Io non ho paura

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Io non ho paura
Niccolò Ammaniti
Io non ho paura
Que sto libro è de dicato a mia sore lla Luisa,
che mi ha se guito sulla Ne ra
con la sua ste lle tta d'arge nto
appuntata sulla giacca.
Qu esto sol o capì . Di essere cadu to n el l a
ten ebra.
E n el l 'i stan te i n cu i seppe, cessò di
sapere.
JA CK LON DON
1.
Stav o per superare Salv atore quando ho sentito
m ia sorella che urlav a. Mi sono girato e l'ho v ista
sparire inghiottita dal grano che copriv a la
collina.
Non dov ev o portarm ela dietro, m am m a m e
l'av rebbe fatta pagare cara.
Mi sono ferm ato. Ero sudato. Ho preso fiato e
l'ho chiam ata. — Maria? Maria?
Mi ha risposto una v ocina sofferente. —
Michele!
— Ti sei fatta m ale?
— Sì, v ieni.
— Dov e ti sei fatta m ale?
— Alla gam ba.
Facev a finta, era stanca. Vado av anti, m i sono
detto. E se si era fatta m ale dav v ero?
Dov 'erano gli altri?
Vedev o le loro scie nel grano. Saliv ano piano, in
file parallele, com e le dita di una m ano, v erso la
cim a della collina, lasciandosi dietro una coda di
steli abbattuti.
Quell'anno il grano era alto. A fine prim av era
av ev a piov uto tanto, e a m età giugno le piante
erano più rigogliose che m ai. Crescev ano fitte,
cariche di spighe, pronte per essere raccolte.
Ogni cosa era coperta di grano. Le colline,
basse, si susseguiv ano com e onde di un oceano
dorato. Fino in fondo all'orizzonte grano, cielo,
grilli, sole e caldo.
Non av ev o idea di quanto facev a caldo, uno a
nov e anni, di gradi centigradi se ne intende poco,
m a sapev o che non era norm ale.
Quella m aledetta estate del 1 9 7 8 è rim asta
fam osa com e una delle più calde del secolo. Il
calore entrav a nelle pietre, sbriciolav a la terra,
bruciav a le piante e uccidev a le bestie, infuocav a
le case. Quando prendev i i pom odori nell'orto,
erano senza succo e le zucchine piccole e dure. Il
sole ti lev av a il respiro, la forza, la v oglia di
giocare, tutto. E la notte si schiattav a uguale.
Ad Acqua Trav erse gli adulti non usciv ano di
casa prim a delle sei di sera. Si tappav ano dentro,
con le persiane chiuse. Solo noi ci av v enturav am o
nella cam pagna rov ente e abbandonata.
Mia sorella Maria av ev a cinque anni e m i
seguiv a con l'ostinazione di un bastardino tirato
fuori da un canile.
«Voglio fare quello che fai tu», dicev a sem pre.
Mam m a le dav a ragione.
«Sei o non sei il fratello m aggiore?» E non
c'erano santi, m i toccav a portarm ela dietro.
Nessuno si era ferm ato ad aiutarla.
Norm ale, era una gara.
— Dritti, su per la collina, niente curv e. È
v ietato stare uno dietro l'altro. E v ietato ferm arsi.
Chi arriv a ultim o paga penitenza —. Av ev a deciso
il Teschio e m i av ev a concesso: — Va bene, tua
sorella non gareggia. E troppo piccola.
— Non sono troppo piccola! — av ev a protestato
Mar ia. — Voglio fare anch'io la gara! — E poi era
caduta.
Peccato, ero terzo.
Prim o era Antonio. Com e sem pre.
Antonio Natale, detto il Teschio. Perché lo
chiam av am o il Teschio non m e lo ricordo. Forse
perché una v olta si era appiccicato sul braccio un
teschio, una di quelle decalcom anie che si
com prav ano dal tabaccaio e si attaccav ano con
l'acqua. Il Teschio era il più grande della banda.
Dodici anni. Ed era il capo. Gli piacev a com andare
e se non obbediv i div entav a cattiv o. Non era una
cim a, m a era grosso, forte e coraggioso. E si
arram picav a su per quella collina com e una
dannata ruspa.
Secondo era Salv atore.
Salv atore Scardaccione av ev a nov e anni, la
m ia stessa età. Erav am o in classe insiem e. Era il
m io m igliore am ico. Salv atore era piti alto di m e.
Era un ragazzino solitario. A v olte v eniv a con noi
m a spesso se ne stav a per i fatti suoi. Era più
sv eglio del Teschio, gli sarebbe stato facilissim o
spodestarlo, m a non gli interessav a div entare
capo. Il padre, l'av v ocato Em ilio Scardaccione, era
una persona im portante a Rom a. E av ev a un sacco
di soldi in Sv izzera. Questo si dicev a.
Poi c'ero io, Michele. Michele Am itrano. E
anche quella v olta ero terzo, stav o salendo bene,
m a per colpa di m ia sorella adesso ero ferm o.
Stav o decidendo se tornare indietro o lasciarla
là, quando m i sono ritrov ato quarto. Dall'altra
parte del crinale quella schiappa di Rem o Marzano
m i av ev a superato. E se non m i rim ettev o subito
ad arram picarm i m i sorpassav a pure Barbara
Mura.
Sarebbe stato orribile. Sorpassato da una
fem m ina. Cicciona.
Barbara Mura saliv a a quattro zam pe com e
una scrofa inferocita. Tutta sudata e coperta di
terra.
— Che fai, non v ai dalla sorellina? Non l'hai
sentita? Si è fatta m ale, pov erina, — ha grugnito
felice. Per una v olta non sarebbe toccata a lei la
penitenza.
— Ci v ado, ci v ado… E ti batto pure —. Non
potev o dargliela v inta così.
Mi sono v oltato e ho com inciato a scendere,
agitando le braccia e urlando com e un sioux. I
sandali di cuoio sciv olav ano sul grano. Sono finito
culo a terra un paio di v olte.
Non la v edev o. — Maria! Maria! Dov e stai?
— Michele…
Eccola. Era lì. Piccola e infelice. Seduta sopra
un cerchio di steli spezzati. Con una m ano si
m assaggiav a una cav iglia e con l'altra si tenev a
gli occhiali. Av ev a i capelli appiccicati alla fronte
e gli occhi lucidi. Quando m i ha v isto, ha storto la
bocca e si è gonfiata com e un tacchino.
— Michele…?
— Maria, m i hai fatto perdere la gara! Te
l'av ev o detto di non v enire, m annaggia a te —. Mi
sono seduto. — Che ti sei fatta?
— Sono inciam pata. Mi sono fatta m ale al piede
e… — Ha spalancato la bocca, ha strizzato gli occhi,
ha dondolato la testa ed è esplosa a frignare. — Gli
occhiali! Gli occhiali si sono rotti!
Le av rei m ollato uno schiaffone. Era la terza
v olta che rom pev a gli occhiali da quando era
finita la scuola. E ogni v olta con chi se la prendev a
m am m a?
«Dev i stare attento a tua sorella, sei il fratello
m aggiore».
«Mam m a, io…»
«Niente m am m a io. Tu non hai ancora capito,
m a io i soldi non li trov o nell'orto. La prossim a
v olta che rom pete gli occhiali ti prendi una di
quelle punizioni che… »
Si erano spezzati al centro, dov e erano stati già
incollati. Erano da buttare.
Mia sorella intanto continuav a a piangere.
— Mam m a… Si arrabbia… Com e si fa?
— E com e si fa? Ci m ettiam o lo scotch. Alzati,
su.
— Sono brutti con lo scotch. Sono bruttissim i.
Non m i piacciono.
Mi sono infilato gli occhiali in tasca. Senza,
Maria non ci v edev a, av ev a gli occhi storti e il
m edico av ev a detto che si sarebbe dov uta operare
prim a di div entare grande. — Non fa niente.
Alzati.
Ha sm esso di piangere e ha com inciato a tirare
su con il naso. — Mi fa m ale il piede.
— Dov e? — Continuav o a pensare agli altri,
dov ev ano essere arriv ati sopra la collina da
un'ora. Ero ultim o. Sperav o solo che il Teschio non
m i facesse scontare una penitenza troppo dura.
Una v olta che av ev o perso una gara m i av ev a
obbligato a correre nell'ortica.
— Dov e ti fa m ale?
— Qua —. Mi ha m ostrato la cav iglia.
— Una storta. Non è niente. Passa subito.
Le ho slacciato la scarpa da ginnastica e l'ho
sfilata con m olta attenzione. Com e av rebbe fatto
un dottore. — Ora v a m eglio?
— Un po'. Torniam o a casa? Ho sete da m orire. E
m am m a…
Av ev a ragione. Ci erav am o allontanati troppo.
E da troppo tem po. L'ora di pranzo era passata da
un pezzo e m am m a dov ev a stare di v edetta alla
finestra.
Lo v edev o m ale il ritorno a casa.
Ma chi se lo im m aginav a poche ore prim a.
Quella m attina av ev am o preso le biciclette.
Di solito facev am o dei giri piccoli, intorno alle
case, arriv av am o ai bordi dei cam pi, al torrente
secco e tornav am o indietro facendo le gare.
La m ia bicicletta era un ferro v ecchio, con il
sellino rattoppato, e così alta che dov ev o piegarm i
tutto per toccare a terra.
Tutti la chiam av ano la Scassona. Salv atore
dicev a che era la bicicletta degli alpini. Ma a m e
piacev a, era quella di m io padre.
Se non andav am o in bicicletta ce ne stav am o in
strada a giocare a pallone, a ruba bandiera, a un
due tre stella o sotto la tettoia del capannone a non
fare niente.
Potev am o fare quello che ci parev a. Macchine
non ne passav ano. Pericoli non ce n'erano. E i
grandi se ne stav ano rintanati in casa, com e rospi
che aspettano la fine del caldo.
Il tem po scorrev a lento. A fine estate non
v edev am o l'ora che ricom inciasse la scuola.
Quella m attina av ev am o attaccato a parlare
dei m aiali di Melichetti.
Si parlav a spesso, tra noi, dei m aiali di
Melichetti. Si dicev a che il v ecchio Melichetti li
addestrav a a sbranare le galline, e a v olte pure i
conigli e i gatti che raccattav a per strada.
Il Teschio ha sputato uno spruzzo di saliv a
bi a n c a . — Finora non v e l'ho m ai raccontato.
Perché non lo potev o dire. Ma ora v e lo dico: quei
m aiali si sono m angiati il bassotto della figlia di
Melichetti.
Si è sollev ato un coro generale. — No, non è
v ero!
— È v ero. Ve lo giuro sul cuore della Madonna.
Viv o! Com pletam ente v iv o.
— È im possibile!
Che razza di bestie dov ev ano essere per
m angiarsi pure un cane di razza?
Il Teschio ha fatto di sì con la testa. — Melichetti
glielo ha lanciato dentro il recinto. Il bassotto ha
prov ato a scappare, è un anim ale furbo, m a i
m aiali di Melichetti di più. Non gli hanno dato
scam po. Massacrato in due secondi — Poi ha
aggiunto: — Peggio dei cinghiali.
Barbara gli ha chiesto: — E perché glielo ha
lanciato?
Il Teschio ci ha pensato un po'. — Ha pisciato in
casa. E se tu finisci là dentro, cicciona com e sei, ti
spolpano fino alle ossa.
Maria si è m essa in piedi. — E pazzo Melichetti?
Il Teschio ha sputato di nuov o a terra. — Più
pazzo dei suoi m aiali.
Siam o rim asti zitti a im m aginarci la figlia di
Melichetti con un padre così cattiv o. Nessuno di
noi sapev a com e si chiam av a, m a era fam osa per
av ere una specie di arm atura di ferro intorno a
una gam ba.
— Possiam o andarli a v edere! — m e ne sono
uscito.
— Una spedizione! — ha fatto Barbara.
— È lontanissim a la fattoria di Melichetti. Ci
m ettiam o un sacco, — ha brontolato Salv atore.
— E inv ece è v icinissim a, andiam o… — Il
Teschio è m ontato sulla bicicletta. Non sprecav a
m ai l'occasione per av ere la m eglio su Salv atore.
Mi è v enuta un'idea. — Perché non prendiam o
una gallina dal pollaio di Rem o, così quando
arriv iam o la gettiam o nel recinto dei m aiali e
v ediam o com e la spolpano?
— Forte! — il Teschio ha approv ato.
— Ma papà m i uccide se gli prendiam o una
gallina, — ha piagnucolato Rem o.
Non c'è stato niente da fare, l'idea era
buonissim a.
Siam o entrati nel pollaio, abbiam o scelto la
gallina più m agra e spelacchiata e l'abbiam o
m essa in una sacca.
E siam o partiti, tutti e sei e la gallina, per
andare a v edere questi fam osi m aiali di Melichetti
e abbiam o pedalato tra i cam pi di grano, e pedala
pedala il sole è salito e ha arrov entato tutto.
Salv atore av ev a ragione, la fattoria di
Melichetti era lontanissim a. Quando ci siam o
arriv ati av ev am o una sete trem enda e la testa che
bolliv a»
Melichetti se ne stav a con gli occhiali da sole
seduto su un v ecchio dondolo, sotto un om brellone
storto.
La fattoria cadev a a pezzi e il tetto era stato
riparato alla m eglio con latta e catram e. Nel
cortile ci stav a un m ucchio di roba buttata: ruote
di trattore, una Bianchina arrugginita, sedie
sfondate, un tav olo senza una gam ba. Su un palo
di legno coperto di edera erano appesi dei teschi di
m ucca consum ati dalla pioggia e dal sole. E un
cranio più piccolo e senza corna. Chissà di che
bestia era.
Un cagnaccio pelle e ossa abbaiav a alla catena.
In fondo c'erano delle baracche di lam iera e i
recinti dei m aiali, sull'orlo di una grav ina.
Le grav ine sono piccoli cany on, lunghi crepacci
scav ati dall'acqua nella pietra. Guglie bianche,
rocce e denti appuntiti affiorano dalla terra rossa.
Spesso dentro ci crescono oliv i sbilenchi, corbezzoli
e pungitopo, e ci sono cav erne dov e i pastori
m ettono le pecore.
Melichetti sem brav a una m um m ia. La pelle
rugosa gli pendev a addosso ed era senza peli,
tranne un ciuffo bianco che gli crescev a in m ezzo
al petto. Intorno al collo av ev a un collare
ortopedico chiuso con degli elastici v erdi e addosso
un paio di pantaloncini neri e delle ciabatte di
plastica m arrone.
Ci ha v isti arriv are sulle nostre biciclette, m a
non si è m osso. Dov ev am o sem brargli un
m iraggio. Su quella strada non passav a m ai
nessuno, al m assim o qualche cam ion con il fieno.
C'era puzza di piscio. E m ilioni di m osche
cav alline. A Melichetti non dav ano fastidio. Gli si
posav ano sulla testa e intorno agli occhi, com e alle
m ucche. Solo quando gli finiv ano sulla bocca,
sbuffav a.
Il Teschio si è fatto av anti. — Signore, abbiam o
sete. Ce l'av rebbe un po' d'acqua?
Ero preoccupato perché uno com e Melichetti ti
potev a sparare, gettarti ai m aiali, o darti da bere
acqua av v elenata. Papà m i av ev a raccontato di
uno in Am erica che av ev a un laghetto dov e
tenev a i coccodrilli, e se ti ferm av i a chiedergli
un'inform azione quello ti facev a entrare dentro
casa, ti dav a un colpo in testa e ti buttav a in pasto
ai coccodrilli. E quando era arriv ata la polizia,
inv ece che andare in galera si era fatto sbranare.
Melichetti potev a benissim o essere uno cosi.
Il v ecchio ha sollev ato gli occhiali. — Che ci fate
qui, ragazzini? Non siete un po' troppo lontani da
casa?
— Signor Melichetti, è v ero che ha dato da
m angiare ai m aiali il suo bassotto? — se ne è uscita
Barbara.
Mi sono sentito m orire. Il Teschio si è girato e
l'ha fulm inata con uno sguardo d'odio. Salv atore le
ha tirato un calcio in uno stinco.
Melichetti si è m esso a ridere e gli è v enuto un
attacco di tosse che per poco non si strozzav a.
Quando si è ripreso ha detto: — Chi ti racconta
queste fesserie, ragazzina?
Barbara ha indicato il Teschio. — Lui!
Il Teschio è arrossito, ha abbassato la testa e si è
guardato le scarpe.
Io sapev o perché Barbara lo av ev a detto.
Qualche giorno prim a c'era stata una gara di
lancio dei sassi e Barbara av ev a perso. Per
penitenza, il Teschio l'av ev a obbligata a slacciarsi
la cam icia e a m ostrarci il seno. Barbara av ev a
undici anni. Av ev a un po' di tette, uno sputo,
niente a che v edere con quelle che le sarebbero
v enute entro un paio di anni. Si era rifiutata. — Se
non lo fai, scordati di v enire con noi, — l'av ev a
m inacciata il Teschio. Io ero stato m ale, non era
giusta quella penitenza. Barbara non m i piacev a,
appena potev a cercav a di fregarti, m a m ostrare le
tette, no, m i sem brav a troppo.
Il Teschio av ev a deciso: — O ce le fai v edere o te
ne v ai.
E Barbara, zitta, av ev a preso e si era sbottonata
la cam icetta.
Non av ev o potuto fare a m eno di guardargliele.
Erano le prim e tette che v edev o in v ita m ia, se
escludo quelle di m am m a. Forse una v olta,
quando era v enuta a dorm ire da noi, av ev o v isto
quelle di m ia cugina Ev elina, che av ev a dieci anni
più di m e. Com unque già m i ero fatto un'idea delle
tette che m i piacev ano e quelle di Barbara non m i
piacev ano per niente. Sem brav ano scam orze, delle
pieghe di pelle, non m olto differenti dai rotoli di
ciccia che av ev a sulla pancia.
Quella storia Barbara se l'era legata al dito e
adesso v olev a pareggiare i conti con il Teschio.
— Così tu v ai a raccontare in giro che io av rei
dato da m angiare il m io bassotto ai m aiali —.
Melichetti si è grattato il petto. — Augusto, si
chiam av a quel cane. Com e l'im peratore rom ano.
Av ev a tredici anni quando è m orto. Un osso di
pollo gli si è piantato in gola. Ha av uto un funerale
da cristiano, con tanto di fossa —. Ha puntato il
dito contro il Teschio. — Tu, ragazzino, ci
scom m etto, sei il più grande, v ero?
Il Teschio non ha risposto.
— Non dev i m ai dire bugie. E non dev i
infangare il nom e degli altri. Dev i dire la v erità,
specialm ente a chi è più piccolo di te. La v erità,
sem pre. Di fronte agli uom ini, al Padreterno, e a te
stesso, hai capito? —. Sem brav a un prete che ti fa
la predica.
— Non facev a nem m eno pipì in casa? — ha
insistito Barbara.
Melichetti ha prov ato a fare no con la testa, m a
il collare glielo im pediv a. — Era un cane educato.
Gran cacciatore di topi. Pace all'anim a sua —. Ha
indicato il fontanile. — Se av ete sete laggiù c'è
l'acqua. La m igliore di tutta la regione. E non è
una fesseria.
Abbiam o bev uto fino a scoppiare. Era fresca e
buona. Poi abbiam o preso a schizzarci e a infilare
la testa sotto la canna.
Il Teschio ha com inciato a dire che Melichetti
era un pezzo di m erda. E sapev a per certo che quel
v ecchio scem o av ev a dato il bassotto da m angiare
ai m aiali.
Ha fissato Barbara e ha detto: — Questa m e la
pa g h i —. Se n'è andato borbottando e si è seduto
per conto suo dall'altra parte della strada.
Io, Salv atore e Rem o ci siam o m essi ad
acchiappare girini. Mia sorella e Barbara si sono
appollaiate sul bordo del fontanile e hanno
im m erso i piedi nell'acqua.
Dopo qualche m inuto il Teschio è tornato, tutto
eccitato.
—Guardate! Guardate! Guardate com 'è grossa!
Ci siam o v oltati. — Cosa?
— Quella.
Era una collina.
Sem brav a un panettone. Un enorm e panettone
posato da un gigante sulla pianura. Si sollev av a di
fronte a noi a un paio di chilom etri. Dorata e
im m ensa. Il grano la copriv a com e una pelliccia.
Non c'era un albero, una punta, un'im perfezione
che ne rov inav a il profilo. Il cielo, intorno, era
liquido e sporco. Le altre colline, dietro,
sem brav ano nani in confronto a quella cupola
enorm e.
Chissà com e m ai fino a quel m om ento nessuno
di noi l'av ev a notata. L'av ev am o v ista, m a senza
v ederla v eram ente. Forse perché si confondev a
con il paesaggio. Forse perché erav am o stati tutti
con gli occhi puntati sulla strada a scov are la
fattoria di Melichetti.
— Scaliam ola —. Il Teschio l'ha indicata. —
Scaliam o quella m ontagna.
Ho detto: — Chissà cosa ci sarà lassù.
Dov ev a essere un posto incredibile, m agari ci
v iv ev a qualche anim ale strano. Così in alto
nessuno di noi era m ai salito.
Salv atore si è riparato gli occhi con la m ano e
ha scrutato la cim a. — Ci scom m etto che da là
sopra si v ede il m are. Sì, la dobbiam o scalare.
Siam o rim asti a guardarla in silenzio.
Quella era un'av v entura, altro che i m aiali di
Melichetti.
— E sul cocuzzolo ci m ettiam o la nostra
bandiera. Così se qualcuno ci salirà, capirà che
siam o arriv ati prim a noi, — ho fatto io.
— Che bandiera? Non abbiam o la bandiera, —
ha detto Salv atore.
— Ci m ettiam o la gallina.
Il Teschio ha afferrato il sacco dov e stav a il
v olatile e ha com inciato a farlo girare in aria. —
Giusto! Le tiriam o il collo e poi le infiliam o una
m azza in culo e la piantiam o per terra. Rim arrà lo
scheletro. La porto su io.
Una gallina im palata potev ano prenderla per
un segno delle streghe.
Ma il Teschio ha tirato fuori l'asso. — Dritti, su
per la collina. Niente curv e. E v ietato stare uno
dietro l'altro. E v ietato ferm arsi. Chi arriv a
ultim o paga penitenza.
Siam o rim asti senza parole.
Una gara! Perché?
Era chiaro. Per v endicarsi di Barbara. Sarebbe
arriv ata ultim a e av rebbe pagato.
Ho pensato a m ia sorella. Ho detto che era
troppo piccola per gareggiare e che non era v alido,
av rebbe perso.
Barbara ha fatto di no con il dito. Av ev a capito
la sorpresina che le stav a preparando il Teschio.
— Che c'entra? Una gara è una gara. È v enuta
con noi. Sennò ci dev e aspettare giù.
Questo non si potev a fare. Non potev o lasciare
Maria. La storia dei coccodrilli continuav a a
ronzarm i in testa. Melichetti era stato gentile, m a
non bisognav a fidarsi troppo. Se l'am m azzav a, io
poi che raccontav o a m am m a?
— Se m ia sorella resta, resto anch'io.
Ci si è m essa pure Maria. — Non sono piccola!
Voglio fare la gara.
— Tu stai zitta!
Ci ha pensato il Teschio a risolv ere. Potev a
v enire, m a non gareggiav a.
Abbiam o buttato le biciclette dietro il fontanile
e siam o partiti.
Ecco perché m i trov av o sopra quella collina. Ho
rim esso la scarpa a Maria.
— Ce la fai a cam m inare?
— No. Mi fa troppo m ale.
— Aspetta —. Le ho soffiato due v olte sulla
gam ba. Poi ho affondato le m ani nella terra
rov ente. Ne ho presa un po', ci ho sputato sopra e
gliel'ho spalm ata sulla cav iglia. — Così passa —.
Sapev o che non funzionav a. La terra era buona
per le punture di api e l'ortica, non per le storte,
m a forse ci cascav a. — Va m eglio?
Si è pulita il naso con un braccio. — Un po'.
— Ce la fai a cam m inare?
— Sì.
L'ho presa per m ano. — Allora andiam o, forza,
che siam o ultim i.
Ci siam o av v iati v erso la cim a. Ogni cinque
m inuti Maria dov ev a sedersi per far riposare la
gam ba. Per fortuna si è alzato un po' di v ento che
ha m igliorato le cose. Frusciav a nel grano, facendo
un suono che assom igliav a a un respiro. A un
tratto m i è sem brato di scorgere un anim ale
passarci accanto. Nero, v eloce, silenzioso. Un lupo?
Non c'erano lupi dalle nostre parti. Forse una
v olpe o un cane.
La salita era ripida e non finiv a m ai. Dav anti
agli occhi av ev o solo grano, m a quando ho
com inciato a v edere uno spicchio di cielo ho capito
che m ancav a poco, che la cim a era là, e senza
neanche rendercene conto, ci stav am o sopra.
Non c'era proprio niente di speciale. Era coperta
di grano com e tutto il resto. Sotto i piedi av ev am o
la stessa terra rossa e cotta. Sopra la testa lo stesso
sole incandescente.
Ho guardato l'orizzonte. Una foschia lattiginosa
v elav a le cose. Il m are non si v edev a. Si v edev ano
però le altre colline, più basse, e la fattoria di
Melichetti con i suoi recinti per i m aiali e la
grav ina e si v edev a la strada bianca che tagliav a i
cam pi, quella lunga strada che av ev am o percorso
in bicicletta per arriv are fino a lì. E, piccola
piccola, si v edev a la frazione dov e abitav am o.
Acqua Trav erse. Quattro casette e una v ecchia
v illa di cam pagna disperse nel grano. Lucignano,
il paese v icino, era nascosto dalla nebbia.
Mia sorella ha detto: — Voglio guardare pure io.
Fam m i guardare.
Me la sono m essa sulle spalle, anche se non m i
reggev o in piedi dalla fatica. Chissà cosa v edev a
senza occhiali.
— Dov e stanno gli altri?
Dov 'erano passati l'ordine delle spighe era
sparito, m olti steli erano piegati in due e alcuni
erano spezzati. Abbiam o seguito le tracce che
portav ano v erso l'altro v ersante della collina.
Maria m i ha stretto la m ano e m i ha conficcato
le unghie nella pelle. — Che schifo! Mi sono
v oltato.
Lo av ev ano fatto. Av ev ano im palato la gallina.
Se ne stav a in punta a una canna. Le zam pe
penzoloni, le ali spalancate. Com e se prim a di
rendere l'anim a al Creatore si fosse abbandonata
ai suoi carnefici. La testa le pendev a da un lato,
com e un orripilante pendaglio intriso di sangue.
Dal becco socchiuso colav ano pesanti gocce rosse. E
dal petto le usciv a la punta della canna. Un nugolo
di m osche m etallizzate le ronzav a intorno e si
affollav a sugli occhi, sul sangue.
Un briv ido m i si è arram picato sulla schiena.
Siam o andati av anti e dopo av er superato la
spina dorsale della collina abbiam o com inciato a
scendere.
Dov e diav olo erano andati gli altri? Perché
erano scesi da quella parte?
Abbiam o fatto un'altra v entina di m etri e lo
abbiam o scoperto.
La collina non era tonda. Dietro perdev a la sua
inappuntabile perfezione. Si allungav a in una
specie di gobba che degradav a torcendosi
dolcem ente fino a unirsi alla pianura. In m ezzo
c'era una v alle stretta, chiusa, inv isibile se non da
là sopra o da un aeroplano.
Con la creta sarebbe facilissim o m odellare
quella collina. Basta fare una palla. Tagliarla in
due. Una m età poggiarla sul tav olo. Con l'altra
m età fare una salsiccia, una specie di v erm e
ciccione, da appiccicare dietro, lasciando al centro
una piccola conca.
La cosa strana era che dentro quella conca
nascosta erano cresciuti degli alberi. Al riparo dal
v ento e dal sole ci stav a un boschetto di querce. E
una casa abbandonata, con il tetto tutto sfondato,
le tegole m arroni e i trav i scuri, spuntav a tra le
fronde v erdi.
Siam o scesi giù per il v iottolo e siam o entrati
nella v alletta.
Era l'ultim a cosa che m i sarei aspettato. Alberi.
Om bra. Fresco.
Non si sentiv ano più i grilli, m a il cinguettio
degli uccelli. C'erano ciclam ini v iola. E tappeti
d'edera v erde. E un buon odore. Veniv a v oglia di
trov arsi un posticino accanto a un tronco e farsi
un sonno.
Salv atore è apparso all'im prov v iso, com e un
fantasm a. — Hai v isto? Forte!
— Fortissim o! — ho risposto guardandom i in
giro. Forse c'era un ruscello dov e bere.
— Perché ci hai m esso tanto? Pensav o che eri
tornato giù.
— No, è che m ia sorella av ev a m ale a un piede,
così… Ho sete. Dev o bere.
Salv atore ha tirato fuori dallo zaino una
bottiglia. — Ne è rim asta poca —.
Con Maria ce la siam o div isa da brav i fratelli.
Bastav a appena a inum idirci la bocca.
— Chi ha v into la gara? — Mi preoccupav o per
la penitenza. Ero stanco m orto. Sperav o che il
Teschio, per una v olta, m e la potesse abbonare o
spostare a un altro giorno.
— Il Teschio. —E tu?
— Secondo. Poi Rem o.
— Barbara?
— Ultim a. Com e al solito.
— La penitenza chi la dev e fare?
— Il Teschio dice che la dev e fare Barbara.
Barbara però dice che la dev i fare tu perché sei
arriv ato ultim o.
— E allora?
— Non lo so, m e ne sono andato a fare un giro.
Mi hanno rotto queste penitenze.
Ci siam o incam m inati v erso la casa.
Si reggev a in piedi per scom m essa. Sorgev a al
centro di uno spiazzo di terra coperto dai ram i
delle querce. Crepe profonde l'attrav ersav ano
dalle fondam enta fino al tetto. Degli infissi erano
rim aste solo le tracce. Un fico, tutto annodato, era
cresciuto sopra le scale che portav ano al balcone.
Le radici av ev ano sm antellato i gradini di pietra e
fatto crollare il parapetto. Sopra c'era ancora una
v ecchia porta colorata d'azzurro, m arcia fino
all'osso e scrostata dal sole. Al centro della
costruzione un grande arco si apriv a su una stanza
con il soffitto a v olta. Una stalla. Puntelli
arrugginiti e pali di legno sostenev ano il solaio che
in m olti punti era crollato. A terra c'era letam e
rinsecchito, cenere, m ucchi di m attonelle e
calcinacci. I m uri av ev ano perso gran parte
dell'intonaco e m ostrav ano i sassi poggiata a secco.
Il Teschio era seduto su un cassone dell'acqua.
Tirav a sassi contro un bidone arrugginito e ci
osser v av a. — Ce l'hai fatta, — e ha aggiunto per
precisione: — Questo posto è m io.
— Com e è tuo?
— E m io. Io l'ho v isto per prim o. Le cose sono di
chi le trov a per prim o.
Sono stato spinto in av anti e per poco non finiv o
faccia a terra. Mi sono v oltato.
Barbara, tutta rossa, la m aglietta sporca, Ì
capelli arruffati, m i è v enuta addosso pronta a
fare a botte. — Tocca a te. Tu sei arriv ato ultim o.
Hai perso!
Ho m esso i pugni av anti. — Sono tornato
indietro. Sennò arriv av o terzo. Lo sai.
— Che c'entra? Hai perso!
— A chi tocca fare la penitenza? — ho
dom andato al Teschio. — A m e o a lei?
Si è preso tutto il tem po per rispondere, poi ha
indicato Barbara.
— Hai v isto? Hai v isto? — Ho am ato il Teschio.
Barbara ha com inciato a dare calci nella
polv er e. — Non è giusto! Non è giusto! Sem pre a
m e! Perché sem pre a m e?
Non lo sapev o. Ma sapev o che c'è sem pre uno
che si becca tutta la sfortuna. In quei giorni era
Barbara Mura, la cicciona, era lei l'agnello che
toglie i peccati.
Mi dispiacev a, m a ero felice di non essere io al
posto suo.
Barbara si aggirav a tra noi com e un
rinoceronte.
— Facciam o la v otazione, allora! Non può
decidere tutto lui.
A distanza di v entidue anni non ho ancora
capito com e facev a a sopportarci. Dov ev a essere
per la paura di rim anere da sola.
— Va bene. Facciam o la v otazione, — ha
concesso il Teschio. — Io dico che tocca a te.
— Pure io, — ho detto.
— Pure io, — ha ripetuto a pappagallo Maria.
Abbiam o guardato Salv atore. Nessuno potev a
astenersi, quando c'era la v otazione. Era la
regola,
— Pure io, — ha fatto Salv atore, quasi
sussurrando.
— Visto? Cinque contro uno. Hai perso. Tocca a
te, — ha concluso il Teschio.
Barbara ha stretto le labbra e i pugni, ho v isto
che deglutiv a una specie di palla da tennis. Ha
abbassato la testa, m a non ha pianto.
L'ho rispettata.
— Che… dev o fare? — ha balbettato.
Il Teschio si è m assaggiato la gola. La sua m ente
bastarda si è m essa al lav oro.
Ha tentennato un istante. — Ce la dev i… far
v edere. .. Ce la dev i far v edere a tutti.
Barbara ha barcollato. — Cosa v i dev o far
v edere?
— L'altra v olta ci hai fatto v edere le tette —. E
riv olgendosi a noi. — Questa v olta ci fa v edere la
fessa. La fessa pelosa. Ti abbassi le m utande e ce la
fai
v edere —. Si è m esso a sghignazzare
aspettandosi che anche noi av rem m o fatto lo
stesso, m a non è stato così. Siam o rim asti gelati,
com e se un v ento del Polo Nord si fosse
im prov v isam ente infilato nella v alle.
Era una penitenza esagerata. Nessuno di noi
av ev a v oglia di v edere la fessa di Barbara. Era
una penitenza pure per noi. Lo stom aco m i si è
stretto. Desiderav o essere lontano. C'era qualcosa
di sporco, di… Non lo so. Di brutto, ecco. E m i dav a
fastidio che ci fosse m ia sorella lì.
— Te lo puoi scordare, — ha fatto Barbara
scuotendo la testa. — Non m 'im porta se m i picchi.
Il Teschio si è m esso in piedi e le si è av v icinato
con le m ani in tasca. Tra i denti stringev a una
spiga di grano.
Le si è parato dav anti. Ha allungato il collo.
Non è che poi era tanto più alto di Barbara. E
nem m eno tanto più forte. Non ci av rei m esso una
m ano sul fuoco che se il Teschio e Barbara
facev ano a botte, il Teschio av ev a la m eglio tanto
facilm ente. Se Barbara lo buttav a a terra e gli
saltav a sopra lo potev a pure soffocare.
— Hai perso. Ora ti abbassi i pantaloni. Così
im pari a fare la stronza.
—No!
Il Teschio le ha dato uno schiaffo.
Barbara ha spalancato la bocca com e una trota
e si è m assaggiata la guancia. Ancora non
piangev a. Si è girata v erso di noi.
— Non dite niente v oi? — ha piagnucolato. —
Siete com e lui!
Noi zitti.
— Va bene. Ma non m i v edrete m ai più. Lo
giuro sulla testa di m ia m adre.
— Che fai, piangi? — Il Teschio se la godev a da
m atti.
— No, non piango, — è riuscita a dire
trattenendo i singhiozzi.
Av ev a dei pantaloni di cotone v erdi con le toppe
m arroni sulle ginocchia, di quelli che si
com prav ano al m ercato dell'usato. Le andav ano
stretti e la ciccia le ricadev a sopra la cinta. Si è
aperta la fibbia e ha com inciato a slacciarsi i
bottoni.
Ho intrav isto le m utande bianche con dei
fiorellini gialli. — Aspetta! Io sono arriv ato ultim o,
—ho sentito che dicev a la m ia v oce.
Tutti si sono girati.
— Si, — ho inghiottito. — La v oglio fare io.
— Cosa? — m i ha chiesto Rem o.
— La penitenza.
— No. Tocca a lei, — m i ha fulm inato il Teschio.
— Tu non c'entri niente. Stai zitto.
— C'entro, inv ece. Io sono arriv ato ultim o. La
dev o fare io.
— No. Decido io —. Il Teschio m i è v enuto
incontro.
Mi trem av ano le gam be, m a sperav o che
nessuno se ne accorgesse. — Rifacciam o la
v otazione.
Salv atore si è m esso tra m e e il Teschio. — Si
può rifare.
Tra noi esistev ano delle regole e tra queste c'era
che una v otazione si potev a rifare.
Ho alzato la m ano. — Tocca a m e.
Salv atore ha alzato la m ano. — Tocca a
Michele.
Barbara si è riallacciata la cinta e ha
singhiozzato. — Tocca a lui. E giusto.
Il Teschio è stato preso alla sprov v ista, ha
fissato Rem o con gli occhi da pazzo. — E tu?
Rem o ha sospirato. — Tocca a Barbara.
— Che dev o fare? — ha chiesto Maria. Le ho
fatto segno di sì con la testa.
— Tocca a m io fratello.
E Salv atore ha detto: — Quattro contro due. Ha
v into Michele. Tocca a lui.
Arriv are al piano di sopra della casa non è stato
sem plice.
La scala non esistev a più. I gradini erano ridotti
a un am m asso di blocchi di pietra. Riusciv o a
salire aggrappandom i ai ram i del fico. I rov i m i
graffiav ano le braccia e le gam be. Una spina m i
av ev a scorticato la guancia destra.
Di cam m inare sul parapetto, non se ne
parlav a. Se franav a finiv o di sotto, in una selv a di
ortiche e rose selv atiche.
Era la penitenza che m i ero beccato per av er
fatto l'eroe.
— Dev i salire al prim o piano. Entrare.
Attrav ersare tutta la casa e dalla finestra in fondo
saltare sull'albero e scendere.
Av ev o tem uto che il Teschio m i av rebbe
costretto a m ostrare il pesce o a infilarm i una
m azza in culo e inv ece av ev a scelto di farm i fare
una cosa pericolosa, dov e al m assim o m i potev o
ferire.
Meglio.
Stringev o i
denti
e
av anzav o senza
lam entarm i.
Gli altri stav ano seduti sotto una quercia a
godersi lo spettacolo di Michele Am itrano che si
scassav a le corna.
Ogni tanto arriv av a un consiglio. — Passa di là.
— Dev i andare dritto. Lì è pieno di spine. —
Mangiati una m ora che ti fa bene.
Non li stav o a sentire.
Ero sul terrazzino. C'era uno spazio stretto tra i
rov i e il m uro. Mi ci sono infilato dentro e sono
arriv ato alla porta. Era chiusa con una catena m a
il lucchetto, m angiato dalla ruggine, era aperto.
Ho spinto un battente e con un gem ito ferroso la
porta si è spalancata.
Un gran frullare di ali. Pium e. Uno storm o di
piccioni ha preso il v olo ed è uscito attrav erso un
buco nel tetto.
— Com 'è? Com 'è dentro? — ho sentito che
dom andav a il Teschio.
Non m i sono dato pena di rispondergli. Sono
entrato, attento a dov e m ettev o i piedi.
Ero in una stanza grande. Molte tegole erano
cadute e un trav e penzolav a al centro. In un
angolo c'era un cam ino, con una cappa a form a di
piram ide annerita dal fum o. In un altro angolo
erano am m assati dei m obili. Una v ecchia cucina
rov esciata e arrugginita. Bottiglie. Cocci. Tegole.
