 1800 imprese ma sono una goccia nel mare delle imprese che operano di fatto in rete. Nell’agenda delle politiche Working Paper 1 /2015 13 pubbliche viene dato grande rilievo e qualche finanziamento alle start up ma come è ovvio poche di esse sopravvivono senza una inserzione di imprenditorialità. Poche piccole imprese crescono di dimensione. Le medie imprese italiane migliori sono state il fenomeno positivo negli anni 2000 nascendo piccole ma crescendo e internazionalizzandosi: dai casi noti di imprese divenute grandi come Luxottica, Armani, Technogym, Geox, Illy, Alessi, Mapei, ai casi meno noti di imprese di alta tecnologia come IMA, Datalogic fino a quelli delle macchine tessili, delle biotecnologie, dell’aerospazio, e tante altre. Ma a molti sono sembrate “perle isolate” risultato della genialità irripetibile degli imprenditori. Molti lamentano la fine dell’Italia industriale, ma l’Italia rimane fra i primi grandi paesi industriali dell’Europa e del mondo. In realtà si stanno sviluppando modelli industriali diversi. Invece proprio per la globalizzazione e per l’intensificarsi della competizione internazionale oltre che per la perdurante crisi, emerge un paradigma nuovo di imprese italiane: l’Italian Way of Doing Industry (Butera e De Michelis, 2011). Esse sono imprese rete che fanno un’innovazione diversa, cambiano in sintonia con i loro clienti, trasformano i mercati in cui operano, producono meno a prezzi più alti facendo cose sempre nuove e fatte ad arte, sono radicate nel territorio, sono anche nodi di reti molto ampie, hanno come mercato il mondo. Molte di loro sono “imprese integrali”, come vedremo più avanti. Le ragioni del loro successo e il loro paradigma non sono ben noti e quindi il loro esempio si diffonde meno di quanto potrebbe. Spesso esse stesse non hanno coscienza di sé. Di conseguenza, imprese di questo tipo sono ancora poche e il tutto venne aggravato dalla drammatica crisi economica del 2008. La severità della competizione internazionale induce ora tutte le imprese italiane che vogliono sopravvivere a: • fare strategie internazionali sviluppando contemporaneamente le strutture con cui realizzarle • aprire e gestire nuovi mercati che richiedono competenze specifiche per lo più nuove per le imprese italiane • sviluppare e mantenere alleanze con partner e talvolta con competitori per l’innovazione di prodotti/servizi, processi, mercati, organizzazione • incorporare nei prodotti/servizi valore aggiunto derivante dall’immateriale come marchio, immagine, design, servizi post vendita. Ciò implica anche una nuova visione della relazione fra le imprese e territori, non meri contenitori di attività produttive, ma strutture di produzione di servizi esse stesse (Perulli, 1992) e di beni comuni per la competitività (Pichierri, 1999). 2.3. L’economia dei servizi: produrre servizi per il cliente finale e per le organizzazioni interne alle imprese Il secondo fattore strutturale che ha provocato la crisi del modello taylor-fordista e che può oggi invece sostenere nuove forme di organizzazione e lavoro è lo sviluppo del terziario. Oltre il 75% del PIL è costituto da attività nel settore dei servizi: finanza, istruzione, sanità, trasporti, turismo, informatica, consulenza, etc. Questo ha creato una straordinaria crescita sia di servizi offerti all’utente finale sia di servizi offerti all’interno della stessa unità organizzativa (enti, imprese, etc.). Momigliano e Siniscalco (1980) pioneristicamente avevano illustrato l’espansione del settore terziario come il settore economico dominante e avevano mostrato anche, oltre ai crescenti numeri del settore terziario per il mercato prima citato, che il terziario interno alle attività industriali e agricole è una realtà in grande sviluppo (servizi all’impresa interni, come ricerca e sviluppo, planning, studi economici, marketing, HR, logistica, etc.). Inoltre a ciò si aggiunga che i servizi sono sempre più parte della stessa offerta manifatturiera: servizi venduti insieme ai prodotti (contratti di manutenzione), prodotti venduti attraverso i servizi (auto vendute come flotte, leasing, pay per use), prodotti venduti da aziende di servizi (banche, assicurazioni) danno luogo alla “servitizzazione” dei prodotti (Merli, 2010). La conoscenza in una parola non rimane chiusa dentro i processi elaborativi di esperti specialisti ma si fa servizio per essere usabile dalle persone e dalle organizzazioni. Nei servizi la persona/cliente può ottenere il servizio da una interfaccia tecnologica, ma il più delle volte il servizio è offerto da un’altra persona. Fra fornitore (professionista del servizio) e cliente, in sintesi, non è interposto niente: il servizio non è - come il prodotto – un intermediario della relazione e della comunicazione, ma è la relazione e la comunicazione stessa. La relazione è un evento strumentale ed espressivo al tempo stesso. Professionisti dei servizi e clienti (persone sul mercato o all’interno delle organizzazioni) intrattengono una relazione in cui si intrecciano Working Paper 1 /2015 14 “agire performativo” e “agire comunicativo”, secondo la terminologia di Habermas (1969). Il servizio ossia incorpora processi cognitivi, comunicativi, affettivi, simbolici. 