Una rete sfondata. Tutto era coperto di m erda di
piccioni. E c'era un odore forte, un tanfo acre che ti
si ficcav a in fondo al naso e alla gola. Sopra il
pav im ento di graniglia era cresciuta una selv a di
piante ed erbacce selv atiche. In fondo alla stanza
c'era una porta dipinta di rosso, chiusa, che di
sicuro dav a sulle altre stanze della casa.
Dov ev o passare di lì.
Ho poggiato un piede, sotto le suole le assi
scricchiolav ano e il pav im ento ondeggiav a. A quel
tem po pesav o sui trentacinque chili— Più o m eno
com e una tanica d'acqua. Mi sono chiesto se una
tanica d'acqua, m essa al centro di quella stanza,
sfondav a il pav im ento. Meglio non prov arci.
Per arriv are alla porta successiv a era più
prudente cam m inare raso ai m uri. Trattenendo il
respiro, in punta di piedi com e una ballerina, ho
seguito il perim etro della cam era. Se il pav im ento
si sfondav a finiv o nella stalla, dopo un v olo di
alm eno quattro m etri. Roba da spaccarsi le ossa.
Ma non è accaduto.
Nella stanza dopo, grande più o m eno com e la
cucina, il pav im ento m ancav a del tutto. Ai lati
era crollato e ora solo una specie di ponte univ a la
m ia porta con quella dall'altra parte. Dei sei trav i
che reggev ano il pav im ento erano rim asti sani
solo i due al centro. Gli altri erano tronconi
m angiati dai tarli.
Non potev o seguire i m uri. Mi toccav a
attrav ersare quel ponte. I trav i che lo sostenev ano
non dov ev ano essere in condizioni m igliori degli
altri.
Mi sono paralizzato sotto lo stipite della porta.
Non potev o tornare indietro. Mi av rebbero rotto le
scatole fino alla m orte. E se m i buttav o di sotto?
All'im prov v iso quei quattro m etri che m i
div idev ano dalla stalla non sem brav ano più tanti.
Potev o dire agli altri che era im possibile arriv are
alla finestra.
In certi m om enti il cerv ello gioca brutti
scherzi.
Circa dieci anni dopo m i è successo di andare a
sciare sul Gran Sasso. Era il giorno sbagliato,
nev icav a, facev a un freddo polare, tirav a un
v entaccio che ghiacciav a le orecchie e c'era la
nebbia. Av ev o diciannov e anni e a sciare c'ero
stato una v olta sola. Ero eccitatissim o e non m i
im portav a niente se tutti dicev ano che era
pericoloso, io v olev o sciare. Sono m ontato sulla
seggiov ia, im bacuccato com e un eschim ese, e sono
partito per le piste.
Il v ento era così forte che il m otore
dell'im pianto si spegnev a autom aticam ente e si
riav v iav a solo quando le raffiche si attenuav ano.
Facev a dieci m etri poi si bloccav a per un quarto
d'ora poi altri quaranta m etri e v enti m inuti
ferm o. Così, all'infinito. Da im pazzire. Per quel
poco che riusciv o a v edere la seggiov ia era v uota.
Piano piano ho sm esso di sentire le punte dei piedi,
le orecchie, le dita delle m ani. Cercav o di
spazzarm i la nev e di dosso, m a era fatica sprecata,
cadev a silenziosa, leggera e incessante. A un certo
punto ho com inciato ad assopirm i, a ragionare più
lentam ente, m i sono fatto forza e m i sono detto che
se m i addorm entav o sarei m orto. Ho urlato, ho
chiesto aiuto. Mi ha risposto il v ento. Ho guardato
in basso. Ero proprio sopra una pista. Appeso a una
decina di m etri dalla nev e. Ho ripensato alla storia
di quell'av iatore che durante la guerra si era
buttato dall'aereo in fiam m e e non gli si era aperto
il paracadute e non era m orto, salv ato dalla nev e
soffice. Dieci m etri non erano tanti. Se m i buttav o
bene, se non m i irrigidiv o, non m i facev o niente, il
paracadutista non si era fatto niente. Una parte
del cerv ello m i ripetev a ossessiv a. «Buttati!
Buttati! Buttati!» Ho sollev ato la sbarra di
sicurezza. E ho com inciato a dondolarm i. Per
fortuna in quel m om ento la seggiov ia si è m ossa e
ho ripreso coscienza. Ho abbassato la sbarra. Era
altissim o, com e m inim o m i spezzav o le gam be.
In quella casa prov av o la stessa cosa. Volev o
buttarm i di sotto. Poi m i sono ricordato di av er
letto su un libro di Salv atore che le lucertole
possono salire sui m uri perché hanno una perfetta
distribuzione del peso. Lo scaricano sulle zam pe,
sul v entre e sulla coda, gli uom ini inv ece solo sui
piedi ed è per questo che affondano nelle sabbie
m obili.
Ecco, cosa dov ev o fare.
Mi sono inginocchiato, m i sono steso e ho
com inciato a strisciare. A ogni m ov im ento che
facev o cadev ano calcinacci e m attonelle. Leggero,
leggero com e una lucertola, m i ripetev o. Sentiv o
le trav i trem are. Ci ho m esso cinque m inuti buoni
m a sono arriv ato sano e salv o dall'altra parte.
Ho spinto la porta. Era l'ultim a. In fondo c'era
la finestra che dav a sul cortile. Un lungo ram o
s'insinuav a fino alla casa. Era fatta. Anche qui il
pav im ento av ev a ceduto, m a solo per m età.
L'altra resistev a. Ho usato la v ecchia tecnica,
cam m inare appiccicato alle pareti. Sotto v edev o
una stanza in penom bra. C'erano i resti di un
fuoco, dei barattoli aperti di pelati e pacchi di
pasta v uoti. Qualcuno dov ev a essere stato lì da
non m olto tem po.
Sono arriv ato alla finestra senza intoppi. Ho
guardato giù.
C'era un piccolo cortile recintato da una fascia
di rov i e dietro il bosco che prem ev a. A terra
c'erano un lav atoio di cem ento crepato, il braccio
arrugginito di una gru, m ucchi di calcinacci
coperti di edera, una bom bola del gas e un
m aterasso.
Il ram o su cui dov ev o salire era v icino, a m eno
di un m etro. Non abbastanza però, da poterci
arriv are senza fare un salto. Era grosso e sinuoso
com e un anaconda. Si allungav a per più di cinque
m etri. Mi av rebbe sostenuto. Arriv ato in fondo
av rei trov ato il m odo di scendere.
Sono m ontato in piedi sul dav anzale, m i sono
fatto il segno della croce e m i sono lanciato a
braccia in av anti com e un gibbone della foresta
am azzonica. Sono finito di pancia sul ram o, ho
prov ato ad abbrancarlo, m a era grande. Ho usato
le gam be m a non c'erano appigli. Ho com inciato a
sciv olare. Cercav o di artigliarm i alla corteccia.
La salv ezza era di fronte a m e. Un ram o più
piccolo stav a lì a qualche decina di centim etri.
Mi sono caricato e con uno scatto di reni l'ho
afferrato con tutte e due le m ani.
Era secco. Si è spezzato.
Sono atterrato di schiena. Sono rim asto
im m obile, a occhi chiusi, sicuro di esserm i rotto
l'osso del collo. Non sentiv o dolore. Me ne stav o
steso, pietrificato, con il ram o tra le m ani,
cercando di capire perché non soffriv o. Forse ero
div entato un paralitico che anche se gli spegni
una sigaretta su un braccio e gli infili una
forchetta in una coscia non sente niente.
Ho aperto gli occhi. Sono rim asto a fissare
l'im m enso om brello v erde della quercia che
incom bev a su di m e. Lo sfav illio del sole tra le
foglie. Dov ev o cercare di sollev are la testa. L'ho
sollev ata.
Ho buttato quel ram o cretino. Ho toccato con le
m ani la terra. E ho scoperto di essere su una cosa
soffice. Il m aterasso.
Mi sono riv isto che precipitav o, che v olav o e m i
schiantav o senza farm i niente. C'era stato un
rum ore basso e cupo nel m om ento esatto in cui ero
atterrato. Lo av ev o sentito, potev o giurarci.
Ho m osso i piedi e ho scoperto che sotto le foglie,
i ram etti e la terra c'era un ondulato v erde, una
tettoia di plastica trasparente. Era stata ricoperta
com e per nasconderla. E quel v ecchio m aterasso ci
era stato poggiato sopra.
Era stato l'ondulato a salv arm i. Si era piegato
assorbendo la caduta.
Quindi, sotto, dov ev a essere v uoto.
Potev a esserci un nascondiglio segreto o un
cunicolo che portav a in una cav erna piena d'oro e
pietre preziose.
Mi sono m esso carponi e ho spinto in av anti la
lastra.
Pesav a, m a, piano piano, l'ho spostata un poco.
Si è sprigionato un tanfo terribile di m erda.
Ho v acillato, m i sono m esso una m ano stalla
bocca e ho spinto ancora.
Ero cascato sopra un buco.
Era buio. Ma più spostav o la lastra e più
rischiarav a. Le pareti erano fatte di terra, scav ate
a colpi di v anga. Le radici della quercia erano
state tagliate.
Sono riuscito a spingerla ancora un po'. Il buco
era largo un paio di m etri e profondo due m etri,
due m etri e m ezzo.
Era v uoto.
No, c'era qualcosa.
Un m ucchio di stracci appallottolati?
No…
Un anim ale? Un cane? No…
Cos'era?
Era senza peli…
bianco…
una gam ba…
Una gam ba!
Ho fatto un salto indietro e per poco non sono
inciam pato.
Una gam ba?
Ho preso fiato e m i sono affacciato un istante.
Era una gam ba.
Ho sentito le orecchie bollenti, la testa e le
braccia che m i pesav ano.
Stav o per sv enire.
Mi sono seduto, ho chiuso gli occhi, ho poggiato
la fronte su una m ano, ho respirato. Av ev o la
tentazione di scappare, di correre dagli altri. Ma
non potev o. Dov ev o prim a guardare un'altra
v olta.
Mi sono av v icinato e ho sporto la testa.
Era la gam ba di un bam bino. E un gom ito
spuntav a dagli stracci.
In fondo a quel buco c'era un bam bino.
Era steso su un fianco. Av ev a la testa nascosta
tra le gam be.
Non si m uov ev a.
Era m orto.
Sono rim asto a guardarlo per non so quanto
tem po. C'era anche un secchio. E un pentolino.
Forse dorm iv a.
Ho preso un sasso piccolo e gliel'ho tirato. L'ho
colpito sulla coscia. Non si è m osso. Era m orto.
Mortissim o. Un briv ido m i ha m orso la nuca. Ho
preso un altro sasso e l'ho colpito sul collo. Ho
av uto l'im pressione che si m uov esse. Un leggero
m ov im ento del braccio.
— Dov e stai? Dov e stai? Dov e sei finito,
recchione?
Gli altri! Il Teschio m i stav a chiam ando.
Ho afferrato la lastra e l'ho tirata fino a tappare
il buco. Poi ho sparpagliato le foglie e la terra e ci
ho rim esso su il m aterasso.
— Dov e stai, Michele?
Sono andato v ia, m a prim a m i sono girato un
paio di v olte a controllare che ogni cosa fosse al suo
posto.
Pedalav o sulla Scassona.
Il sole alle m ie spalle era una palla rossa e
im m ensa, e quando finalm ente è finito nel grano,
è scom parso lasciandosi dietro una cosa arancione
e v iola.
Mi av ev ano chiesto com 'era andata nella casa,
se era stato pericoloso, se ero caduto, se ci stav ano
cose strane, se saltare sull'albero era stato difficile.
Av ev o risposto a m onosillabi.
Alla fine, annoiati, av ev am o preso la v ia del
ritorno. Un sentiero partiv a dalla v alle,
attrav ersav a i cam pi ocra e raggiungev a la
strada. Av ev am o recuperato le biciclette e
pedalav am o in silenzio. Sciam i di m oscerini ci
ronzav ano intorno.
Guardav o Maria che m i seguiv a sulla sua
Graziella con le ruote m angiate dalle pietre, il
Teschio, dav anti a tutti, con accanto il suo
scudiero
Rem o,
Salv atore
che
av anzav a
zigzagando, Barbara sulla sua Bianchi troppo
grande, e pensav o al bam bino nel buco.
Non av rei detto niente a nessuno.
— Le cose sono di chi le trov a per prim o, —
av ev a deciso il Teschio.
Se era così, il bam bino in fondo al buco era m io.
Se lo dicev o, il Teschio, com e sem pre, si
prendev a tutto il m erito della scoperta. Av rebbe
raccontato a tutti che lo av ev a trov ato lui perché
era stato lui a decidere di salire sopra la collina.
Questa v olta no. Io av ev o fatto la penitenza, io
ero caduto dall'albero e io l'av ev o trov ato.
Non era del Teschio. E neanche di Barbara. Non
era di Salv atore. Era m io. Era la m ia scoperta
segreta.
Non sapev o se av ev o trov ato un m orto o un
v iv o. Forse il braccio non si era m osso. Me l'ero
im m aginato. O forse erano le contrazioni di un
cadav ere. Com e quelle delle v espe, che anche se le
div idi in due con le forbici continuano a
cam m inare, o com e i polli, che anche senza testa
sbattono le ali. Ma che ci facev a là dentro?
— Che diciam o a m am m a?
Non m i ero accorto che m ia sorella m i pedalav a
accanto. — Cosa?
— Che diciam o a m am m a?
— Non lo so.
— Glielo dici tu degli occhiali?
— Sì, m a non le dev i dire niente di dov e siam o
andati. Se lo scopre dirà che gli occhiali li hai rotti
perché siam o saliti lassù.
— Va bene.
— Giuram elo.
— Te lo giuro —. Si è baciata gli indici.
Oggi Acqua Trav erse è una frazione di
Lucignano. A m età degli anni Ottanta un
geom etra ha costruito due lunghe schiere di
v illette di cem ento arm ato. Dei cubi con le finestre
circolari, le ringhiere azzurre e i tondini d'acciaio
che spuntano dal tetto. Poi sono arriv ati una Coop
e un bar tabacchi. E una strada asfaltata a due
corsie che corre dritta com e una pista
d'atterraggio fino a Lucignano.
Nel 1 9 7 8 Acqua Trav erse inv ece era così
piccola che non era niente. Un borgo di cam pagna,
lo chiam erebbero oggi su una riv ista di v iaggi.
Nessuno sapev a perché quel posto si chiam av a
cosi, neanche il v ecchio Tronca. Acqua non ce
n'era, se non quella che portav ano con
l'autocisterna ogni due settim ane.
C'era la v illa di Salv atore, che chiam av am o il
Palazzo. Un casone costruito nell'Ottocento, lungo e
grigio e con un grande portico di pietra e un cortile
interno con una palm a. E c'erano altre quattro
case. Non per m odo di dire. Quattro case in tutto.
Quattro m isere case di pietra e m alta con il tetto di
tegole e le finestre piccole. La nostra. Quella della
fam iglia del Teschio. Quella della fam iglia di Rem o
che la div idev a col v ecchio Tronca. Tronca era
sordo e gli era m orta la m oglie, e v iv ev a in due
stanze che dav ano sull'orto. E c'era la casa di Pietro
Mura, il padre di Barbara. Angela, la m oglie, di
sotto av ev a lo spaccio dov e potev i com prare il
pane, la pasta e il sapone. E potev i telefonare.
Due case da una parte, due dall'altra. E una
strada, sterrata e piena di buche, al centro. Non
c'era una piazza. Non c'erano v icoli. C'erano però
due panchine sotto una pergola di uv a fragola e
una fontanella che av ev a il rubinetto con la
chiav e per non sprecare acqua. Tutto intorno i
cam pi di grano.
L'unica cosa che si era guadagnata quel posto
dim enticato da Dio e dagli uom ini era un bel
cartello blu con scritto in m aiuscolo A CQU A
TRA V ERSE.
— E arriv ato papà! — ha gridato m ia sorella. Ha
buttato la bicicletta ed è corsa su per le scale.
Dav anti a casa nostra c'era il suo cam ion, un
Lupetto Fiat con il telone v erde.
A quel tem po papà facev a il cam ionista e stav a
fuori per m olte settim ane. Prendev a la m erce e la
portav a al Nord.
Av ev a prom esso che una v olta m i ci av rebbe
portato pure a m e al Nord. Non riusciv o tanto
bene a im m aginarm i questo Nord. Sapev o che il
Nord era ricco e che il Sud era pov ero. E noi
erav am o pov eri. Mam m a dicev a che se papà
continuav a a lav orare così tanto, presto non
sarem m o stati più pov eri, sarem m o stati
benestanti. E quindi non dov ev am o lam entarci se
papà non c'era. Lo facev a per noi.
Sono entrato in casa con il fiatone.
Papà era seduto al tav olo in m utande e
canottiera. Av ev a dav anti una bottiglia di v ino
rosso e tra le labbra una sigaretta con il bocchino e
m ia sorella appollaiata su una coscia.
Mam m a, di spalle, cucinav a. C'era odore di
cipolle e salsa di pom odoro. Il telev isore, uno
scatolone Grundig in bianco e nero che av ev a
portato papà qualche m ese prim a, era acceso. Il
v entilatore ronzav a.
— Michele, dov e siete stati tutto il giorno?
Vostra m adre stav a im pazzendo. Non pensate a
questa pov era donna che dev e già aspettare il
m arito e non può aspettare pure v oi? Che è
successo agli occhiali di tua sorella?
Non era arrabbiato v eram ente. Quando si
arrabbiav a v eram ente gli occhi gli usciv ano fuori
com e ai rospi. Era felice di essere a casa.
Mia sorella m i ha guardato.
— Abbiam o costruito una capanna al torrente,
— ho tirato fuori dalla tasca gli occhiali. — E si
sono rotti.
Ha sputato una nuv ola di fum o. — Vieni qua.
Fam m eli v edere.
Papà era un uom o piccolo, m agro e nerv oso.
Quando si sedev a alla guida del cam ion quasi
scom pariv a dietro il v olante. Av ev a i capelli neri,
tirati con la brillantina. La barba ruv ida e bianca
sul m ento. Odorav a di Nazionali e acqua di
colonia. Glieli ho dati.
— Sono da buttare —. Li ha poggiati sul tav olo e
ha detto: — Niente più occhiali.
Io e m ia sorella ci siam o guardati.
— E com e faccio? — ha chiesto Maria
preoccupata.
— Stai senza. Così im pari.
Mia sorella è rim asta senza parole.
— Non può. Non ci v ede, — sono interv enuto io.
— E chi se ne im porta. —Ma…
— Macché m a —. E ha detto a m am m a: —
Teresa, dam m i quel pacchetto che sta sulla
credenza.
Mam m a gliel'ha portato. Papà lo ha scartato e
ha tirato fuori un astuccio blu, duro e v ellutato.
— Tieni.
Maria lo ha aperto e dentro c'era un paio di
occhiali con la m ontatura di plastica m arrone.
— Prov ali.
Maria se li è infilati, m a continuav a a carezzare
l'astuccio.
Mam m a le ha dom andato: — Ti piacciono?
— Sì. Molto. La scatola è bellissim a, — ed è
andata a guardarsi allo specchio.
Papà si è v ersato un altro bicchiere di v ino.
— Se rom pi pure questi, la prossim a v olta ti
lascio senza, capito? — Poi m i ha preso per un
braccio. — Fam m i sentire il m uscolo.
Ho piegato il braccio e l'ho irrigidito.
Mi ha stretto il bicipite. — Non m i sem bra che
sei m igliorato. Le fai le flessioni?
— Sì.
Odiav o fare le flessioni. Papà v olev a che le
facev o perché dicev a che ero rachitico.
— Non è v ero, — ha detto Maria, — non le fa.
— Ogni tanto le faccio. Quasi sem pre.
— Mettiti qua —. Mi sono seduto anch'io sulle
sue ginocchia e ho prov ato a baciarlo. — Non m i
baciare, che sei tutto sporco. Se v uoi baciare tuo
padre, prim a dev i lav arti. Teresa, che facciam o, li
m andiam o a letto senza cena?
Papà av ev a un bel sorriso, i denti bianchi,
perfetti. Né io né m ia sorella li abbiam o ereditati.
Mam m a ha risposto senza neanche v oltarsi.
— Sarebbe giusto! Io con questi due non ce la
faccio più —. Lei sì che era arrabbiata.
— Facciam o cosi. Se v ogliono cenare e av ere il
regalo che ho portato, Michele m i dev e battere a
braccio di ferro. Sennò a letto senza cena.
Ci av ev a portato un regalo!
— Tu scherza, scherza… — Mam m a era troppo
contenta che papà era di nuov o a casa. Quando
papà partiv a, le facev a m ale lo stom aco e più
passav a il tem po e m eno parlav a. Dopo un m ese si
am m utoliv a del tutto.
— Michele non ti può battere. Non v ale, — ha
detto Maria.
— Michele, m ostra a tua sorella che sai fare. E
tieni larghe quelle gam be. Se stai tutto storto
perdi subito e niente regalo.
Mi sono m esso in posizione. Ho stretto i denti e
la m ano di papà e ho com inciato a spingere.
Niente. Non si m uov ev a.
— Dai! Che c'hai la ricotta al posto dei m uscoli?
Sei più debole di un m oscerino! Tirala fuori questa
forza, Cristo di Dio!
Ho m orm orato: — Non ce la faccio. Era com e
piegare una sbarra di ferro.
— Sei una fem m ina, Michele. Maria, aiutalo,
dai!
Mia sorella è m ontata sul tav olo e in due,
stringendo i denti e respirando dal naso, siam o
riusciti a fargli abbassare il braccio.
— Il regalo! Dacci il regalo! — Maria è saltata
giù dal tav olo.
Papà ha preso una scatola di cartone, piena di
fogli di giornale appallottolati. Dentro c'era il
regalo.
— Una barca! — ho detto.
— Non è una barca, è una gondola, — m i ha
spiegato papà.
— Che è una gondola?
— Le gondole sono le barche v eneziane. E si
adopera un rem o solo.
— Che sono i rem i? — ha dom andato m ia
sorella.
— Dei bastoni per m uov ere la barca.
Era m olto bella. Tutta di plastica nera. Con i
pezzettini argentati e in fondo un pupazzetto con
una m aglietta a righe bianche e rosse e il cappello
di paglia.
Ma abbiam o scoperto che non la potev am o
prendere. Era fatta per essere m essa sul telev isore.
E tra il telev isore e la gondola ci dov ev a stare un
centrino di pizzo bianco. Com e un laghetto. Non
era un giocattolo. Era una cosa preziosa. Un
sopram m obile.
— A chi tocca prendere l'acqua? Tra poco si
m angia, — ci ha dom andato m am m a.
Papà era dav anti alla telev isione a guardare le
notizie.
Stav o apparecchiando la tav ola. — Tocca a
Maria. Ieri ci sono andato io.
Maria era seduta sulla poltrona con le sue
bam bole. — Non ho v oglia, v ai tu.
A nessuno dei due piacev a andare alla fontana
e quindi si facev a a turno, un giorno per uno. Ma
era tornato papà e per m ia sorella significav a che
le regole non v alev ano più.
Ho fatto no con il dito. — Tocca a te.
Maria ha incrociato le braccia. — Io non ci
v ado.
— Perché?
— Mi fa m ale la testa.
Ogni v olta che non le andav a di fare una cosa
dicev a che le facev a m ale la testa. Era la sua scusa
preferita.
— Non è v ero, non ti fa m ale, bugiarda.
— E v ero! — E si è com inciata a m assaggiare la
fronte con un'espressione di dolore sulla faccia.
Mi v eniv a v oglia di strangolarla. — Tocca a lei!
Dev e andare lei!
Mam m a, stufata, m i ha m esso in m ano la
brocca. — Vai tu, Michele, che sei più grande. Non
fare tante discussioni, — lo ha detto com e se fosse
una cosa da niente, senza im portanza.
Un sorriso di trionfo si è allargato sulle labbra
di m ia sorella. — Hai v isto?
— Non è giusto. Ieri ci sono andato io. Non ci
v ado.
Mam m a m i ha detto con quel tono aspro che le
v eniv a un attim o prim a di infuriarsi: — Ubbidisci,
Michele.
— No —. Sono andato da papà a lam entarm i.
—Papà, non tocca a m e. Ieri ci sono andato io.
Ha tolto lo sguardo dalla telev isione e m i ha
guardato com e se fosse la prim a v olta che m i
v edev a, si è m assaggiato la bocca e ha detto: — Lo
conosci il tocco del soldato?
—No. Cos'è?
— Lo sai com e facev ano i soldati durante la
guerra per decidere chi andav a a fare le m issioni
m or tali? — Ha tirato fuori dalla tasca una scatola
di fiam m iferi e m e l'ha m ostrata.
— No, non lo so.
— Si prendono tre fiam m iferi, — li ha tirati
fuori dalla scatola, — uno per te, uno per m e e uno
per Maria. A uno si toglie la capocchia —. Ne ha
preso uno e lo ha spezzato, poi li ha stretti tutti e
tre nel pugno e ha fatto sporgere fuori i bastoncini.
— Chi prende quello senza testa v a a prendere
l'acqua. Scegline uno, forza.
Ne ho tirato fuori uno sano. Ho fatto un salto di
gioia.
— Maria, tocca a te. Vieni.
Mia sorella ne ha preso anche lei uno sano e ha
battuto le m ani.
— Mi sa che tocca a m e, — papà ha tirato fuori
quello spezzato.
Io e Maria abbiam o com inciato a ridere e a
u r la r e. — Tocca a te! Tocca a te! Hai perso! Hai
perso! Vai a prendere l'acqua!
Papà si è alzato un po' av v ilito. — Quando torno
v i dov ete essere lav ati. Chiaro?
— Vuoi che ci v ado io? Tu sei stanco, — ha detto
m am m a.
— Non puoi. È una m issione m ortale. E dev o
prendere le sigarette nel cam ion —. È uscito di
casa con la brocca in m ano.
Ci siam o lav ati, abbiam o m angiato pasta al
pom odoro e frittata e dopo av er baciato papà e
m am m a ce ne siam o andati a letto senza neanche
insistere per v edere la telev isione.
Mi sono sv egliato durante la notte. Per un
brutto sogno.
Gesù dicev a alzati e cam m ina a Lazzaro. Ma
Lazzaro non si alzav a. Alzati e cam m ina, ripetev a
Gesù. Lazzaro non ne v olev a proprio sapere di
resuscitare. Gesù, che assom igliav a a Sev erino,
quello che guidav a l'autocisterna dell'acqua, si
arrabbiav a. Era una figuraccia. Quando Gesù ti
dice alzati e cam m ina, tu lo dev i fare, soprattutto
se sei m orto. Inv ece Lazzaro se ne stav a steso,
rinsecchito. Allora Gesù incom inciav a a scuoterlo
com e una bam bola e Lazzaro alla fine si alzav a e
gli azzannav a la gola. Lascia stare i m orti, dicev a
con le labbra im brattate di sangue.
Ho sbarrato gli occhi tutto sudato.
Quelle notti facev a così caldo, che se, per
disgrazia,
ti
sv egliav i,
era
difficile
riaddorm entarti. La stanza m ia e di m ia sorella
era stretta e lunga. Era ricav ata da un corridoio. I
due letti erano m essi per lungo, uno dopo l'altro,
sotto la finestra. Da un lato c'era il m uro, dall'altro
una trentina di centim etri per m uov erci. Per il
resto la stanza era bianca e spoglia.
D'inv erno ci facev a freddo e d'estate non ci si
respirav a.
Il calore accum ulato di giorno dai m uri e dal
soffitto v eniv a buttato fuori durante la notte.
Av ev i la sensazione che il cuscino e il m aterasso di
lana fossero appena usciti da un forno.
Dietro i m iei piedi v edev o la testa scura di
Maria. Dorm iv a con gli occhiali, a pancia all'aria,
com pletam ente abbandonata, le braccia e le
gam be larghe.
Dicev a che se si sv egliav a senza gli occhiali le
v eniv a paura. Di solito m am m a glieli togliev a
appena si addorm entav a, perché le rim anev ano i
segni in faccia.
Lo zam pirone sul dav anzale producev a un fum o
denso e tossico che stecchiv a le zanzare e neanche
a noi facev a tanto bene. Ma allora nessuno si
preoccupav a di questo genere di cose.
Attaccata alla nostra stanza c'era la cam era dei
nostri genitori. Sentiv o papà russare. Il
v entilatore che soffiav a. L'ansim are di m ia sorella.
Il richiam o m onotono di una civ etta. Il ronzio del
frigorifero. La puzza di fogna che usciv a dal
gabinetto.
Mi sono m esso in ginocchio sul letto e m i sono
appoggiato alla finestra per prendere un po' d'aria.
C'era la luna piena. Era alta e lum inosa. Si
v edev a lontano, com e fosse giorno. I cam pi
sem brav ano fosforescenti. L'aria ferm a. Le case
buie, silenziose.
Forse ero l'unico sv eglio in tutta Acqua
Trav erse. Mi è sem brata una bella cosa.
Il bam bino era nel buco.
Me lo im m aginav o m orto nella terra.
Scarafaggi,
cim ici
e
m illepiedi
che
gli
cam m inav ano addosso, sulla pelle esangue, e
v erm i che gli usciv ano dalle labbra liv ide. Gli
occhi sem brav ano due uov a sode.
Io un m orto non lo av ev o m ai v isto. Solo m ia
nonna Giov anna. Sul suo letto, con le braccia
incrociate, il v estito nero e le scarpe. La faccia
sem brav a di gom m a. Gialla com e cera. Papà m i
av ev a detto che dov ev o baciarla. Tutti
piangev ano. Papà m i spingev a. Le av ev o posato la
bocca sulla guancia fredda. Av ev a un odore
dolciastro e disgustoso che si m ischiav a con l'odore
dei ceri. Dopo m i ero lav ato la bocca con il sapone.
E se inv ece il bam bino era v iv o?
Se v olev a uscire e graffiav a con le dita le pareti
del buco e chiedev a aiuto? Se lo av ev a preso un
orco?
Mi sono affacciato fuori e in fondo alla pianura
ho v isto la collina. Sem brav a apparsa dal nulla e
si stagliav a, com e un'isola uscita dal m are,
altissim a e nera, con il suo segreto che m i
aspettav a.
— Michele, ho sete… — Maria si è sv egliata. —
Mi dai un bicchiere d'acqua? — Parlav a a occhi
chiusi e si passav a la lingua sulle labbra secche.
— Aspetta… — Mi sono alzato.
Non v olev o aprire la porta. Se m ia nonna
Giov anna era seduta a tav ola insiem e al bam bino?
E m i dicev a, v ieni, siediti qui con noi, che
m angiam o? E sul piatto c'era la gallina im palata?
Non c'era nessuno. Un raggio di luna cadev a sul
v ecchio div ano a fiori, sulla credenza con i piatti
bianchi, sul pav im ento di graniglia bianca e nera
e facev a capolino nella cam era di papà e m am m a,
arram picandosi sul letto. Ho v isto i piedi,
intrecciati. Ho aperto il frigorifero e ho tirato fuori
la brocca con l'acqua fredda. Mi ci sono attaccato,
poi ho riem pito un bicchiere per m ia sorella che se
lo è bev uto in un sorso. — Grazie.
— Ora dorm i.
— Perché hai fatto la penitenza al posto di
Barbara?
— Non lo so…
— Non ti andav a che si abbassav a le m utande?
— No.
— E se lo dov ev o fare io?
— Cosa?
— Abbassarm i le m utande. Lo facev i pure per
m e?
— Si.
— Buona notte, allora. Mi tolgo gli occhiali, — li
ha chiusi nell'astuccio e si è stretta al cuscino.
— Buona notte.
Sono rim asto a lungo con gli occhi puntati sul
soffitto prim a di riaddorm entarm i.
Papà non ripartiv a.
Era tornato per restare. Av ev a detto a m am m a
che non v olev a v edere l'autostrada per un po' e si
sarebbe occupato di noi.
Forse, prim a o poi, ci portav a a m are a fare il
bagno.
2.
Quando m i sono sv egliato m am m a e papà
dorm iv ano ancora. Ho buttato giù il latte e il pane
con la m arm ellata, sono uscito e ho preso la
bicicletta.
— Dov e v ai?
Maria era sulle scale di casa, in m utande, e m i
guardav a.
— A fare un giro.
— Dov e?
— Non lo so.
— Voglio v enire con te. —No.
— Io lo so dov e v ai… Vai sulla m ontagna.
— No. Non ci v ado. Se papà o m am m a ti
chiedono qualcosa digli che sono andato a fare un
giro e che torno subito.
Un altro giorno di fuoco.
Alle otto della m attina il sole era ancora basso,
m a già com inciav a ad arrostire la pianura.
Percorrev o la strada che av ev am o fatto il
pom eriggio prim a e non pensav o a niente,
pedalav o nella polv ere e negli insetti e cercav o di
arriv are presto. Ho preso la v ia dei cam pi, quella
che costeggiav a la collina e raggiungev a la v alle.
Ogni tanto dal grano si sollev av ano le gazze con le
loro code bianche e nere. Si inseguiv ano, si
litigav ano, si insultav ano con quei v ersacci
striduli. Un falco v olteggiav a im m obile, spinto
dalle correnti calde. E ho v isto pure una lepre
rossa, con le orecchie lunghe, sfrecciarm i dav anti.
Av anzav o a fatica, spingendo sui pedali, le ruote
slittav ano sui sassi e le zolle aride. Più m i
av v icinav o alla casa, più la collina gialla crescev a
di fronte a m e, più un peso m i schiacciav a il petto,
togliendom i il respiro.
E se arriv av o su e c'erano le streghe o un orco?
Sapev o che le streghe si riuniv ano la notte nelle
case abbandonate e facev ano le feste e se
partecipav i div entav i pazzo e gli orchi si
m angiav ano i bam bini.
Dov ev o stare attento. Se un orco m i prendev a,
buttav a anche m e in un buco e m i m angiav a a
pezzi. Prim a un braccio, poi una gam ba e così v ia.
E nessuno sapev a più niente. I m iei genitori
av rebbero pianto disperati. E tutti a dire:
«Michele era tanto buono, com e ci dispiace».
Sarebbero v enuti gli zii e m ia cugina Ev elina, con
la Giulietta blu. Il Teschio non si sarebbe m esso a
piangere, figuriam oci, e neanche Barbara, Mia
sorella e Salv atore, sì.
Non v olev o m orire. Anche se m i sarebbe
piaciuto andare al m io funerale.
Non ci dov ev o andare lassù. Ma che m i ero
im pazzito?
Ho girato la bicicletta e m i sono av v iato v erso
casa. Dopo un centinaio di m etri ho frenato.
Cos'av rebbe fatto Tiger Jack al m io posto?
Non tornav a indietro neanche se glielo
ordinav a Manitù in persona.
Tiger Jack.
Quella era una persona seria. Tiger Jack,
l'am ico indiano di Tex Willer.
E Tiger Jack su quella collina ci saliv a pure se
c'era il conv egno internazionale di tutte le streghe,
i banditi e gli orchi del pianeta perché era un
indiano nav ajo, ed era intrepido e inv isibile e
silenzioso com e un pum a e sapev a arram picarsi e
sapev a aspettare e poi colpire con il pugnale i
nem ici.
Io sono Tiger, anche m eglio, io sono il figlio
italiano di Tiger, m i sono detto.
Peccato che non av ev o un pugnale, un arco o
un fucile Winchester.
Ho nascosto la bicicletta, com e av rebbe fatto
Tiger con il suo cav allo, m i sono infilato nel grano
e sono av anzato a quattro zam pe, fino a quando
non ho sentito le gam be dure com e pezzi di legno e
le braccia indolenzite. Allora ho com inciato a
zom pettare com e un fagiano, guardandom i a
destra e a sinistra.
Quando sono arriv ato nella v alle, sono rim asto
qualche m inuto a riprendere aria, spalm ato
contro un tronco. E sono passato da un albero
all'altro, com e un'om bra sioux. Con le orecchie
drizzate a qualsiasi v oce o rum ore sospetto. Ma
sentiv o solo il sangue che pulsav a nei tim pani.
Acquattato dietro un cespuglio ho spiato la
casa.
Era silenziosa e tranquilla. Niente sem brav a
cam biato. Se erano passate le streghe av ev ano
rim esso tutto a posto.
Mi sono infilato tra i rov i e m i sono ritrov ato
nel cortile.
Nascosto sotto la lastra e il m aterasso ci stav a il
buco.
Non m e l'ero sognato.
Non riusciv o a v ederlo bene. Era buio e pieno di
m osche e saliv a una puzza nauseante. Mi sono
inginocchiato sul bordo.
— Sei v iv o? Nulla.
— Sei v iv o? Mi senti?
Ho aspettato, poi ho preso un sasso e gliel'ho
tirato. L'ho colpito su un piede. Su un piede m agro
e sottile e con le dita nere. Su un piede che non si è
m osso di un m illim etro.
Era m orto. E da lì si sarebbe sollev ato solo se
Gesù in persona glielo ordinav a.
Mi è v enuta la pelle d'oca.
I cani e i gatti m orti non m i av ev ano m ai fatto
tanta im pressione. Il pelo nasconde la m orte. Quel
cadav ere inv ece, così bianco, con un braccio
buttato da una parte, la testa contro la parete,
facev a ribrezzo. Non c'era sangue, niente. Solo un
corpo senza v ita in un buco sperduto.
Non av ev a più niente di um ano.
Dov ev o v edergli la faccia. La faccia è la cosa più
im portante. Dalla faccia si capisce tutto.
Ma scendere lì dentro m i facev a paura. Potev o
girarlo con una m azza. Ci v olev a una m azza bella
lunga. Sono entrato nella stalla e lì ho trov ato un
palo, m a era corto. Sono tornato indietro. Sul
cortile si affacciav a una porticina chiusa a chiav e.
Ho prov ato a spingerla, m a anche se era
m alm essa, resistev a. Sopra la porta c'era una
finestrella. Mi sono arram picato puntellandom i
sugli stipiti e, di testa, m i sono infilato dentro.
Bastav ano un paio di chili in più, o il culo di
Barbara, e non ci sarei passato.
Mi sono ritrov ato nella stanza che av ev o v isto
m entre attrav ersav o il ponte. C'erano i pacchi di
pasta. I barattoli di pelati aperti. Bottiglie di
birra v uote. I resti di un fuoco. Dei giornali. Un
m aterasso. Un bidone pieno d'acqua. Un cestino.
Ho av uto la sensazione del giorno prim a, che lì ci
v eniv a qualcuno. Quella stanza non era
abbandonata com e il resto della casa.
Sotto una coperta grigia c'era uno scatolone.
Dentro ho trov ato una corda che finiv a con un
uncino di ferro.
Con questa posso andare giù, ho pensato.
L'ho presa e l'ho buttata dalla finestrella e sono
uscito.
Per terra c'era il braccio arrugginito di una
gru. Ci ho legato intorno la corda. Ma av ev o paura
che si sciogliev a e io rim anev o nel buco insiem e al
m orto. Ho fatto tre nodi, com e quelli che facev a
papà al telone del cam ion. Ho tirato con tutta la
forza, resistev a. Allora l'ho gettata nel buco.
— Io non ho paura di niente, — ho sussurrato
per farm i coraggio, m a le gam be m i cedev ano e
una v oce nel cerv ello m i urlav a di non andare.