2.4. Tecnologie digitali, comunicazioni e comunità: il mito del villaggio globale “Internet cambierà il mondo?” ci si chiedeva alla fine degli anni 90. Si è stato così. Ma come e perché? La comunicazione sociale attraverso il prorompente fenomeno di internet sembrava dovesse soppiantare le comunità reali, rafforzando così l’immagine di imminente decomposizione del reale. Per gli ottimisti (Negroponte, 1995) tutto ciò sembrava fonte di libertà e liberazione perché la comunicazione globale consentita dalle tecnologie ICT avrebbe creato le condizioni per una pluralità di appartenenze a molteplici comunità. Ogni individuo sarebbe divenuto "cittadino" del mondo, almeno del mondo virtuale, del "villaggio globale". L’individuo sarebbe assomigliato a una specie di Ulisse che naviga fra diverse comunità, ma senza vincoli di tempo e spazio e senza fare esperienza fisica nè della dolce comunità di Nausicaa nè della brutale comunità di Polifemo. La persona potrebbe essere egoista e partecipativo al tempo stesso, potendo sempre scegliere di "scomparire" da una comunità attraverso uno zapping senza più alcun limite ). Per i pessimisti invece tutto ciò veniva vissuto come una delle cause della dissoluzione delle strutture, dello sviluppo di una società liquida (Bauman, 2006), come fonte di ansietà per la perdita di controllo economico e sociale, come una sorta “erosion of character”(Sennet, 2008). Le tecnologie hanno spesso contribuito a cambiare la società, le città, l’organizzazione, il lavoro, la cultura. Non è ancora chiarito se sono state la causa, il motorino di avviamento oppure sono state solo una componente del cambiamento. Se pensiamo alle ferrovie, all’energia elettrica, al telefono, ai grattacieli, all’automobile, al computer portatile, ci vengono subito in mente le grandi e visibili differenze fra come era il mondo prima e come appariva dopo la diffusione di massa degli artefatti appartenenti a quei domini tecnologici. I termini adoperati nella letteratura scientifica e nel linguaggio ordinario ne evocano spesso il carattere di “rottura” e di pervasività: le “villes lumière” illuminate dall’energia elettrica, l’America dei grattacieli, l’economia dell’automazione industriale, la civiltà dell’automobile e tante altre. E’ giunto ora il tempo della società dell’ICT (reti di Information and Communication Tecnology) più specificamente della società di internet, soprattutto ora che la diffusione della larga banda rende molto veloci ogni operazione. Ci sono due pericoli nella enfatizzazione degli effetti delle tecnologie: determinismo tecnologico e delega tecnologica. Determinismo tecnologico e delega tecnologica sono basate su immagini distorte delle così dette rivoluzioni tecnologiche. Le rivoluzioni tecnologiche non sono mai state associate ad una singola invenzione per quanto innovativa (ossia la scoperta di una nuova idea) ma ad una innovazione (ossia il processo lungo di applicazione di una nuova idea per creare un nuovo processo o prodotto). Il modo cambia non solo perché c’è internet, ma perché cambiano le organizzazioni, il lavoro, la cultura. L’invenzione è una sorpresa. L’innovazione, invece, ha un cuore antico, un grande orecchio e l’occhio al futuro. In realtà lo sviluppo delle tecnologie digitali e del web 2.0 è il principale driver dello sviluppo di nuove forme di organizzazione di lavoro. Esso consente, in molti casi, di non aver più bisogno dello stesso numero di stabilimenti, uffici fisici: si sviluppano shared offices, fab labs e altre soluzioni che consentono di lavorare da casa appoggiandosi a strutture minimali. Internet ha potenziato, in un modo che non ha precedenti, lo spazio delle comunicazioni a distanza, rendendo possibile tendenzialmente il global reach, ossia la possibilità di raggiungere chiunque, in ogni luogo e in ogni momento (anyone, anywhere, anytime reach). Internet consente di allargare lo spazio della cooperazione, ossia di lavorare insieme a distanza sullo stesso processo di fabbricazione di servizio, di Ricerca e Sviluppo, attivando sistemi di intelligenza distribuita fra uomini e sistemi tecnologici e cooperazione via web e telefono. Internet allarga la capacità di gestione della conoscenza, poiché consente la generazione, il trasferimento, la condivisione di conoscenze fra soggetti remoti, fra questi e gli sterminati data base cui si rende possibile l’accesso. Il web apre uno spazio delle transazioni a distanza con le applicazioni di e-commerce e di e-business e crea un vero e proprio electronic marketplace, un’area degli scambi via web che si affianca e potenzia il mercato tradizionale, come è già avvenuto in modo massiccio nel modo dei libri, della musica riprodotta, del software, del turismo e in molti altri. Il rapporto fra tecnologia, organizzazione e consumo non riguarda più il rapporto fra centri di calcolo e organizzazione, ma è collocata addosso a miliardi di individui, poiché sempre di più i dispositivi di ICT sono mobili (smartphone, tablet e prodotti similari) esaltando la dimensione di raggiungibilità dell’utente anche quando è in moto. Con questo Internet fa confluire nei processi di produzione e di scambio i produttori e i consumatori, che si rendono parte attiva nello sviluppare processi e contenuti, produsers (Bruns, 2007). Working Paper 1 /2015 15 Ottimisti e pessimisti convergevano sull’idea che davvero le comunicazioni soppiantassero le comunità. Ma malgrado le apparenze non vi è stata dissoluzione delle strutture organizzative ma bensì lo sviluppo di nuove strutture organizzative e di nuove comunità, di nuove forme di lavoro, integrate sia su una dimensione globale (processi planetari di commercio elettronico, e-procurement, logistica integrata, gestione di business e imprese multinazionali, ecc.) sia sullo sviluppo locale (processi di cooperazione e innovazione locali ed economia e società locali, comunità culturali, sistemi professionali, gruppi): reti virtuali di organizzazioni reali (Butera, 2003). 2.5 Il lavoro senza rappresentazione e senza governo Dal 2000 si registra una crescente disoccupazione e una polarizzazione fra lavoro garantito e lavoro precario, che si accentua gravemente con la crisi. Mentre i contenuti di lavoro divengono mediamente più complessi sia nella sfera del lavoro delle conoscenze astratte (knowledge workers e professionisti nelle organizzazioni) sia nell’area del lavoro manuale (artigiani, operai specializzati), i lavori sembrano frammentarsi in un caleidoscopio di attività, mestieri, settori, livelli apparentemente diversissimi fra loro. I ruoli, le professioni e i mestieri emergenti o in via di trasformazione non hanno spesso nomi o descrizioni plausibili. Le istituzioni di regolazione del lavoro non si sono accorte fino in fondo della loro esplosiva crescita: le scuole, il mercato del lavoro, l’organizzazione del lavoro sono ancora largamente basati sui modelli del primo industrialismo o del libero professionismo corporativo. Le classificazioni del codice civile e dei contratti sembrano non tenere più. La varietà di forme di gestione del lavoro si amplia enormemente (lavoro dipendente a tempo indeterminato e a tempo determinato, lavoro a progetto, prestazioni occasionali, partita iva, studi associati, società semplice, etc.), nelle forme di stabilità dell’occupazione (dal posto fisso al precariato), nei livelli di reddito (dai super rich ai knowledge workers sotto la soglia della povertà), negli schemi di orari (da 8hx5gg all’always on), nella configurazione dei luoghi di lavoro (una grande varietà di uffici/non uffici), nelle situazioni assicurativa e previdenziale etc. Non stupisce quindi che le identità al lavoro divengano labili. Manca una modalità condivisa di rappresentare i lavori e a queste rappresentazioni del lavoro di far seguire modalità di formazione e sviluppo e forme di verifica delle performances. Mancano classificazioni condivise di attività che abbiano la stessa forza sociale ed economica che nel passato avevano la differenziazione, per esempio nel lavoro dipendente, in dirigenti, quadri, impiegati, operai, tranne che per ragioni contrattuali. Malgrado le loro differenziazioni i loro elementi comuni (come era avvenuto per gli operai) sono numerosi: ma non sono condivisi. I nuovi mestieri e professioni sono un oggetto misterioso. Non vi è consenso su chi sono, quanti sono, come si denominano. Ma su tutto ciò fra i policy makers regna la massima incertezza e confusione: il mondo dei mestieri e delle professioni è in frantumi. Il lavoro necessario per reggere la competizione internazionale, per sviluppare un’economia della terziarizzazione, per convivere e avvalersi delle tecnologie ICT, è certamente il lavoro della conoscenza: ma non quello isolato delle “teste d’uovo” o quello mortificato della precarietà, bensì quello che fa parte di comunità fra lavoratori che impiegano ogni tipo di conoscenza che attraversa i tradizionali settori: per esempio la meccatronica, il sistema moda, la sanità, l’informatica, l’agroalimentare, i beni culturali, etc. Tali comunità che cooperano e si scambiano conoscenza sono già diffuse e sono composte da lavori intellettuali o manuali, professionali o artigiani, di diverso livello di competenze e di compensi ma tutti caratterizzati dall’orientamento a fornire un servizio al cliente finale o alle unità organizzative interne, operando attraverso reti di persone e di organizzazioni. Il terzo fattore strutturale che ha cambiato il mondo è la tecnologia. Partendo da essa vanno cercati nuovi paradigmi di organizzazione e lavoro. Working Paper 1 /2015 16 3. Possibili percorsi di ricomposizione Quattro, come anticipato, sono i possibili principali percorsi di ricomposizione dell’impresa dell’organizzazione e del lavoro, quattro paradigmi chiave su cui lavoriamo da anni, quattro driver per la costruzione di nuovi modelli di organizzazione e di lavoro: 1. l’impresa integrale ossia quella che armonizza obiettivi economici e obiettivi sociali, come fu la Olivetti di Adriano Olivetti e come oggi sono Zambon, Cucinelli, Loccioni e moltissime altre 2. le imprese rete e le reti di imprese governate ossia la progettazione e sviluppo di reti di imprese che potenzino la differenziazione produttiva e valorizzino le piccole e medie imprese oltre che le grandi imprese, come Boeing, Benetton, ST Microelectronics