I m orti non fanno niente, m i sono detto, m i sono
fatto il segno della croce e sono sceso.
Dentro facev a più freddo.
La pelle del m orto era sudicia, incrostata di
fango e m erda. Era nudo. Alto com e m e, m a più
m agro. Era pelle e ossa. Le costole gli sporgev ano.
Dov ev a av ere più o m eno la m ia età.
Gli ho toccato la m ano con la punta del piede,
m a è rim asta senza v ita. Ho sollev ato la coperta
che gli copriv a le gam be. Intorno alla cav iglia
destra av ev a una grossa catena chiusa con un
lucchetto. La pelle era scorticata e rosa. Un liquido
trasparente e denso trasudav a dalla carne e
colav a sulle m aglie arrugginite della catena
attaccata a un anello interrato.
Volev o v edergli la faccia. Ma non v olev o
toccargli la testa. Mi facev a im pressione.
Alla fine, tentennando, ho allungato un braccio
e ho afferrato con due dita un lem bo della coperta
e stav o cercando di lev argliela dal v iso quando il
m orto ha piegato la gam ba.
Ho stretto i pugni e ho spalancato la bocca e il
terrore m i ha afferrato le palle con una m ano
gelata.
Poi il m orto ha sollev ato il busto com e fosse v iv o
e a occhi chiusi ha allungato le braccia v erso di
m e.
I capelli m i si sono rizzati in testa, ho cacciato
un urlo, ho fatto un salto indietro e sono
inciam pato nel secchio e la m erda si è v ersata
ov unque. Sono finito schiena a terra urlando.
Anche il m orto ha com inciato a urlare.
Mi sono dim enato nella m erda. Poi finalm ente
con uno scatto disperato ho preso la corda e sono
schizzato fuori da quel buco com e una pulce
im pazzita.
Pedalav o, m i infilav o tra buche e cunette
rischiando di spezzarm i la schiena, m a non
frenav o. Il cuore m i esplodev a, i polm oni m i
bruciav ano. Ho preso un dosso e m i sono ritrov ato
in aria. Sono atterrato m ale, ho strusciato un
piede a terra e ho tirato i freni, m a è stato peggio,
la ruota dav anti si è inchiodata e sono sciv olato
nel fosso a lato della strada. Mi sono rim esso in
piedi con le gam be che m i trem av ano e m i sono
guardato. Un ginocchio era sbucciato a sangue, la
m aglietta era tutta sporca di m erda, una striscia
di cuoio del sandalo si era spezzata.
Respira, m i sono detto.
Respirav o e sentiv o il cuore placarsi, il fiato
tornare norm ale e im prov v isam ente m i è v enuto
sonno. Mi sono sdraiato. Ho chiuso gli occhi. Sotto
le palpebre era tutto rosso. La paura c'era ancora,
m a era appena un bruciore in fondo allo stom aco.
Il sole m i scaldav a le braccia gelate. I grilli m i
strillav ano nelle orecchie. Il ginocchio m i pulsav a.
Quando ho riaperto gli occhi delle grosse
form iche nere m i cam m inav ano addosso.
Quanto av ev o dorm ito? Potev ano essere cinque
m inuti com e due ore.
Sono salito sulla Scassona e ho ripreso la strada
di casa. Mentre pedalav o continuav o a v edere il
bam bino m orto che si sollev av a e stendev a le
m ani v erso di m e. Quella faccia scav ata, quegli
occhi
chiusi,
quella
bocca
spalancata
continuav ano a balenarm i dav anti.
Ora m i appariv a com e un sogno. Un incubo che
non av ev a più forza.
Era v iv o. Av ev a fatto finta di essere m orto.
Perché?
Forse era m alato. Forse era un m ostro.
Un lupo m annaro.
Di notte div entav a un lupo. Lo tenev ano
incatenato lì perché era pericoloso. Av ev o v isto
alla telev isione un film di un uom o che nelle notti
di luna piena si trasform av a in lupo e assaliv a la
gente. I contadini preparav ano una trappola e il
lupo ci finiv a dentro e un cacciatore gli sparav a e
il lupo m oriv a e tornav a uom o. Era il farm acista.
E il cacciatore era il figlio del farm acista.
Quel bam bino lo tenev ano incatenato sotto una
lastra coperta di terra per non esporlo ai raggi
della luna.
I lupi m annari non si possono curare. Per
ucciderli bisogna av ere una pallottola d'argento.
Ma i lupi m annari non esistev ano.
«Piantala con questi m ostri, Michele. I m ostri
non esistono. I fantasm i, i lupi m annari, le streghe
sono fesserie inv entate per m ettere paura ai
creduloni com e te. Dev i av ere paura degli uom ini,
non dei m ostri», m i av ev a detto papà un giorno
che gli av ev o chiesto se i m ostri potev ano
respirare sott'acqua.
Ma se lo av ev ano nascosto lì ci dov ev a essere
una ragione.
Papà m i av rebbe spiegato tutto.
— Papà! Papà… — Ho spinto la porta e m i sono
precipitato dentro. — Papà! Ti dev o dire… — Il resto
m i si è spento tra le labbra.
Stav a sulla poltrona, il giornale tra le m ani e
m i guardav a con gli occhi da rospo. I peggiori
occhi da rospo che m i era capitato di v edere dal
giorno in cui m i ero bev uto l'acqua di Lourdes
pensando che era l'acqua con le bollicine. Ha
schiacciato la cicca nella tazzina del caffè.
Mam m a era seduta sul div ano a cucire, ha
alzato la testa e l'ha riabbassata.
Papà ha preso aria con il naso e ha detto: —
Dov e sei stato tutto il giorno? — Mi ha squadrato
da capo a piedi. — Ma ti sei v isto? Dov e cazzo ti sei
rotolato? — Ha fatto una sm orfia. — Nella m erda?
Puzzi com e un m aiale! Hai rotto pure i sandali!
—Ha guardato l'orologio. — Lo sai che ore sono?
Sono rim asto in silenzio.
— Te lo dico io. Le tre e v enti. A pranzo non ti sei
fatto v edere. Nessuno sapev a dov e stav i. Ti sono
andato a cercare fino a Lucignano. Ieri l'hai
passata liscia, oggi no.
Quando era così infuriato papà non urlav a,
parlav a a bassa v oce. Questo m i terrorizzav a.
Ancora oggi non sopporto le persone che non
sfogano la loro rabbia.
Mi ha indicato la porta. — Se v uoi fare quello
che ti pare è m eglio che te ne v ai» Io non ti v oglio.
Vattene.
— Aspetta, ti dev o dire una cosa.
— Tu non m i dev i dire niente, dev i uscire da
quella porta.
Ho im plorato. — Papà, è una cosa im portante…
— Se non te ne v ai entro tre secondi, m i alzo da
questa poltrona e ti prendo a calci fino al cartello
di Acqua Trav erse —. E im prov v isam ente ha
alzato il tono. — Vattene v ia!
Ho fatto di sì con la testa. Mi v eniv a da
piangere. Gli occhi m i si sono riem piti di lacrim e,
ho aperto la porta e ho sceso le scale. Sono
rim ontato sulla Scassona e ho pedalato fino al
torrente.
Il torrente era sem pre secco, tranne d'inv erno,
quando piov ev a forte. Si snodav a tra i cam pi gialli
com e una lunga biscia albina. Un letto di sassi
bianchi e appuntiti, di rocce incandescenti e ciuffi
d'erba. Dopo un pezzo scosceso tra due colline, il
torrente si allargav a form ando uno stagno che
d'estate si asciugav a fino a div entare una
pozzanghera nera.
Il lago, lo chiam av am o.
Dentro non c'erano pesci, né girini, solo larv e di
zanzara e insetti pattinatori. Se ci infilav i i piedi,
li tirav i fuori coperti da un fango scuro e
puzzolente.
Andav am o lì per il carrubo.
Era grande, v ecchio e facile da salire.
Sognav am o di costruirci sopra una casa. Con la
porta, il tetto, la scala di corda e tutto il resto. Ma
non erav am o m ai riusciti a trov are le assi, i
chiodi, il genio. Una v olta il Teschio ci av ev a
incastrato una rete di letto. Ma ci si stav a
scom odissim i. Ti graffiav a. Ti strappav a i v estiti.
E se ti m uov ev i troppo finiv i pure di sotto.
Da qualche tem po però nessuno ci saliv a sul
carrubo. A m e inv ece continuav a a piacerm i. Ci
stav o bene lassù all'om bra, nascosto tra le foglie»
Si v edev a lontano, era com e essere in cim a al
pennone di una nav e. Acqua Trav erse era una
m acchiolina, un punto sperduto nel grano. E
potev i sorv egliare la strada che andav a a
Lucignano. Da lì v edev o il telone v erde del cam ion
di papà prim a di chiunque altro.
Mi sono arram picato al m io solito posto, a
cav alcioni di un grosso ram o che si biforcav a, e ho
deciso che a casa non sarei più tornato.
Se papà non m i v olev a, se m i odiav a, non m i
im portav a, sarei rim asto lì. Potev o v iv ere senza
fam iglia, com e gli orfani.
«Io non ti v oglio. Vattene v ia! »
Va bene, m i sono detto. Però quando non
tornerò più starai m alissim o. E allora v errai qua
sotto a chiederm i di tornare m a io non tornerò e tu
m i pregherai e io non tornerò e capirai che hai
sbagliato e che tuo figlio non torna e v iv e sul
carrubo.
Mi sono tolto la m aglietta, ho poggiato la
schiena contro il legno, la testa nelle m ani e ho
guardato la collina del bam bino. Era lontana, in
fondo alla pianura, e il sole le tram ontav a
accanto. Era un disco arancione che stingev a di
rosa sulle nuv ole e sul cielo.
— Michele, scendi!
Mi sono risv egliato e ho aperto gli occhi.
Dov 'ero?
Ci ho m esso un po' a renderm i conto che stav o
appollaiato sul carrubo.
— Michele!
Sotto l'albero, sulla Graziella, c'era Maria. Ho
sbadigliato. — Che v uoi? — Mi sono stiracchiato.
Av ev o la schiena rotta.
E sm ontata dalla bicicletta. — Mam m a ha detto
che dev i tornare a casa.
Mi sono rim esso la m aglietta. Incom inciav a a
fare freddo. — No. Non torno più, diglielo. Io
rim ango qua!
— Mam m a ha detto che è pronta la cena.
Era tardi. C'era ancora un po' di luce m a entro
m ezz'ora sarebbe calata la notte. Questa cosa non
m i piacev a tanto.
— Dille che io non sono più figlio loro e che solo
tu sei figlia loro.
Mia sorella ha aggrottato le sopracciglia. — E
non sei neanche più fratello m io? —No.
— Allora ho la stanza da sola e m i posso
prendere anche i giornalini?
— No, questo non c'entra.
— Ha detto m am m a che se non v ieni tu, v iene
lei e ti piglia a m azzate —. Mi ha fatto segno di
scendere.
— Che m e ne frega. Tanto non può salire
sull'albero.
— Sì che può. Mam m a si arram pica.
— E io le tiro le pietre.
E m ontata in sella. — Guarda che si arrabbia.
— Papà dov 'è?
— Non c'è. — Dov 'è?
— È andato fuori. Torna tardi.
— Dov 'è andato?
— Non lo so. Vieni?
Av ev o una fam e terribile. — Che ci sta da
m angiare?
— Il purè e l'uov o, — ha detto allontanandosi. Il
purè e l'uov o. Mi piacev ano tantissim o tutti e due.
Soprattutto quando li m ischiav o insiem e e
div entav ano una pappa deliziosa.
Sono saltato giù dal carrubo. — Vabbe', v engo,
solo per questa sera però.
A cena nessuno parlav a.
Sem brav a che ci stav a il m orto in casa. Io e m ia
sorella m angiav am o seduti a tav ola.
Mam m a lav av a i piatti. — Quando av ete finito
andate a letto senza fiatare.
Ha chiesto Maria: — E la telev isione?
— Niente telev isione. Tra un po' torna v òstro
padre e se v i trov o alzati sono dolori.
Ho chiesto: — E ancora m olto arrabbiato? — Sì.
— Che ha detto?
— Ha detto che se continui cosi, il prossim o
anno ti porta dai frati.
Appena facev o una cosa sbagliata papà m i
v olev a m andare dai frati.
Salv atore e la m adre ogni tanto andav ano al
m onastero di San Biagio perché lo zio era frate
guardiano. Un giorno av ev o chiesto a Salv atore
com e si stav a dai frati.
— Di m erda, — m i av ev a risposto. — Stai tutto il
giorno a pregare e la sera ti chiudono in una
stanza e se ti scappa la pipi non la puoi fare e ti
fanno tenere i sandali pure se fa freddo.
Io li odiav o i frati, m a sapev o che non ci sarei
andato m ai perché papà li odiav a più di m e e
dicev a che erano dei m aiali.
Ho m esso il piatto nell'acquaio. — A papà non
gli passa m ai piti?
Mam m a ha detto: — Se ti trov a che dorm i forse
gli passa.
Mam m a non sedev a m ai a tav ola con noi.
Ci serv iv a e m angiav a in piedi. Con il piatto
poggiato sopra il frigorifero. Parlav a poco, e stav a
in piedi. Lei stav a sem pre in piedi. A cucinare. A
lav are. A stirare. Se non stav a in piedi, allora
dorm iv a. La telev isione la stufav a. Quando era
stanca si buttav a sul letto e m oriv a.
Al tem po di questa storia m am m a av ev a
trentatre anni. Era ancora bella. Av ev a lunghi
capelli neri che le arriv av ano a m età schiena e li
tenev a sciolti. Av ev a due occhi scuri e grandi
com e m andorle, una bocca larga, denti forti e
bianchi e un m ento a punta. Sem brav a araba. Era
alta, form osa, av ev a il petto grande, la v ita
stretta e un sedere che facev a v enire v oglia di
toccarglielo e i fianchi larghi.
Quando andav am o al m ercato di Lucignano
v edev o com e gli uom ini le appiccicav ano gli occhi
addosso. Vedev o il fruttiv endolo che dav a una
gom itata a quello del banco accanto e le
guardav ano il sedere e poi alzav ano la testa al
cielo. Io la tenev o per m ano, m i attaccav o alla
gonna.
E m ia, lasciatela in pace, av rei v oluto urlare.
— Teresa, tu fai v enire i cattiv i pensieri, — le
dicev a Sev erino, quello che portav a l'autocisterna.
A m am m a queste cose non interessav ano. Non
le v edev a. Quelle occhiate v oraci le sciv olav ano
addosso. Quelle sbirciate nella v del v estito non le
facev ano né caldo né freddo.
Non era una sm orfiosa.
Dall'afa non si respirav a. Erav am o a letto. Al
buio.
— Conosci un anim ale che com incia con un
frutto? — m i ha chiesto Maria.
— Com e?
— Un anim ale che com incia con un frutto. Ho
com inciato a pensarci. — Tu lo sai? — Sì.
— E chi te l'ha detto?
— Barbara.
Non m i v eniv a niente. — Non esistono.
— Esistono, esistono.
Ci ho prov ato. — Il pescatore.
— Non è un anim ale. Non v ale.
Av ev o il v uoto in testa. Mi ripetev o tutta la
frutta che conoscev o e ci attaccav o dietro pezzi di
anim ali e non ne usciv a niente.
— Il Susinello?
— No.
— Il Perana?
—No.
— Non lo so. Mi arrendo. Qual è?
— Non te lo dico.
— Ora m e lo dev i dire.
— Vabbe', te lo dico. Il coccodrillo.
Mi sono dato uno schiaffo sulla fronte. — E v ero!
Il cocco drillo! Era facilissim o. Che cretino…
— Buona notte, — m i ha detto Maria.
— Buona notte, — le ho risposto.
Ho prov ato a dorm ire, m a non av ev o sonno, m i
rigirav o nel letto.
Mi sono affacciato alla finestra. La luna non era
più una palla perfetta e c'erano stelle da tutte le
parti. Quella notte il bam bino non potev a
trasform arsi in lupo. Ho guardato v erso la collina.
E per un istante, ho av uto l'im pressione che una
lucina baluginasse sulla cim a.
Chissà cosa succedev a nella casa abbandonata.
Forse c'erano le streghe, nude e v ecchie, che
stav ano intorno al buco a ridere senza denti e forse
tirav ano fuori dal buco il bam bino e lo facev ano
ballare e gli tirav ano il pesce. Forse c'era l'orco e
gli zingari che se lo cucinav ano sulla brace.
Non sarei andato là sopra di notte per tutto l'oro
del m ondo. Mi sarebbe piaciuto trasform arm i in
un pipistrello e v olare sopra la casa. O m etterm i
l'arm atura antica che il papà di Salv atore tenev a
all'ingresso di casa e salire sulla collina. Con quella
addosso le streghe non m i potev ano fare niente.
3.
La m attina m i sono sv egliato tranquillo, non
av ev o fatto sogni brutti. Sono rim asto un pò a
letto, a occhi chiusi, ad ascoltare gli uccelli. Poi ho
com inciato a riv edere il bam bino che si sollev av a
e allungav a le braccia.
— Aiuto! — ho detto.
Che stupido! Per quello si era alzato. Mi
chiedev a aiuto e io ero scappato v ia.
Sono uscito in m utande dalla stanza. Papà
stav a av v itando la m acchinetta del caffè. Il padre
di Barbara era seduto a tav ola.
— Buon giorno, — ha detto papà. Non era più
arrabbiato.
— Ciao, Michele, — ha detto il padre di Barbara.
— Com e stai?
— Bene.
Pietro Mura era un uom o basso e tozzo, con un
paio di baffoni neri che gli copriv ano la bocca e un
testone quadrato. Indossav a un com pleto nero con
le righine bianche e sotto la canottiera. Per tanti
anni av ev a fatto il barbiere a Lucignano, m a gli
affari non erano m ai andati bene e quando
av ev ano aperto un nuov o salone con la m anicure
e i tagli m oderni av ev a chiuso bottega e ora facev a
il contadino. Ma ad Acqua Trav erse lo
continuav ano a chiam are il barbiere.
Se ti dov ev i tagliare i capelli andav i a casa sua.
Ti facev a sedere in cucina, al sole, accanto alla
gabbia con i cardellini, apriv a un cassetto e tirav a
fuori un panno arrotolato, dentro ci tenev a i
pettini e le forbici ben oliate.
Pietro Mura av ev a le dita grosse e corte com e
sigari toscani che entrav ano appena nelle forbici,
e prim a di com inciare a tagliare allargav a le lam e
e te le passav a sulla testa, av anti e indietro, com e
un rabdom ante. Dicev a che in quel m odo potev a
sentirti i pensieri, se erano buoni o cattiv i.
E io, quando facev a così, cercav o di pensare solo
a cose belle com e i gelati, le stelle cadenti o a
quanto v olev o bene a m am m a.
Mi ha guardato e ha detto: — Che v uoi fare, il
capellone?
Ho fatto segno di no con la testa.
Papà ha v ersato il caffè nelle tazzine buone.
— Ieri m i ha fatto arrabbiare. Se continua così
lo m ando dai frati.
Il barbiere m i ha chiesto: — Lo sai com e si
tagliano i capelli ai frati?
— Con il buco al centro.
— Brav o. Ti conv iene ubbidire, quindi.
— Forza, v estiti e fai colazione, — m i ha detto
papà. — Mam m a ti ha lasciato il pane e il latte.
— Dov 'è andata?
— A Lucignano. Al m ercato.
— Papà, ti dev o dire una cosa. Una cosa
im portante.
Si è m esso la giacca. — Me la dici stasera. Adesso
sto uscendo. Sv eglia tua sorella e scalda il latte —.
Con un sorso si è finito il caffè.
Il barbiere si è bev uto il suo e sono usciti tutti e
due di casa.
Dopo av er preparato la colazione a Maria sono
sceso in strada.
Il Teschio e gli altri giocav ano a calcio sotto il
sole.
Togo, un bastardino bianco e nero, rincorrev a
la palla e finiv a tra le gam be di tutti.
Togo era apparso ad Acqua Trav erse all'inizio
dell'estate ed era stato adottato da tutto il paese. Si
era fatto la cuccia nel capannone del padre del
Teschio. Tutti gli dav ano resti ed era div entato un
grassone con una pancia gonfia com e un tam buro.
Era un cagnolino buono, quando gli facev i le
carezze o lo portav i dentro casa si em ozionav a e si
accucciav a e facev a pipì.
— Vai in porta, — m i ha urlato Salv atore.
Mi ci sono m esso. A nessuno piacev a fare il
portiere. A m e sì. Forse perché con le m ani ero più
brav o che con i piedi. Mi piacev a saltare, tuffarm i,
rotolarm i nella polv ere. Parare i rigori.
Gli altri inv ece v olev ano solo fare gol.
Quella m attina ne ho presi tanti. La palla m i
sfuggiv a o arriv av o tardi. Ero distratto.
Salv atore m i si è av v icinato. — Michele, che
hai?
— Che ho?
— Stai giocando m alissim o.
Mi sono sputato nelle m ani, ho allargato le
braccia e le gam be e ho stretto gli occhi com e Zoff.
— Adesso paro. Paro tutto.
Il Teschio ha sm arcato Rem o, ha sparato una
bordata tesa e centrale. Una palla forte, m a facile,
di quelle che si possono respingere con un pugno,
oppure stringere contro la pancia. Ho prov ato ad
afferrarla m a m i è schizzata dalle m ani.
— Gol! — ha urlato il Teschio, e ha sollev ato un
pugno in aria com e se av esse segnato contro la
Juv entus.
La collina m i chiam av a. Potev o andare. Papà e
m am m a non c'erano. Bastav a tornare prim a di
pranzo.
— Non ho v oglia di giocare, — ho detto e m e ne
sono andato.
Salv atore m i ha rincorso. — Dov e v ai?
— Da nessuna parte.
— Andiam o a fare un giro?
— Dopo. Adesso ho da fare una cosa.
Ero scappato e av ev o lasciato tutto così.
La lastra buttata da una parte insiem e al
m aterasso, il buco scoperto e la corda che ci
pendev a dentro.
Se i guardiani del buco erano v enuti, av ev ano
v isto che il loro segreto era stato scoperto e m e
l'av rebbero fatta pagare.
E se non c'era più?
Dov ev o farm i coraggio e guardare.
Mi sono affacciato.
Era arrotolato nella coperta.
Mi sono schiarito la v oce. — Ciao… Ciao… Ciao…
Sono quello di ieri. Sono sceso, ti ricordi?
Nessuna risposta.
— Mi senti? Sei sordo? — Era una dom anda
stupida. — Stai m ale? Sei v iv o?
Ha piegato il braccio, ha sollev ato una m ano e
ha bisbigliato qualche cosa.
— Com e? Non ho capito.
— Acqua.
— Acqua? Hai sete?
Ha sollev ato il braccio.
— Aspetta.
Dov e la trov av o l'acqua? C'erano un paio di
secchi per la v ernice, m a erano v uoti. Nel lav atoio
ce n'era un po', m a era v erde e pullulav a di larv e
di zanzara.
Mi sono ricordato che quando ero entrato
dentro per prendere la corda av ev o v isto un
bidone pieno d'acqua.
— Torno subito, — gli ho detto, e m i sono infilato
nella chiostrina sopra la porta.
Il bidone era m ezzo pieno, m a l'acqua era
lim pida e non av ev a odore. Sem brav a buona.
In un angolo buio, sopra un'asse di legno,
c'erano dei barattoli, dei m ozziconi di candela, una
pentola e delle bottiglie v uote. Ne ho presa una, ho
fatto due passi e m i sono ferm ato. Sono tornato
indietro e ho preso in m ano la pentola.
Era una pentola bassa, sm altata di bianco, con
il bordo e i m anici dipinti di blu e intorno c'erano
disegnate delle m ele rosse ed era uguale a quella
che av ev am o noi a casa. La nostra l'av ev am o
com prata con la m am m a al m ercato di
Lucignano, l'av ev a scelta Maria da un m ucchio di
pentole sopra un banco perché le piacev ano le
m ele.
Questa sem brav a più v ecchia. Era stata lav ata
m ale, sul fondo c'era ancora un po' di roba
appiccicata. Ci ho passato l'indice e l'ho av v icinato
al naso.
Salsa di pom odoro.
L'ho rim essa a posto e ho riem pito la bottiglia
d'acqua e l'ho chiusa con un tappo di sughero, ho
preso il cestino e sono uscito fuori.
Ho afferrato la corda, ci ho legato il cestino e ci
ho poggiato dentro la bottiglia.
— Te la calo, — ho detto. — Prendila.
Con la coperta addosso, a tentoni, ha cercato la
bottiglia nel cestino, l'ha stappata e l'ha v ersata
nel pentolino senza farne cadere neanche un po',
poi l'ha rim essa nel paniere e ha dato uno
strattone alla corda.
Com e una cosa che facev a sem pre, tutti i
giorni. Siccom e non m e la riprendev o ha dato un
secondo strattone e ha grugnito qualcosa
arrabbiato.
Appena l'ho tirata su, ha abbassato la testa e
senza sollev are il pentolino ha com inciato a bere, a
quattro zam pe, com e un cane. Quando ha finito si
è accoccolato da una parte e non si è più m osso.
Era tardi.
— Allora… Ciao —. Ho coperto il buco e m e ne
sono andato.
Mentre pedalav o v erso Acqua Trav erse,
pensav o alla pentola che av ev o trov ato nella
cascina.
Mi sem brav a strano che era uguale alla nostra.
Non lo so, forse perché Maria av ev a scelto quella
tra tante. Com e se fosse speciale, più bella, con
quelle m ele rosse.
Sono arriv ato a casa giusto in tem po per il
pranzo.
— Veloce, v atti a lav are le m ani, — m i ha detto
papà. Era seduto a tav ola accanto a m ia sorella.
Aspettav ano che m am m a scolav a la pastasciutta.
Sono corso in bagno e m i sono sfregato le m ani
con il sapone, m i sono fatto la riga a destra e li ho
raggiunti m entre m am m a riem piv a i piatti di
pasta.
Non usav a la pentola con le m ele. Ho guardato
le stov iglie ad asciugare sul lav ello, m a anche lì
non l'ho v ista. Dov ev a essere nella credenza.
— Tra un paio di giorni v iene a stare qui una
persona, — ha detto papà con il boccone in bocca. —
Dov ete fare i brav i. Niente pianti e urli. Non m i
fate fare figure di m erda.
Ho chiesto: — Chi è questa persona?
Si è v ersato un bicchiere di v ino. — E un am ico
m io.
— Com e si chiam a? — ha dom andato m ia
sorella.
— Sergio.
— Sergio, — ha ripetuto Maria. — Che nom e
buffo. Era la prim a v olta che v eniv a uno a stare
da noi.
A Natale v eniv ano gli zii m a non rim anev ano a
dorm ire quasi m ai. Non c'era posto. Ho chiesto: —
E quanto sta?
Papà si è riem pito il piatto di nuov o. — Un po'.
Mam m a ci ha m esso dav anti la fettina di
carne.
Era m ercoledì. E il m ercoledì era il giorno della
fettina.
La fettina che fa bene e che a m e e a m ia sorella
facev a schifo. Io, con uno sforzo enorm e, quella
suoletta dura e insipida la buttav o giù, m ia sorella
no. Maria potev a m asticarla per ore fino a quando
div entav a una palla bianca e stopposa che le si
gonfiav a in bocca. E quando non ce la facev a
proprio più l'appiccicav a sotto il tav olo. Lì la carne
ferm entav a. Mam m a non si raccapezzav a. — Ma
da dov e v iene questa puzza? Ma che sarà? — Fino a
quando, un giorno, ha sfilato il cassetto delle
posate e ha trov ato tutte quelle orrende pallottole
attaccate alle assi com e alv eari.
Ma oram ai il trucco era stato scoperto.
Maria ha com inciato a lam entarsi. — Non la
v oglio! Non m i piace!
Mam m a si è arrabbiata subito. — Maria,
m angia quella carne!
— Non posso. Mi fa v enire il m ale alla testa, —
ha detto m ia sorella com e se le offrissero del
v eleno.
Mam m a le ha m ollato uno scapaccione e Maria
ha com inciato a frignare.
Ora finisce a letto, ho pensato.
Ma papà inv ece ha preso il piatto e ha guardato
m am m a negli occhi. — Lasciala stare, Teresa. Non
m angerà. Pazienza. Mettila da parte.
Dopo m angiato i m iei genitori sono andati a
riposare. La casa era un forno, m a loro riusciv ano
a dorm ire lo stesso.
Era il m om ento adatto per cercare la pentola.
Ho aperto la credenza e ho rov istato tra le
stov iglie. Ho guardato nel cassettone dov e
m ettev am o le cose che non si usav ano più. Sono
uscito fuori e sono andato dietro casa dov e c'era il
lav atoio, l'orto e i fili con i panni stesi. Ogni tanto
m am m a lav av a lì le stov iglie e poi le facev a
asciugare al sole.
Niente. La pentola con le m ele era scom parsa.
Ce ne stav am o sotto la pergola a giocare a sputo
nell'oceano e ad aspettare che il sole se ne calasse
un po' per farci una partita a calcio, quando ho
v isto papà che scendev a le scale, con i pantaloni
buoni e la cam icia pulita. In m ano stringev a una
borsa blu che non av ev o m ai v isto.
Io e Maria ci siam o alzati e l'abbiam o raggiunto
m entre saliv a sul cam ion.
—
Papà, papà, dov e v ai? Parti? — gli ho
dom andato attaccato alla portiera.
— Possiam o v enire con te? — ha im plorato m ia
sorella.
Un bel giro in cam ion ci v olev a proprio. Ci
ricordav am o tutti e due di quando ci av ev a
portato a m angiare i rustici e le paste alla crem a.
Ha acceso il m otore. — Mi dispiace, ragazzi.
Oggi no.
Ho cercato d'infilarm i dentro la cabina. — Ma
av ev i detto che non partiv i più, che stav i a casa…
— Torno presto. Dom ani o dopodom ani.
Scendete, forza —. Andav a di fretta. Non av ev a
v oglia di discutere.
Mia sorella ha prov ato ancora un po' a insistere.
Io no, tanto non c'era niente da fare.
Lo abbiam o guardato allontanarsi nella
polv ere, al v olante della sua grossa scatola v erde.
Mi sono sv egliato durante la notte.
E non per un sogno. Per un rum ore.
Sono rim asto così, a occhi chiusi, ad ascoltare.
Mi sem brav a di essere a m are. Lo sentiv o. Solo
che era un m are di ferro, un oceano pigro di
bulloni, v iti e chiodi che lam biv a la riv a di una
spiaggia. Lente onde di ferraglia si rom pev ano in
una pesante risacca che ne copriv a e scopriv a i
bordi.
A quel suono si univ ano gli ululati e i guaiti
disperati di un branco di cani, un coro lugubre e
dissonante che non attenuav a il fragore del ferro
m a lo am plificav a.
Ho guardato fuori dalla finestra. Una
m ietitrebbia av anzav a sferragliando sul crinale di
una collina bagnato dai raggi della luna.
Assom igliav a a una gigantesca cav alletta di
m etallo, con due piccoli occhi tondi e lum inosi e
una bocca larga fatta di lam e e punte. Un insetto
m eccanico che div orav a grano e cacav a paglia.
Lav orav a di notte perché di giorno era troppo
caldo. Era lei che facev a il rum ore del m are.
Gli ululati sapev o da dov e v eniv ano.
Dal canile del padre del Teschio. Italo Natale
av ev a costruito dietro casa una baracca di
lam iera e ci tenev a chiusi i cani da caccia.
Stav ano sem pre là dentro, estate e inv erno, dietro
una rete m etallica. Quando la m attina il padre del
Teschio gli portav a da m angiare, abbaiav ano.
Quella
notte,
chissà
perché,
av ev ano
com inciato a ululare tutti insiem e.
Ho guardato v erso la collina.
Papà era lì. Av ev a portato la fettina di m ia
sorella al bam bino e per questo av ev a fatto finta di
partire e per questo av ev a una borsa, per
nasconderla dentro.
Prim a di cena av ev o aperto il frigorifero e la
carne non c'era più.
— Mam m a, dov 'è la fettina?
Mi av ev a guardato stupita. — Ora ti piace la
carne?
— Sí.
— Non c'è più. Se l'è m angiata tuo padre. Non
era v ero. L'av ev a presa per il bam bino. Perché il
bam bino era m io fratello.
Com e Nunzio Scardaccione, il fratello m aggiore
di Salv atore. Nunzio non era un pazzo cattiv o, m a
io non lo potev o guardare. Av ev o paura che m i
m ischiav a la sua follia. Nunzio si strappav a i
capelli con le m ani e se li m angiav a. In testa era
tutto buchi e croste e sbav av a. Sua m adre gli
m ettev a un cappello e i guanti cosi non si
strappav a i capelli, m a lui av ev a com inciato a
m ordersi a sangue le braccia. Alla fine lo av ev ano
preso e lo av ev ano portato al m anicom io. Io ero
stato felice.
Potev a essere che il bam bino nel buco era m io
fratello, ed era nato pazzo com e Nunzio e papà lo
av ev a nascosto lì, per non farci spav entare m e e
m ia sorella. Per non spav entare i bam bini di
Acqua Trav erse.
Forse io e lui erav am o gem elli. Erav am o alti
uguale e sem brav a che av ev am o la stessa età.
Quando erav am o nati, m am m a ci av ev a presi
tutti e due dalla culla, si era seduta su una sedia e
ci av ev a m esso il seno in bocca per darci il latte. Io
av ev o com inciato a succhiare m a lui, inv ece, le
av ev a m orso il capezzolo, av ev a cercato di
strapparglielo, il sangue e il latte le colav ano dalla
tetta e m am m a urlav a per casa: — È pazzo! È
pazzo! Pino, portalo v ia! Portalo v ia! Uccidilo, che è
pazzo.
Papà lo av ev a infilato in un sacco e lo av ev a
portato sulla collina per am m azzarlo, lo av ev a
m esso a terra, nel grano, e dov ev a pugnalarlo m a
non ce l'av ev a fatta, era sem pre figlio suo, e allora
av ev a scav ato un buco, ce lo av ev a incatenato
dentro e ce lo av ev a cresciuto.
Mam m a non sapev a che era v iv o.
Io sì.
4.
Mi sono sv egliato presto. Sono rim asto a letto
m entre il sole com inciav a ad accendersi. Poi non
ce l'ho fatta più a starm ene ad aspettare. Mam m a
e Maria dorm iv ano ancora. Mi sono alzato, m i sono
lav ato i denti, ho riem pito la cartella con del
form aggio e del pane e sono uscito.
Av ev o deciso che di giorno sulla collina non
c'era pericolo, solo di notte succedev ano le cose
brutte.
Quella m attina erano apparse le nuv ole.
Scorrev ano v eloci su un cielo stinto proiettando
m acchie scure sui cam pi di grano e si tenev ano
stretta la loro pioggia portandola chissà dov e.
Sfrecciav o nella cam pagna deserta, sulla
Scassona, diretto alla casa.
Se trov av o nel buco anche un pezzettino della
fettina v olev a dire che quel bam bino era m io
fratello.
Ero quasi arriv ato quando sull'orizzonte è
apparso un polv erone rosso. Basso. Veloce. Una
nuv ola che av anzav a nel grano. Il polv erone che
può fare una m acchina su una strada di terra
cotta dal sole. Era distante m a ci av rebbe m esso
poco a raggiungerm i. Già sentiv o il rom bo del
m otore.
Arriv av a dalla casa abbandonata. Quella
strada portav a solo lì. Un'autom obile ha curv ato
piano e m i si è m essa di fronte.
Non sapev o che fare. Se tornav o indietro m i
av rebbe raggiunto, se continuav o m i av rebbe
v isto. Dov ev o deciderm i in fretta, si stav a
av v icinando. Forse m i av ev a già v isto. Se non m i
av ev a v isto era solo per la nube rossa che
sollev av a.
Ho girato la bicicletta e ho com inciato a
pedalare, cercando di allontanarm i il più v eloce
possibile. Era inutile. Più spingev o sui pedali, più
la bicicletta si im puntav a, si sbilanciav a e si
rifiutav a di andare av anti. Mi girav o e alle m ie
spalle il polv erone crescev a.
Nasconditi, m i sono detto.
Ho sterzato, la bicicletta si è im pennata su un
sasso e sono v olato com e un crocifisso nel grano. La
m acchina era a m eno di duecento m etri.
La Scassona stav a sul bordo della strada. Ho
afferrato la ruota dav anti e l'ho trascinata accanto
a m e. Mi sono appiccicato a terra. Senza respirare.
Senza m uov ere un m uscolo. Chiedendo a Gesù
Bam bino che non m i v edessero.
Gesù Bam bino m i ha accontentato.
Steso tra le piante, con i tafani che
banchettav ano sulla m ia pelle e le m ani im m erse
nella zolle infuocate, ho v isto sfilarm i dav anti una
1 2 7 m arrone.
La 1 2 7 di Felice Natale.
Felice Natale era il fratello m aggiore del
Teschio. E se il Teschio era cattiv o, Felice lo era
m ille v olte di più.
Felice av ev a v ent'anni. E quando stav a ad
Acqua Trav erse la v ita per m e e gli altri bam bini
era un inferno. Ci picchiav a, ci bucav a il pallone e
ci rubav a le cose.
Era un pov ero diav olo. Senza un am ico, senza
una donna. Uno che se la prendev a con i più
piccoli, un'anim a in pena. E questo si capiv a.
Nessuno a v ent'anni può v iv ere ad Acqua
Trav erse, a m eno di fare la fine di Nunzio
Scardaccione, lo strappacapelli. Felice stav a ad
Acqua Trav erse com e una tigre in gabbia. Si
aggirav a tra quelle quattro case infuriato,
nerv oso, pronto a darti il torm ento. Fortuna che
ogni tanto se ne andav a a Lucignano. Ma anche lì
non si era fatto degli am ici. Quando usciv o da
scuola lo v edev o seduto da solo su una panchina
della piazza.
In quell'anno la m oda erano i pantaloni a
zam pa di elefante, le m agliette strette e colorate, il
m ontone, i capelli lunghi. Felice no, i capelli se li
tagliav a corti e se li tirav a indietro con la
brillantina, si rasav a perfettam ente e si v estiv a
con giacche m ilitari e pantaloni m im etici. E si
legav a un fazzoletto intorno al collo. Girav a su
quella 1 2 7 , gli piacev ano le arm i e raccontav a di
av er fatto il parà a Pisa e che si era gettato dagli
aerei. Ma non era v ero. Tutti sapev ano che av ev a
fatto il m ilitare a Brindisi. Av ev a il v iso affilato di
un barracuda e i denti piccoli e separati com e
quelli di un coccodrillo appena nato. Una v olta ci
av ev a detto che li av ev a così perché erano ancora
i denti da latte. Non li av ev a m ai cam biati. Se non
apriv a la bocca era quasi un bel ragazzo, m a se
spalancav a il forno, se ridev a, facev i due passi
indietro. E se ti beccav a a guardargli i denti erano
dolori.
Poi un giorno benedetto, senza dire niente a
nessuno, era partito.
Se chiedev i al Teschio dov 'era andato suo
fratello rispondev a: — Al Nord. A lav orare.
Questo ci bastav a e ci av anzav a.
Ora inv ece era rispuntato com e un'erbaccia
v elenosa. Sulla sua 1 2 7 color m erda sciolta. E
scendev a giù dalla casa abbandonata.