ieri e oggi la SCM, la IMA, Eataly e molte altre 3. la riorganizzazione delle singole Pubbliche Amministrazioni e il nuovo sviluppo locale ossia un percorso programmato di reinventing governement di singole amministrazioni centrali e locali che sviluppi servizi di qualità a basso costo in una forte relazione con i territori e le imprese, come il comune di Reggio Emilia, il Tribunale di Monza, i nuovi Poli museali e un gran numero di altri; le professioni di servizio nelle organizzazioni ossia lo sviluppo di nuove professioni nelle imprese, nelle Pubbliche amministrazioni e nelle unità di lavoro autonomo. Esse sviluppano processi di servizio basati sulla conoscenza che danno elevati contributi nei settori trainanti dell’economia, rafforzano le identità professionali delle persone, assicurano una buona Qualità della Vita di Lavoro, come i knowledge owner dell’ENI 4. le professioni di servizio dell’INPS, le professioni sociali, gli “artigiani digitali” dei FAB LAB, i professionisti della meccatronica della piattaforma dell’Emilia Romagna e un gran numero di altri. Sono quattro linee di progettazione che riconoscono che dentro il dinamismo e la mutevolezza delle nuove forme di impresa consentono di superare l’angoscia che all is melting into the air. Esse possono descrivere, interpretare, progettare nuove forme di strutture flessibili capaci di assorbire la complessità e la variabilità del nuovo contesto economico e sociale e di assicurare una buona qualità della vita di lavoro. Sono quattro cardini di un nuovo modo di produzione: economia e società, modelli di impresa, rapporto pubblico privato, modelli di lavoro. E soprattutto possono rappresentare paradigmi che consentano l’esercizio di scelte e progetti da parte dei soggetti collettivi istituzionali, imprenditoriali, sociali, che riprendano a condividere “ a che gioco giochiamo. 3.1. Imprese integrali Un nuovo modo di produzione non può che partire dall’impresa. L’intrinseco contrasto fra profitto e bene sociale, in un percorso di ridefinizione del modo di produzione non può non essere risolto in prima battuta dalla natura e dal comportamento dell’impresa stessa. Su questa linea di riflessione si sono mossi approcci tesi a inglobare e a superare la nozione di responsabilità sociale dell’impresa tra gli altri in Italia Mauro Ceruti e Tiziano Treu, Mauro Magatti, Giuseppe Berta, Marco Vitale e in USA J.K Galbraith e recentemente Michael Porter (2011) in USA. Una visione ispirata e lungimirante è quella di Gianfranco Dioguardi con la sua idea di “impresa encyclopedie” (Dioguardi, 2014). Avevo proposto e ripropongo la nozione di “impresa integrale” (Butera, 2010) che ho sviluppato apprendendola da casi eccellenti italiani e internazionali come la Olivetti di Adriano Olivetti: è una “impresa responsabile” che persegue obiettivi economici ma anche che rispetta l’ambiente, produce servizi e prodotti utili, promuove il benessere del territorio, è attenta alla qualità della vita di lavoro, ha condotte eticamente integre, etc. E fa ciò non solo per la necessaria compliance a norme e regolamenti ma sulla spinta della propria modalità di fare strategia e struttura. Il concetto di impresa integrale va oltre quello di “responsabilità sociale” e di “impresa responsabile”, “impresa illuminata”, nozioni che hanno avuto grandi meriti ma sono state criticate per le loro connotazioni moralistiche e idealistiche o per la loro sostenibilità economica. Parliamo di una impresa “normale”. Essa non è un modello ma un percorso energico e faticoso per definire valori, strategie, per “render conto”. E soprattutto per realizzare risultati e mettere in pratica quei valori, ogni giorno e per tutti. L’impresa integrale per chi scrive è il risultato del rafforzamento del duplice legame di reciprocità fra impresa e società. Essa è un’istituzione economica che non solo importa dal contesto socio-economico valori, norme e regole sociali, ma che vi esporta anche valori, conoscenze, cooperazione. Questa reciprocità avviene attraverso prodotti, servizi, progetti, ma soprattutto attraverso le persone “vere”, cresciute e socializzate nella Working Paper 1 /2015 17 e con l’impresa: manager, professional, tecnici, artigiani, semplici lavoratori, e anche clienti e fornitori, cittadini di una società della conoscenza. Essa è in qualche modo una istituzione. Ciò che determina l’essere un’impresa integrale non sono solo le qualità morali individuali o le caratteristiche valoriali e carismatiche dell’imprenditore e del gruppo dirigente (sempre fondamentali), ma le reali pratiche operative e di management dell’impresa. L’impresa integrale ha alcune caratteristiche chiave: 1. fonda la sua identità su sviluppo, produzione e commercializzazione di beni o servizi socialmente utili per i clienti e le comunità. Esclusi i casi di prodotti ostensibilmente dannosi come la droga o le sigarette, o i servizi basati sulla debolezza del cliente come l’usura e il “pizzo”, In ogni società esiste una discussione su cosa è utile, superfluo o dannoso: la definizione di prodotti “socialmente apprezzabili” è naturalmente del tutto contingente ai valori, alla cultura, all’economia di ogni specifica società 2. poiché tende ad essere fra le best in class nel suo settore o nel suo mercato, è capace di difendersi dalle diseconomie esterne e di attivare propositivamente economie esterne. Ossia, interviene positivamente sul mondo esterno insieme alle istituzioni (pensiamo al miglioramento dell’ambiente fisico, all’intervento positivo sui processi di istruzione pubblica, alla reazione al “pizzo”, in sintonia con le istituzioni) 3. altro elemento chiave dell’apprezzabilità sociale è costituito dalla eccellenza del processo di concezione, realizzazione e consegna del prodotto e servizio: l’intensità della ricerca, l’impiego di tecnologie avanzate, la qualità dell’organizzazione, l’impiego e la valorizzazione delle competenze 4. è una organizzazione integrata ossia è internamente coerente e strategicamente appropriata: sviluppa cioè un’efficace integrazione di strategie, processi, organizzazione, ruoli, valori, leadership 5. è costituita da comunità che interagiscono, dialogano, lavorano, confliggono, convergono, decidono, operano sul territorio e che oggi si possono avvalere delle straordinarie potenzialità delle tecnologie dell’Informazione e della Comunicazione per creare comunità planetarie 6. accumula nel tempo un consistente “capitale sociale”: attrae investimenti di investitori, fornitori e clienti, fertilizza comunità, sistemi economici territoriali, Pubbliche Amministrazioni, altre imprese 7. produce soprattutto persone, persone vere cresciute e socializzate nella e con l’impresa: manager, professional, tecnici, artigiani, semplici lavoratori, e anche clienti e fornitori. Product of work is people (Herbst, 1976). 8. il suo governance system, la sua organizzazione interna, la sua cultura di impresa, le relazioni stabili con le istituzioni e le organizzazioni del territorio sono caratterizzati da impegni e responsabilità, valori dichiarati e effettivamente praticati a tutti i livelli, fra cui trasparenza, correttezza, collaborazione, fiducia, passione, energie e altre: ciò ne determina l’identità 9. nell’impresa integrale operano soggetti che possono avere pregi e difetti, eroismi e storture di ogni genere, ma in tutti i casi sono stakeholder che svolgono con impegno le proprie funzioni economicosociali a cui l’impresa dà visibilità e importanza: l’imprenditore che assicura l’equilibrio economico e fa fare nuove cose; gli azionisti che apportano risorse economiche all’impresa invece di esportare capitali nei paradisi fiscali; i dirigenti che promuovono il cambiamento; i professional che innovano o sostengono l’apprendimento degli altri; gli operai e gli impiegati che realizzano i processi fondamentali che partecipano al miglioramento continuo; i clienti che sono parte ineliminabile dell’impresa, e così via 10. dispone di una vasta serie di solidi indicatori economici e finanziari (redditività, ROI, ROE, etc.), di efficacia commerciale (customer satisfaction, etc.) e di efficacia sociale (bilancio di sostenibilità, inchieste nella comunità di riferimento, indagini di clima, analisi della qualità della vita di lavoro, etc.) 3.2. L’impresa rete e le reti di imprese Abbiamo visto che la riarticolazione delle imprese, l’outsourcing, l’offshoring sono stati visti come un processo di decomposizione dell’impresa con effetti perversi su molti stakeholders (le piccole imprese, i lavoratori meno qualificati, etc.). Ma le reti di impresa e le imprese rete possono produrre benefici per tutti gli stakeholders, a condizione che la rete sia progettata, governata e gestita come “quasi impresa” integrale. L’apparente “impresa in frantumi” si può rivelare in realtà una impresa di concezione nuova, quando ha la capacità di fare strategia e di gestire una struttura, con livelli di piena accountability. Butera (1990) aveva definito reti di impresa naturali quel sistema di riconoscibili e multiple connessioni e strutture entro cui operano nodi ad alto livello di autoregolazione capaci di cooperare tra loro in vista di fini Working Paper 1 /2015 18 comuni o di risultati condivisi. Aveva chiamato imprese rete governate quelle in cui soggetti imprenditoriali individuali o collettivi, privati o pubblici, provvedono in maniera intenzionale a progettare, gestire, mantenere nel suo complesso un sistema di organizzazioni. Io sostenevo che esse si possono progettare e gestire: se questo è vero allora una parte della apparente “liquidità” del post chandlerismo e del post taylor fordismo risulta l’effetto di non vedere una emergente realtà che abbiamo davanti. Una economia e una società fatta di reti inter-organizzative non è uguale a quella fatta prevalentemente di singole imprese “castello”. Gli elementi costitutivi dell’Impresa Rete e della Rete Organizzativa che la rendono analizzabile e progettabile sono: a) i processi (interfunzionali, interaziendali e interistituzionali) che attraversano imprese e unità organizzative diverse b) la valorizzazione che avviene attraverso una doppia catena del valore: il valore economico e il valore sociale c) “nodi” vitali, capaci cioè di sopravvivere e prosperare autonomamente; “nodi produttivi” (imprese, unità organizzative, ruoli professionali) e “nodi istituzionali” (enti