Ce l'av ev a m esso lui il bam bino nel buco. Ecco
chi ce l'av ev a m esso.
Nascosto tra gli alberi, ho controllato che nella
v alletta non ci fosse nessuno.
Quando sono stato sicuro di essere solo, sono
uscito dal bosco e sono entrato nella casa passando
per la solita chiostrina. Oltre i pacchi di pasta, le
bottiglie di birra, la pentola con le m ele, per terra
c'erano un paio di scatolette di tonno aperte. E da
una parte, arrotolato, un sacco a pelo m ilitare.
Felice. Era suo. Me lo v edev o, im bustato nel suo
sacco, tutto contento, che si m angiav a il tonno.
Ho riem pito una bottiglia d'acqua, ho preso la
corda dallo scatolone e l'ho portata fuori, l'ho
legata al braccio della gru, ho scostato la lastra e il
m aterasso e ho guardato di sotto.
Era raggom itolato com e un porcospino nella
coperta m arrone.
Non av ev o v oglia di scendere là dentro, m a
dov ev o scoprire se c'erano i resti della fettina di
m ia sorella. Anche se av ev o v isto Felice arriv are
dalla collina non riusciv o a toglierm i dalla testa
che quel bam bino potev a essere m io fratello.
Ho tirato fuori il form aggio e gli ho dom andato:
— Posso v enire? Sono quello dell'acqua. Ti ricordi?
Ti ho portato da m angiare. La caciotta. È buona la
caciotta. Meglio, m ille v olte m eglio della fettina.
Se non m i attacchi, te la dò.
Non m i ha risposto.
— Allora, posso scendere? Felice potev a av erlo
sgozzato.
— Ti tiro la caciotta. Prendila —. Gliel'ho
lanciata.
Gli è caduta v icino.
Una m ano nera e rapida com e una tarantola è
sbucata dalla coperta e ha com inciato a tastare a
terra fino a quando non ha trov ato il form aggio, lo
ha afferrato e lo ha fatto scom parire. Mentre
m angiav a le gam be gli frem ev ano, com e quei cani
bastardi che si trov ano dav anti un av anzo di
bistecca dopo giorni di digiuno.
— Ho anche dell'acqua… Te la porto giù? Ha
fatto un gesto con un braccio.
Mi sono calato.
Appena ha sentito che gli stav o v icino, si è
acciam bellato contro la parete.
Ho guardato intorno, non c'era traccia della
fettina.
— Non ti faccio niente. Hai sete? — Gli ho teso la
bottiglia. — Bev i, è buona.
Si è m esso seduto senza lev arsi di dosso la
coperta.
Sem brav a
un
piccolo
fantasm a
straccione. Le gam be m agre spuntav ano sim ili a
due ram oscelli bianchi e strim inziti. Una era
legata alla catena. Ha tirato fuori un braccio e m i
ha strappato la bottiglia e, com e il form aggio, è
scom parsa sotto la coperta.
Al fantasm a si è form ato un lungo naso da
form ichiere. Bev ev a.
Se l'è fatta fuori tutta in v enti secondi. E
quando ha finito, ha fatto pure un rutto.
— Com e ti chiam i? — gli ho chiesto.
Si è riaccucciato senza degnarsi di rispondere.
— Com e si chiam a tuo padre? Ho aspettato
inv ano.
— Mio padre si chiam a Pino, e il tuo? Pure il tuo
si chiam a Pino?
Sem brav a addorm entato.
Sono rim asto a guardarlo, poi ho detto: —
Felice! Quello lo conosci? L'ho v isto. Scendev a giù
in m acchina… — Non sapev o più che dire. — Vuoi
che m e v ado? Se v uoi m e ne v ado —. Niente. — Va
bene, m e ne v ado —. Ho afferrato la corda. — Ciao,
allora…
Ho sentito un sussurro, un respiro, qualcosa è
uscito dalla coperta.
Mi sono av v icinato. — Hai parlato?
Ha bisbigliato ancora.
— Non capisco. Parla più forte.
— Gli orsetti…! — ha urlato.
Ho fatto un salto. — Gli orsetti? Com e gli
orsetti?
Ha abbassato il tono della v oce. — Gli orsetti
lav atori…
— Gli orsetti lav atori?
— Gli orsetti lav atori. Se lasci aperta la finestra
della cucina gli orsetti lav atori entrano dentro e
rubano le torte o i biscotti, a seconda di quello che
si m angia quel giorno, — ha detto m olto serio. — Se
tu, per esem pio, lasci la spazzatura dav anti a casa,
gli orsetti lav atori v engono la notte e se la
m angiano.
Era com e una radio rotta che im prov v isam ente
riprendev a a trasm ettere.
— E m olto im portante chiudere bene il secchio
sennò buttano tutto fuori.
Di
che
stav a
parlando?
Ho
cercato
d'in ter r om per lo. — Qui non ci stanno orsi. E
neanche lupi.
Le v olpi, sì —. E poi gii ho chiesto: — Ieri per
caso hai m angiato una fettina di carne?
— Gli orsetti lav atori m ordono perché hanno
paura dell'uom o.
Chi cav olo erano questi orsetti lav atori? E cosa
lav av ano? I panni? E poi gli orsi parlano solo nei
fum etti. Non m i piacev a questa storia degli orsetti
lav atori.
Ho insistito. — Mi potresti dire, per fav ore, se
ieri sera hai m angiato la fettina? E m olto
im portante.
E lui m i ha risposto: — Gli orsetti m i hanno
detto che tu non hai paura del signore dei v erm i.
Una v ocina nel cerv ello m i dicev a che non
dov ev o starlo a sentire, che m e ne dov ev o
scappare.
Mi sono aggrappato alla corda, m a non riusciv o
ad andarm ene, continuav o a fissarlo incantato.
Ha insistito. — Tu non hai paura del signore dei
v erm i.
— Il signore dei v erm i? E chi è?
— Il signore dei v erm i dice: Ehi, fessacchiottoi
Ora ti m ando giù la roba. Prendila e ridam m i il
secchio. Sennò scendo e ti schiaccio com e un
v erm e. Sì, ti schiaccio com e un v erm e. Tu sei
l'angelo custode?
— Com e?
— Sei l'angelo custode?
Ho balbettato. — Io… Io, no… Io non sono
l'angelo…
— Tu sei l'angelo. Hai la stessa v oce.
— Quale angelo?
— Quello che parla, che dice le cose.
— Non sono gli orsetti lav atori che parlano?
—Non riusciv o a trov are un senso a quel
farneticare. — Me lo av ev i detto tu…
— Gli orsetti parlano, m a certe v olte dicono le
bugie. L'angelo dice sem pre la v erità. Tu sei
l'angelo custode —. Ha alzato il tono di v oce. — A
m e lo puoi dire.
Mi sentiv o debole. La puzza di m erda m i
tappav a la bocca, il naso, il cerv ello. — Io non sono
un angelo… Io sono Michele, Michele Am itrano.
Non sono un… — ho m orm orato e m i sono
appoggiato contro la parete e sono sciv olato a terra
e lui si è alzato, ha teso le braccia v erso di m e com e
un lebbroso che chiede la carità ed è rim asto
sollev ato pochi istanti, poi ha fatto un passo ed è
caduto giù, in ginocchio, sotto la coperta, ai m iei
piedi.
Mi ha toccato un dito sussurrando.
Ho cacciato un urlo. Com e se m i av esse toccato
una m edusa schifosa, un ragno infetto. Con quella
m anina ossuta, con quelle sue unghie nere,
lunghe e storte.
Parlav a troppo piano. — Cosa, cosa hai detto?
— Cosa hai detto? Sono m orto! — ha risposto.
— Cosa?
— Cosa? Sono m orto? Sono m orto? Sono m orto.
Cosa?
— Parla più forte. Più forte… Ti prego…
Ha urlato, rauco, senza v oce, stridulo com e
un'unghia sulla lav agna. — Sono m orto? Sono
m orto? Sono m orto.
Ho cercato la corda e m i sono tirato su,
scalciando e facendogli franare la terra addosso.
Ma lui continuav a a strillare. — Sono m orto?
Sono m orto. Sono m orto?
Pedalav o inseguito dai tafani.
E giurav o che m ai e poi m ai sarei tornato su
quella collina. Mai più, m i potev ano accecare,
av rei parlato con quel pazzo.
Com e cav olo credev a di essere m orto?
Nessuno che è v iv o può credere di essere m orto.
Quando uno è m orto è m orto. E se ne sta in
paradiso. O al m assim o all'inferno.
E se inv ece av ev a ragione?
Se era m orto v eram ente? Se lo av ev ano
resuscitato? Chi? Solo Gesù Cristo può resuscitasti.
E nessun altro. Ma quando ti risv egli lo sai che eri
m orto? Ti ricordi del paradiso? Te lo ricordi chi eri
prim a? Div enti pazzo, perché il cerv ello è m arcito
e ti m etti a parlare di orsetti lav atori.
Non era m io gem ello e non era neanche m io
fratello. E papà non c'entrav a niente con lui. La
fettina non c'era. La pentola non era la nostra. La
nostra, m am m a l'av ev a buttata v ia.
E appena papà tornav a gli raccontav o tutto.
Com e m i av ev a insegnato. E lui av rebbe fatto
qualcosa.
Ero quasi arriv ato alla strada quando m i sono
ricordato della lastra. Ero scappato e av ev o
lasciato di nuov o il buco aperto.
Se Felice tornav a su capiv a subito che c'era
stato qualcuno che av ev a ficcato il naso dov e non
dov ev a ficcarlo. Non potev o farm i beccare solo
perché av ev o paura di un pazzo incatenato in un
buco. Se Felice scopriv a che ero stato io, m i
av rebbe trascinato per un orecchio.
Una v olta io e il Teschio erav am o saliti sulla
m acchina di Felice. Facev am o che la 1 2 7 era
un'astronav e. Lui guidav a e io sparav o ai
m arziani. Felice ci av ev a beccati e ci av ev a tirati
fuori, in m ezzo alla strada, trascinandoci per le
orecchie, com e conigli. Piangev am o disperati m a
lui non m ollav a. Per
fortuna che m am m a era uscita e lo av ev a
caricato di m azzate.
Av rei v oluto lasciare tutto così, correre a casa e
chiuderm i in cam era m ia a leggere i giornalini,
m a sono tornato indietro, m aledicendom i. Le
nuv ole se n'erano andate e si schiattav a di caldo.
Mi sono tolto la m aglietta e m e la sono annodata in
testa, com e un indiano. Ho preso una m azza. Se
av essi incontrato Felice m i sarei difeso.
Ho cercato di av v icinarm i il m eno possibile al
buco, m a non ho potuto fare a m eno di guardare.
Era in ginocchio sotto la coperta con il braccio
teso, nella stessa posizione in cui lo av ev o lasciato.
Mi è v enuta v oglia di saltare su quella
m aledetta lastra e spaccarla in m ille pezzi e inv ece
l'ho spinta e ci ho coperto il buco.
Quando sono arriv ato m am m a lav av a i piatti.
Ha buttato la padella nel lav andino. — Guarda un
po' chi è tornato!
Era così arrabbiata che le trem av a la m ascella.
— Si può sapere dov e te ne v ai? Mi hai fatto m orire
di paura… Tuo padre l'altro giorno non te le ha
date. Ma questa v olta le prendi.
Non ho av uto nem m eno il tem po di tirare fuori
una scusa che lei ha com inciato a rincorrerm i.
Saltav o da una parte all'altra della cucina com e
una capra m entre m ia sorella, seduta al tav olo,
m i guardav a scuotendo la testa.
— Dov e scappi? Vieni qua!
Sono zom pato oltre il div ano, sono passato sotto
il tav olo, ho scav alcato la poltrona, sono sciv olato
sul pav im ento fino in cam era m ia e m i sono
nascosto sotto il letto.
— Esci fuori!
— No. Tu m i picchi!
— Sì che ti picchio. Se esci da solo ne prendi di
m eno.
— No, non esco!
— Va bene.
Una m orsa si è chiusa sulla cav iglia. Mi sono
attaccato alla zam pa del letto con tutte e due le
m ani, m a non c'è stato niente da fare. Mam m a era
più forte di Maciste e quella m aledetta zam pa di
ferro m i sciv olav a fra le dita. Ho m ollato la presa e
m i sono ritrov ato tra le sue gam be. Ho prov ato a
infilarm i di nuov o sotto il letto, m a non m i ha dato
scam po, m i ha tirato su per i pantaloni e m i ha
m esso sotto il braccio com e fossi una v aligia.
Strillav o. — Lasciam i! Ti prego! Lasciam i!
Si è seduta sul div ano, m i ha steso sulle
ginocchia, m i ha abbassato i pantaloni e le
m utande m entre belav o com e un agnello, si è
buttata indietro i capelli e ha com inciato a farm i
le chiappe rosse.
Mam m a ha sem pre av uto le m ani pesanti. I
suoi sculaccioni erano lenti e precisi e facev ano un
rum ore sordo, com e un battipanni sul tappeto.
— Ti ho cercato dappertutto —. E uno. —
Nessuno sapev a niente —. E due. — Mi farai
m orire. Dov e v ai tutto il giorno? — E tre. —
Av ranno pensato che sono una m adre che non
v ale niente —. E quattro. — Che non sono buona a
educare i figli.
— Basta! — urlav o io. — Basta! Ti prego, ti
prego, m am m a!
Alla radio una v oce cantav a. «Croce. Croce e
delizia. Delizia al cor».
Me lo ricordo com e fosse ieri. Per tutta la v ita,
quando ho ascoltato la Trav iata, m i sono riv isto
con il sedere all'aria, sulle gam be di m ia m adre
che, seduta com posta sul div ano, m i gonfiav a di
botte.
— Che facciam o? — m i ha chiesto Salv atore.
Erav am o seduti sulla panchina e tirav am o i
sassi contro uno scaldabagno buttato nel grano.
Chi lo colpiv a facev a punto. Gli altri, in fondo alla
strada, giocav ano a nascondino.
La giornata era stata v entosa, m a ora, al
crepuscolo, l'aria si era ferm ata, c'era afa, e dietro
i cam pi si era appoggiata una striscia di nuv ole
liv ide e stanche.
Ho lanciato troppo lontano. — Non lo so. In
bicicletta non ci posso andare, m i fa m ale il culo.
Mia m adre m i ha picchiato.
— Perché?
— Perché torno tardi a casa. A te, tua m adre ti
picchia?
Salv atore ha lanciato e ha colpito lo
scaldabagno con un bel toc. — Punto! Tre a uno —.
Poi ha scos—so la testa. — No. Non ce la fa. E troppo
grossa.
— Beato te. Mia m adre inv ece è fortissim a e può
correre più v eloce di una bicicletta.
Si è m esso a ridere. — Im possibile.
Ho raccolto un sasso più piccolo e l'ho scagliato.
A questo giro l'ho quasi preso. — Te lo giuro. Una
v olta, a Lucignano, dov ev am o prendere il
pullm an. Quando siam o arriv ati era appena
partito. Mam m a si è m essa a correre così v eloce
che l'ha raggiunto e ha com inciato a dare pugni
sulla porta. Si sono ferm ati.
— Mia m adre se si m ette a correre m uore.
— Senti, — ho detto. — Ti ricordi quando la
signorina Destani ci ha raccontato la storia del
m iracolo di Lazzaro?
— Sì.
— Secondo te quando è risorto, Lazzaro sapev a
di essere m orto?
Salv atore ci ha pensato su. — No. Secondo m e
pensav a di essersi am m alato.
— Ma com e facev a a cam m inare? Il corpo dei
m orti è tutto duro. Ti ricordi quel gatto che
abbiam o trov ato com 'era duro.
— Quale gatto? — ha tirato e ha preso lo
scaldabagno di nuov o. Av ev a una m ira infallibile.
— Il gatto nero, v icino al torrente… Ti ricordi?
— Sì, m i ricordo. Il Teschio lo ha spezzato in due.
— Se uno è m orto e si risv eglia, non cam m ina
proprio norm ale e div enta pazzo perché gli è
m arcito il cerv ello e dice cose strane, non credi?
— Penso di sì.
— Secondo te si può rianim are un m orto o solo
Gesù Cristo in persona ci può riuscire?
Salv atore si è grattato la testa. — Non lo so. Mia
zia m i ha raccontato una storia v era. Che una
v olta il figlio di uno è stato inv estito da una
m acchina ed è m orto tutto m aciullato. Il padre
non riusciv a più a v iv ere, stav a m ale, piangev a
tutto il giorno, è andato da un m ago e gli ha dato
tutti i soldi per resuscitargli il figlio. Il m ago ha
detto: «Vai a casa e aspetta. Tuo figlio tornerà
stanotte».
Il padre si è m esso ad aspettare, m a quello non
tornav a, alla fine se n'è andato a letto. Si stav a
addorm entando quando ha sentito dei passi in
cucina. Si è alzato tutto felice e ha v isto il figlio,
era tutto m aciullato e non av ev a un braccio e
av ev a la testa spaccata, con il cerv ello che gli
colav a e dicev a che lo odiav a perché lo av ev a
lasciato in m ezzo alla strada per andare con le
donne ed era colpa sua se era m orto.
— E allora?
— E allora il padre ha preso la benzina e gli ha
dato fuoco.
— Ha fatto bene —. Ho lanciato e finalm ente ho
fatto centro. — Punto! Quattro a due.
Salv atore si è piegato a cercare un sasso. — Ha
fatto bene, sì.
— Ma secondo te è una storia v era?
— No.
— Anche secondo m e.
Mi sono sv egliato perché m i scappav a la pipì.
Mio padre era tornato. Ho sentito la sua v oce in
cucina.
C'era gente. Discutev ano, si interrom pev ano, si
insultav ano. Papà era m olto arrabbiato.
Quella sera erav am o andati a dorm ire subito
dopo cena.
Av ev o ronzato intorno a m am m a com e una
falena, per fare pace. Mi ero m esso addirittura a
pelare le patate, m a m i av ev a tenuto il m uso tutto
il pom eriggio. A cena ci av ev a sbattuto i piatti
dav anti e noi av ev am o m angiato in silenzio,
m entre lei girav a per la cucina e guardav a la
strada.
Mia sorella dorm iv a. Mi sono inginocchiato sul
letto e m i sono affacciato alla finestra.
Il cam ion era posteggiato accanto a una grande
m acchina scura con il m uso argentato. Una
m acchina per ricchi.
Mi scappav a, m a per raggiungere il bagno
dov ev o passare dalla cucina. Con tutte quelle
persone m i v ergognav o, però m e la stav o facendo
addosso.
Mi sono alzato e m i sono av v icinato alla porta.
Ho afferrato la m aniglia. Ho contato. — Uno, due,
tre… Quattro, cinque e sei —. E ho aperto.
Erano seduti a tav ola.
Italo Natale, il padre del Teschio. Pietro Mura,
il barbiere. Angela Mura. Felice. Papà. E un
v ecchio che non av ev o m ai v isto. Dov ev a essere
Sergio, l'am ico di papà.
Fum av ano. Av ev ano le facce rosse e stanche e
gli occhi piccoli piccoli.
Il tav olo era coperto di bottiglie v uote,
ceneriere piene di m ozziconi, pacchetti di
Nazionali e Milde Sorte, briciole di pane. Il
v entilatore girav a, m a non serv iv a a niente. Si
m oriv a di caldo. Il telev isore era acceso, senza il
v olum e. C'era odore di pom odoro, sudore e
zam pirone.
Mam m a preparav a il caffè.
Ho guardato il v ecchio che tirav a fuori una
sigaretta da un pacchetto di Dunhill.
Ho saputo poi che si chiam av a Sergio Materia.
All'epoca av ev a sessantasette anni e v eniv a da
Rom a, dov e era div entato fam oso, v ent'anni
prim a, per una rapina in una pellicceria di Monte
Mario e un colpo alla sede centrale della Banca
dell'Agricoltura. Una settim ana dopo la rapina si
era com prato una rosticceria-tav ola calda in
piazza Bologna. Volev a riciclare il denaro, m a i
carabinieri lo av ev ano incastrato proprio il giorno
dell'inaugurazione. Si era fatto parecchia galera,
per buona condotta era tornato in libertà ed era
em igrato in Sud Am erica.
Sergio Materia era m agro. Con la testa pelata;
Sopra le orecchie gli crescev ano dei capelli
giallastri e radi che tenev a raccolti in una coda.
Av ev a il naso lungo, gli occhi infossati e la barba,
bianca, di alm eno un paio di giorni, gli m acchiav a
le guance incav ate. Le sopracciglia lunghe e
biondicce sem brav ano ciuffi di peli incollati sulla
fronte. Il collo era grinzoso, a chiazze, com e se
glielo av essero sbiancato con la candeggina.
Indossav a un com pleto azzurro e una cam icia di
seta m arrone. Un paio di occhiali d'oro gli
poggiav ano sulla pelata lucida. E una catena d'oro
con un sole spuntav a fra i peli del petto. Al polso
portav a un orologio d'oro m assiccio.
Era furibondo. — Fin dall'inizio av ete fatto uno
sbaglio dietro l'altro —. Parlav a strano. — E questo
qua è un coglione… — Ha indicato Felice. Lo
guardav a con la faccia con cui si guarda uno
stronzo di cane. Ha preso uno stecchino e ha
com inciato a pulirsi i denti gialli.
Felice era piegato sulla tav ola e con la forchetta
facev a disegni sulla tov aglia. Era uguale preciso al
fratello quando la m adre lo sgridav a.
Il v ecchio si è grattato la gola. — Su lo av ev o
detto che non ci dov ev am o fidare di v oi. Non siete
buoni. E stata un'idea del cazzo. Av ete fatto
stronzate su stronzate. Voi state a scherzare col
fuoco —. Ha buttato lo stecchino nel piatto. — Sono
un idiota! Me ne sto qua a perdere tem po… Se le
cose andav ano com e dov ev ano andare, a quest'ora
dov ev o stare in Brasile e inv ece sto in questo posto
di m erda.
Papà ha prov ato a ribattere. — Sergio ascolta…
Stai tranquillo… Le cose non sono ancora…
Ma il v ecchio lo ha zittito. — Quali cazzo di cose?
Tu dev i stare zitto perché sei peggio degli altri. E lo
sai perché? Perché non ti rendi conto. Non sei
capace. Tutto tranquillo, sicuro, hai infilato una
cazzata dietro l'altra. Sei un im becille.
Papà ha cercato di rispondere poi ha ingoiato il
boccone e ha abbassato lo sguardo.
Lo av ev a chiam ato im becille.
E stato com e se m i av essero dato una coltellata
in un fianco. Nessuno av ev a m ai parlato così a
papà. Papà era il capo di Acqua Trav erse. E inv ece
quel v ecchio schifoso, arriv ato da chissà dov e, lo
insultav a dav anti a tutti.
Perché papà non lo cacciav a v ia?
Im prov v isam ente nessuno ha parlato più.
Stav ano m uti, m entì e il v ecchio ha ricom inciato
a pulirsi i denti e a guardare il lam padario.
Il v ecchio era com e l'im peratore. Quando
l'im peratore è nero tutti dev ono stare zitti. Papà
com preso.
— Il telegiornale! Ecco il telegiornale, — ha
detto il padre di Barbara agitandosi sulla sedia. —
Incom incia!
— Alza! Teresa, alza! E spegni la luce, — ha fatto
papà a m am m a.
A casa m ia si spegnev a sem pre la luce quando
si guardav a la telev isione. Era obbligatorio.
Mam m a si è precipitata sulla m anopola del
v olum e e poi sull'interruttore.
Nella stanza è calata la penom bra. Tutti si sono
girati v erso il telev isore. Com e quando giocav a
l'Italia.
Nascosto dietro la porta, li ho v isti trasform arsi
in sagom e oscure tinte di blu dallo scherm o.
Il giornalista parlav a di uno scontro tra due
treni av v enuto v icino a Firenze, c'erano stati dei
m orti, m a a nessuno im portav a.
Mam m a v ersav a lo zucchero nel caffè. E loro a
dire: — A m e uno, a m e due, a m e senza.
La m adre di Barbara ha detto: — Forse non ne
parlano. Ieri non ne hanno parlato. Forse non
interessa più.
— Zitta tu! — ha sbuffato il v ecchio.
Era il m om ento giusto per andare a fare la pipì.
Bastav a arriv are in cam era dei m iei. Da lì
entrav o in bagno e la facev o al buio.
Mi sono im m aginato di essere una pantera
nera. Sono uscito dalla stanza a quattro zam pe.
Ero a pochi m etri dalla salv ezza quando il padre
del Teschio si è alzato dal div ano e m i è v enuto
incontro.
Mi sono appiccicato sul pav im ento. Italo Natale
ha preso le sigarette dal tav olo ed è tornato a
sedersi sul div ano. Ho tirato un sospiro e ho
ricom inciato ad av anzare. La porta stav a lì, era
fatta, c'ero. Com inciav o a rilassarm i, quando tutti
insiem e hanno urlato. — Ecco! Ecco! — Zitti! —
State zitti!
Ho allungato il collo oltre il div ano e per poco
non m i è preso un colpo.
Dietro il giornalista c'era la foto del bam bino.
Il bam bino nel buco.
Era biondo. Tutto pulito, tutto pettinato, tutto
bello, con una cam icia a quadretti, sorridev a e tra
le m ani stringev a la locom otiv a di un trenino
elettrico.
Il giornalista ha proseguito. — Continuano
senza sosta le ricerche del piccolo Filippo Carducci,
il figlio dell'industriale lom bardo Giov anni
Carducci rapito due m esi fa a Pav ia. I carabinieri e
gli inquirenti stanno seguendo una nuov a pista
che porterebbe…
Non ho sentito più niente.
Urlav ano. Papà e il v ecchio si sono alzati in
piedi.
Il bam bino si chiam av a Filippo. Filippo
Carducci.
— Trasm ettiam o ora un appello della signora
Luisa Carducci ai rapitori registrato questa
m attina.
— E ora che cazzo v uole questa bastarda? — ha
detto papà.
— Puttana! Brutta puttana! — ha ringhiato
dietro Felice.
Il padre gli ha dato uno schiaffo. — Statti zitto!
Si è unita la m adre di Barbara. — Cretino!
— Porcoddio! E basta! — ha strillato il v ecchio.
— Voglio sentire!
E apparsa una signora. Elegante. Bionda. Non
era né giov ane né v ecchia, m a era bella. Stav a
seduta su una grande poltrona di cuoio in una
stanza piena di libri. Av ev a gli occhi lucidi. Si
stringev a le m ani com e se le dov essero scappare.
Ha tirato su con il naso e ha detto guardandoci
negli occhi: — Sono la m adre di Filippo Carducci.
Mi riv olgo ai sequestratori di m io figlio. Vi
im ploro, non fategli m ale. E un bam bino buono,
educato e m olto tim ido. Vi im ploro di trattarlo
bene. Sono sicura che conoscete l'am ore e la
com prensione. Anche se non av ete figli sono certa
che potete im m aginare cosa v oglia dire quando te
li portano v ia. Il riscatto che av ete chiesto è m olto
alto, m a io e m io m arito siam o disposti a darv i
tutto quello che possediam o pur di riav ere Filippo
con noi. Av ete m inacciato di tagliargli un
orecchio. Vi prego, v i supplico di non farlo… — Si è
asciugata gli occhi, ha preso fiato e ha continuato.
— Stiam o facendo il possibile. Per fav ore. Dio v e ne
renderà m erito se saprete essere m isericordiosi.
Dite a Filippo che la sua m am m a e il suo papà non
lo hanno dim enticato e gli v ogliono bene.
Papà ha fatto con le dita il segno della forbice. —
Due orecchie gli tagliam o. Due.
Il v ecchio ha aggiunto: — Così, troia, im pari a
parlare alla telev isione!
E tutti hanno ricom inciato a urlare.
Mi sono infilato in cam era, ho chiuso la porta,
sono salito sulla finestra e l'ho fatta di sotto.
Erano stati papà e gli altri a prendere il
bam bino a quella signora della telev isione.
La pipì scrosciav a sul telone del cam ion e le
gocce brillav ano alla luce del lam pione.
«Attento, Michele, non dev i uscire di notte», m i
dicev a sem pre m am m a. «Con il buio esce l'uom o
nero e prende i bam bini e li v ende agli zingari».
Papà era l'uom o nero.
Di giorno era buono, m a di notte era cattiv o.
Tutti gli altri erano zingari. Zingari trav estiti
da persone. E quel v ecchio era il re degli zingari e
papà il suo serv o. Mam m a no, però.
Mi im m aginav o che gli zingari erano una
specie di nanetti v elocissim i, con le orecchie di
v olpe e le zam pe di gallina. E inv ece erano persone
norm ali.
Perché non glielo ridav ano? Che se ne facev ano
di un bam bino pazzo? La m am m a di Filippo stav a
m ale, si v edev a. Se lo chiedev a in telev isione
v olev a dire che le im portav a m olto di suo figlio.
E papà gli v olev a tagliare pure le orecchie.
— Che fai? — ho sobbalzato, m i sono v oltato e
per poco non l'ho fatta sul letto.
Maria si era sv egliata.
Mi sono rim esso l'uccello nelle m utande.
— Niente.
— Facev i pipì, ti ho v isto.
— Mi scappav a.
— Che c'è di là?
Se dicev o a Maria che papà era l'uom o nero
potev a pure im pazzire. Ho sollev ato le spalle.
— Niente.
— E perché litigano?
— Così.
— Com e così?
Mi sono buttato. — Stanno giocando a tom bola.
— A tom bola?
— Siì. Litigano per chi tira fuori i num eri.
— Chi sta v incendo?
— Sergio, l'am ico di papà.
— E arriv ato? —Sì. —Com 'è?
— Vecchio. Dorm i ora.
— Non ci riesco. Fa troppo caldo. C'è rum ore.
Quando se ne v anno?
Di là continuav ano a urlare.
Sono sceso giù dalla finestra. — Non lo so.
— Michele, m i racconti una fav ola così m i
addorm ento?
Papà ci raccontav a le storie di Agnolotto in
Africa. Agnolotto era un cagnolino di città che si
nascondev a in una v aligia e finiv a per sbaglio in
Africa, tra i leoni e gli elefanti. Ci piacev a m olto
questa storia. Agnolotto era capace di tenere testa
agli sciacalli. E av ev a una m arm otta per am ica.
Di solito quando papà tornav a ci raccontav a una
nuov a puntata.
Era la prim a v olta che Maria m i chiedev a di
raccontarle una fav ola, ero m olto onorato. Il guaio
era che io non le conoscev o. — Ecco… Io non le so, —
ho dov uto am m ettere.
— Non è v ero. Le conosci.
— E quale conosco?
— Ti ricordi la fav ola che ci ha raccontato
quella v olta la m am m a di Barbara? Quella di
Pierino Pierone?
— Ah, già!
— Me la racconti?
— Va bene, m a non m e la ricordo tanto.
— Ti v a di raccontarm ela nella tenda?
— Sì —. Così alm eno non sentiv am o gli strilli in
cucina. Mi sono m esso nel letto di m ia sorella e ci
siam o tirati il lenzuolo sopra la testa.
— Com incia, — m i ha sussurrato in un orecchio.
— Allora, c'era Pierino Pierone che si
arram picav a sem pre sugli alberi per m angiarsi la
frutta. Un giorno stav a là sopra quando è arriv ata
la strega Bistrega. E ha detto: «Pierino Pierone,
dam m i una pera che ho una fam e trem enda». E
Pierino Pierone le ha lanciato una pera.
Mi ha interrotto. — Non hai detto com 'è fatta la
strega Bistrega.
— Giusto. E bruttissim a. Senza i capelli sopra.
Ha la coda di cav allo e il naso lungo. E alta e si
m angia i bam bini. E suo m arito è l'uom o nero…
Mentre raccontav o, m i v edev o papà che
tagliav a le orecchie a Filippo e se le m ettev a in
tasca. E le attaccav a allo specchietto del cam ion
com e con la coda di pelliccia.
— Non è v ero. Non è sposata. Racconta bene. Io
la storia la so.
— Pierino Pierone le ha lanciato una pera che è
finita dentro la m erda di v acca.
Maria ha com inciato a ridere. Le cose con la
cacca le piacev ano m olto.
— La strega Bistrega ha detto ancora; «Pierino
Pierone, dam m i una pera che ho una fam e
trem enda». «Prendi questa! » E le ha lanciato la
pera nella piscia di v acca. E l'ha sporcata tutta.
Altre risate.
— La strega gliel'ha chiesta di nuov o. E lui le ha
lanciato un'altra pera nel v om ito di v acca.
Mi ha dato una gom itata. — Questa non c'è.
Non v ale. Non fare lo scem o.
Con m ia sorella non si potev a cam biare
neanche un po' la storia. — Allora…
Ma che facev ano di là? Dov ev ano av er rotto un
piatto. Ho alzato il tono. — Allora Pierino Pierone è
sceso dall'albero e le ha dato la pera. La strega
Bistrega lo ha preso e lo ha chiuso dentro un sacco
e se lo è m esso in spalla. Siccom e Pierino Pierone
m angiav a i peperoni che sono pesanti, la strega
non ce la facev a a portarlo e si dov ev a ferm are
ogni cinque m inuti e a un certo punto dov ev a
pure fare la pipì, ha lasciato il sacco e si è nascosta
dietro un albero. Pierino Pierone con i denti ha
tagliato la corda ed è uscito fuori e ci ha ficcato
dentro un orsetto lav atore…
— Un orsetto lav atore?
Lo av ev o detto apposta, per v edere se Maria li
conoscev a.
— Sì, un orsetto lav atore.
— Chi sono?
— Sono degli orsetti che se tu lasci i panni
v icino al fium e loro arriv ano e te li lav ano.
— E dov e stanno?
— Al Nord.
— E allora? — Maria sapev a che Pierino Pierone
nel sacco ci av ev a m esso una pietra, però non ha
detto niente.
— La strega Bistrega ha ripreso il sacco e se l'è
m esso sulle spalle e quando è arriv ata a casa ha
detto a sua figlia: «Margherita Margheritone,
v ieni giù e apri il portone e prepara il pentolone
per
bollire
Pierino
Pierone».
Margherita
Margheritone ha m esso l'acqua sul fuoco e la
strega Bistrega ci ha v uotato il sacco dentro e
l'orsetto lav atore è saltato fuori e ha com inciato a
m orderle tutte e due, è sceso nel cortile e ha
com inciato a m angiarsi le galline, ha buttato
tutta la spazzatura in aria. La strega si è
arrabbiata m oltissim o ed è uscita un'altra v olta a
cercare Pierino Pierone. Lo ha trov ato e lo ha
infilato nel sacco e non si è ferm ata in nessun
posto. Quando è arriv ata a casa ha detto a
Margherita Margheritone: «Prendilo e chiudilo in
cantina che dom ani ce lo m angiam o… »
Mi sono ferm ato.
Maria dorm iv a e quella era una brutta storia.
5.
Il v ecchio m e lo sono ritrov ato nel bagno il
m attino dopo.
Ho aperto la porta e stav a là che si facev a la
barba, tutto curv o sul lav andino, con la testa
appiccicata allo specchio e la cicca che gli pendev a
dalle labbra. Addosso av ev a una canottiera lisa e
dei m utandoni ingialliti da cui usciv ano due
tram poli secchi e senza peli. Ai piedi portav a degli
stiv aletti neri con la cerniera abbassata.
Av ev a un odore aspro, nascosto dal talco e dal
dopobarba.
Si è girato v erso di m e e m i ha squadrato
dall'alto in basso con gli occhi gonfi, una guancia
coperta di schium a e il rasoio in m ano. — E tu chi
sei?
Mi sono puntato un dito sul petto. — Io?
— Sì, tu.
— Michele… Michele Am itrano.
— Io sono Sergio. Buon giorno.
Ho allungato la m ano. — Piacere —. Così a
scuola m i av ev ano insegnato a rispondere.
Il v ecchio ha pulito il rasoio nell'acqua. — Non
lo sai che si bussa prim a di entrare in gabinetto?
Non te lo hanno insegnato i tuoi genitori?
— Mi scusi —. Volev o andarm ene m a restav o lì
im palato. Un po' com e quando v edi uno storpio e
cerchi di non guardarlo e non ce la fai.
Ha ricom inciato a radersi il collo. — Sei il figlio
di Pino?
— Sì.
Mi ha squadrato attrav erso lo specchio. — Tu
sei un tipo silenzioso?
— Sì.
— Mi piacciono i bam bini silenziosi. Brav o. Vuol
dire che non hai preso da tuo padre. E sei
ubbidiente?
— Sì.
— Allora esci e chiudi la porta.
Sono corso da m am m a. Stav a in cam era m ia e
togliev a le lenzuola dal letto di Maria. L'ho tirata
per il v estito. — Mam m a! Mam m a, chi è quel
v ecchio nel bagno?
— Lasciam i, Michele, che ho da fare. E Sergio,
l'am ico di tuo padre. Te l'av ev a detto che v eniv a.
Rim ane qualche giorno a casa nostra.
— Perché?
Ha sollev ato il m aterasso e lo ha rigirato. —
Perché così tuo padre ha deciso.
— E dov e dorm e?
— Nel letto di tua sorella.
— E lei?
— Sta con noi. —E io?
— Nel tuo letto.
— Che il v ecchio dorm e nella cam era con m e?
Mam m a ha preso un respiro. — Sì.
— La notte?
— Sei scem o? Che di giorno, forse?
— Non può starci Maria con quello? E io dorm o
con te.
— Non dire cretinate —. Ha com inciato a
m ettere le lenzuola pulite. — Vai fuori, ho da fare.
Mi sono gettato a terra e m i sono aggrappato
alle sue cav iglie. — Mam m a, ti prego, per fav ore,
non v oglio dorm ire con quello là. Ti prego, v oglio
stare con te. Nel letto con te.
Ha sbuffato. — Non ci stiam o. Sei troppo
grande.
— Mam m a, ti prego. Mi m etto in un angolo. Mi
faccio piccolo piccolo.
— Ho detto di no.
— Ti prego, — ho com inciato a im plorare. — Ti
prego. Sarò buono. Vedrai.
— Piantala —. Mi ha rim esso in piedi e m i ha
guardato negli occhi. — Michele, non so più che
fare con te. Perché non ubbidisci m ai? Io non ce la
faccio più. Abbiam o tanti di quei problem i e ti ci
m etti pure tu. Tu non capisci. Per fav ore…
Ho scosso la testa. — Non v oglio. Non ci v oglio
dorm ire con quello. Non ci dorm o, io.
Ha tolto la federa dal cuscino. — Le cose stanno
così. Se non ti v a bene, dillo a tuo padre.
— Ma quello m i porta v ia…
Mam m a ha sm esso di rifare il letto e si è
v oltata. — Che hai detto? Ripeti.
Ho sussurrato. — Mi porta v ia…
Mi ha scrutato con i suoi occhi neri. — Che v uoi
dire?
— Voi v olete che m i porti v ia… Tu m i odî. Sei
cattiv a. Tu e papà m i odiate. Io lo so.
— Chi te le dice queste cose? — Mi ha afferrato
per un braccio m a io m i sono div incolato e sono
fuggito.
Scendev o le scale e sentiv o che m i chiam av a.
— Michele! Michele, torna qua!
— Io non ci dorm o. No, io non ci dorm o con
quello.
Sono scappato al torrente e m i sono
arram picato sul carrubo.
Io con quel v ecchio non ci av rei dorm ito m ai.