pubblici, comuni, scuole, gruppi sociali) che operano nella stessa “arena decisionale” d) legami deboli e forti che connettono tali nodi (scambi economici, procedure, informazioni, comunicazioni, relazioni sociali, rapporti di potere, ecc.); e) strutture multiple che devono essere fra loro coerenti e adatte alle strategie e alle sfide (gerarchia, mercato, sistema informativo, sistema telematico, sistema di knowledge management, strutture sociali, strutture politiche, ecc.) f) proprietà operative peculiari come i nuovi sistemi decisionali, di regolazione dei conflitti, di rafforzamento dell’appartenenza alla rete, ecc. Il più importante dei sistemi operativi è il sistema di governo (governance system). Per progettare e gestire reti organizzative intervenendo su tali componenti costitutivi delle reti, occorre affrontare e risolvere alcune questioni che brevemente elenchiamo di seguito: 1. Diagnosi. L’organizzazione a rete è oggi scarsamente riconoscibile. Come diagnosticarla, come identificarne le caratteristiche strutturali e comprenderne i problemi critici? 2. Sviluppo e progettazione. L’organizzazione a rete si può supportare con adeguati servizi, sviluppare intenzionalmente o addirittura progettare, come qui si sostiene. 3. Composizione degli interessi. Come i singoli nodi di una rete (piccola impresa, professione, persona) possono contribuire ad una rete in cui vi è un soggetto forte che tende ad essere dominante e ad appropriarsi della maggior parte del valore? Quali nuovi meccanismi operativi riescono a trasformare subforniture subordinate in rapporti cooperativi win win? 4. Stabilità e mutamento. Ogni nodo o soggetto della rete fa parte di reti diverse, in alcuni casi abbandona le une per legarsi ad altre. Come combinare l’estrema mutevolezza di queste multiple appartenenze con l’esigenza di stabilità e crescita di ogni singolo nodo, come far sì che l’intera rete si comporti come un “attore collettivo”? 5. Risultati. Se e come definire obiettivi economici e sociali e ri-articolarli velocemente nel tempo? Come valutare i risultati? 6. Decisioni e misura. L’organizzazione a rete – come e più dell’impresa tradizionale – cambia per repentine innovazioni, per adattamento, per micro-decisioni, per miglioramento continuo, è il risultato di scelte su cosa fare dentro e cosa comprare, su quali funzioni accentrare e quali decentrare, su quando acquisire o vendere unità aziendali e su quando fare accordi, dove allocare geograficamente le attività. Vi sono criteri e metodi da adottare, per operare in questi contesti di agilità, velocità e rapidità di processi decisionali? E soprattutto quali forme di governance? 7. Sistemi. Quali tecniche o sistemi operativi adatti all’impresa rete devono essere sviluppati? Per esempio quali sistemi di pianificazione e controllo di gestione dell’impresa rete? È possibile stabilire standard di qualità per la rete? Come sviluppare dimensioni quali linguaggi, culture, politiche di marchio e di visibilità? Come potenziare le comunità, come promuovere formazione e apprendimenti? 8. Strutture. Le reti di impresa includono una grande varietà di forme Quali processi interorganizzativi? Quali sistemi informativi e di telecomunicazioni sono adatti per la rete di imprese? Quali sistemi logistici? Quali Working Paper 1 /2015 19 regole e contratti formali? Quali flussi finanziari? Le risorse umane in tutta la rete si possono gestire e sviluppare? E in che modo? E che dire dei sistemi di controllo della qualità? 9. Nascita e morte. La rete di imprese e soprattutto i suoi “nodi” hanno un tasso di natalità/mortalità più elevato dell’impresa tradizionale. Gestire la nascita e la morte delle imprese diventerà ancora più importante che gestire le imprese. Chi lo farà e come? 3.3. Riorganizzazione delle singole Pubbliche Amministrazioni e il nuovo sviluppo locale La Pubblica Amministrazione è un problema e un’opportunità. Le Pubbliche Amministrazioni italiane hanno, come è noto, seri problemi di efficienza e di efficacia che incidono sullo sviluppo economico e sociale. Ma essa è anche centrale nel sistema di erogazione dei servizi e un potente volano economico. Per affrontare il problema e cogliere l’opportunità, il percorso proposto da tempo (Butera e Dente, 2009) è quello di un reinventing governement di singole amministrazioni centrali e locali attraverso progetti orientati al risultato, al cambiamento, alla cooperazione interna ed esterna che sviluppino servizi di qualità a basso costo in una nuova rinnovata relazione con i territori e le imprese. Tutto ciò è un driver principale per sviluppare un nuovo modo di produzione. Esso dovrebbe servire a: a) misurare e conseguire risultati tangibili di miglioramento dei servizi, riduzione della spesa, promozione della crescita e b) potenziare la capacità amministrativa e organizzativa delle Pubbliche Amministrazioni attraverso progetti orientati al risultato, al cambiamento, alla cooperazione interna ed esterna, ottenendo crescita e valutabilità dei dirigenti e dei funzionari. Questi percorsi non si dovrebbero limitare al miglioramento del funzionamento interno delle amministrazioni ma dovrebbero favorire lo sviluppo di forme