Av ev a preso Filippo. E appena m i addorm entav o
prendev a pure m e. Mi infilav a in un sacco e v ia.
E poi m i tagliav a le orecchie.
Ma si potev a v iv ere senza orecchie? Non si
m oriv a? Io alle m ie orecchie ci tenev o. A Filippo,
papà e il v ecchio dov ev ano av ergliele già tagliate.
Mentre io ero sul m io albero, lui, nel suo buco, non
av ev a più orecchie.
Chissà se gli av ev ano bendato la testa?
Dov ev o andare. E dov ev o raccontargli di sua
m adre, che gli v olev a ancora bene e che lo av ev a
detto alla telev isione, così tutti lo sapev ano.
Ma av ev o paura, se alla casa ci trov av o papà e
il v ecchio?
Ho guardato l'orizzonte. Il cielo era piatto,
grigio e pesav a sui cam pi di grano. La collina era
laggiù, gigante, v elata dal calore.
Se sto attento non m i v edono, m i sono detto.
— O partigiano, portam i v ia, che m i dev on
seppellir. O partigiano, portam i v ia. O bella ciao
ciao ciao —. Ho sentito una v oce che cantav a.
Ho guardato giù. Barbara Mura trascinav a
Togo, gli av ev a legato uno spago intorno al collo e
lo tirav a v erso l'acqua. — La m am m a ora ti fa il
bagnetto. Sarai tutto pulito. Sei contento? Sì, che
sei contento —. Ma Togo non sem brav a contento.
Culo a terra, puntav a le zam pe e agitav a la testa
cercando di liberarsi dal cappio. — Sarai
bellissim o. E ti porterò a Lucignano. Andrem o a
prendere il gelato e ti com prerò il guinzaglio —. Lo
ha afferrato, lo ha baciato, si è sfilata i sandali, ha
fatto un paio di passi nell'acquitrino e lo ha
im m erso in quella m elm a fetente.
Togo ha com inciato a div incolarsi m a Barbara
lo tenev a bloccato per la collottola e la coda. Lo ha
spinto sott'acqua. L'ho v isto scom parire nel fango.
Ha ripreso a canticchiare. — Una m attina m i
son sv egliata. O bella ciao! Bella ciao! Bella ciao
ciao ciao!
Non lo tirav a più fuori.
Lo v olev a am m azzare.
Ho urlato. — Che fai? Mollalo!
Barbara ha fatto un salto e per poco non è finita
in acqua. Ha lasciato il cane che è riem erso e ha
arrancato fino a riv a.
Con un balzo sono sceso dall'albero.
— E tu che ci fai qua? — m i ha chiesto Barbara
tutta stizzita.
— Che gli stav i facendo?
— Niente. Lo lav av o.
— Non è v ero. Tu lo v olev i am m azzare. —No!
— Giuralo.
— Te lo giuro su Dio e tutti i santi! — Si è m essa
una m ano sul cuore. — Le zecche e le pulci se lo
m angiano. Per questo gli facev o il bagno.
Non sapev o se crederle.
Ha acchiappato Togo che stav a su un sasso e
scodinzolav a felice. Si era già scordato la brutta
esperienza. — Guarda, se dico la v erità —. Gli ha
sollev ato un orecchio.
— Oddio che schifo!
Tutto intorno e dentro il padiglione pullulav a
di zecche. Facev a v enire il v oltastom aco. Con
quelle loro testine affondate nella pelle, con le loro
zam pette nere e il v entre m arrone scuro, gonfio e
tondo com e un ov etto di cioccolata.
— Hai v isto? Gli succhiano il sangue.
Ho storto il naso. — E con il fango se ne v anno?
— Alla telev isione Tarzan ha detto che gli
elefanti si fanno il bagno nel fango per lev arsi gli
anim aletti di dosso.
— Ma Togo non è un elefante.
— Che c'entra? E sem pre un anim ale.
— Secondo m e bisogna tirargliele v ia, — ho
detto. — Con il fango non se ne v anno.
— E com e?
— Con le m ani.
— E chi lo fa? A m e fa senso.
— Ci prov o io —. Con due dita ne ho presa una
bella gonfia, ho chiuso gli occhi e ho tirato forte.
Togo ha m ugolato, m a il m ostro è v enuto v ia. L'ho
m esso su un sasso e l'abbiam o osserv ato. Agitav a le
zam pette m a non riusciv a a m uov ersi per quanto
era gonfio di sangue.
— Muori, v am piro! Muori! — Barbara l'ha
schiacciato con una pietra trasform andolo in un
im piastro rosso.
Gliene ho staccate com e m inim o una v entina.
Barbara m i tenev a il cane ferm o. Dopo un po' m i
sono stufato. Anche Togo non ce la facev a più.
Guaiv a appena lo sfiorav o. — Le altre gliele
lev iam o un altro giorno. Va bene?
— Va bene —. Barbara si è guardata in giro. —
Io m e ne v ado. Tu che fai?
— Resto un altro po' qui —. Appena si
allontanav a, prendev o la Scassona e andav o da
Filippo.
Ha rim esso lo spago intorno al collo di Togo.
— Allora ci v ediam o dopo? — ha detto m entre si
av v iav a.
— Si.
Si è ferm ata. — C'è uno a casa tua. Con quella
m acchina grigia. E un tuo parente?
— No.
— Oggi è v enuto pure a casa m ia.
— Che v olev a?
— Non lo so. Parlav a con papà. Poi sono partiti.
Mi sa che c'era pure tuo padre. Sulla m acchinona.
E certo. Andav ano a tagliare le orecchie a
Filippo.
Ha fatto una sm orfia e m i ha dom andato: — A
te quello là piace?
— No.
— A m e nem m eno.
E rim asta in silenzio. Sem brav a che non se ne
v olesse più andare. Si è girata e ha sussurrato un
grazie.
— Per cosa?
— Per l'altro giorno… Quando hai fatto la
penitenza al posto m io.
Ho alzato lev spalle. — Niente.
— Senti… — E div entata tutta rossa. Mi ha
guardato per un secondo e ha detto: — Ti v orresti
fidanzare con m e?
La faccia m i è div entata bollente. — Com e? Si è
piegata a carezzare Togo. — Fidanzarci.
— Io e te?
— Sì.
Ho abbassato la testa e m i sono guardato la
punta dei piedi. — Ecco… Non tanto.
Ha lasciato andare un sospiro trattenuto. —
Non fa niente. Non abbiam o neanche gli stessi
a n n i —. Si è passata la m ano tra i capelli. — Ciao,
allora.
— Ciao.
Se n'è andata tirandosi dietro Togo.
Mi è v enuta paura delle v ipere, così,
all'im prov v iso.
Fino a quel giorno, quando saliv o sulla collina,
non ci av ev o pensato m ai alle v ipere.
Continuav a a balenarm i dav anti l'im m agine di
quel bracco che ad aprile era stato m orso sul naso
da una v ipera. La pov era bestia era stesa in un
angolo del capannone, ansim ante, con l'occhio
fisso, la schium a bianca sulle gengiv e e la lingua
di fuori.
— Oram ai non c'è più niente da fare —. Av ev a
detto il padre del Teschio. — Il v eleno gli è entrato
nel cuore.
Stav am o tutti in cerchio a guardarlo.
— Portiam olo a Lucignano. Dal dottore degli
anim ali, — av ev o proposto.
— Soldi buttati. E un ladro quello, gli fa una
siringa d'acqua e ti ridà il cane m orto. Andate v ia,
forza, lasciatelo m orire in pace —. Ci av ev a spinti
fuori. Maria si era m essa a piangere.
Attrav ersav o il grano e m i sem brav a di v edere
serpenti strisciare dappertutto. Saltav o com e una
quaglia e con una m azza m enav o gran colpi per
terra, era un fuggi fuggi di grilli e cav allette. Il
sole picchiav a in testa e sul collo, non c'era un alito
di v ento e in lontananza la pianura era tutta
sfocata.
Quando sono arriv ato al m argine della v alle
ero sfinito. Un po' d'om bra e una bev uta d'acqua
era quello che ci v olev a, m i sono av v iato nel
boschetto.
Ma c'era qualcosa di div erso dal solito. Mi sono
ferm ato.
Sotto gli uccelli, i grilli e le cicale si sentiv a
della m usica.
Mi sono precipitato dietro un tronco.
Da lì non riusciv o a v edere niente, m a
sem brav a che la m usica v eniv a dalla casa.
Dov ev o andarm ene v ia di corsa, m a la
curiosità m i spingev a a dare un'occhiata. Se
facev o attenzione, se rim anev o tra gli alberi, non
m i v edev ano. Nascondendom i tra le querce m i
sono av v icinato allo spiazzo.
La m usica era più forte. Era una canzone
fam osa. L'av ev o sentita un sacco di v olte. La
cantav a una donna bionda con un signore
elegante. Li av ev o v isti alla telev isione. Mi
piacev a quella canzone.
C'era un m asso coperto da ciuffi v erdi di
m uschio proprio al lim itare della radura, un buon
riparo, ci sono strisciato dietro.
Ho allungato la testa e ho spiato.
Parcheggiata dav anti alla casa c'era la 1 2 7 di
Felice, con le portiere e il bagagliaio aperti. La
m usica v eniv a dall'autoradio. Si sentiv a m ale,
gracchiav a.
Felice è uscito dalla stalla. Era in slip. Ai piedi
av ev a gli anfibi e intorno al collo il solito fazzoletto
nero. Ballav a a braccia spalancate e ancheggiav a
com e una danzatrice del v entre.
— Non cam bi m ai, non cam bi m ai, non cam bi
m ai… — Cantav a in falsetto, insiem e alla radio.
Poi si ferm av a e con v oce grav e continuav a.
— Tu sei il m io ieri, il m io oggi. Il m io sem pre.
Inquietudine.
E da fem m ina. — Adesso, orm ai, ci puoi
prov are. Chiam am i torm ento, dai. Già che ci sei.
Ha indicato qualcuno. — Tu sei com e il v ento
che porta i v iolini e le rose.
— Parole, parole, parole…
— Ascoltam i.
— Parole, parole, parole…
— Ti prego.
Era m olto brav o. Facev a tutto da solo. Maschio
e fem m ina. E quando era uom o facev a il duro.
Occhio a m ezz'asta e bocca socchiusa.
— Parole, parole, parole…
— Io ti giuro.
Poi si è buttato a terra, nella polv ere, e ha
com inciato a fare le flessioni. Con due braccia, con
una, con lo schiaffo, e cantav a tutto contratto.
— Parole, parole, parole, parole, parole, soltanto
parole, parole tra noi.
Me ne sono andato.
Ad Acqua Trav erse si giocav a a un due tre
stella.
Il Teschio, Barbara e Rem o erano ferm i, sotto il
sole, in strane posizioni.
Salv atore, con la testa contro il m uro, ha
urlato. — Un, due, tre, stellaaa! — Si è girato e ha
v isto il Teschio.
Il Teschio esagerav a sem pre, inv ece di fare tre
passi ne facev a quindici e v eniv a beccato. Poi non
ci stav a. Tu gli dicev i che lo av ev i v isto, m a lui
non ti stav a a sentire. Per lui tutto il m ondo
barav a. Lui no, lui era un santo. E se gli dicev i
qualcosa com inciav a a prenderti a spinte. In un
m odo o nell'altro v incev a sem pre. Pure con le
bam bole av rebbe fatto in m odo di v incere.
Sono passato tra le case pedalando piano. Ero
stanco e arrabbiato. Non ero riuscito a dire a
Filippo di sua m am m a.
Il cam ion di papà era posteggiato sotto casa,
accanto al m acchinone grigio del v ecchio.
Av ev o fam e. Ero scappato senza fare colazione.
Ma non m i andav a tanto di salire.
Il Teschio m i si è av v icinato. — Dov 'eri sparito?
— A fare un giro.
— Te ne stai sem pre per conto tuo. Dov e v ai? —
Non gli piacev a quando ti facev i gli affari tuoi.
— Al torrente.
Mi ha squadrato sospettoso. — A che fare?
Ho sollev ato le spalle. — Niente. Sull'albero.
Ha fatto la faccia schifata di uno che si è
m angiato una m ela m arcia.
Togo è arriv ato e ha com inciato a m orderm i la
ruota della bicicletta.
Il Teschio gli ha m ollato un calcio. — Vai v ia,
cagnaccio. Buca i copertoni con quei denti di
m erda.
Togo è scappato da Barbara che stav a seduta
sul m uretto e le è saltato in braccio. Barbara m i
ha salutato. Ho risposto con un cenno della m ano.
Il Teschio ha osserv ato la scena. — Che sei
div entato am ico della cicciona?
— No…
Mi ha squadrato per capire se dicev o la v erità.
— No, te lo giuro!
Si è rilassato. — Ah, ecco. Ti v a di fare una
partita a pallone?
Non m i andav a, m a dirgli di no era pericoloso.
— Non fa troppo caldo?
Mi ha afferrato il m anubrio. — Tu stai facendo
un po' lo stronzo, lo sai?
Ho av uto paura. — Perché? — Il Teschio potev a
im prov v isam ente storcersi e decidere di tirarti giù
dalla bicicletta e prenderti a botte.
— Perché sì.
Per fortuna è apparso Salv atore. Facev a
rim balzare il pallone sulla testa. Poi lo ha stoppato
con il piede e se l'è m esso sotto il braccio. — Ciao,
Michele.
— Ciao.
Il Teschio gli ha dom andato. — Ti v a di giocare?
— No.
Il Teschio si è indispettito. — Siete due m erdosi!
Allora, sapete che faccio? Me ne v ado a Lucignano
—. E se n'è andato tutto incazzato.
Ci siam o m essi a ridere, poi Salv atore m i ha
det t o: — Vado a casa. Vuoi v enire da m e che
giochiam o a Subbuteo?
— Non m i v a tanto.
Mi ha dato una pacca sulle spalle. — Va bene.
Allora ci v ediam o dopo. Ciao —. Si è allontanato
palleggiando.
Salv atore m i piacev a. Mi piacev a com e
rim anev a sem pre tranquillo e non si offendev a
ogni cinque m inuti. Con il Teschio prim a di dire
una cosa dov ev i pensarci tre v olte.
Ho pedalato fino alla fontana.
Maria av ev a preso la bacinella sm altata e la
usav a com e piscina per le Barbie.
Ne av ev a due, una norm ale e una tutta nera
con un braccio squagliato e senza capelli.
Ero stato io a ridurla così. Una sera av ev o v isto
alla telev isione la storia di Giov anna d'Arco e
av ev o acchiappato la Barbie e l'av ev o gettata nel
fuoco urlando: — Brucia! Strega! Brucia! —
Quando m i ero accorto che bruciav a v eram ente,
l'av ev o afferrata per un piede e l'av ev o buttata
dentro la pentola del m inestrone.
Mam m a m i av ev a lev ato la bicicletta per una
settim ana e m i av ev a obbligato a m angiarm i
tutto il m inestrone da solo. Maria av ev a im plorato
di com prargliene un'altra. — Alla tua festa. Per
ora gioca con questa. Prenditela con quell'idiota di
tuo fratello —. E Maria si era adattata. La Barbie
bella si chiam av a Paola e quella bruciata
Pov erella.
— Ciao, Maria, — le ho detto sm ontando dalla
bicicletta.
Si è m essa una m ano sulla fronte per ripararsi
dal sole. — Papà ti ha cercato… Mam m a è
arrabbiata.
— Lo so.
Ha preso Pov erella e l'ha m essa nella piscina. —
La fai sem pre arrabbiare.
— Io v ado su.
— Papà ha detto che dev e parlare con Sergio e
non v uole che stiam o in m ezzo.
— Ma io ho fam e…
Ha preso un'albicocca dalla tasca dei pantaloni.
— La v uoi?
— Sì —. Era calda e m oscia, m a l'ho div orata e
ho sputato l'osso lontano.
Papà è uscito sul terrazzino, m i ha v isto e m i ha
chiam ato. — Michele, v ieni qua —. Era in cam icia
e pantaloncini.
Non ci v olev o parlare. — Non posso, ho da fare!
Mi ha fatto segno di salire su. — Vieni qua.
Ho poggiato la bicicletta contro il m uro e ho
salito le scale a testa bassa, rassegnato.
Papà si è seduto sull'ultim o gradino. — Mettiti
qui, v icino a m e —. Ha tirato fuori un pacchetto di
Nazionali dalla tasca della cam icia, ha preso una
sigaretta, l'ha infilata nel bocchino e se l'è accesa.
— Dobbiam o parlare io e te.
Non m i sem brav a tanto arrabbiato. Siam o
rim asti in silenzio. A guardare, oltre i tetti, i
cam pi gialli.
— Fa caldo, eh? — m i ha chiesto.
— Molto.
Ha cacciato una nuv ola di fum o. — Dov e te ne
v ai tutto il giorno, si può sapere?
— Da nessuna parte.
— Non è v ero. Da qualche parte v ai.
— A fare dei giretti qui intorno.
— Da solo? — Sì.
— Che c'è? Non ti piace stare con gli am ici tuoi?
— No, m i piace. E che m i piace pure stare da
solo.
Ha fatto segno di sì con la testa, gli occhi persi
nel v uoto. L'ho guardato. Sem brav a più v ecchio,
tra i capelli neri ne spuntav a qualcuno bianco, le
guance gli si erano scav ate e sem brav a che non
dorm iv a da una settim ana.
— Hai fatto arrabbiare tua m adre.
Ho strappato un ram etto di rosm arino da un
v aso e ho com inciato a rigirarm elo tra le m ani. —
Non l'ho fatto apposta.
— Ha detto che non v uoi dorm ire con Sergio.
— Non m i v a…
— E perché?
— Perché v oglio dorm ire con v oi. Nel v ostro
letto. Tutti insiem e. Se ci stringiam o, c'entriam o.
— Sergio che penserà se non dorm i con lui?
— Non m 'im porta.
— Non si trattano così gli ospiti. Im m agina se
tu v ai a stare da qualcuno e nessuno v uole
dorm ire con te. Che penseresti?
— Non m 'im porterebbe, io v orrei una stanza
tutta per m e. Com e all'albergo.
Ha accennato un sorriso e con due dita ha
lanciato il m ozzicone in strada.
Gli ho chiesto: — Sergio è il tuo capo? Per questo
dev e stare da noi?
Mi ha guardato sorpreso. — Com e è il m io capo?
— Sì, decide lui le cose.
— No, non decide niente. E un m io am ico. Non
era v ero. Il v ecchio non era suo am ico, era il suo
capo. Io lo sapev o. Potev a dirgli pure le m ale
parole.
— Papà, m a tu dov e dorm i quando v ai al Nord?
— Perché?
— Così.
— In albergo, dov e capita, a v olte nel cam ion.
— Ma di notte al Nord che succede?
Mi ha guardato, ha preso un respiro con il naso
e m i ha chiesto: — Che c'è? Non sei contento che
sono tornato?
— Sì.
— Di' la v erità.
— Sí, sono contento.
— Mi ha stretto tra le braccia, forte. Sentiv o il
suo sudore. Mi ha sussurrato in un orecchio: —
Stringim i, Michele, stringim i! Fam m i sentire
quanto sei forte.
L'ho abbracciato più forte che potev o e m i
v eniv a da piangere. Le lacrim e m i scendev ano e
m i si stringev a la gola.
— Che fai, piangi?
Ho singhiozzato. — No, non piango.
Ha tirato fuori dalla tasca un fazzoletto
str opiccia to. — Asciugati quelle lacrim e, che se
qualcuno ti v ede fai la figura della fem m ina.
Michele, in questi giorni ho m olto da fare e quindi
dev i ubbidire. Tua m adre è stanca. Piantala con
questi capricci. Se fai il brav o, appena finisco ti
porto a m are. Andiam o sul pedalò.
Ho rantolato. — Che è il pedalò?
— E una barca che inv ece dei rem i ha i pedali
com e una bicicletta.
Mi sono asciugato le lacrim e. — Ci si può andare
fino in Africa?
— Dev i pedalare per arriv are in Africa.
— Io v oglio andare v ia da Acqua Trav erse.
— Che c'è, non ti piace più?
Gli ho ridato il fazzoletto. — Andiam o al Nord.
— Perché te ne v uoi andare?
— Non lo so… Non m i piace più stare qua. Ha
guardato lontano. — Ci andrem o.
Ho strappato un altro ram etto di rosm arino.
Av ev a un buon odore. — Tu li conosci gli orsetti
lav atori?
Ha aggrottato le sopracciglia. — Gli orsetti
lav atori?
— Sì.
— No, che sono?
— Niente… Sono degli orsi che lav ano i panni…
Ma forse non esistono.
Papà si è rim esso in piedi e si è sgranchito la
sch ien a . — Aahh! Senti, io torno in casa, dev o
parlare con Sergio. Perché non v ai a giocare che
tra un po' m angiam o? — Ha aperto la porta e stav a
per entrare, m a si è ferm ato. — Mam m a ha
preparato le tagliatelle. Dopo, chiedile scusa.
In quel m om ento è arriv ato Felice. Ha
inchiodato la 1 2 7 in una nuv ola di polv ere ed è
sceso com e se dentro ci fosse uno sciam e di v espe.
— Felice! — ha urlato papà. — Sali su un attim o.
Felice ha fatto segno di sì e quando m i è passato
v icino m i ha dato un colpo sulla nuca e ha detto: —
Com e stai, fessacchiotto?
Ora da Filippo non c'era nessuno.
Il secchio con la m erda era pieno. Il pentolino
dell'acqua v uoto.
Filippo tenev a la testa av v olta nella coperta.
Non si era neanche accorto che ero sceso nel buco.
La cav iglia m i sem brav a peggiorata, era più
gonfia e v iola. Le m osche ci si av v entav ano sopra.
Mi sono av v icinato. — Ehi? — Non dav a segno
di av erm i sentito. — Ehi? Mi senti? — Mi sono
av v icinato di più. — Mi senti?
Ha sospirato. — Sì.
Allora papà non gli av ev a tagliato le orecchie.
— Ti chiam i Filippo, v ero? — Sì.
Me l'ero preparata durante la strada. — Sono
v enuto a dirti una cosa m olto im portante. Allora…
Tua m adre dice che ti v uole bene. E dice che le
m anchi. Lo ha detto ieri alla telev isione. Al
telegiornale. Ha detto che non ti dev i
preoccupare… E che non v uole solo le tue orecchie,
m a ti v uole tutto.
Niente.
— Mi hai sentito? Niente.
Ho ripetuto. — Allora… Tua m adre dice che ti
v uole bene. E dice che le m anchi. Lo ha detto ieri
alla telev isione. Ha detto che non ti dev i
preoccupare. .. E che non v uole solo le tue
orecchie.
— La m ia m am m a è m orta.
— Com e è m orta?
Da sotto la coperta ha risposto. — La m ia
m am m a è m orta.
— Ma che dici? È v iv a. L'ho v ista io, alla
telev isione…
— No, è m orta.
Mi sono m esso una m ano sul cuore. — Te lo
giuro sulla testa di m ia sorella Maria che è v iv a.
L'ho v ista ieri notte, era in telev isione. Stav a bene.
E bionda. E m agra. E un po' v ecchia… È bella,
però. Era seduta su una poltrona alta, m arrone.
Grande. Com e quella dei re. E dietro c'era un
quadro con una nav e. E v ero o no?
— Sì. Il quadro con la nav e… — Parlav a piano,
le parole erano soffocate dalla stoffa.
— E hai un trenino elettrico. Con la locom otiv a
con il fum aiolo. L'ho v isto.
— Non ce l'ho più. Si è rotto. La tata l'ha buttato
v ia.
— La tata? Chi è la tata?
— Liliana. E m orta anche lei. Anche Peppino è
m orto. E papà è m orto. E nonna Arianna è m orta.
E m io fratello è m orto. Sono tutti m orti. Sono tutti
m orti e v iv ono in buchi com e questo. E in uno ci
sono io. Tutti quanti. Il m ondo è un posto pieno di
buchi dov e dentro ci sono i m orti. E anche la luna
è una palla tutta piena di buchi e dentro ci sono
altri m orti.
— Non è v ero —. Gli ho poggiato una m ano sulla
schiena. — Non si v ede niente. La luna è norm ale.
E tua m adre non è m orta. L'ho v ista io. Mi dev i
stare a sentire.
È rim asto un po' zitto, poi m i ha chiesto: —
Allora perché non v iene qui?
Ho scosso la testa. — Non lo so.
— Perché non v iene a prenderm i?
— Non lo so.
— E perché io sto qui?
— Non lo so —. Poi ho detto, così piano che non
potev a sentirm i: — Mio papà ti ci ha m esso qua.
Mi ha dato un calcio. — Tu non sai niente.
Lasciam i in pace. Tu non sei l'angelo custode. Tu
sei cattiv o. Vattene —. E si è m esso a piangere.
Non sapev o che fare. — Io non sono cattiv o. Io
non c'entro niente. Non piangere, per fav ore.
Ha continuato a scalciare. — Vattene. Vattene
v ia.
— Ascoltam i…
— Vai v ia!
Sono scattato in piedi. — Io sono v enuto fino a
qua per te, ho fatto tutta la strada, due v olte, e tu
m i cacci v ia. Va bene, io m e ne v ado, m a se m e ne
v ado non torno più. Mai più. Rim arrai qui, da solo,
per sem pre e ti taglieranno tutte e due le orecchie
—. Ho afferrato la corda e ho com inciato a risalire.
Lo sentiv o piangere. Sem brav a che stesse
soffocando.
Sono uscito dal buco e gli ho detto: — E non sono
il tuo angelo custode!
— Aspetta…
— Che v uoi?
— Rim ani…
— No. Hai detto che m e ne dev o andare e ora
m e ne v ado.
— Ti prego. Rim ani.
— No!
— Ti prego. Solo per cinque m inuti.
— Va bene. Cinque m inuti. Ma se fai il pazzo m e
ne v ado.
— Non lo faccio.
Sono sceso giù. Mi ha toccato un piede.
— Perché non esci da quella coperta? — gli ho
dom andato e m i sono rannicchiato v icino a lui.
— Non posso, sono cieco…
— Com e sei cieco?
— Gli occhi non si aprono. Voglio aprirli m a
rim angono chiusi. Al buio ci v edo. Al buio non
sono cieco —. Ha av uto un'esitazione. — Lo sai, m e
lo av ev ano detto che tornav i.
— Chi?
— Gli orsetti lav atori.
— Basta con questi orsetti lav atori! Papà m i ha
detto che non esistono. Hai sete?
— Sì.
Ho aperto la cartella e ho tirato fuori la
bottiglia. — Ecco.
— Vieni —. Ha sollev ato la coperta.
Ho fatto una sm orfia. — Lì sotto? — Mi facev a
un po' schifo. Ma così potev o v edere se av ev a
ancora le orecchie al loro posto.
Ha com inciato a toccarm i. — Quanti anni hai?
— Mi passav a le dita sul naso, sulla bocca, sugli
occhi.
Ero paralizzato. — Nov e. E tu?
— Nov e.
— Quando sei nato?
— Il dodici settem bre. E tu?
— Il v enti nov em bre.
— Com e ti chiam i?
— Michele. Michele Am itrano. Tu che classe
fai?
— La quarta. E tu?
— La quarta.
— Uguale.
— Uguale.
— Ho sete.
Gli ho dato la bottiglia. Ha bev uto. — Buona.
Vuoi? Ho bev uto pure io. — Posso alzare un po' la
coperta? — Stav o crepando di caldo e di puzza.
— Poco.
L'ho tirata v ia quel tanto che bastav a a
prendere aria e a guardargli la faccia.
Era nera. Sudicia. I capelli biondi e sottili si
erano im pastati con la terra form ando un
grov iglio duro e secco. Il sangue rappreso gli av ev a
sigillato le palpebre. Le labbra erano nere e
spaccate. Le narici otturate dal m occio e dalle
croste.
— Posso lav arti la faccia? — gli ho dom andato.
Ha allungato il collo, ha sollev ato la testa e un
sorriso si è aperto sulle labbra m artoriate. Gli
erano div entati tutti i denti neri.
Mi sono tolto la m aglietta e l'ho bagnata con
l'acqua e ho com inciato a pulirgli sul v iso.
Dov e passav o rim anev a la pelle bianca, così
bianca che sem brav a trasparente, com e la carne
di un pesce bollito. Prim a sulla fronte, poi sulle
guance.
Quando gli ho bagnato gli occhi ha detto: —
Piano, fa m ale.
— Faccio piano.
Non riusciv o a sciogliere le croste. Erano dure e
spesse. Ma sapev o che erano com e le croste dei
cani. Quando gliele stacchi i cani riprendono a
v edere. Ho continuato a bagnargliele, ad
am m orbidirle fino a quando una palpebra si è
sollev ata e subito si è richiusa. Un istante solo,
sufficiente perché un raggio di luce gli ferisse
l'occhio.
— Aaahhhaa! — ha urlato e ha infilato la testa
nella coperta com e uno struzzo.
L'ho sbatacchiato. — Lo v edi? Lo v edi? Non sei
cieco! Non sei cieco per niente!
— Non posso tenerli aperti.
— E perché stai sem pre al buio. Però ci v edi,
v ero?
— Sí! Sei piccolo.
— Non sono piccolo. Ho nov e anni.
— Hai i capelli neri. —Sì.
Era m olto tardi. Dov ev o tornare a casa. — Ora
però dev o andare. Dom ani torno.
Con la testa sotto la coperta ha detto: —
Prom esso?
— Prom esso.
Quando il v ecchio è entrato nella m ia cam era
m i stav o organizzando per fregare i m ostri.
Da piccolo sognav o sem pre i m ostri. E anche
ora, da adulto, ogni tanto, m i capita, m a non
riesco più a fregarli.
Aspettav ano solo che m i addorm entassi per
im paurirm i.
Fino a quando, una notte, ho inv entato un
sistem a per non fare brutti sogni.
Ho trov ato un posto dov e rinchiudere quegli
esseri deform i e spav entosi e dorm ire sereno.
Mi rilassav o e aspettav o che le palpebre
div entassero pesanti e quando stav o per cadere
addorm entato, proprio in quel m om ento esatto, m i
im m aginav o di v ederli cam m inare, tutti insiem e,
su per una salita. Com e nella processione della
Madonna di Lucignano.
La strega Bistrega gobba e rugosa. Il lupo
m annaro a quattro zam pe, con i v estiti strappati e
le zanne bianche. L'uom o nero, un'om bra che
sciv olav a com e una serpe tra le pietre. Lazzaro, un
m angiacadav eri div orato dagli insetti e av v olto
da una nube di m osche. L'orco, un gigante con gli
occhi piccoli e il gozzo, le scarpe enorm i e un sacco
sulle spalle pieno di bam bini. Gli zingari, delle
specie di v olpi che cam m inav ano su zam pe di
gallina. L'uom o con il cerchio, un tipo con una
tuta blu elettrico e un cerchio di luce che potev a
lanciare lontanissim o. L'uom o pesce che v iv ev a
nelle profondità del m are e reggev a la m adre sulle
spalle. Il bam bino polpo, nato con i tentacoli al
posto delle gam be e delle braccia.
Av anzav ano tutti insiem e. Verso un posto
im precisato. Erano terrificanti. E infatti nessuno
si ferm av a a guardarli.
A un tratto appariv a un pullm an, tutto dorato,
con i cam panelli e le lucette colorate. Sul tetto
c'era un m egafono che strillav a. «Signore e
signori, salite sul pullm an dei desideri! Salite su
questo pullm an m agnifico che v i porterà tutti al
circo senza tirare fuori una lira! Oggi gratis al
circo! Salite! Salite!»
I m ostri, felici di quella insperata occasione,
saliv ano
sul
pullm an.
A
quel
punto
m 'im m aginav o che la m ia pancia si apriv a, un
lungo taglio si spalancav a e loro ci entrav ano
dentro tutti tranquilli.
Quegli scem i credev ano che era il circo. Io
richiudev o la ferita e loro rim anev ano fregati. Ora
bastav a addorm entarsi con le m ani sulla pancia
per non fare brutti sogni.
Li av ev o appena intrappolati, quando il v ecchio
è entrato, m i sono distratto, ho tolto le m ani e loro
sono fuggiti. Ho chiuso gli occhi e ho fatto finta di
dorm ire.
Il v ecchio facev a un sacco di rum ori. Trafficav a
nella v aligia. Tossiv a. Soffiav a.
Mi sono coperto la testa con un braccio e ho
guardato che com binav a.
Un raggio di luce rischiarav a uno spicchio di
stanza. Il v ecchio stav a seduto sul letto di Maria.
Secco, gobbo e scuro. Fum av a. E quando aspirav a
v edev o quel naso a becco e gli occhi incav ati
tingersi di rosso. Sentiv o l'odore del fum o e l'odore
della colonia. Ogni tanto facev a no con la testa. Poi
sbuffav a com e se stesse litigando con qualcuno.
Ha incom inciato a spogliarsi. Si è tolto gli
stiv aletti, le calze, i pantaloni, la cam icia. È
rim asto in m utande. Av ev a la pelle flaccida,
appesa a quelle ossa lunghe com e se l'av essero
cucita sopra. Ha buttato la sigaretta dalla
finestra. La cicca è scom parsa nella notte, com e un
lapillo infuocato. Si è sciolto i capelli e sem brav a
un v ecchio Tarzan m alato. Si è sdraiato sul letto.
Ora non lo v edev o più, m a era v icino. A m eno
di m ezzo m etro dai m iei piedi. Se allungav a un
braccio m i acchiappav a una cav iglia. Mi sono
chiuso com e un riccio.
Non dov ev o dorm ire. Se m i addorm entav o m i
potev a prendere. Dov ev o inv entarm i qualcosa.
Metterm i i chiodi nel letto. Così non av rei dorm ito.
Si è raschiato la gola. — Si schiatta di caldo qua
dentro. Com e fai a starci?
Ho sm esso di respirare.
— Lo so che non stai dorm endo. Mi v olev a
fregare.
— Sei un furbetto tu… Non ti piaccio, eh? No,
non m i piaci! Av rei v oluto rispondere. Ma non
potev o. Stav o dorm endo. E anche da sv eglio non
av rei m ai av uto il coraggio di dirglielo.
— Pure ai m iei figli non piacev o —. Ha raccolto
da terra una bottiglia che m am m a av ev a m esso
apposta per lui e ha preso un paio di sorsi. — È
calda com e piscio, — si è lam entato. — Due ne
av ev o. Uno è v iv o, m a è com e se fosse m orto.
L'altro è m orto, m a è corne se fosse v iv o. Quello
v iv o si chiam a Giuliano. È più grande di te. Non
v iv e più in Italia. Se n'è andato. In India… Cinque
anni fa. Sta in una com unità. Gli hanno riem pito
il cerv ello di stronzate. Si è rapato. Si v este tutto di
arancione e si crede indiano pure lui. E crede che
si v iv e un sacco di v olte. Si droga com e un cane e
ci m orirà com e un cane, là. Certo io non v ado
laggiù a riprenderlo…
Gli è v enuto un attacco di tosse. Secca. Spacca
polm oni. Ha ripreso fiato e ha continuato. —
Francesco è m orto cinque anni fa. A ottobre
farebbe trentadue anni. Quello sì che era brav o, a
lui gli v olev o bene —, Si è acceso un'altra
sig a r et t a . — Un giorno ha conosciuto una. L'ho
v ista e non m i è piaciuta. Da subito. Dicev a che
facev a l'insegnante di ginnastica. Una troietta…
Una biondina secca… m ezza slav a. Gli slav i sono i
peggiori. Me lo ha incartato com e una caram ella.
Era una pov eraccia e ha v isto Francesco e gli si è
attaccata perché Francesco è un brav o ragazzo,
generoso, uno che alla fine si facev a prendere in
giro da tutti. Chissà cosa cazzo gli ha fatto per
riscem irlo così. Dopo m i hanno raccontato che
quella troia intrallazzav a con una specie di m ago.
Un pezzo di m erda che gii dev e av er lanciato una
fattura. Quei due insiem e lo hanno fottuto. Me lo
hanno indebolito. S'era sm agrito. Era un
ragazzone forte, è div entato uno scheletro, non si
reggev a più in piedi. Un giorno v iene e dice che si
sposa. Non c'è stato niente da fare. Io ci ho prov ato
a dirgli che quella lo rov inav a, m a alla fine la v ita
era la sua. Si sono sposati. Sono partiti per il
v iaggio di nozze in m acchina. Andav ano a
Positano e ad Am alfi, sulla costiera. Passano due
giorni e non chiam a. E norm ale, dico, stanno in
v iaggio di nozze. Chiam erà. E inv ece chi chiam a?
Il com m issariato di Sorrento. Dicono che dev o
andare subito là. Gli chiedo perché. Non m e lo
possono dire per telefono. Dev o andare là se lo
v oglio sapere. Mi dicono che è per m io figlio. Io
com e cazzo ci andav o? Io non ci potev o andare. Se
facev ano un controllo ero finito. Mi cercav ano
perché non m i ero presentato alla condizionale. Mi
rim ettev ano dentro. Li ho fatti chiam are da uno
che conoscev o. Uno am m anicato. E quello m i dice
che m io figlio è m orto. Com e è m orto? E quello m i
dice che si è am m azzato, che si è buttato giù da un
dirupo. Che ha fatto un v olo di duecento m etri e si
è schiantato sulle rocce. Mio figlio? Francesco che
si am m azzav a? Mi v olev ano prendere per il culo?
Io non ci potev o andare. Allora ho m andato quella
deficiente di sua m adre a v edere che era successo.
— Che era successo? — m i è scappato.
— Secondo loro Francesco si è ferm ato lungo la
strada a guardare il panoram a, lei stav a in
m acchina, lui le ha fatto una fotografia poi ha
scav alcato il m uretto e si è buttato di sotto. Uno fa
una foto alla m oglie e poi si butta di sotto? Dice che
lo hanno trov ato spiaccicato, con l'uccello fuori dai
pantaloni e la m acchina fotografica al collo.
Secondo te uno che si v uole am m azzare, fa una
foto, si tira fuori l'uccello e si butta di sotto? Ma che
stronzata è? Io lo so com e è andata la cosa… Altro
che panoram a. Francesco si è ferm ato perché
dov ev a pisciare. Non la v olev a fare in m ezzo alla
strada. E un giov ane educato. Ha scav alcato il
m uretto e si è liberato e quella troia lo ha spinto
giù. Ma nessuno m i crede. Una spinta e v ia.
Am m azzato.
— E perché?
— Brav o. Perché? Non lo so. Non ci av ev a una
lira. Non lo so proprio. Non ci dorm o la notte. Ma
la stronza l'ha pagata… Le ho… Vabbe', lasciam o
perdere, che è tardi. Buona notte.
Ha buttato la sigaretta dalla finestra e si è
m esso a dorm ire e dopo due m inuti dorm iv a e dopo
tre russav a.
6.
Quando m i sono sv egliato il v ecchio non c'era
più. Av ev a lasciato il letto disfatto, un pacchetto
di Dunhill accartocciato sul dav anzale, le
m utande per terra e la bottiglia d'acqua m ezza
v uota.
Era caldo. Le cicale strillav ano.
Mi sono alzato e ho guardato in cucina. Mam m a
stirav a e ascoltav a la radio. Mia sorella giocav a a
terra. Ho chiuso la porta.
La v aligia del v ecchio era sotto il letto. L'ho
aperta e ho guardato dentro.
Vestiti. Una boccetta di profum o. Una bottiglia
di Stock 84 . Una stecca di sigarette. Una cartellina
con dentro un m azzetto di fotografie. La prim a era
di un ragazzo alto e m agro, v estito con una tuta
blu da m eccanico. Sorridev a. Assom igliav a al
v ecchio. Francesco, quello che si era buttato di
sotto con l'uccello di fuori.
Nella cartellina c'erano anche dei ritagli di
giornale. Parlav ano della m orte di Francesco.
C'era pure una foto di sua m oglie. Sem brav a una
ballerina della telev isione. Ho trov ato anche un
quaderno di scuola a righe con la copertina di
plastica colorata. L'ho aperto. Nella prim a pagina
c'era scritto: questo quaderno appartiene a Filippo
Carducci. Quarta C.
Le prim e pagine erano strappate. L'ho sfogliato.
C'erano dei dettati, dei riassunti e un tem a.
Racconta cosa hai fatto domenica.
Domenica è tornato mio papà. Mio papà vive in
America molto spesso e torna ogni tanto. Ha una
villa con la piscina e il trampolino e ci sono gli orsetti
lavatori. Vivono nel giardino, lo ci devo andare. I n
America lui ci sta per lavoro e quando toma mi porta
sempre i regali. Questa volta mi ha portato delle
specie di racchette da tennis che si mettono sotto i
piedi e così si può camminare sulla neve. Senza si
affonda e si può anche morire. Quando andrò in
montagna le dovrò usare quando vado sulla neve.
Papà mi ha detto che queste racchette le usano gli
eschimesi. Gli eschimesi vivono sul ghiaccio al Polo
Nord e hanno anche le case di ghiaccio. Dentro non
hanno il frigorifero perché non servirebbe a niente.
Mangiano molte foche e qualche volta i pinguini. Ha
detto che una volta mi ci porta. I o gli ho chiesto se
può venire anche Peppino con noi. Peppino è il nostro
giardiniere e deve tagliare tutte le piante e quando è
inverno deve togliere tutte le foglie dal prato. Peppino
ha almeno cento anni e appena vede una pianta la
taglia. Si stanca molto e la sera deve mettere i piedi
nell'acqua calda. Se viene con noi al Polo Nord non
deve fare niente lì non ci sono piante c'è solo la neve
e può riposarsi. Papà ha detto che ci deve pensare se
può venire anche Peppino con noi. Dopo essere
andati all'aeroporto siamo andati a mangiare al
ristorante io, mio papà e mia mamma. Loro hanno
parlato di dove devo fare le medie. Se devo stare a
Pavia oppure in America. I o non ho detto niente ma
preferisco Pavia dove vanno tutti i miei compagni. I n
America posso giocare con gli orsetti lavatori. Dopo
pranzo siamo tornati a casa ho mangiato un'altra
volta e sono andato a letto. Questo ho fatto
domenica. 1 compiti li avevo già fatti sabato.
Ho chiuso il quaderno di Filippo e l'ho infilato
nella cartellina.
In fondo alla v aligia c'era un asciugam ano
arrotolato. L'ho aperto e dentro c'era una pistola.
Sono rim asto a fissarla. Era grande, av ev a il calcio
di legno ed era nera. L'ho sollev ata. Era
pesantissim a. Forse era carica. L'ho rim essa a
posto.
«Inseguendo una libellula in un prato, un
giorno che av ev o rotto col passato», cantav ano
alla radio.
Mam m a ballav a e intanto stirav a e cantav a
anche lei. — Quando già credev o di esserci riuscito
son caduto.
Era di buon um ore. Da una settim ana era
peggio di un cane rabbioso e ora cantav a tutta
contenta con la sua v oce rauca e m aschile. — Una
frase sciocca, un v olgare doppio senso, m i ha
allarm ato…
Sono uscito dalla m ia cam era abbottonandom i i
pantaloncini. Lei m i ha sorriso. — Eccolo qua!
Quello che non dorm iv a con gli ospiti… Buon
giorno! Vieni a darm i un bacio. Grande, lo v oglio.
Voglio v edere quanto grande lo riesci a dare.
— Mi acchiappi?
— Sì. Ti acchiappo.
Ho preso la rincorsa e le sono saltato in braccio e
lei m i ha afferrato al v olo e m i ha stam pato un
bacio sulla guancia. Poi m i ha stretto e m i ha fatto
girare. Io pure le ho dato un sacco di baci.
— Anch'io! Anch'io! — ha strillato Maria. Ha
lanciato le bam bole in aria e si è av v inghiata a
noi.
— Tocca a m e. Tocca a m e. Togliti, — le ho
detto.
— Michele, non fare così —. Mam m a ha preso
anche Maria. — Tutti e due! — E ha com inciato a
girare per la stanza cantando a squarciagola. — Il
m agazzino che contiene tante casse, alcune nere,
alcune gialle, alcune rosse…
Da una parte all'altra. Da una parte all'altra.
Fino a quando non siam o crollati sul div ano.
— Sentite… Il cuore. Sentite il cuore… di v ostra.
.. m adre… m uore… — Av ev a il fiatone. Le abbiam o
poggiato la m ano sul seno, sotto c'era un tam buro.
Siam o rim asti uno v icino all'altro, buttati sui
cuscini. Poi m am m a si è sistem ata i capelli e m i ha
chiesto: — Allora Sergio non ti ha m angiato questa
notte?
— No.
— Ti ha fatto dorm ire?
— Sì.
— Russav a?
—Sì.
— Com e russav a? Fam m i sentire. Ho cercato di
fargli il v erso.
— Ma questo è un m aiale! Così fanno i m aiali.
Maria, facci sentire com e russa papà.
E Maria ha fatto papà.
— Non siete capaci. Adesso v i faccio sentire
papà.
Lo facev a identico. Con il fischio. Abbiam o riso
m olto.
Si è alzata e si è tirata giù il v estito. — Ti scaldo
il latte.
Le ho chiesto: — E papà dov e sta?
— È uscito con Sergio… Ha detto che la prossim a
settim ana ci porta a m are. E andrem o pure al
ristorante a m angiare le cozze.
Io e Maria abbiam o com inciato a saltare sui
div ano. — A m are! A m are! A m angiare le cozze!
Mam m a ha guardato v erso i cam pi poi ha
chiuso le persiane. — Speriam o bene.
Ho fatto colazione. C'era il pan di Spagna. Me ne
sono m angiate due fette inzuppate nel latte. Senza
farm i v edere ne ho tagliata un'altra, l'ho av v olta
nel tov agliolo e m e la sono cacciata in tasca.
Filippo sarebbe stato felice.
Mam m a ha sparecchiato. — Appena hai finito
porta questo dolce a casa di Salv atore. Mettiti la
m aglietta pulita.
Mam m a era brav a a cucinare. E quando
preparav a le torte o i m accheroni al forno o
cuocev a il pane, ne facev a sem pre in più e lo
v endev a alla m am m a di Salv atore.
Mi sono lav ato i denti, ho m esso la m aglietta
delle Olim piadi e sono uscito con la teglia tra le
m ani.
Non c'era v ento. Il sole piom bav a a picco sulle
case.
Maria stav a seduta sulle scale con le sue Barbie,
in uno spicchio d'om bra. — Tu la sai costruire una
casa per le bam bole?
— Certo —. Non lo av ev o m ai fatto, m a non
dov ev a essere difficile. — Nel cam ion di papà c'è
uno scatolone. Possiam o tagliarlo e farci una casa.
E poi colorarlo. Ora non ho tem po, però. Dev o
andare da Salv atore —. Sono sceso in strada.
Non c'era nessuno. Solo le galline che
razzolav ano nella polv ere e le rondini che
s'infilav ano sotto i tetti.
Dal capannone v eniv ano dei rum ori. Mi sono
av v icinato. La 1 2 7 di Felice av ev a il cofano
sollev ato e stav a tutta piegata da una parte. Da
sotto spuntav ano un paio di grossi anfibi neri.
Quando Felice era ad Acqua Trav erse
trafficav a sem pre con la m acchina. La lav av a. La
ingrassav a. La spolv erav a. Ci av ev a pure dipinto
sopra una larga striscia nera, com e su quelle dei
poliziotti am ericani. Sm ontav a il m otore e poi non
riusciv a a rim etterlo a posto o si perdev a qualche
bullone, allora ci obbligav a ad andare fino a
Lucignano a com prarglielo.
— Michele! Michele, v ieni qua! — ha urlato
Felice da sotto la m acchina.
Mi sono ferm ato. — Che v uoi?
— Aiutam i.
— Non posso. Dev o fare un serv izio per m ia
m a dr e —. Volev o dare la torta alla m am m a di
Salv atore, saltare sulla Scassona e correre da
Filippo.
— Vieni qua.
— Non posso… Dev o fare una cosa.
Ha ringhiato. — Se non v ieni qua, ti am m azzo…
— Che v uoi?
— Sono incastrato. Non posso m uov erm i. Si è
staccata una ruota m entre stav o sotto,
porcalaputtana. Sto qua sotto da m ezz'ora!
Ho guardato dentro il cofano, da sopra il m otore
v edev o la faccia nera di grasso e gli occhi rossi e
disperati. — Vado a chiam are tuo padre?
Il padre di Felice da giov ane era m eccanico. E
quando Felice trafficav a con la m acchina si
arrabbiav a da m orire.
— Sei scem o? Quello m i fa due coglioni…
Aiutam i.
Potev o andarm ene e lasciarlo là. Mi sono
guardato in giro.
— Non ci pensare neanche… Io da qui esco e
quando esco ti spezzo com e una liquirizia. Di te
rim arrà solo una tom ba dov e i tuoi genitori
andranno a portare i fiori, — ha detto Felice.
— Che dev o fare?
— Prendi il cric dentro la m acchina e m ettilo
v icino alla ruota.
L'ho m esso e ho girato la m anov ella.
Lentam ente la m acchina si è sollev ata.
Felice em ettev a dei m ugolìi di gioia. — Così.
Così, che esco. Brav o!
E sciv olato fuori. Av ev a la cam icia im brattata
di olio nero. Si è passato una m ano sui capelli. —
Credev o di m orirci. Mi sono rov inato la schiena.
Tutto per colpa di quel rom ano di m erda! — Ha
com inciato a fare le flessioni bestem m iando.
— Il v ecchio?
— Sì, lo odio —. Si è rim esso in piedi e ha preso a
calci i sacchi di m ais. — Gli ho detto che non ci
posso arriv are fin lassù con la m acchina. Su quella
strada m i si sfondano gli am m ortizzatori, m a a
quello non gliene frega un cazzo. Perché non ci v a
lui con la sua Mercedes di m erda? Perché non ci
sta lui? Io non ce la faccio più. E non fare questo e
non fare quello. Mi ha fatto due coglioni così
perché sono andato un paio di v olte a m are. Era
m olto m eglio quando quel pezzo di m erda non
c'era. Ma io m e ne v ado… — Ha dato un pugno al
trattore e si è sfogato spaccando le cassette di
leg n o. — Se m i dice un'altra v olta che sono un
idiota gli dò un pugno che te lo attacco al m uro. E
ora com e cazzo ci v ado su… — Si è bloccato e si è
ricordato che c'ero pure io. Mi ha afferrato per la
m aglietta e m i ha sollev ato e m i ha appiccicato il
naso in faccia. — Non raccontare a nessuno quello
che ti ho detto, capito? Se scopro che hai spifferato
una parola sola ti taglio il pesce e m e lo m angio
con i broccoli… — Ha preso dalla tasca un coltello.
La lam a è schizzata fuori a due centim etri dalla
punta del m io naso. — Capito?
Ho balbettato. — Capito.
Mi ha gettato a terra. — A nessuno! Ora sparisci
—. E si è m esso a girare per il capannone.
Ho preso la torta e sono filato v ia.
La fam iglia Scardaccione era la più ricca di
Acqua Trav erse.
Il padre di Salv atore, l'av v ocato Em ilio
Scardaccione, av ev a m olti terreni. Tanta gente,
soprattutto quando era periodo di m ietitura,
faticav a per lui. Arriv av ano da fuori. Da lontano.
Sopra i cam ion. A piedi.
Anche papà, per m olti anni, prim a di div entare
cam ionista, era andato a lav orare a stagione per
l'av v ocato Scardaccione.
Per entrare in casa di Salv atore si passav a per
un cancello di ferro battuto, poi attrav ersav i un
cortile con i cespugli quadrati, la palm a lunga
lunga e una fontana di pietra con i pesci rossi,
saliv i una scala di m arm o con i gradini alti ed eri
arriv ato.
Appena entrav i ti trov av i in un corridoio
scuro, senza finestre, così lungo che ci potev i
andare in bicicletta. Da un lato c'era una fila di
stanze da letto sem pre chiuse, dall'altro il salone.
Era uno stanzone con gli angeli dipinti sul soffitto e
un tav olo grande e lucido con le sedie intorno. Tra
due quadri con le cornici d'oro c'era una v etrina
con dentro delle tazze e dei bicchieri preziosi e delle
fotografie di uom ini in div isa. Vicino alla porta
d'ingresso c'era l'arm atura m ediev ale con in m ano
una m azza con una palla piena di chiodi. L'av ev a
com prata l'av v ocato nella città di Gubbio. Non si
potev a toccare perché cadev a.
Durante il giorno le persiane non si apriv ano
m ai. Neanche d'inv erno. Odorav a di chiuso, di
legno antico. Sem brav a di stare in chiesa.
La signora Scardaccione, la m adre di Salv atore,
era una grassona alta un m etro e m ezzo e portav a
la rete sui capelli. Av ev a le gam be gonfie com e
salsicce che le facev ano sem pre m ale e usciv a solo
a Natale e a Pasqua per andare dal parrucchiere a
Lucignano. Passav a la v ita in cucina, l'unica
stanza lum inosa della casa, insiem e alla sorella,
zia Lucilla, tra v apori e odori di ragù.
Sem brav ano due foche. Piegav ano la testa
insiem e, ridev ano insiem e, battev ano le m ani
insiem e. Due grosse foche am m aestrate con la
perm anente. Se ne stav ano tutto il giorno su due
poltrone consum ate a controllare che Antonia, la
cam eriera, non sbagliav a qualcosa, non si
riposav a troppo.
Tutto dov ev a essere in ordine per quando
rientrav a l'av v ocato Scardaccione dalla città. Ma
l'av v ocato non rientrav a m ai. E quando rientrav a
se ne v olev a andare.
— Lucilla! Lucilla, guarda chi c'è! — ha detto
Letizia Scardaccione quando m i ha v isto entrare
in cucina.
Zia Lucilla ha sollev ato la testa dalla m acchina
da cucire e ha sorriso. Sul naso av ev a dei fondi di
bottiglia che le facev ano gli occhi piccoli com e
pi om bi n i . — Michele! Michele bello! Che hai
portato, la torta?
— Sì, signora. Eccola —, Gliel'ho consegnata.
— Dàlla ad Antonia.
Antonia stav a im bottendo i peperoni seduta al
tav olo.
Antonia Am m irati av ev a diciotto anni, era
m agra m a non tanto. Av ev a i capelli rossi e gli
occhi blu e quando era piccola le erano m orti i
genitori in un incidente stradale.
Sono andato da Antonia e le ho dato la torta. Lei
m i ha carezzato la testa con il dorso della m ano.
Antonia m i piacev a m olto, era bella e m i
sarebbe piaciuto fidanzarm i con lei, m a era troppo
grande e av ev a il ragazzo a Lucignano che
m ontav a le antenne della telev isione.
— Quant'è brav a la tua m am m a, eh? — ha
detto Letizia Scardaccione.
— E quant'è bella? — ha aggiunto zia Lucilla.
— E anche tu sei proprio un bel bam bino. È
v ero, Lucilla?
— È proprio bello.
— Antonia, non è bello Michele? Se fosse grande
non te lo sposeresti?
Antonia ha riso. — Subito m e lo sposerei.
Zia Lucilla m i ha acchiappato una guancia e
m e l'ha quasi staccata. — E tu te la piglieresti
Antonia?
Sono div entato tutto rosso e ho fatto no con la
testa.
E le due sorelle si sono m esse a ridere tutte
contente e non la finiv ano più.
Poi Letizia Scardaccione ha preso un sacchetto.
— Qua ci sono dei v estiti che a Salv atore v anno
piccoli. Prenditeli. Se i pantaloni sono troppo
lunghi te li accorcio. Prenditeli, fam m i questo
fav ore. Guarda com e v ai com binato.
Mi sarebbe piaciuto. Erano com e nuov i. Ma
m am m a dicev a che noi non accettav am o
l'elem osina da nessuno. Soprattutto da quelle due.
Dicev a che i m iei v estiti andav ano benissim o. E
che quando era ora di cam biarli, lo decidev a lei. —
Grazie, signora. Ma non posso.
Zia Lucilla ha aperto una scatola di latta e ha
battuto le m ani. — Guarda che tengo qui. Le
caram elle al m iele! Ti piacciono le caram elle al
m iele?
— Molto, signora.
— Accom odati pure.
Queste le potev o prendere. Mam m a non potev a
scoprirlo perché m e le m angiav o tutte. Ne ho fatto
una bella scorta. Mi sono riem pito le tasche.
E Letizia Scardaccione ha aggiunto: — E dàlle
anche a tua sorella. La prossim a v olta che v ieni
porta pure lei.
Ho ripetuto com e un pappagallo. — Grazie,
grazie, grazie…
— Prim a di andartene v ai a salutare Salv atore.
Sta in cam era sua. Mi raccom ando però, non
rim anere assai che dev e suonare. Oggi ha la
lezione.
Sono uscito dalla cucina e ho attrav ersato quel
corridoio tetro, con quei m obili neri e tristi. Sono
passato dav anti alla cam era di Nunzio. La porta
era chiusa a chiav e.
Una v olta l'av ev o trov ata aperta ed ero
entrato.
Non c'era niente, tranne un letto alto con le
ringhiere di ferro e delle cinghie di cuoio. Al
centro, le m attonelle del pav im ento erano tutte
rigate e rov inate. Quando passav i sotto il palazzo
v edev i Nunzio che cam m inav a av anti e indietro,
dalla porta alla finestra.
L'av v ocato av ev a prov ato ogni cosa per farlo
guarire, una v olta lo av ev a pure portato da padre
Pio, m a Nunzio si era attaccato a una Madonna e
l'av ev a fatta cadere e i frati lo av ev ano cacciato
dalla chiesa. Da quando stav a in m anicom io non
era più tornato ad Acqua Trav erse.
Dov ev o andare da Filippo, glielo av ev o
prom esso. Gli dov ev o portare la torta e le
caram elle. Ma facev a caldo. Potev a aspettare.
Tanto non gli cam biav a niente. E poi av ev o v oglia
di stare un po' con Salv atore.
Ho sentito il pianoforte attrav erso la porta della
sua stanza. Ho bussato.
— Chi è?
— Michele.
— Michele? — Mi ha aperto, si è guardato
intorno com e un ricercato, m i ha spinto dentro e
ha chiuso a chiav e.
La cam era di Salv atore era grande, spoglia e
con i soffitti alti. Contro una parete c'era un
pianoforte v erticale. Su un'altra un letto così alto
che dov ev i prendere uno scaletto per salirci. E una
lunga libreria con dentro tanti libri disposti
secondo i colori delle copertine. I giochi erano
conserv ati in un cassettone. Una tenda bianca e
pesante lasciav a filtrare un raggio di luce in cui
danzav a la polv ere.
In m ezzo alla stanza, sul pav im ento, c'era il
panno v erde del Subbuteo. Schierate sopra, la
Juv entus e il Torino.
Mi ha chiesto: — Che ci fai qua?
— Niente. Ho portato una torta. Posso
rim anere? Tua m adre ha detto che hai la lezione…
— Sì, rim ani, — ha abbassato il tono della v oce,
— m a se si accorgono che non suono non m i
lasciano più in pace —. Ha preso un disco e lo ha
m esso sul giradischi. — Così credono che suono —.
E ha aggiunto tutto serio. — È Chopin.
— Chi è Chopin?
— È uno brav o.
Io e Salv atore av ev am o la stessa età, però m i
sem brav a più grande. Un po' perché era più alto di
m e, un po' perché av ev a le cam icie bianche
sem pre pulite e i pantaloni lunghi e con la piega.
Un po' per il tono pacato che usav a. Lo obbligav ano
a suonare, un insegnante v eniv a una v olta alla
settim ana da Lucignano a fargli lezione, e lui,
anche se odiav a la m usica, non si lam entav a e
aggiungev a sem pre: — Ma quando sono grande
sm etto.
— Ti v a di fare una partita? — gli ho chièsto.
Il Subbuteo era il m io gioco preferito. Non ero
m olto brav o, m a m i piacev a da m orire. D'inv erno
con Salv atore facev am o tornei infiniti, passav am o
pom eriggi interi a dare schicchere a quei piccoli
calciatori di plastica. Salv atore giocav a anche da
solo. Si spostav a da una parte all'altra. Se non
giocav a con il Subbuteo allora incolonnav a
m igliaia di soldatini per la stanza e copriv a tutto il
pav im ento fino a che non c'era più posto nem m eno
per m ettere i piedi. E quando finalm ente erano
ordinati in schiere geom etriche com inciav a a
spostarli uno per uno. Passav a ore in silenzio a
disporre eserciti per poi, quando arriv av a Antonia
a dire che la cena era serv ita, rim etterli tutti nelle
scatole da scarpe.
— Guarda, — m i ha detto, e ha tirato fuori da
un cassetto otto scatolette di cartone v erde.
Ognuna contenev a una squadra di calcio. —
Guarda che m i ha regalato papà. Me le ha portate
da Rom a.
— Tutte queste? — Le ho prese in m ano. Dov ev a
essere v eram ente ricco l'av v ocato per spendere
tutti quei soldi.
Ogni anno che Dio m andav a, alla m ia festa e a
Natale, chiedev o a papà e a Gesù Bam bino di
regalarm i il Subbuteo, m a non c'era v erso,
nessuno dei due ci sentiv a. Mi bastav a una
squadra. Senza il cam po e le porte. Pure di serie B.
Mi sarebbe piaciuto andare da Salv atore con la
m ia squadra perché, ne ero sicuro, se era m ia
av rei giocato m eglio, non av rei perso così tanto.
Av rei v oluto bene a quei giocatori, ne av rei av uto
cura e av rei battuto Salv atore.
Lui ne av ev a già quattro. E ora il padre gliene
av ev a com prate altre otto.
Perché a m e niente?
Perché a m io papà non gli fregav a niente di m e,
dicev a che m i v olev a bene m a non era v ero. Mi
av ev a regalato una stupida barca di Venezia da
m ettere sopra il telev isore. E non potev o neanche
toccarla.
Ne v olev o una. Se suo padre gliene av esse
regalate quattro non dicev o niente, m a erano otto.
In tutto ora ne av ev a dodici.
Con una in m eno che gli cam biav a?
Mi sono schiarito la v oce e ho sussurrato. — Me
ne regali una?
Salv atore ha aggrottato le sopracciglia e ha
com inciato a girare per la stanza. Poi ha detto: —
Mi dispiace, io te la darei pure, m a non posso. Se
papà sa che te l'ho data si arrabbia.
Non era v ero. Quando m ai suo padre
controllav a le squadre. Salv atore era tirchio.
— Ho capito.
— Tanto che ti cam bia? Ci puoi v enire a giocare
quando v uoi.
Se av essi av uto qualcosa da scam biare forse
una m e la dav a. Ma io non av ev o niente.
No, una cosa da scam biare ce l'av ev o.
— Se ti dico un segreto, m e ne dài una?
Salv atore m i ha guardato di sbieco. — Che segreto?
— Un segreto incredibile.
— Non c'è segreto che v ale una squadra.
— Il m io sì —. Mi sono baciato gli indici. — Te lo
giuro.
— E se poi è una fregatura?
— Non lo è. Ma se dici che è una fregatura ti
ridò la squadra.
— Non m i interessano i segreti.
— Lo so. Ma questo è bello. Non l'ho detto a
nessuno. Se il Teschio lo v iene a sapere, fa i salti di
gioia…
— Dillo al Teschio allora.
Ma orm ai ero disposto a tutto. — Mi prendo
anche il Lanerossi Vicenza.
Salv atore ha sgranato gli occhi. — Anche il
Lanerossi Vicenza?
— Sì.
Il Lanerossi Vicenza lo odiav am o. Era iellato. Se
ci giocav i perdev i sem pre. Nessuno dei due av ev a
m ai v into con quella squadra. E av ev a un
giocatore decapitato, un altro attaccato con la
colla e il portiere tutto piegato.
Salv atore ci ha pensato un po' su e finalm ente
ha concesso: — D'accordo. Ma se è un segreto di
m erda non te la dò.
E così gli ho raccontato tutto. Di quando ero
caduto dall'albero. Del buco. Di Filippo. Di quanto
era pazzo. Della sua gam ba m alata. Della puzza. Di
Felice che lo guardav a. Di papà e del v ecchio che
gli v olev ano tagliare le orecchie. Di Francesco che
si era buttato di sotto con l'uccello di fuori. Di sua
m adre alla telev isione.
Tutto.
Prov av o una sensazione bellissim a. Com e
quando m i ero m angiato un v aso pieno di pesche
sciroppate. Dopo ero stato m ale, m i sem brav a di
scoppiare, nella pancia av ev o il terrem oto e m i era
v enuta pure la febbre e m am m a prim a m i av ev a
preso a schiaffi, poi m i av ev a m esso la testa nel
gabinetto e ficcato due dita in gola. E av ev o tirato
fuori una quantità infinita di una pappa gialla e
acida. E av ev o ripreso a v iv ere.
Mentre parlav o Salv atore stav a in silenzio,
im passibile.
E ho concluso. — E poi parla sem pre di questi
orsetti lav atori. Di questi orsetti che lav ano i
panni. Gli ho detto che non esistono, m a lui non m i
sta a sentire.
— Esistono gli orsetti lav atori.
Sono rim asto a bocca aperta. — Com e esistono?
Mio padre ha detto che non esistono.
— Viv ono in Am erica —. Ha preso la Grande
enciclopedia degli anim ali e l'ha sfogliata. —
Eccolo. Guarda —. Mi ha passato il libro.
C'era la fotografia a colori di una specie di
v olpe. Con il m usetto bianco e sugli occhi una
m ascherina nera com e quella di Zorro. Però era
più pelosa di una v olpe e av ev a le zam pe più
piccole e ci potev a prendere le cose. Tra le m ani
stringev a una m ela. Era un anim ale m olto carino.
— Allora esiste…
— Sì —. Salv atore ha letto. — Genere carniv ori
orsiform i della fam iglia dei Prociònidi, dal corpo
un po' tozzo, con il m uso appuntito e la testa
grossa, occhi grandi circondati da m acchie
bruno—nere. Il pelam e è grigio e la coda non
troppo lunga. Viv e in Canada e negli Stati Uniti.
Viene com unem ente chiam ato orsetto lav atore
per la curiosa abitudine di sciacquare i cibi prim a
di m angiarli.
— Non lav a i panni, m a il m angiare… Ecco —.
Ero scom bussolato. — E io che gli ho detto che non
esistev ano…
Salv atore m i ha chiesto: — E perché lo tengono
là dentro?
— Perché non lo v ogliono ridare a sua m adre —.
Gli ho afferrato un polso. — Vuoi v enire a v ederlo?
Ci possiam o andare subito. Ti v a? So una
scorciatoia… Ci m ettiam o poco.
Non m i ha risposto. Ha rim esso i calciatori nelle
loro scatole e ha arrotolato il cam po del Subbuteo.
— Allora? Ti v a?
Ha girato la chiav e e ha aperto la porta. — Non
posso. Viene il m aestro. Se non ho fatto i com piti
glielo dice a quelle due e poi chi le sente.
— Ma com e? Non v uoi v ederlo? Non ti è
piaciuto il m io segreto?
— Non m olto. Non m i interessano i pazzi nei
buchi.
— Me lo dài il Vicenza?
— Prenditelo. Tanto m i fa schifo —. Mi ha
cacciato in m ano la scatola e m i ha spinto fuori
dalla stanza. E ha chiuso la porta.
Pedalav o v erso la collina e non capiv o.
Com e potev a non fregargli di un bam bino
incatenato in un buco? Salv atore m i av ev a detto
che il m io segreto gli facev a schifo.
Non glielo dov ev o dire. Av ev o sprecato il m io
segreto. E che ci av ev o guadagnato? Il Lanerossi
Vicenza, che portav a pure iella.
Ero peggio di Giuda che av ev a barattato Gesù
per trenta denari. Con trenta denari chissà quante
squadre ci si potev ano com prare.
Av ev o la scatola infilata dentro i pantaloncini.
Mi dav a fastidio. Gli spigoli m i entrav ano nella
pelle. Volev o buttarla, m a non ne av ev o il
coraggio.
Mi sarebbe piaciuto tornare indietro nel tem po.
Av rei dato la torta alla signora Scardaccione e m e
ne sarei andato v ia, senza neanche passare da
Salv atore.
Ho fatto la salita così di corsa che quando sono
arriv ato m i v eniv a da v om itare.
Av ev o abbandonato la bicicletta poco prim a
della salita e l'ultim o pezzo m e l'ero fatto a piedi
correndo nel grano. Mi sem brav a che il cuore m i si
strappav a dal petto. Volev o andare subito da
Filippo, m a m i sono dov uto accasciare sotto un
albero e aspettare che m i passav a il fiatone.
Quando m i sono sentito m eglio, ho guardato se
Felice stav a nei paraggi. Non c'era nessuno. Sono
entrato nella casa, ho preso la corda.
Ho spostato la lastra e l'ho chiam ato. — Filippo!
— Michele! — Ha com inciato a m uov ersi tutto.
Mi stav a aspettando.
— Sono v enuto, hai v isto? Hai v isto che sono
v enuto?
— Lo sapev o.
— Te lo hanno detto gli orsetti lav atori?
— No. Lo sapev o io. Lo av ev i prom esso.
— Av ev i ragione, gli orsetti lav atori esistono.
L'ho letto in un libro. L'ho v isto pure in fotografia.
— Bello, v ero?
— Molto. Tu ne hai m ai v isto uno?
— Sì. Li senti? Li senti com e fischiano?
Non sentiv o nessun fischio. Non c'era niente da
fare. Era pazzo.
— Vieni? — Mi ha fatto segno di scendere.
Ho afferrato la corda; — Arriv o —. Mi sono
calato.
Av ev ano fatto pulizie. Il secchio era v uoto. Il
pentolino era pieno d'acqua. Filippo era av v olto
nella sua schifosa coperta, solo che lo av ev ano
lav ato. Gli av ev ano fasciato la cav iglia con una
benda. E intorno al piede non av ev a più la catena.
— Ti hanno pulito!
Ha sorriso. I denti non glieli av ev ano lav ati.
— Chi è stato?
Tenev a una m ano sugli occhi. — Il signore dei
v erm i e i suoi nani serv itori. Sono scesi e m i hanno
lav ato tutto. Io ho detto che potev ano lav arm i
quanto gli parev a m a tu li av resti acchiappati lo
stesso e che potev ano fuggire quanto v olev ano m a
tu potev i inseguirli per div ersi chilom etri senza
stancarti.
Gli ho afferrato un polso. — Che gli hai detto il
m io nom e?
— Quale nom e?
— Il m io.
— E qual è il tuo nom e?
— Michele…
— Michele? No!
— Mi hai appena chiam ato…
— Tu non ti chiam i Michele.
— E com e m i chiam o?
— Dolores.
— Io non m i chiam o Dolores. Sono Michele
Am itrano.
— Se lo dici tu —. Ho av uto l'im pressione che m i
prendev a in giro.
— Ma che gli hai detto al signore dei v erm i?
— Gli ho detto che l'angelo custode li av rebbe
acchiappati.
Ho tirato un sospiro di solliev o. — Ah, brav o!
Hai detto che ero l'angelo custode —. Ho preso la
torta dalla tasca. — Guarda che ti ho portato. Si è
sbriciolata… — Non ho av uto neanche il tem po di
finire la frase che m i si è av v entato contro.
Mi ha strappato quello che rim anev a della
torta e se l'è cacciata tutta in bocca, poi, a occhi
chiusi, ha cercato le briciole.
Mi ha infilato le m ani dov unque. — Ancora!
Ancora! Dam m ene ancora! — Mi graffiav a con le
unghie.
— Non ce ne ho più. Te lo giuro. Aspetta…
—Nella tasca di dietro av ev o le caram elle. — Tieni.
Prendi.
Le scartav a, le m asticav a e le ingoiav a a una
v elocità incredibile. —Ancora! Ancora!
— Ti ho dato tutto.
Non v olev a credere che non av ev o più niente.
Continuav a a cercare le briciole.
— Dom ani te ne porto ancora. Cosa v uoi?
Ha com inciato a grattarsi la testa. — Voglio…
v oglio… il pane. Il pane con il burro. Con il burro e
la m arm ellata. Con il prosciutto. E il form aggio. E
il cioccolato. Un panino m olto grosso.
— Vedo cosa c'è a casa.
Mi sono seduto. Filippo non la sm ettev a di
toccarm i i piedi e di slacciarm i i sandali.
E a un tratto m i è v enuta un'idea. Una grande
idea.
Non av ev a la catena. Era libero. Potev o
portarlo fuori.
Gli ho chiesto: — Ti v a di uscire?
— Uscire dov e?
— Uscire fuori.
— Fuori?
— Sì, fuori. Fuori dal buco.
E stato zitto e ha chiesto: — Dal buco? Quale
buco?
— Questo buco qui. Qui dentro. Dov e siam o. Ha
fatto di no con la testa. — Non ci sono buchi.
— Questo non è un buco? —No.
— Ma sì che è un buco e lo hai detto pure tu.
— Quando l'ho detto?
— Hai detto che il m ondo è tutto pieno di buchi
dov e dentro ci stanno i m orti. E che anche la luna
è piena di buchi.
— Ti sbagli. Io non l'ho detto. Com inciav o a
perdere la pazienza. — E dov e siam o allora?
— In un posto dov e si aspetta.
— E che si aspetta?
— Di andare in paradiso.
Un po' av ev a ragione. Se rim anev i lì dentro
tutta la v ita, m oriv i e poi la tua anim a v olav a in
paradiso. Se ti m ettev i a discutere con Filippo, ti si
intrecciav ano i pensieri.
— Dài, ti porto fuori. Vieni —. L'ho preso, m a si è
irrigidito tutto e trem av a. — Va bene. Va bene.
Non usciam o. Stai buono, però. Non ti faccio
niente.
Ha infilato la testa nella coperta. — Fuori non
c'è aria. Fuori soffoco. Non ci v oglio andare.
— Non è v ero. Fuori c'è un sacco d'aria. Io sto
sem pre fuori e non soffoco. Com e m ai?
— Tu sei un angelo.
Dov ev o farlo ragionare. — Ascoltam i bene. Ieri
ti ho giurato che tornav o e sono tornato. Ora ti
giuro che se v ieni fuori non ti succede niente. Mi
dev i credere.
— Perché dev o andare fuori? Io sto bene qui.
Dov ev o dirgli una bugia. — Perché fuori c'è il
paradiso. E io ti dev o portare in paradiso. Io sono
un angelo e tu sei m orto e io ti dev o portare in
paradiso.
Ci ha pensato un po'. — Dav v ero?
— Veram ente.
— Andiam o, allora —. E ha com inciato a fare
dei v ersi acuti.
Ho prov ato a m etterlo in piedi, m a tenev a le
gam be piegate. Non si reggev a. Se non lo
sostenev o cadev a. Alla fine gli ho legato la corda
intorno ai fianchi. E gli ho av v olto la testa con la
coperta, così stav a buono. Sono risalito e ho
com inciato a issarlo. Pesav a troppo. Stav a lì, a
v enti centim etri da terra, tutto indurito e sbilenco
e io sopra, con la corda sulla spalla, tutto piegato
in av anti e senza la forza per tirarlo su.
— Aiutam i, Filippo. Non ce la faccio.
Ma era com e un m acigno e la corda m i
sciv olav a dalle m ani. Ho fatto un passo indietro e
la corda si è allentata. Av ev a toccato terra.
Mi sono affacciato. Era ribaltato, a pancia
all'aria, con la coperta in testa.
— Filippo, tutto bene?
— Sono arriv ato? — ha chiesto.
— Aspetta —. Sono corso intorno alla casa per
cercare una tav ola, un palo, qualcosa che m i
potesse aiutare. Nella stalla ho trov ato una
v ecchia porta scrostata e m ezza rotta. L'ho
trascinata fino al cortile. Volev o calarla nel buco e
farci salire sopra Filippo. L'ho m essa in piedi sul
ciglio, m a m i è caduta a terra e si è spaccata in
due m età piene di schegge appuntite. Il legno era
tutto m angiato dai tarli. Non era buona.
— Michele? — Filippo m i stav a chiam ando.
— Un m om ento! Aspetta un m om ento! — ho
urlato e ho preso un pezzo di quella porta bastarda
e l'ho sollev ata sulla testa e l'ho gettata su una
scala.
Una scala?
Era lì, a due m etri dal buco. Una bellissim a
scala di legno pittato di v erde adagiata sull'edera
che copriv a un m ucchio di calcinacci e di terra.
Era sem pre stata lì e io non l'av ev o m ai v ista. Ecco
com e scendev ano.
— Ho trov ato una scala! — ho detto a Filippo.
L'ho presa e l'ho calata nel buco.
L'ho trascinato nel boschetto, sotto un albero.
C'erano gli uccelli. Le cicale. L'om bra. E c'era un
buon odore di terra um ida, di m uschio.
Gli ho dom andato: — Posso lev arti la coperta
dalla faccia?
— C'è il sole?
—No.
Non v olev a togliersela, alla fine sono riuscito a
conv incerlo a farsi bendare gli occhi con la m ia
m aglietta. Era contento, si v edev a da com e
sorridev a. Un v enticello gli accarezzav a la pelle e
lui se lo godev a tutto.
Gli ho chiesto: — Perché ti hanno m esso qui?
— Non lo so. Non m i ricordo.
— Niente proprio?
— Mi sono trov ato qua.
— Che ti ricordi?
— Che ero a scuola —. Dondolav a la testa. —
Questo m e lo ricordo. C'era ginnastica. E poi sono
uscito fuori. Una m acchina bianca si è ferm ata. E
m i sono trov ato qua.
— Ma tu dov e abiti?
— In v ia Modigliani 3 6 . All'angolo con v ia
Cav alier D'Arpino.
— E dov e sta?
— A Pav ia.
— In Italia?
— Sì.
— Anche qui è Italia.
Ha sm esso di parlare. Ho pensato che si era
addorm entato, m a a un certo punto m i ha chiesto:
— Che uccelli sono questi?
Mi sono guardato intorno. — Passeri.
— Sei sicuro che non sono pipistrelli?
— No. Quelli di giorno dorm ono e fanno un altro
rum ore.
— Le v olpi v olanti inv ece v olano anche di
giorno e cinguettano com e gli uccelli. E pesano più
di un chilo. Se si attaccano ai ram i piccoli cadono a
terra. Queste, secondo m e, sono v olpi v olanti.
Dopo la storia degli orsetti lav atori non potev o
più dire niente, m agari in Am erica esistev ano
anche le v olpi v olanti. Gli ho dom andato: — Ma tu
sei m ai andato in Am erica?