originali di reti fra imprese, territori e Pubbliche Amministrazioni: • la cooperazione fra impresa, pubbliche amministrazioni e strutture sociali del territorio (Velz, 1998; Perulli, 1998) • lo sviluppo delle piattaforme industriali, ossia i sistemi composti da componenti indipendenti, in cui ciascuno è soggetto di innovazione, come le macchine utensili, il settore del Legno-Arredo, l’informatica, l’agroalimentare, i beni culturali (Cusumano, 2010) • l’estensione dei processi produttivi ai consumatori (prosumers) e la valorizzazione dei prodotti attraverso l’open innovation e il crowdsourcing (Fuggetta e De Michelis, 2010) • la cooperazione e condivisione delle conoscenze fra le persone nelle reti web al di là dei processi controllati dalla singola impresa e creando valore non appropriabile (Rullani, 2004) 3.4. I lavori, i mestieri, le professioni dei servizi Abbiamo già mostrato come si stanno sviluppando service professions che potenziano la capacità dei knowledge workers di proporre le loro competenze ai clienti finali e intermedi, divenendo protagonisti della condivisione della conoscenze, della cooperazione, della comunicazione e della promozione delle comunità all’interno delle organizzazioni, che proprio per questo divengono più flessibili, innovative e competitive. Professionisti dei servizi non sono solo gli infermieri e i medici, gli insegnanti, gli assistenti sociali, gli artisti, i consulenti, gli operatori di front office dell’INPS e dell’Agenzia delle Entrate, etc. che usano le loro conoscenza per offrire servizi ad un cliente individuale o collettivo ma anche lavoratori della conoscenza che hanno successo se “vendono” le loro conoscenze a unità organizzative intermedie e con esse si integrano per chiudere un processo organizzativo primario, come gli scienziati che sanno proporre le loro scoperte a chi le può approfondire e usare, ai progettisti che devono combattere perche i loro progetti siano approvati e realizzati, agli specialisti che per avere successo devono farsi capire all’interno dell’organizzazione e una infinità di altri. Essi, oltre a produrre conoscenza per mezzo di conoscenza, forniscono output economicamente e socialmente molto tangibili, ossia servizi ad alto contenuto di conoscenza agli utenti finali (persone, famiglie, imprese) o servizi a strutture interne alle organizzazioni (servizi per la produzione di beni e servizi, terziario interno). Al primo gruppo appartengono ad esempio - oltre alle libere professioni sempre più svolte all’interno di organizzazioni (medici, avvocati, architetti, dottori commercialisti, geometri, giornalisti etc.) anche nuove professioni non “ordiniste” come le professioni sociali (badanti, assistenti sociali, etc.) che occupano oltre un milione di persone e sono in crescita, i consulenti, gli informatici etc. Esempi di professioni dei servizi all’interno delle organizzazioni – ossia che insieme con altri forniscono servizi alle strutture interne di una Working Paper 1 /2015 20 organizzazione - sono ad esempio le professioni dell’ICT, i progettisti di prodotto e servizio, i professionisti del marketing e della comunicazione, i pianificatori, gli esperti di amministrazioni, i venditori e soprattutto i manager come professionisti. Emerge un repertorio di “professioni strategiche” che offrono servizi ad altissimo contenuto di conoscenza e sono il motore di mutazioni nel modello economico e organizzativo delle organizzazioni di produzione (aerospazio, meccatronica, chimica, farmaceutica, fashion, etc.) e delle organizzazioni dei servizi (sanità, istruzione, giustizia, turismo, ICT, logistica e portualità, agroalimentare, water management e molte altre). Pensiamo anche a specialisti e funzionari pubblici che operino come parte attiva di un ciclo di servizio. Questi mestieri e professioni dei servizi includono sia il lavoro della conoscenza teorica e pratica in tutte le sue accezioni (il sapere perché, il sapere che cosa, il sapere come, il sapere per chi, il sapere usare le routine, il sapere usare le mani, etc.) sia sopratutto il lavoro di relazione con il cliente esterno o interno. Una conoscenza per dare valore e utilità alle persone e alle organizzazioni è quella che si esprime nel servizio. Oggi non serve più la ricomposizione delle mansioni degli anni ’70, ma serve la ricomposizione del lavoro intorno a professioni capaci di governare complessi processi di servizio e di dare identità professionale alle persone. Il lavoro non si svolge più nei “castelli” esclusivamente in forma dipendente, ma anima le reti fra imprese, amministrazioni, territori, che possiede un robusto statuto professionale e dispone di flessibilità e sicurezza. Di fronte alla drammatica crisi occupazionale che colpisce i giovani, è comprensibile l’incoraggiamento di alcuni giornalisti e studiosi brillanti a non attendere l’assunzione della grande impresa ma a esplorare aree emergenti di lavoro, di cui vengono forniti vivide rappresentazioni. Ma i numeri sono così bassi e così scarso l’aiuto nella formazione e nell’inserimento di queste opportunità entro strutture solide, che si rischia di creare illusioni: avviarsi verso un futuro artigiano in un quadro