— Ieri ho v isto la m ia m am m a. Mi ha detto che
non può v enire a prenderm i perché è m orta. E
m orta con tutta la m ia fam iglia. Sennò, ha detto,
v errebbe subito.
Mi sono tappato le orecchie.
— Filippo, è tardi. Ti dev o portare giù.
— Posso tornare giù dav v ero?
— Sí.
— Va bene. Torniam o.
Era stato m ezz'ora m uto, con la m aglietta
legata sugli occhi. Ogni tanto il collo e la bocca gli
si irrigidiv ano e le dita delle m ani e dei piedi gli si
contraev ano com e per un tic. Era rim asto
incantato, ferm o, ad ascoltare le v olpi v olanti.
— Attaccati al m io collo —. Si è aggrappato e
l'ho trascinato fino al buco. — Adesso scendiam o la
scala, reggiti bene. Non m i m ollare.
È stato difficile. Filippo si stringev a così forte
che non riusciv o a respirare e non potev o v edere i
pioli della scala, ero costretto a cercarli con i piedi.
Quando siam o arriv ati giù ero bianco com e un
lenzuolo e ansim av o. L'ho sistem ato in un angolo.
L'ho coperto e gli ho dato da bere e gli ho detto: — È
tardissim o. Me ne dev o andare. Papà m i am m azza.
— Io sto qua. Ma tu m i dev i portare i panini. E
anche un pollo arrosto.
— Il pollo lo m angiam o la dom enica. Oggi
m am m a fa le polpette. Ti piacciono le polpette?
— Con il pom odoro?
— Si.
— Mi piacciono m olto.
Mi dispiacev a di lasciarlo. — Io v ado allora…
—Stav o per aggrapparm i a un piolo, quando la
scala è stata tirata v ia.
Ho sollev ato lo sguardo.
Sul ciglio c'era uno con un cappuccio m arrone
in testa. Era v estito tale e quale a un soldato. —
Cucù? Cucù? L'aprile non c'è più, — ha cantato e
ha com inciato a fare le piroette. — E ritornato
m aggio al canto del cucù! Indov ina chi sono?
— Felice!
— Brav o! — ha detto, ed è rim asto un po' in
silenzio. — Com e cazzo hai fatto a capirlo? Aspetta!
Aspetta un attim o.
Se n'è andato e quando è riapparso im bracciav a
il fucile.
— Eri tu! — Felice battev a le m ani, — Eri tu,
porcalaputtana! Trov av o sem pre le cose m esse
div erse. Prim a credev o di essere pazzo. Poi ho
pensato che c'era il fantasm a Form aggino. E
inv ece eri tu. Michelino. Meno m ale, stav o
uscendo scem o.
Ho sentito stringere la cav iglia. Filippo m i si
era attaccato ai piedi e bisbigliav a. — Il signore dei
v erm i v iene e v a. Il signore dei v erm i v iene e v a.
Il signore dei v erm i v iene e v a.
Ecco chi era il signore dei v erm i!
Felice m i ha guardato attrav erso i buchi del
ca ppu ccio. — Hai fatto am icizia con il principe?
Hai v isto com e l'ho lav ato bene? Facev a i capricci,
m a alla fine ho v into io. La coperta però m ica m e
l'ha v oluta dare.
Ero in trappola. Non riusciv o a v ederlo. Il sole
che filtrav a tra il fogliam e m i accecav a.
— Becca qua!
Un coltello si è piantato a terra. A dieci
centim etri dal m io sandalo e a v enti dalla testa di
Filippo.
— Hai v isto che m ira? Potev o farti saltare il
ditone del piede com e niente. E poi che facev i?
Non riusciv o a parlare. Mi si era tappata la
gola.
— Che facev i senza un dito? — ha ripetuto. —
Dim m elo? Dim m elo un po'?
— Moriv o dissanguato.
— Brav o. E se inv ece ti sparo con questo, — m i
ha m ostrato il fucile, — che ti succede?
— Muoio.
— Vedi che le cose le sai. Vieni su, forza! — Felice
ha preso la scala e l'ha calata giù.
Non v olev o, m a non av ev o altra scelta. Mi
av rebbe sparato. Non ero sicuro che ce l'av rei fatta
a salire, m i trem av ano le gam be.
— Aspetta, aspetta, — ha detto Felice. — Mi
prendi il coltello, per piacere?
Mi sono piegato e Filippo ha bisbigliato: — Non
torni più?
Ho tirato fuori il coltello dalla terra e senza
farm i v edere gli ho risposto sottov oce: — Torno.
— Prom esso?
Felice m i ha ordinato: — Richiudilo e m ettitelo
in tasca.
— Prom esso.
— Forza, forza! Sali su, fessacchiotto. Che
aspetti?
Ho com inciato a salire. Filippo intanto
continuav a a bisbigliare. — Il signore dei v erm i
v iene e v a. Il signore dei v erm i v iene e v a. Il
signore dei v erm i v iene e v a.
Quando oram ai ero quasi fuori, Felice m i ha
preso per i pantaloni e con tutte e due le m ani m i
ha lanciato contro la casa com e un sacco. Mi sono
schiantato sul m uro e m i sono sciolto a terra. Ho
prov ato ad alzarm i. Av ev o sbattuto sul fianco.
Una fitta di dolore m i irrigidiv a la gam ba e il
braccio. Mi sono v oltato. Felice si era tolto il
cappuccio e av anzav a v erso di m e a passo di carica
puntandom i il fucile contro. Vedev o il carro
arm ato dei suoi anfibi div entare sem pre più
grande.
Ora m i spara, ho pensato.
Ho com inciato a strisciare, tutto acciaccato,
v erso il bosco.
— Volev i farlo scappare, eh? Ma ti sei sbagliato.
Hai fatto i conti senza l'hostess —. Mi ha dato un
calcio sul sedere. — Alzati, fessacchiotto. Che fai là
a terra? Alzati! Per caso ti sei fatto m ale? — Mi ha
sollev ato per l'orecchio. — Ringrazia Iddio che sei
figlio di tuo padre. Sennò a quest'ora… Ora ti porto
a casetta. Deciderà tuo padre la punizione. Io il
m io dov ere l'ho fatto. Ho fatto la guardia. E ti
dov ev o sparare —. Mi ha trascinato nel boschetto.
Av ev o così tanta paura che non riusciv o a
piangere. Inciam pav o, finiv o a terra e lui m i
rim ettev a in piedi tirandom i per l'orecchio. —
Muov iti, su, su, su!
Siam o usciti fuori dagli alberi.
Di fronte a noi la distesa gialla e incandescente
di grano si allungav a fino al cielo. Se m i ci tuffav o
dentro non m i av rebbe trov ato m ai.
Con la canna del fucile Felice m i ha spinto alla
1 2 7 e ha detto: — Ah già, ridam m i il coltello!
Ho prov ato a ridarglielo m a non riusciv o a
infilare la m ano nella tasca.
— Faccio io! — Me lo ha preso. Ha aperto lo
sportello, ha sollev ato il sedile e ha detto: — Sali!
Sono entrato e dav anti c'era Salv atore.
— Salv atore, che ci…? — Il resto m i è m orto in
bocca.
Era stato Salv atore. Av ev a fatto la spia a
Felice.
Salv atore m i ha guardato e si è girato dall'altra
parte.
Mi sono seduto dietro senza dire una parola.
Felice si è piazzato al v olante. — Caro Salv atore,
sei stato proprio brav o. Qua la m ano —. Felice
gliel'ha presa. — Av ev i ragipne, il ficcanaso c'era.
E io che non ti credev o —. È sceso. — Le prom esse
sono prom esse. E quando Felice Natale fa una
prom essa, la m antiene. Guida. Vai piano però.
— Adesso? — ha chiesto Salv atore.
— E quando? Siediti al posto m io.
Felice è entrato dalla porta del passeggero e
Salv atore è passato al v olante. — Qui è perfetto per
im parare. Basta che segui la discesa e ogni tanto
freni.
Salv atore Scardaccione m i av ev a v enduto per
una lezione di guida.
— Così m i sfondi la m acchina! — Felice urlav a e
con la testa incollata al parabrezza controllav a il
fondo sconnesso della strada. — Frena! Frena!
Salv atore arriv av a appena sopra il v olante e lo
stringev a com e se v olesse spezzarlo.
Quando Felice m i era v enuto addosso
puntandom i il fucile contro m i ero pisciato sotto.
Solo ora m e ne accorgev o. Av ev o i pantaloncini
zuppi. .
La m acchina era piena di tafani im pazziti.
Sobbalzav am o sui dossi, ci infilav am o nelle buche.
Dov ev o aggrapparm i alla m aniglia.
Salv atore non m i av ev a m ai detto che v olev a
guidare la m acchina. Potev a chiederlo al padre di
insegnargli a portarla. L'av v ocato non gli dicev a
m ai di no. Perché lo av ev a chiesto a Felice?
Mi facev a m ale tutto, le ginocchia sbucciate, le
costole, un braccio e un polso. Ma soprattutto il
cuore. Salv atore m e lo av ev a spezzato.
Era il m io m igliore am ico. Una v olta, su un
ram o del carrubo, av ev am o pure fatto il
giuram ento d'am icizia
eterna.
Tornav am o
insiem e da scuola. Se uno usciv a prim a, aspettav a
l'altro.
Salv atore m i av ev a tradito.
Av ev a ragione m am m a quando dicev a che gli
Scardaccione si credev ano chissà chi solo perché
av ev ano i soldi. E dicev a che anche se affogav i
quelli nem m eno ti guardav ano in faccia. E io m i
ero im m aginato un sacco di v olte le due sorelle
Scardaccione sul bordo delle sabbie m obili che
cuciv ano a m acchina e io che affondav o e
allungav o la m ano e chiedev o aiuto e quelle m i
lanciav ano le caram elle con il m iele e dicev ano
che non potev ano alzarsi per colpa delle gam be
gonfie. Ma con Salv atore erav am o am ici.
Mi ero sbagliato.
Av ev o una v oglia trem enda di piangere, m a m i
sono giurato che se una sola lacrim a m i usciv a
dagli occhi, av rei preso la pistola del v ecchio e m i
sarei sparato. Ho tirato fuori dai pantaloncini la
scatola del Lanerossi Vicenza. Era tutta m olla di
pipì.
L'ho poggiata sul sedile.
Felice ha urlato: — Basta, ferm a! Non ce la
faccio più.
Salv atore ha frenato di colpo, il m otore si è
spento, la m acchina si è inchiodata e se Felice non
m ettev a le m ani av anti si scassav a le corna sul
parabrezza.
Ha spalancato la portiera ed è sceso. — Lev ati!
Salv atore si è spostato dall'altra parte, m uto.
Felice ha afferrato il v olante e ha detto: — Caro
Salv atore, te lo dev o dire, tu sei proprio negato a
guidare. Lascia perdere. Il ciclism o è il tuo futuro.
Quando siam o entrati ad Acqua Trav erse m ia
sorella, Barbara, Rem o e il Teschio giocav ano a
m ondo in m ezzo alla polv ere.
Ci hanno v isti e hanno sm esso di giocare.
Il cam ion di papà non c'era. E neanche la
m acchina del v ecchio.
Felice ha parcheggiato la 1 2 7 nel capannone.
Salv atore è schizzato dalla m acchina, ha preso
la bicicletta e se n'è andato senza nem m eno
guardarm i.
Felice ha tirato su il sedile. — Esci fuori!
Non v olev o uscire.
Una v olta, a scuola, av ev o rotto la v etrata del
cortile con uno di quei bastoni che serv ono per fare
ginnastica. Volev o far v edere ad Angelo Cantini,
un m io com pagno di classe, che quel v etro era
indistruttibile. E inv ece si era trasform ato in un
m iliardo di cubetti quadrati. Il preside av ev a
chiam ato m am m a e le av ev a detto che le dov ev a
parlare.
Quando era arriv ata m i av ev a guardato e m i
av ev a detto in un orecchio: — Noi due facciam o i
conti dopo —. Ed era entrata dal preside m entre io
aspettav o seduto nel corridoio.
Quella v olta av ev o av uto paura, m a niente in
confronto ad adesso. Felice av rebbe raccontato
tutto a m am m a e lei lo av rebbe detto a papà. E
papà si sarebbe arrabbiato tantissim o. E il v ecchio
m i av rebbe portato v ia.
— Esci fuori! — m i ha ripetuto Felice.
Mi sono fatto coraggio e sono sm ontato.
Mi v ergognav o. Av ev o i pantaloni bagnati.
Barbara si è m essa una m ano sulla bocca. Rem o
è corso dal Teschio. Maria si è lev ata gli occhiali e
se li è puliti con la m aglietta.
C'era una luce abbagliante, non riusciv o a
tenere gli occhi aperti. Dietro di m e sentiv o i passi
pesanti di Felice. Affacciata alla finestra c'era la
m am m a di Barbara. A un'altra la m am m a del
Teschio. Mi fissav ano con gli occhi v acui. Ci
sarebbe stato un silenzio assoluto se Togo non
av esse com inciato ad abbaiare con quella sua
v ocetta stridula. Il Teschio gli ha dato un calcio e
Togo è scappato v ia guaendo.
Ho salito le scale di casa e ho aperto la porta.
Le persiane erano accostate e c'era poca luce. La
radio era accesa. Il v entilatore girav a. Mam m a, in
sottov este, era seduta al tav olo e pelav a le patate.
Mi ha v isto entrare seguito da Felice. Le è sciv olato
il coltello di m ano. È caduto sul tav olo, e da lì è
finito sul pav im ento. — Che è successo?
Felice si è cacciato le m ani nella m im etica, ha
abbassato la testa e ha detto: — Era su. Con il
ragazzino.
Mam m a si è alzata dalla sedia, ha spento la
radio, ha fatto un passo, poi un altro, si è ferm ata,
si è m essa le m ani in faccia e si è accucciata a
terra guardandom i.
Sono scoppiato a piangere.
È corsa da m e e m i ha preso in braccio. Mi ha
stretto forte al seno e si è accorta che ero tutto
bagnato. Mi ha poggiato sulla sedia e m i ha
guardato le gam be e le braccia sbucciate, il sangue
rappreso sulle ginocchia. Mi ha sollev ato la
m aglietta.
— Che ti è successo? — m i ha chiesto.
— Lui! È stato lui… m i ha… preso a m azzate!
—Ho indicato Felice.
Mam m a si è girata, ha squadrato Felice e ha
ringhiato: — Che cosa gli hai fatto, disgraziato?
Felice ha alzato le m ani. — Niente. Che gli ho
fatto? L'ho riportato a casa.
Mam m a ha strizzato gli occhi. — Tu! Com e ti
perm etti, tu? — Le v ene del collo le si sono gonfiate
e le trem av a la v oce. — Com e ti perm etti, eh? Hai
picchiato m io figlio, bastardo! — E si è lanciata su
Felice.
Lui è indietreggiato. — Gli ho dato un calcio nel
sedere. E che sarà m ai?
Mam m a ha cercato di schiaffeggiarlo. Felice le
ha serrato i polsi per tenerla lontana, m a lei era
una leonessa. — Bastardo! Io ti strappo gli occhi!
— L'ho trov ato dentro la fossa… Volev a liberare
il ragazzino. Non gli ho fatto niente. Basta,
sm ettila!
Mam m a era scalza, m a lo ha colpito lo stesso
con un calcio nei coglioni.
Il pov ero Felice ha em esso un v erso strano, un
incrocio tra un gargarism o e il risucchio di un
lav andino, si è m esso le m ani sui genitali ed è
caduto in ginocchio. Ha fatto una sm orfia di dolore
e ha prov ato a urlare m a non gli è v enuto, non
av ev a più aria nei polm oni.
Io, in piedi sulla sedia, ho sm esso di frignare.
Sapev o quanto fa m ale una botta sulle palle. E
quella era una botta sulle palle m olto seria.
Mam m a non ha av uto nessuna pietà. Ha preso
la padella dal lav ello e ha colpito Felice in faccia.
Lui ha ululato ed è crollato a terra.
Mam m a ha sollev ato di nuov o la padella, lo
v olev a am m azzare, m a Felice l'ha presa per una
cav iglia e ha tirato. Mam m a è cascata. La padella
è schizzata sul pav im ento. Felice le si è buttato
sopra con tutto il corpo.
Io ho guaito disperato. —Lasciala! Lasciala!
Lasciala! — Felice le ha afferrato le braccia, le si è
piazzato sullo stom aco e l'ha tenuta ferm a.
Mam m a m ordev a e graffiav a com e una gatta.
Le si era sollev ata la sottov este. Si v edev a il sedere
e il ciuffo nero tra le gam be e una spallina si era
strappata e un seno le usciv a fuori bianco e grande
e con il capezzolo scuro.
Felice si è ferm ato e l'ha guardata.
Ho v isto com e l'ha guardata.
Sono sceso dalla sedia e ho cercato di ucciderlo.
Gli sono saltato addosso e ho prov ato a strozzarlo.
In quel m om ento sono entrati papà e il v ecchio.
Papà si è gettato su Felice, lo ha afferrato per un
braccio e l'ha tirato v ia da sopra a m am m a.
Felice è rotolato sul pav im ento e io insiem e a
lui.
Ho battuto forte la tem pia. Un bollitore
dell'acqua ha com inciato a fischiarm i nella testa, e
nelle narici av ev o l'odore del disinfettante che
dav ano nel bagno della scuola. Lam pi gialli m i
esplodev ano dav anti agli occhi.
Papà prendev a a calci Felice e Felice strisciav a
sotto il tav olo e il v ecchio cercav a di trattenere
papà che spalancav a la bocca e allungav a le m ani
e buttav a all'aria le sedie con i piedi.
Il sibilo nella testa era così forte che non sentiv o
nem m eno il m io pianto.
Mam m a m i ha preso e m i ha portato in cam era
sua, ha chiuso la porta con il gom ito e m i ha
adagiato sul letto. Non riusciv o a sm ettere di
piangere. Sussultav o tutto ed ero paonazzo.
Mi stringev a tra le braccia e ripetev a: — Non è
niente. Non è niente. Passa. Passa tutto.
Mentre piangev o non riusciv o a staccare gli
occhi dalla fotografia di padre Pio attaccata
all'arm adio. Il frate m i guardav a e sem brav a
sorridere soddisfatto.
In cucina papà, il v ecchio e Felice urlav ano.
Poi sono usciti tutti e tre di casa sbattendo la
porta.
Ed è tornata la calm a.
I colom bi tubav ano sotto il tetto. Il rum ore del
frigorifero. Le cicale. Il v entilatore. Quello era il
silenzio.
Mam m a, con gli occhi gonfi, si è v estita, si è
disinfettata un graffio su una spalla e m i ha
lav ato, asciugato, infilato sotto le lenzuola. Mi ha
fatto m angiare una pesca con lo zucchero e si è
stesa accanto a m e. Mi ha dato la m ano. Non
parlav a più.
Non av ev o la forza nem m eno per piegare un
dito. Ho appoggiato la fronte sul suo stom aco e ho
chiuso gli occhi.
Si è aperta la porta.
— Com e sta?
La v oce di papà. Parlav a piano, com e se il
dottore gli av esse detto che ero in fin di v ita.
Mam m a m i ha accarezzato i capelli. — Ha preso
una botta in testa. Ma ora dorm e.
— Tu com e stai?
— Bene.
— Sicura?
— Sì. Ma quello non dev e entrare più in casa
nostra. Se tocca ancora Michele lo am m azzo e poi
am m azzo a te.
— Ci ho già pensato io. Dev o andare. La porta si
è chiusa.
Mam m a m i si è accoccolata accanto e m i ha
sussurrato in un orecchio: — Quando div enti
grande te ne dev i andare da qui e non ci dev i
tornare m ai più.
Era notte.
Mam m a non c'era. Maria m i dorm iv a accanto.
L'orologio ticchettav a sul com odino. Le lancette
brillav ano di giallo. Il cuscino odorav a di papà. La
luce bianca della cucina s'incuneav a sotto la
porta.
Di là stav ano litigando.
Era pure arriv ato l'av v ocato Scardaccione, da
Rom a. Era la prim a v olta che v eniv a a casa
nostra.
Quel pom eriggio erano successe cose terribili.
Così terribili, così im m ense che non ci si potev a
nem m eno arrabbiare. Mi av ev ano lasciato stare.
Non ero agitato. Mi sentiv o al sicuro. Mam m a
ci av ev a chiusi dentro la sua cam era e non
av rebbe perm esso a nessuno di entrare.
In testa av ev o un bozzo che se lo toccav o m i
facev a m ale, m a per il resto stav o bene. Questo un
po' m i dispiacev a. Appena scopriv ano che non ero
m alato m i rim ettev ano nella stanza con il
v ecchio. E io v olev o rim anere nel loro letto per
sem pre. Senza più uscire, senza più v edere
Salv atore, Felice, Filippo, nessuno. Nulla sarebbe
cam biato.
Sentiv o le v oci in cucina. Il v ecchio, l'av v ocato,
il barbiere, il padre del Teschio, papà. Litigav ano
per una telefonata che dov ev ano fare e su quello
che bisognav a dire.
Ho m esso la testa sotto il cuscino.
Vedev o l'oceano di ferro in tem pesta, cav alloni
di chiodi si sollev av ano e spruzzi di bulloni
colpiv ano l'autobus bianco che affondav a in
silenzio sollev ando il m uso e dentro c'erano i
m ostri che si agitav ano e sbattev ano i pugni
terrorizzati.
Non c'era niente da fare.
I v etri erano indistruttibili.
Ho aperto gli occhi.
— Michele, sv egliati —. Papà stav a seduto sul
bordo del letto e m i scuotev a la spalla. — Ti dev o
parlare.
Era buio. Ma una m acchia di luce bagnav a il
soffitto. Non gli v edev o gli occhi e non capiv o se
era arrabbiato.
In cucina continuav ano a parlare.
— Michele, che hai fatto oggi?
— Niente.
— Non dire fesserie —. Era arrabbiato.
— Non ho fatto niente di m ale. Te lo giuro.
— Felice ti ha trov ato da quello. Ha detto che lo
v olev i liberare.
Mi sono tirato su. — No! Non è v ero! Te lo giuro!
L'ho tirato fuori, m a l'ho rim esso subito dentro.
Non lo v olev o liberare. E lui che dice le bugie.
— Parla piano che tua sorella dorm e —. Maria
era stesa a pancia in giù e stringev a il cuscino.
Ho
sussurrato. — Non m i credi? Mi ha
guardato. Gli occhi gli luccicav ano nel buio com e
a un cane.
— Quante v olte lo hai v isto? —Tre.
— Quante v olte?
— Quattro.
— Ti può riconoscere?
— Com e?
— Se ti v ede ti riconosce?
Ci ho pensato. — No. Non ci v ede. Tiene sem pre
la testa sotto la coperta.
— Gli hai detto il tuo nom e?
— No.
— Ci hai parlato?
— No… Poco.
— Che ti ha detto?
— Niente. Parla di cose strane. Non si capisce
niente.
— E tu che gli hai detto?
— Niente.
Si è alzato. Sem brav a se ne v olesse andare, poi
si è riseduto sul letto. — Ascoltam i bene. Non sto
scherzando. Se ci torni io ti am m azzo di botte. Se
torni un'altra v olta lì, quelli gli sparano in testa
—. Mi ha dato uno strattone v iolento. — Per colpa
tua.
Ho balbettato. — Non ci torno più. Te lo giuro.
— Giuralo sulla m ia testa.
— Te lo giuro.
— Di', giuro sulla tua testa che non ci torno più.
Ho detto: — Giuro sulla tua testa che non ci torno
più.
— Hai giurato sulla testa di tuo padre —. È
rim asto in silenzio seduto v icino a m e.
In cucina il padre di Barbara urlav a con Felice.
Papà ha guardato fuori dalla finestra. —
Scordalo. Non esiste più. E non ne dev i parlare con
nessuno. Mai più.
— Ho capito. Non ci v ado più. Si è acceso una
sigaretta.
Gli ho chiesto: — Sei ancora arrabbiato con m e?
— No. Mettiti a dorm ire —. Ha preso una grossa
boccata e si è appoggiato con le m ani sul
dav anzale. I capelli lucidi gli brillav ano della luce
del lam pione. — Ma, Cristo di Dio, perché gli altri
ragazzini se ne stanno buoni e tu te ne v ai in giro a
fare fesserie?
— Allora sei arrabbiato con m e?
— No, non sono arrabbiato con te. Piantala —. Si
è preso la testa tra le m ani e ha sussurrato. — Che
razza di casino —. Scuotev a la testa. — Ci sono cose
che sem brano sbagliate quando uno… — Av ev a la
v oce rotta e non trov av a le parole. — Il m ondo è
sbagliato, Michele.
Si è alzato e si è sgranchito la schiena e ha fatto
per uscire. — Dorm i. Dev o tornare di là.
— Papà, m i dici una cosa?
Ha gettato la sigaretta dalla finestra. — Che c'è?
— Perché lo av ete m esso nel buco? Non l'ho
capito proprio bene.
Ha afferrato la m aniglia, ho creduto che non
m i v olesse rispondere, poi ha detto: — Non te ne
v olev i andare da Acqua Trav erse?
— Sì.
— Presto ce ne andrem o in città.
— Dov e andrem o?
— Al Nord. Sei contento? Ho fatto sì con la testa.
E tornato da m e e m i ha guardato negli occhi.
L'alito gli sapev a di v ino. — Michele, ora ti parlo
com e a un uom o. Ascoltam i bene. Se torni lì lo
uccidono. Lo hanno giurato. Non ci dev i tornare
più se non v uoi che gli sparano e se v uoi che ce ne
andiam o in città. E non ne dev i parlare m ai. Hai
capito?
— Capito.
Mi ha baciato in testa. — Ora dorm i e non ci
pensare. Vuoi bene a tuo padre?
— Sì.
— Mi v uoi aiutare?
— Sì.
— Allora dim entica tutto.
— Va bene.
— Dorm i ora —. Ha baciato Maria che neanche
se n'è accorta ed è uscito dalla stanza chiudendo
piano la porta.
7.
Era tutto in disordine.
Il tav olo era pieno di bottiglie, tazzine e piatti
sporchi. Le m osche ronzav ano sui resti del cibo. Le
sigarette traboccav ano dalle ceneriere, le sedie e le
poltrone erano tutte storte. C'era puzza di fum o.
La porta della m ia stanza era socchiusa. Il
v ecchio dorm iv a v estito sul letto di m ia sorella.
Un braccio buttato giù. La bocca aperta. Ogni
tanto si scacciav a una m osca che gli cam m inav a
sulla faccia. Papà si era steso sul m io letto con la
testa contro il m uro. Mam m a dorm iv a
rannicchiata sul div ano. Si era coperta con la
trapunta bianca. Spuntav ano i capelli neri, un
pezzettino di fronte e un piede nudo.
La porta di casa era spalancata. Una leggera
corrente tiepida facev a frusciare il giornale sul
com ò.
Il gallo ha cantato.
Ho aperto il frigo. Ho preso il latte, m i sono
riem pito un bicchiere e sono uscito sul terrazzino.
Mi sono seduto sugli scalini a guardare l'alba.
Era di un arancione v iv ido, sporcata da una
m assa gelatinosa e v iolacea che si stendev a com e
cotone sull'orizzonte, m a più in alto il cielo era
pulito e nero e qualche stella era ancora accesa.
Mi sono finito il latte, ho poggiato il bicchiere su
uno scalino e sono sceso in strada.
Il pallone del Teschio era v icino alla panchina,
gli ho dato un calcio. E finito sotto la m acchina del
v ecchio.
Dal capannone è apparso Togo. Ha guaito e
sbadigliato insiem e. Si è stiracchiato allungandosi
e trascinando le zam pe di dietro e m i è v enuto
incontro scodinzolando.
Mi sono inginocchiato. — Togo, com e stai?
Mi ha preso una m ano con la bocca e m i ha
tirato. Non stringev a forte m a av ev a i denti
appuntiti.
— Dov e m i v uoi portare, eh? Dov e m i v uoi
por tar e? — L'ho seguito nel capannone. I colom bi,
appollaiati sui trav i di ferro del tetto, sono v olati
v ia.
In un angolo, buttata a terra, c'era la sua
cuccia, una v ecchia coperta grigia, tutta bucata.
— Mi v uoi far v edere la tua casa?
Togo ci si è steso e si è aperto com e un pollo alla
diav ola.
Sapev o che v olev a. Gli ho grattato la pancia e
lui si è im m obilizzato, in grazia di Dio, solo la coda
gli andav a a destra e a sinistra.
La coperta era uguale a quella di Filippo.
L'ho odorata. Non puzzav a com e la sua.
Sapev a di cane.
Ero steso sul letto a leggere Tex.
Ero rim asto in cam era tutto il giorno. Com e
quando av ev o la febbre e non andav o a scuola. A
un certo punto era v enuto Rem o a chiederm i se
v olev o fare una partita, m a gli av ev o detto di no,
che ero m alato.
Mam m a av ev a pulito casa fino a che tutto era
tornato splendente, poi era andata dalla m adre di
Barbara. Papà e il v ecchio si erano sv egliati ed
erano usciti.
Mia sorella è entrata in cam era di corsa ed è
saltata sul letto tutta contenta. Tenev a qualcosa
dietro la schiena.
— Indov ina che m i ha prestato Barbara? Ho
abbassato il giornaletto. — Non lo so.
— Indov ina, dài!
— Non lo so —. Non av ev o v oglia di giocare.
Ha tirato fuori Ken. Il m arito di Barbie, quello
spilungone e con la puzza sotto il naso. — Così
possiam o giocare. Io prendo Paola e tu lui. Li
spogliam o e li m ettiam o nel frigorifero… Così si
abbracciano, capito?
— Non m i v a.
Mi ha squadrato. — Che hai?
— Niente. Lasciam i in pace, sto leggendo.
— Che noioso che sei! — Ha sbuffato e se n'è
andata.
Mi sono rim esso a leggere. Era un num ero
nuov o, m e lo av ev a prestato Rem o. Ma non
riusciv o a concentrarm i. L'ho buttato a terra.
Pensav o a Filippo.
Ora com e facev o? Gli av ev o prom esso che
tornav o da lui, m a non potev o, av ev o giurato a
papà che non ci andav o.
Se ci andav o gli sparav ano.
Ma perché? Mica lo liberav o, ci parlav o solo.
Non facev o niente di m ale.
Filippo m i aspettav a. Era lì, nel buco, e si
chiedev a quando tornav o, quando gli portav o le
polpette.
— Non posso v enire, — ho detto ad alta v oce.
L'ultim a v olta che ero andato da lui gli av ev o
detto: «Hai v isto che sono v enuto?» E lui m i
av ev a risposto che lo sapev a. Non erano stati gli
orsetti lav atori a dirglielo. «Me lo av ev i
prom esso».
Mi bastav a parlarci cinque m inuti. «Filippo,
non posso più tornare. Se torno ti uccidono.
Scusam i, non è colpa m ia». E alm eno si m ettev a
l'anim a in pace. Inv ece così pensav a che non lo
v olev o più v edere e che non m antenev o le
prom esse. Ma non era v ero. Questa cosa m i
torm entav a.
Se non ci potev o andare io, glielo potev a dire
papà. «Mi dispiace, Michele non può v enire, per
questo non m antiene la prom essa. Se v iene ti
uccidono. Ha detto di salutarti».
— Basta, m e lo dev o scordare! — ho detto alla
stanza. Ho raccolto il giornalino, sono andato in
bagno e m i sono m esso a leggere sulla tazza, m a ho
dov uto sm ettere subito.
Papà m i chiam av a dalla strada.
E ora che v olev a da m e? Ero stato buono, non
m i ero m osso di casa. Mi sono tirato su i pantaloni
e sono uscito sul terrazzino.
— Vieni qua! Vieni! — Mi ha fatto segno di
scendere. Era accanto al cam ion. C'erano anche
m am m a, Maria, il Teschio e Barbara.
— Che c'è?
Mam m a ha detto: — Scendi, c'è una sorpresa.
Filippo. Papà av ev a liberato Filippo. E lo av ev a
portato da m e.
Il cuore ha sm esso di batterm i. Mi sono
precipitato giù per le scale. — Dov 'è?
— Stai là —. Papà è salito sul cam ion e ha tirato
fuori la sorpresa.
— Allora? — m i ha chiesto papà. Mam m a ha
ripetuto: — Allora?
Era una bicicletta tutta rossa, con il m anubrio
che sem brav a le corna di un toro. La ruota
dav anti piccola. Il cam bio a tre m arce. Le gom m e
con i tacchetti. Il sellino lungo che ci potev i andare
in due.
Mam m a ha chiesto ancora: — Che c'è? Non ti
piace?
Ho fatto di sì con la testa.
Ne av ev o v ista una quasi uguale, qualche m ese
prim a, al negozio di biciclette di Lucignano. Ma
era più brutta, non av ev a il fanalino argentato e
la ruota dav anti non era piccola. Ero entrato
dentro a guardarla e il com m esso, un uom o alto,
con i baffi e il grem biule grigio, m i av ev a detto: —
Bella, eh?
— Tanto.
— E l'ultim a che m i è rim asta. E un affare.
Perché non te la fai regalare dai tuoi genitori?
— Mi piacerebbe…
— E allora?
— Ce l'ho già.
— Quella? — Il com m esso av ev a storto il naso
indicando la Scassona poggiata contro il lam pione.
Mi sono scusato. — Era di papà.
— E ora di cam biarla. Dillo ai tuoi. Faresti tutta
un'altra figura con un gioiello com e questo.
Me n'ero andato. Non m i era passato neanche
per la testa di chiedergli quanto costav a. Questa
qui era m olto più bella. Sopra la canna c'era
scritto in oro Red Dragon.
— Che v uol dire Red Dragon? — ho chiesto a
papà.
Lui ha sollev ato le spalle e ha detto: — Lo sa tua
m adre.
Mam m a si è coperta la bocca e si è m essa a
ridere. — Quanto sei scem o, che so l'inglese io?
Papà m i ha guardato. — Allora che fai? Non la
prov i?
— Ora?
— E quando, dom ani?
Mi scocciav a prov arla dav anti a tutti. — Posso
portarla a casa?
Il Teschio ci è m ontato sopra. — Se non la prov i
tu, la prov o io.
Mam m a gli ha dato uno scapaccione. — Scendi
subito da quella bicicletta! È di Michele.
— La v uoi v eram ente portare sopra? — m i ha
dom andato papà.
— Sì.
— E ce la fai? — Sì.
— Va bene, m a solo per oggi…
Mam m a ha detto: — Ma sei im pazzito, Pino? La
bicicletta in casa? Fa le strisce.
— Ci sta attento.
Mia sorella ha preso gli occhiali, li ha buttati a
terra ed è scoppiata a piangere.
— Maria, raccogli subito quegli occhiali, — si è
infuriato papà.
Lei ha incrociato le braccia. — No! Non li
prendo, non è giusto. Tutto a Michele e a m e
niente!
— Aspetta il tuo turno —. Papà ha tirato fuori
dal cam ion un pacchetto con la carta blu e un
fiocco. — Questo è per te.
Maria si è rim essa gli occhiali, ha prov ato a
disfare il nodo m a non ci riusciv a, allora lo ha
strappato con i denti.
— Aspetta! La carta è buona, la teniam o —.
Mam m a ha sciolto il fiocco e ha tolto la carta.
Dentro c'era una Barbie con la corona in testa e
un v estito di raso bianco tutto stretto e le braccia
nude.
Maria per poco non è sv enuta — La Barbie
ba ller in a …! — Mi si è afflosciata addosso. — È
bellissim a.
Papà ha chiuso il telone del cam ion. — E ora con
i regali state a posto per i prossim i dieci anni.
Io e Maria abbiam o salito le scale di casa. Io con
la bicicletta in spalla, lei con la sua Barbie
ballerina in m ano.
— È bella, v ero? — ha detto Maria guardandosi
la bam bola.
— Sì. Com e la chiam i?
— Barbara.
— Perché Barbara?
— Perché Barbara ha detto che da grande
div enterà com e la Barbie. E Barbie è Barbara in
inglese.
— E con Pov erella che ci fai, la butti?
— No. Fa la cam eriera —. Poi m i ha guardato e
m i ha chiesto: — A te non ti è piaciuto il regalo?
— Sì. Ma pensav o che era un'altra cosa.
Quella notte ho dorm ito con il v ecchio.
Mi ero appena m esso a letto e m i stav o finendo
Tex quando è entrato in cam era. Sem brav a che gli
av essero scaricato addosso altri v enti anni. La
faccia per quanto era scav ata si era ridotta a un
teschio.
— Dorm i? — ha sbadigliato.
Ho chiuso il giornaletto e m i sono girato v erso il
m uro. — No.
— Ahhh! Sono cotto —. Ha acceso la lam pada
accanto al letto e ha com inciato a spogliarsi. — Tra
andata e ritorno ho fatto l'iradiddio di chilom etri.
Ho la schiena a pezzi. Dev o dorm ire —. Ha
sollev ato in aria i pantaloni, li ha esam inati e ha
storto il naso. — Dev o rifarm i il guardaroba —. Si è
lev ato gli stiv aletti e le calze e li ha poggiati sul
dav anzale.
Gli puzzav ano i piedi.
Ha trafficato nella v aligia, ha tirato fuori la
bottiglia di Stock 84 e ci si è attaccato. Ha fatto
una sm orfia e si è pulito la bocca con la m ano. —
Am m azza, che schifo —. Ha preso la cartellina, l'ha
aperta, ha guardato il blocco di fotografie e m i ha
chiesto: — Vuoi v edere m io figlio? — Mi ha passato
una foto.
Era quella che av ev o v isto la m attina in cui
av ev o frugato nella sua roba. Francesco v estito da
m eccanico.
— Bel ragazzo, v ero?
— Sì.
— Qua stav a ancora bene, dopo si è sm agrito.
Una falena m arrone è entrata dalla finestra e ha
preso a sbattere contro la lam padina. Facev a un
rum ore sordo ogni v olta che colpiv a il v etro
incandescente.
Il v ecchio ha preso un giornale e l'ha
spiaccicata contro il m uro. — 'Ste farfalle di m erda
—. Mi ha passato un'altra foto. — Casa m ia.
Era una v illetta bassa con le finestre dipinte di
rosso. Dietro il tetto di paglia spuntav ano le cim e
di quattro palm e. Seduta sulla porta c'era una
ragazza negra con un due pezzi giallo. Av ev a i
capelli lunghi e tenev a un prosciutto tra le m ani,
com e un trofeo. Accanto alla casa c'era un piccolo
garage quadrato e dav anti una m acchina enorm e,
bianca, senza il tetto e con i v etri neri.
— Che m acchina è? — ho chiesto.
— Una Cadillac. L'ho presa usata. È perfetta. Gli
ho dov uto rifare solo le gom m e —. Si è tolto la
cam icia. — E stato un buon affare.
— E chi è quella negra?
Si è steso sul letto. — Mia m oglie.
— Hai una m oglie negra?
— Sì. Quella v ecchia l'ho lasciata. Questa ha
v entitre anni. E un fiorellino. Si chiam a Sonia. E
se quello ti sem bra un prosciutto, ti sbagli, è
specie. Originale del Veneto. Gliel'ho portato
dall'Italia. In Brasile non esiste, è una raffinatezza.
E stata una rogna portarlo. M'hanno pure ferm ato
alla dogana. Lo v olev ano aprire, pensav ano che
dentro c'era la droga… Vabbe', spengo la luce, che
sono stanco.