di crescente richiesta di qualità nella manifattura o nell’informatica (Micelli), richiede forti supporti formativi e nuovi patti occupazionali; fondare startup (Luna) richiede un sostegno nel difficile compito di fare impresa. Ma tutto ciò non tocca grandi numeri né configura modelli emergenti. Non essendo possibile competere con i BRICS sul costo del lavoro, la competizione si gioca nell’aggiungere valore alla manifattura, nell’integrare prodotti e servizi, nel produrre servizi di alto valore e non tentando invece di creare lavori marginali ad apparente facile occupabilità (Boeri, 2011). La competitività del fattore lavoro è affidata ai lavoratori della conoscenza e in particolare ai professionisti dei servizi nelle organizzazioni. Essi vanno formati da scuole e università migliori, vanno regolati da sistemi fiscali e regolativi che incentivino il loro impiego, vanno inseriti in forme di organizzazione del lavoro che ne potenzino produttività e creatività, in sistemi professionali che riconoscano e sviluppino il loro emergente paradigma. Le professioni dei servizi nelle organizzazioni raccolgono l’eredità e superano sia i caratteri di razionalità delle occupazioni industriali che hanno potenziato nel XX secolo la produttività del lavoro (aggiungendo oggi ad esse autonomia e responsabilità), sia il lavoro artigiano vecchio e nuovo che assicura qualità e bellezza (aggiungendo ad esso capacità di fornire servizi di alto valore insieme a tutta l’organizzazione), sia la formazione, giurisdizione e responsabilità delle libere professioni (aggiungendo ad esse la cooperazione all’interno delle organizzazioni). Una visione elitaria del lavoro? Un approccio che non risolve il più drammatico problema del lavoro oggi, la disoccupazione? No, al contrario. La disoccupazione si combatte principalmente: • creando posti di lavoro che siano componenti chiave di nuovi modi di produzione e che contribuiscono in modo prioritario sulla crescita e competitività dei servizi: servizi del terziario totale e servizi del terziario per il sistema produttivo, ossia la stragrande maggioranza delle attività produttive. • creando mestieri e professioni che costituiscono nodi vitali delle reti di impresa e delle imprese integrali. • valorizzando il potenziale di conoscenza, creatività, impegno, competenze operative delle persone e in particolare delle giovani generazioni, the workplace within (Hirshorm, 1990) • cogliendo le enormi opportunità degli strumenti individuali e collettivi offerti dalle tecnologie per un lavoro senza confini e favorendo l’open innovation su scala planetaria. • creando posti di lavoro della conoscenza che ne presuppongono o ne creano altri. Come dimostrato da Enrico Moretti (2013) in una analisi empirica in California, per ogni nuovo job della conoscenza (definiti in modo più restrittivo di noi) creato nascono altri 5 posti di lavoro. • qualificando davvero la manodopera a tutti i livelli. Il modello delle professioni di servizio è un paradigma di riferimento anche per i lavori più umili o che non richiedono elevata formazione scolastica. E’ il Working Paper 1 /2015 21 paradigma di un fair job, good module of work (Davis) che sia esercitabile da tutti coloro che imparano o vengono abilitati a svolgere lavori basati sulla responsabilità, ruoli che contengano contenuti operativi continuamente migliorabili e perfezionabili, che conseguano apprezzabili risultati di servizio, che gestiscano positivamente le relazioni, che attivino adeguate competenze. Un percorso di professionalizzazione del genere per esempio è stato proposto e spesso realizzato nei lavori di vendita, nei call center, nella ristorazione, nell’accoglienza alberghiera, negli ospedali, nel lavoro sociale, nei lavori di front office della pubblica amministrazione, nei lavori dedicati alla sicurezza, nei lavori manifatturieri a base artigiana, nello sport, nello spettacolo e molti altri. I migliori percorsi scuola/lavoro sono spesso basati su questi principi. Occorre, in sintesi, costruire concretamente e rafforzare un “futuro professionale” per tutti, knowledge workers e lavoratori operativi, dipendenti e partite iva, professionisti e artigiani, nuovi entranti nel mercato del lavoro e senior da riconvertire. Da quanto precede, i mestieri e professioni di nuova concezione, il 50% di lavoratori della conoscenza che si stanno trasformando in “professionisti dei servizi” avanzati possono essere la locomotiva di un futuro professionale per tutti coloro che ricoprono lavori che possono essere valorizzati sia rafforzando i risultati ottenibili sia sviluppando le competenze e potenzialità delle persone, “the workplace within”. Il grande sociologo delle professioni Wilensky nel 1970 scriveva un memorabile articolo intitolato “The professionalization of everyone”: allora ciò era prematuro. Ora è possibile e necessario perché sappiamo cosa sono le nuove professioni, in che nuovi modelli di imprese operano, di quali reti sono componenti, di quali sistemi pubblico/privato fanno parte. Sappiamo che ci sono fattori strutturali che impongono o favoriscono questa valorizzazione professionale. 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