Nella stanza è calato il buio. Sentiv o che
respirav a e facev a degli strani rum ori con la
bocca.
A un certo punto ha detto: — Non sai com e si sta
laggiù. La v ita non costa niente. Tutti che ti
serv ono. Non fai un cazzo tutto il giorno. Altro che
questo paese di m erda. Io con questo paese ho
chiuso.
Gli ho chiesto: — Dov e sta il Brasile?
— Lontano. Troppo lontano. Buona notte e sogni
d'oro.
— Buona notte.
8.
E tutto si è ferm ato.
Una fata av ev a addorm entato Acqua Trav erse.
I giorni seguiv ano uno dopo l'altro, bollenti, uguali
e senza fine.
I grandi non usciv ano più nem m eno la sera.
Prim a, dopo cena, m ettev ano fuori i tav oli e
giocav ano a carte. Ora se ne rim anev ano dentro.
Felice non si v edev a più. Papà se ne stav a tutto il
giorno a letto e parlav a solo con il v ecchio.
Mam m a cucinav a. Salv atore si era chiuso in casa.
Andav o sulla m ia nuov a bicicletta. Tutti
v olev ano prov arla. Il Teschio si facev a Acqua
Trav erse su una ruota sola. Io neanche due m etri.
Me ne stav o spesso per conto m io. Pedalav o oltre
il torrente secco, prendev o stradine polv erose tra i
cam pi che m i portav ano distante, dov e non c'era
più niente se non pali abbattuti e filo spinato
m angiato dalla ruggine. In lontananza le
m ietitrebbia rosse trem olav ano nelle onde di
calore che saliv ano dai cam pi.
Era com e se Dio av ev a tagliato i capelli a zero al
m ondo. Qualche v olta i cam ion con i sacchi di
grano passav ano per Acqua Trav erse lasciandosi
dietro scie di fum o nero.
Quando stav o in strada av ev o l'im pressione che
tutti osserv av ano quello che facev o. Mi parev a di
scorgere dietro le finestre la m adre di Barbara che
m i spiav a, il Teschio che m i indicav a e bisbigliav a
con Rem o, Barbara che m i sorridev a strana. Ma
anche quando stav o solo, seduto su un ram o del
carrubo o in bicicletta, quell'im pressione non m i
lasciav a. Anche quando m i apriv o un v arco nei
resti di quel m are di spighe destinato a essere
stipato nelle balle e intorno non av ev o che cielo,
m i parev a che m ille occhi m i guardav ano.
Non ci v ado, state tranquilli. L'ho giurato.
Ma la collina era là, e m i aspettav a.
Ho com inciato a fare la strada che portav a alla
fattoria di Melichetti. E ogni giorno, senza
renderm ene conto, ne facev o un pezzettino in più.
Filippo si era scordato di m e. Lo sentiv o.
Cercav o di chiam arlo con il pensiero.
Filippo? Filippo m i senti?
Non posso v enire. Non posso.
Non m i pensav a.
Forse era m orto. Forse non c'era più.
Un pom eriggio, dopo m angiato, m i sono m esso
sul letto a leggere. La luce prem ev a contro gli
scuri e filtrav a nella stanza bollente. Av ev o i grilli
nelle orecchie. Mi sono addorm entato con il
giornaletto di Tiram olla in m ano.
Ho sognato che era notte, m a io ci v edev o lo
stesso. Le colline si m uov ev ano nel buio. Si
spostav ano lente com e tartarughe sotto un
tappeto. Poi tutte insiem e spalancav ano gli occhi,
buchi rossi che si apriv ano nel grano, e si
sollev av ano, sicure di non essere v iste, e
div entav ano dei giganti fatti di terra e coperti di
spighe che av anzav ano ondeggiando sui cam pi e
m i v eniv ano addosso e m i seppelliv ano.
Mi sono risv egliato in un bagno di sudore. Sono
andato al frigo a prendere l'acqua. Vedev o i
giganti.
Sono uscito e ho preso la Scassona.
Ero dav anti al sentiero che portav a alla casa
abbandonata.
La collina era lì. Fosca, v elata dal caldo. Mi
sem brav a di scorgere due occhi neri nel grano,
proprio sotto la cim a, m a erano solo m acchie di
luce, delle pieghe del terreno. Il sole av ev a
com inciato a scendere e sm orzarsi. L'om bra della
collina copriv a lentam ente la pianura.
Potev o salire.
Ma la v oce di papà m i trattenev a. «Ascoltam i
bene. Se torni lì lo uccidono. Lo hanno giurato».
Chi? Chi lo av ev a giurato? Chi lo uccidev a?
Il v ecchio? No. Non lui. Lui non era abbastanza
potente.
Loro, i giganti di terra. I signori della collina.
Ora erano stesi nei cam pi ed erano inv isibili, m a
di notte si sv egliav ano e attrav ersav ano la
cam pagna. Se adesso andav o da Filippo, non
im portav a che era giorno, si sarebbero sollev ati
com e onde dell'oceano e sarebbero arriv ati lì e
av rebbero scaricato la loro terra nel buco e lo
av rebbero seppellito.
Torna indietro, Michele. Torna indietro, m i ha
detto la v ocina di m ia sorella.
Ho girato la bicicletta e m i sono lanciato nel
grano, tra le buche, pedalando com e un disperato
e sperando di passargli sopra la schiena a quei
m aledetti m ostri.
Ero nascosto sotto una roccia del torrente secco.
Sudav o. Le m osche non m i lasciav ano in pace.
Il Teschio li av ev a stanati tutti. Ero rim asto
solo io. Ora si facev a difficile. Dov ev o uscire di
corsa, senza ferm arm i m ai, tagliate il cam po di
stoppie, arriv are fino al carrubo e urlare: — Tana
libera tutti!
Ma il Teschio era lì, v icino all'albero, di punta
com e un segugio, e quando m i av rebbe v isto
correre si sarebbe lanciato pure lui e con quattro
falcate m i av rebbe fregato.
Dov ev o correre e basta, e se ce la facev o, bene, e
se non ce la facev o, chi se ne im portav a.
Stav o per m uov erm i, quando un'om bra nera
m i è calata addosso.
Il Teschio!
Era Salv atore. — Spostati, sennò m i v ede. E qui
v icino.
Gli ho fatto spazio e si è infilato sotto la roccia
pure lui.'
Senza v olere, m i è uscito: — Gli altri? —
— Li ha pigliati tutti. Siam o rim asti solo io e te.
Era la prim a v olta che ci parlav am o dal giorno
di Felice.
Il Teschio m i av ev a chiesto perché ci av ev o
litigato.
«Non abbiam o litigato. E che Salv atore m i sta
antipatico», av ev o risposto io.
Il Teschio m i av ev a poggiato un braccio sulle
spalle. «Brav o. Quello è uno stronzo».
Salv atore si è asciugato il sudore dalla fronte.
— Chi v a a fare tana?
— Vacci tu.
— Perché?
— Perché sei più v eloce.
— Io corro più v eloce se è lontano, m a fino al
carrubo sei più v eloce tu.
Sono stato zitto.
— Ho un'idea, — ha proseguito. — Usciam o
insiem e, tutti e due. Quando arriv a il Teschio io
m i m etto in m ezzo e tu corri al carrubo. Così lo
freghiam o . Che ne dici?
— E una buona idea. Solo che tana la faccio io e
tu perdi.
— Non fa niente. È l'unico m odo per fotterlo a
quel fesso.
Ho sorriso.
Mi ha guardato e m i ha allungato la m ano.
— Pace?
— Va bene —. Gliel'ho stretta.
— Lo sai che la Destani non sta più in classe
nostra? Quest'anno v iene una m aestra nuov a.
— Chi te l'ha detto?
— Mia zia ha parlato con il preside. Dice che è
bella. E forse non scassa com e la Destani.
Ho strappato un ciuffo d'erba. — Tanto per m e è
uguale.
— Perché?
— Perché ce ne andiam o v ia da Acqua
Trav erse. Salv atore m i ha guardato sorpreso. — E
dov e andate?
— Al Nord.
— Dov e?
Ho tirato lì. — A Pav ia.
— E dov e sta Pav ia?
Ho sollev ato le spalle. — Non lo so. Ma v iv rem o
in un palazzo, all'ultim o piano. E papà si com pra
pure la 1 3 1 Mirafiori. E v ado a scuola lì.
Salv atore ha preso un sasso e se l'è passato da
una m ano all'altra. — E non torni più?
— No.
— E non la v edi la m aestra?
Ho guardato a terra. — No. Ha sussurrato. — Mi
dispiace —. Mi ha guardato. — Pronto?
— Pronto.
— Allora andiam o. E non ti ferm are m ai. Al tre.
— Uno, due e tre, — e siam o scattati.
— Eccoli! Eccoli lì! — ha urlato Rem o,
appollaiato sul carrubo.
Ma il Teschio non ha potuto nulla, erav am o
troppo v eloci. Abbiam o sbattuto insiem e contro
l'albero e abbiam o strillato. — Tana libera tutti!
9.
Ci erav am o sv egliati e tutto era v elato di
grigio. Facev a caldo, era um ido, e sbuffi
im prov v isi d'aria sm uov ev ano l'afa. Nella notte
delle nuv ole grosse e nerv ose si erano accum ulate
sull'orizzonte e av ev ano com inciato ad av anzare
su Acqua Trav erse.
Siam o rim asti incantati a guardarle. Ci
erav am o dim enticati che dal cielo potev a scendere
acqua.
Ora stav am o sotto il capannone. Ero sdraiato
sui sacchi di grano, con la testa nelle m ani,
tranquillo, a guardare le v espe che costruiv ano un
alv eare. Gli altri si erano m essi seduti in cerchio
accanto all'aratro. Salv atore era sbracato sul
seggiolino di ferro del trattore, con i piedi poggiati
sul v olante.
Am av o quelle v espe. Rem o gli av ev a buttato
giù la casa a pietrate alm eno dieci v olte, m a quelle
testarde tornav ano sem pre a ricostruirla nello
stesso posto, all'angolo tra due tralicci e una
grondaia. Im pastav ano la paglia e il legno con la
saliv a e ci costruiv ano un alv eare che sem brav a
di cartone.
Gli altri chiacchierav ano, m a io non li stav o a
sentire. Il Teschio com e al solito parlav a a v oce
alta e Salv atore ascoltav a in silenzio.
Mi sarebbe piaciuto se si m ettev a a piov ere,
nessuno ne potev a più della siccità.
Ho sentito Barbara dire: — Perché non andiam o
a Lucignano a prendere il gelato? Ho i soldi.
— Ce l'hai pure per noi i soldi?
— No. Non bastano. Forse per due coppette.
— E allora che ci v eniam o a fare a Lucignano,
noi? A v edere te che ti riem pi di gelato e div enti
ancora più grossa?
Perché quelle v espe facev ano l'alv eare? Chi gli
av ev a insegnato a farlo?
«Lo sanno. È nella loro natura», m i av ev a
risposto papà una v olta che glielo av ev o chiesto.
Mia sorella m i si è av v icinata e ha detto: — Io
v ado a casa. Tu che fai?
— Sto qua.
— Vabbe'. Mi v ado a fare pane, burro e
zucchero. Ciao —. Se n'è andata seguita da Togo.
E qual era la m ia natura? Che sapev o fare io?
— Allora? — ha chiesto Rem o. — Facciam o una
partita a ruba bandiera?
Sapev o arram picarm i sul carrubo. Questo lo
sapev o fare bene e nessuno m e lo av ev a insegnato.
Il Teschio si è alzato, ha dato un calcio al
pallone e lo ha spedito dall'altra parte della strada.
— Ragazzi, ho una grande idea. Perché non
andiam o al posto dell'altra v olta?
Forse potev o raggiungere Maria e farm i una
fetta di pane, burro e zucchero pure io, m a non
av ev o fam e.
— Dov e?
— Sulla m ontagna.
— Quale m ontagna?
— Alla casa abbandonata. Dav anti alla fattoria
di Melichetti.
Mi sono v oltato. Il corpo im prov v isam ente si è
risv egliato, il cuore ha preso a m arciarm i nel
petto e lo stom aco si è strizzato.
Barbara era poco conv inta. — Che ci andiam o a
fare? È lontano. E se si m ette a piov ere?
Il Teschio le ha fatto il v erso. — E se si m ette a
piov ere? Ci bagnam o! E poi nessuno ti ha chiesto di
v enire.
Neanche Rem o sem brav a entusiasta. — Che ci
andiam o a fare?
— Esploriam o la casa. L'altra v olta ci è entrato
solo Michele.
Rem o m i ha detto qualcosa.
L'ho guardato. — Cosa? Non ho capito?
— Che c'è dentro la casa? — m i ha chiesto.
— Com e?
— Che c'è dentro la casa?
Non riusciv o a parlare, non av ev o più saliv a.
Ho balbettato. — Niente… Non lo so… — Av ev o la
sensazione che un liquido gelato m i scendev a dalla
testa, nel collo e lungo i fianchi. — Un po' di m obili
v ecchi, una cucina, roba così.
Il Teschio ha chiesto a Salv atore: — Andiam o?
— No, non m i v a, — Salv atore ha scosso la testa.
— Barbara ha ragione, è lontano.
— Io ci v ado. Ci possiam o fare la nostra base
se g r e t a —. Il Teschio ha preso la bicicletta
appoggiata al trattore. — Chi v uole v enire v iene.
Chi non v uole v enire, non v iene —. Ha dom andato
a Rem o:
— Tu che fai?
— Vengo —, Rem o si è alzato e ha chiesto a
Barbara: — Tu v ieni?
— Se non si fanno gare.
— Niente gare, — ha assicurato il Teschio e ha
dom andato di nuov o a Salv atore. — Tu allora non
v ieni?
Io aspettav o, senza dire niente.
— Io sto con Michele, — ha fatto Salv atore, e
guardandom i negli occhi m i ha chiesto: — Tu che
fai, ci v ai?
Mi sono m esso in piedi e ho detto: — Sì, ci v ado.
Salv atore è saltato giù dal trattore. — Va bene,
andiam o.
Av anzav am o di nuov o, tutti quanti, com e la
prim a v olta, v erso la collina.
Pedalav am o in fila indiana. Mancav a solo m ia
sorella.
C'era un'atm osfera pesante e il cielo av ev a un
colore innaturale, scarlatto. Le nuv ole, prim a
am m assate sull'orizzonte, ora si accalcav ano sopra
di noi e si spingev ano una contro l'altra com e orde
di Unni prim a della battaglia. Erano grosse e cupe.
Il sole era opaco e torbido com e se un filtro lo
scherm asse. Non facev a né caldo né freddo, m a
tirav a v ento. Ai lati della strada e sui cam pi la
paglia era chiusa nelle balle, disposte com e pedine
su una scacchiera. Dov e non era passata la
m ietitrebbia, si form av ano lunghe onde che
spettinav ano il grano.
Rem o guardav a preoccupato l'orizzonte. — Ora
si m ette a piov ere.
Più m i av v icinav o alla collina più m i sentiv o
m ale. Un peso m i prem ev a sullo stom aco. I resti
della colazione si rotolav ano nella pancia. Mi
m ancav a l'aria e un v elo di sudore m i bagnav a la
schiena e il collo.
Che stav o facendo? Ogni pedalata era un pezzo
di giuram ento che si sbriciolav a.
«Ascoltam i, Michele, non ci dev i tornare più.
Se torni lì, lo uccidono. Per colpa tua».
«Non ci torno più».
«Giuralo sulla m ia testa».
«Te lo giuro».
«Di', giuro sulla tua testa che non ci torno più».
«Giuro sulla tua testa che non ci torno più».
Stav o rom pendo il giuram ento, andav o da
Filippo e se m i trov av ano lo av rebbero
am m azzato.
Volev o tornare indietro, m a le gam be
pedalav ano e una forza irresistibile m i trascinav a
v erso la collina.
Un tuono lontano ha lacerato il silenzio.
— Torniam o a casa, — ha detto Barbara com e se
av esse sentito i m iei pensieri.
Ho boccheggiato. — Sì, torniam o a casa.
Il Teschio ci è passato accanto sghignazzando. —
Se v i cagate sotto per un po' d'acqua, andate a
casa, che è m eglio.
Io e Barbara ci siam o guardati e abbiam o
continuato a spingere.
Il v ento crescev a. Alitav a sui cam pi e sollev av a
la pula in aria. Era dura tenere le biciclette dritte,
le raffiche ci spingev ano fuori dalla strada.
— Eccoci. Era lontano, eh? — ha detto il Teschio
sgom m ando sul pietrisco.
Il sentiero che portav a alla casa era lì dav anti.
Salv atore m i ha guardato e m i ha chiesto: —
Andiam o?
— Sì, andiam o.
Abbiam o com inciato la salita. Faticav o a stare
al passo con gli altri. Red Dragon era una
fregatura. Non lo v olev o am m ettere, m a era così.
Se ti tirav i su, ti trov av i il m anubrio in bocca e se
cam biav i m arcia, se ne usciv a la catena. Per non
rim anere indietro dov ev o usare il rapporto più
duro.
Dai cam pi, alla nostra destra, si è alzato uno
storm o di corv i. Gracchiav ano e v olteggiav ano ad
ali spiegate, trascinati dalle correnti.
Il sole era inghiottito dal grigio e di colpo
sem brav a sera. Un tuono. Un altro. Ho guardato le
nuv ole che rotolav ano e si av v olgev ano una
sull'altra. Una ogni tanto s'illum inav a com e se
dentro ci fosse esploso un fuoco d'artificio.
Stav a arriv ando il tem porale.
E se Filippo era m orto?
Un cadav ere bianco accucciato in fondo a un
buco. Coperto di m osche e gonfio di larv e e v erm i;
le m ani rinsecchite e le labbra dure e grigie.
No, non era m orto.
E se non m i riconoscev a? Se non m i v olev a più
parlare?
«Filippo, sono Michele. Sono tornato. Te lo
av ev o giurato, sono tornato».
«Tu non sei Michele. Michele è m orto. E sta in
un buco com e m e. Vattene».
Dav anti a noi si è schiusa la v alletta.. Era cupa
e silenziosa. Gli uccelli e i grilli tacev ano.
Quando siam o passati tra le querce una goccia
grossa e pesante m i ha colpito la fronte, un'altra il
braccio e un'altra la spalla e il tem porale ci si è
rov esciato addosso. Ha com inciato a piov ere fitto e
teso. L'acquazzone sferzav a le cim e degli alberi e il
v ento soffiav a tra i ram i, fischiav a tra le foglie e la
terra si succhiav a l'acqua com e una spugna secca
e le gocce rim balzav ano contro la terra asciutta e
spariv ano e i fulm ini cadev ano sui cam pi.
— Ripariam oci! — ha urlato il Teschio. —
Corriam o.
Correv am o, m a tanto erav am o già zuppi. Ho
rallentato, se v edev o la 1 2 7 o qualcosa di strano,
m e la dav o a gam be.
Macchine non ce n'erano e non ho notato niente
di strano.
Si sono infilati dentro la stalla. Il buco era là,
dietro i rov i, v olev o correre e scoperchiarlo e
v edere Filippo, m a m i sono costretto a seguirli.
Gli altri erano in piedi e saltav ano, eccitati dal
tem porale. Ci siam o tolti le m agliette e le abbiam o
strizzate. Barbara era obbligata a tirarsi in av anti
la cam icia, sennò le si v edev ano le tette.
Tutti ridev ano nerv osi e si m assaggiav ano le
braccia
infreddolite,
e guardav ano fuori.
Sem brav a che il cielo si fosse bucato. Nel fragore
dei tuoni, i lam pi univ ano le nuv ole con la terra. Il
piazzale, in pochi m inuti, si è riem pito di
pozzanghere e dai fianchi della v alle colav ano
rigagnoli sporchi di terra rossa.
Filippo dov ev a m orirsi di paura. Tutta
quell'acqua si infilav a dentro il buco e se non
sm ettev a presto potev a annegarlo. Il rum ore della
pioggia sulla lastra lo stav a assordando.
Dov ev o andare da lui.
— Sopra c'è una m oto, — ho sentito che dicev a là
m ia v oce.
Si sono girati tutti a guardarm i.
— Sì, c'è una m oto…
Il Teschio è saltato in piedi com e se si fosse
seduto su un form icaio. — Una m otocicletta?
— Sì.
— Dov e sta?
— Al piano di sopra. Nell'ultim a stanza.
— E che ci fa?
Ho sollev ato le spalle. — Non lo so.
— Secondo te v a ancora?
— Potrebbe.
Salv atore m i ha guardato, av ev a un sorriso
beffardo sulle labbra. — E perché non ce lo hai
detto m ai?
Il Teschio ha storto la testa. — Giusto! Perché
non ce lo hai detto, eh?
Ho inghiottito. — Perché non m i andav a. Av ev o
fatto la penitenza.
Un lam po di com prensione gli ha attrav ersato
gli
occhi. — Andiam ola a v edere. Pensa se
funziona…
Il Teschio, Salv atore e Rem o si sono gettati fuori
dalla stalla, di corsa, riparandosi la testa con le
m ani e spintonandosi dentro le pozzanghere.
Barbara si è av v iata, m a si è ferm ata sotto la
pioggia. — Tu non v ieni?
— Arriv o. Tu v ai.
L'acqua le av ev a lisciato i capelli che le
cadev ano giü com e spaghetti sporchi. — Non v uoi
che ti aspetto?
— No, v ai. Arriv o subito.
— Va bene —. Si è m essa a correre.
Ho fatto il giro della casa e sono passato tra í
rov i. Il cuore m i battev a nei tim pani e le gam be
m i si piegav ano. Sono entrato nel piazzale. Si era
trasform ato in un pantano frustato dalla pioggia.
Il buco era aperto.
Non c'era più la lastra v erde e nem m eno il
m aterasso.
L'acqua m i colav a addosso, m i sciv olav a dentro
i pantaloncini e le m utande e i capelli m i si
incollav ano alla fronte e il buco era li, una bocca
nera nella terra scura, e io m i av v icinav o,
respirav o appena, stringev o i pugni, m entre
intorno a m e il cielo cadev a e ondate di dolore
incandescente m i av v olgev ano la gola.
Ho chiuso e riaperto gli occhi sperando che
qualcosa cam biasse.
Il buco era ancora lì. Nero com e il buco di un
lav andino.
Barcollando, m i sono av v icinato. I piedi nel
fango. Mi sono passato una m ano sulla faccia per
asciugarm ela. Quasi crollav o a terra, m a
continuav o ad av anzare.
Non c'è. Non guardare. Vattene v ia.
Mi sono ferm ato.
Vai. Vai a v edere.
Non ce la faccio.
Mi sono guardato i sandali coperti di m elm a.
Fai un passo, m i sono detto. L'ho fatto. Fanne un
altro. L'ho fatto. Brav o. Un altro e un altro ancora.
E ho v isto l'orlo del buco dav anti ai m iei piedi.
Ci sei.
Ora bisognav a solo guardarci dentro.
Ho av uto la certezza che lì dentro non c'era più
nessuno.
Ho sollev ato la testa e ho guardato.
Era così. Non c'era più niente. Nem m eno il
secchio e il pentolino. Solo acqua sporca e una
coperta zuppa.
Se lo erano portati v ia. Senza dirm i niente.
Senza av v ertirm i.
Se n'era andato e io non lo av ev o nem m eno
salutato.
Dov e stav a? Non lo sapev o, m a sapev o che era
m io e che m e lo av ev ano portato v ia.
— Dov e sei? — ho urlato alla pioggia.
Sono caduto in ginocchio. Ho im m erso le dita
nel fango e l'ho strizzato nelle m ani.
— La m oto non esiste. Mi sono v oltato.
Salv atore.
Era in piedi. A qualche m etro da m e, la cam icia
zuppa, i pantaloni sporchi di fango. — La m oto non
esiste, v ero?
Ho gorgogliato un no.
Ha indicato il buco. — Stav a là?
Ho fatto segno di sì con la testa, e ho balbettato.
— Lo hanno portato v ia.
Salv atore si è av v icinato, ha guardato dentro e
m i ha fissato. — Io lo so dov e sta.
Ho sollev ato lentam ente il capo. — Dov e sta?
— Sta da Melichetti. Giù nella grav ina.
— Com e lo sai?
— L'ho sentito ieri. Papà parlav a con tuo padre e
con quello di Rom a. Mi sono m esso dietro la porta
dello studio e li ho sentiti. Lo hanno spostato. Lo
scam bio non è riuscito, hanno detto —. Si è tirato
indietro la frangetta bagnata. — Hanno detto che
questo posto non è più sicuro.
Il tem porale è passato.
Veloce, così com e era scoppiato.
Era distante oram ai. Una m assa scura che
av anzav a sulla cam pagna inzuppandola e
proseguiv a per la sua strada.
Scendev am o per il sentiero.
L'aria era così pulita che lontano, oltre la
pianura ocra, si v edev a una strisciolina v erde. Il
m are. Era la prim a v olta che lo v edev o da Acqua
Trav erse.
L'acquazzone av ev a lasciato un odore di erba e
terra bagnata e un poco di fresco. Le nuv ole
rim aste nel cielo erano bianche e sfilacciate e lam e
di un sole accecante tagliav ano la pianura. Gli
uccelli av ev ano ripreso a cantare, sem brav a ci
fosse una gara canora.
Al Teschio av ev o detto che gli av ev o fatto uno
scherzo.
— Bello scherzo del cazzo, — av ev a risposto.
Ho av uto il presentim ento che nessuno ci
sarebbe più salito su quella collina, era troppo
lontana, e non c'era niente di bello in quel v ecchio
rudere. E quella v alletta nascosta portav a m ale.
Filippo era finito da Melichetti con i m aiali,
perché lo scam bio non era riuscito e perché il buco
non era più sicuro, così av ev ano detto. E non
c'entrav ano niente i signori della collina e i m ostri
che m i inv entav o io.
«Piantala con questi m ostri, Michele. I m ostri
non esistono. Dev i av ere paura degli uom ini, non
dei m ostri». Così m i av ev a detto papà.
Era colpa sua. Non lo av ev a m ollato e non lo
av rebbe m ollato m ai.
I gatti quando catturano le lucertole ci giocano,
ci giocano pure se la lucertola è tutta aperta e con
le budella di fuori e senza la coda. La inseguono
calm i, si siedono e la colpiscono e ci si div ertono
fino a quando la lucertola non m uore, e quando è
m orta la toccano appena con la zam pa, com e se gli
facesse schifo, e quella non si m uov e più e allora la
guardano e se ne v anno.
Un rom bo assordante, un frastuono m etallico
ha spezzato la quiete e ha coperto tutto.
Barbara ha urlato indicando il cielo. —
Guardate! Guardate!
Da dietro la collina sono apparsi due elicotteri.
Due libellule di ferro, due grosse libellule blu con
scritto sui fianchi Carabinieri.
Si sono abbassati su di noi e noi abbiam o
com inciato a sbracciarci e a urlare, si sono
affiancati, hanno girato nello stesso m om ento,
com e se ci v olessero far v edere quanto erano
brav i, e poi hanno planato sui cam pi, sono v olati
sopra Acqua Trav erse e sono scom parsi
all'orizzonte.
I grandi non c'erano più.
Le m acchine stav ano lì, m a loro non c'erano. Le
case v uote, le porte aperte. Correv am o tutti da
una casa all'altra. Barbara era agitata. — Da te c'è
qualcuno? —No. E da te?
— Nem m eno.
— Dov e sono? — Rem o av ev a il fiatone. — Ho
guardato pure nell'orto.
— Che facciam o? — ha chiesto Barbara. Ho
risposto: — Non lo so.
Il Teschio cam m inav a al centro della strada,
con le m ani in tasca e lo sguardo truce, com e un
pistolero in un v illaggio fantasm a. — Chi se ne
frega. Meglio. Aspettav o da tanto tem po che se ne
andav ano tutti a fare in culo —. E ha sputato.
— Michele!
Mi sono v oltato.
Mia sorella era in m utande e canottiera, fuori
dal capannone, con le sue Barbie in m ano e con
Togo che la seguiv a com e un'om bra.
Sono corso da lei. — Maria! Maria! Dov e stanno i
grandi?
Mi ha risposto tranquilla. — A casa di
Salv atore.
— Perché?
Ha indicato il cielo. — Gli elicotteri.
— Com e?
— Sì, sono passati gli elicotteri, e dopo sono
usciti tutti in strada e urlav ano e sono andati a
casa di Salv atore.
— Perché?
— Non lo so.
Mi sono guardato intorno. Salv atore non c'era
più.
— E tu che ci fai qui?
— Mam m a ha detto che dev o aspettare qui. Mi
ha chiesto dov 'eri andato.
— E tu che le hai detto?
— Che eri andato sulla m ontagna.
I grandi sono rim asti a casa di Salv atore tutta
la sera.
Noi aspettav am o nel cortile, seduti sul bordo
della fontana.
— Quando finiscono? — m i ha chiesto Maria per
la centesim a v olta.
E io per la centesim a v olta le ho risposto: — Non
lo so.
Ci av ev ano detto di aspettare, stav ano
parlando.
Barbara saliv a le scale e bussav a alla porta
ogni cinque m inuti, m a nessuno apriv a. Era
pr eoccu pata. — Ma di che parlano per così tanto
tem po?
— Non lo so.
Il Teschio se n'era andato insiem e a Rem o.
Salv atore era dentro, di sicuro rintanato in
cam era sua.
Barbara m i si è seduta accanto. — Ma che sta
succedendo?
Ho sollev ato le spalle.
Mi ha guardato. — Che hai?
— Niente. Sono stanco.
— Barbara! — Angela Mura era affacciata alla
finestra. — Barbara, v ai a casa.
Barbara ha chiesto: — Quando v ieni?
— Presto. Corri.
Barbara ci ha salutato e se n'è andata m ogia
m ogia.
— Mia m am m a quando esce? — ha chiesto
Maria ad Angela Mura.
Ci ha guardato e ha detto: — Andate a casa e
m angiate da soli, arriv a presto —. Ha richiuso la
finestra.
Maria ha fatto no con la testa. — Io non ci v ado,
io aspetto qua.
Mi sono alzato. — Andiam o, che è m eglio.
— No!
— Forza. Dam m i la m ano.
Ha incrociato le braccia. — No! Io rim ango qui
tutta la notte, non m i im porta.
— Dam m i la m ano, su.
Si è aggiustata gli occhiali e si è m essa in piedi.
— Io però non dorm o.
— E non dorm ire.
E, m ano nella m ano, siam o tornati a casa.
10.
Urlav ano così forte che ci hanno sv egliato.
Ci erav am o abituati a tutto. Alle riunioni
notturne, al rum ore, alla v oce alta, ai piatti rotti,
m a ora urlav ano troppo.
— Perché strillano così? — m i ha chiesto Maria
stesa sul suo letto.
— Non lo so.
— Che ore sono?
— Tardi.
Era notte fonda, la stanza era buia ed erav am o
in cam era nostra, sv egli com e grilli.
— Falli sm ettere, — si è lam entata Maria. — Mi
dànno fastidio. Digli di strillare più piano.
— Non posso.
Cercav o di capire che dicev ano, m a le v oci si
m ischiav ano.
Maria m i si è sdraiata accanto. — Ho paura.
— Loro hanno paura.
— Perché?
— Perché urlano.
Quelle urla erano com e i soffi dei ram arri.
I ram arri quando non possono più scappare e li
stai per prendere, spalancano la bocca, si gonfiano
e soffiano e cercano di farti paura perché loro
hanno più paura di te, tu sei il gigante, e l'ultim a
cosa che gli rim ane è cercare di spav entarti. E se
tu non lo sai che sono buoni, che non fanno niente,
che è una finta, non li tocchi.
Si è aperta la porta.
Per un istante la stanza si è illum inata. Ho
v isto la figura nera di m am m a, e dietro il v ecchio.
Mam m a ha richiuso la porta. — Siete sv egli?
— Sì, — le abbiam o risposto.
Ha acceso la luce sul com odino. In m ano
stringev a un piatto con del pane e del form aggio.
Si è seduta sul bordo del letto. — Vi ho portato da
m a ngia r e —. Parlav a piano, con la v oce stanca.
Av ev a le occhiaie, i capelli in disordine ed era
sciupata. — Mangiate e m ettetev i a dorm ire.
— Mam m a…? — ha detto Maria.
Mam m a ha poggiato il piatto sulle ginocchia. —
Che c'è?
— Che succede?
— Niente —. Mam m a cercav a di tagliare il
form aggio, m a la m ano le trem av a. Non era
brav a a recitare. — Ora m angiate e poi… — Si è
piegata, ha poggiato il piatto a terra e si è m essa
una m ano in faccia e ha com inciato a piangere in
silenzio.
— Mam m a… Mam m a… Perché piangi? — Maria
è scoppiata a singhiozzare.
Anch'io sentiv o un groppo che m i si gonfiav a
nella gola. Ho detto: — Mam m a? Mam m a?
Ha sollev ato la testa e m i ha guardato con gli
occhi rossi e lucidi. — Che c'è?
— E m orto, v ero?
Mi ha dato uno schiaffo sulla guancia e m i ha
sbatacchiato com e se fossi di pezza. — Nessuno è
m orto! Nessuno è m orto! Capito? — Ha fatto una
sm orfia di dolore e ha sussurrato. — Tu sei troppo
piccolo… — Ha spalancato la bocca e m i ha stretto
al petto.
Ho com inciato a piangere.
Ora piangev am o tutti.
Di là il v ecchio urlav a.
Mam m a l'ha sentito e si è scostata da m e. — Ora
basta! — Si è asciugata le lacrim e. Ci ha dato due
fette di pane. — Mangiate.
Maria ha affondato i denti nel pane, m a non
potev a ingoiare, scossa com 'era dai singhiozzi.
Mam m a le ha strappato la fetta dalle m ani.
— Non av ete fam e? Non fa niente —. Ha preso il
piatto. — Mettetev i giù —. Ha tirato v ia i cuscini e
ha spento la luce. — Se v i danno fastidio i rum ori,
infilate la testa qua sotto. Forza! — Ce li ha
poggiati sul capo.
Ho prov ato a liberarm i. — Mam m a, ti prego.
Non respiro.
— Ubbidite! — Ha ringhiato e ha prem uto forte.
Maria era disperata, sem brav a che la stav ano
sgozzando.
— Finiscila! — Mam m a ha urlato cosi forte, che
per un istante pure di là hanno sm esso di litigare.
Ho av uto paura che la picchiav a.
Maria si è azzittita.
Se ci m uov ev am o, se parlav am o, m am m a
ripetev a com e un disco rotto: — Sssst! Dorm ite.
Io ho fatto finta di dorm ire e ho sperato che
anche Maria facesse lo stesso. E dopo un po' si è
placata pure lei.
Mam m a è rim asta così per tanto tem po, ero
sicuro che sarebbe stata tutta la notte con noi, m a
si è alzata. Pensav a che dorm iv am o. Ha chiuso la
porta ed è uscita.
Ci siam o tolti i cuscini. Era buio, m a il riflesso
fioco del lam pione in strada rischiarav a la stanza.
Mi sono alzato.
Maria si è m essa a sedere, si è infilata gli
occhiali e, tirando su con il naso, m i ha chiesto: —
Che fai?
Mi sono poggiato un dito sul naso. — Zitta.
Ho m esso l'orecchio sulla porta.
Continuav ano a discutere, più piano ora.
Sentiv o la v oce di Felice e del v ecchio, m a non
capiv o niente. Ho prov ato a guardare dal buco
della serratura, m a si v edev a il m uro.
Ho afferrato la m aniglia.
Maria si è m orsa la m ano. — Che fai, sei pazzo?
— Zitta! — Ho aperto uno spiraglio.
Felice era in piedi, v icino alla cucina. Addosso
portav a una tuta v erde, la zip abbassata fin sotto
le costole lasciav a scorgere i pettorali gonfi. Av ev a
lo sguardo fisso e la bocca socchiusa sui dentini da
latte. Si era rapato i capelli a zero.
— Io? — ha detto m ettendosi una m ano sul
petto.
— Sì, tu, — ha fatto il v ecchio. Era seduto a
tav ola, con una gam ba poggiata su un ginocchio,
una sigaretta tra le dita e un sorriso perfido sulla
bocca.
— Io sarei frocio? Recchione? — ha chiesto
Felice.
Il v ecchio ha conferm ato. — Esattam ente.
Felice ha storto la testa. — E… E com e lo av resti
scoperto?
— Si v ede da tutto. Sei frocio. Non c'è niente da
fare. E… — Il v ecchio ha fatto un tiro. — Lo sai qual
è la cosa peggiore?
Felice ha aggrottato le sopracciglia, interessato.
— No, qual è?
Sem brav ano due am ici che si fanno confidenze
segrete.
Il v ecchio ha spento la cicca nel piatto. — E che
non lo sai. Questo è il tuo problem a. Sei nato frocio
e non lo sai. Hai una certa età, non sei più un
pischello. Renditi conto. Staresti m eglio. Faresti
quello che fanno i froci, ossia prenderlo in culo.
Inv ece ci fai il duro, ci fai l'uom o, parli e straparli,
m a tutto quello che fai e dici suona falso, suona
frocio.
Papà stav a in piedi e sem brav a seguire il
discorso, m a era da un'altra parte. Il barbiere era
poggiato alla porta com e se la casa dov esse cadere
da un m om ento all'altro e m am m a, seduta sul
div ano, guardav a, con un'espressione v uota, la
telev isione con il v olum e a zero. Il lam padario era
av v olto da una nube di m oscerini che cadev ano
neri e stecchiti sui piatti bianchi.
— Ascoltatem i, ascoltatem i, ridiam oglielo.
Ridiam oglielo, — se n'è uscito papà all'im prov v iso.
Il v ecchio lo ha guardato, ha scosso la testa e ha
sorriso. — Tu sta' buono, che è m eglio.
Felice ha guardato papà, poi si è av v icinato al
v ecchio. — Io sarò pure recchione, m a tu intanto,
pezzo di m erda di un rom ano, ti prendi questo
cazzotto —. Ha sollev ato un braccio e gli ha dato un
pugno in bocca.
Il v ecchio è stram azzato a terra.
Ho fatto due passi indietro e m i sono m esso le
m ani nei capelli. Felice av ev a picchiato il v ecchio.
Ho com inciato a trem are e m i è salito su il v om ito,
m a non ho potuto fare a m eno di tornare a
guardare.
In cucina, papà urlav a. — Che cazzo fai? Sei
im pazzito? — Av ev a afferrato Felice per un braccio
e cercav a di tirarlo v ia.
— Mi ha detto che sono recchione, questo
bastardo. .. — Felice stav a per m ettersi a frignare.
— Io lo am m azzo…
Il v ecchio era a terra. Mi facev a pena. Volev o
aiutarlo e non potev o. Tentav a di risollev arsi, m a
gli sciv olav ano i piedi sul pav im ento e le braccia
non lo sostenev ano. Dalla bocca gli colav a sangue
e saliv a. Gli occhiali che portav a sulla testa ora
stav ano sotto il tav olo. Continuav o a guardargli
quei polpacci bianchi, secchi e senza peli che
spuntav ano dai pantaloni di tela azzurra. Si è
attaccato con le m ani al bordo del tav olo e
lentam ente si è tirato su e si è m esso in piedi. Ha
preso un tov agliolo e se l'è prem uto sulla bocca.
Mam m a piangev a sul div ano. Il barbiere era
inchiodato alla porta com e se av esse v isto il
diav olo.
Felice ha fatto due passi v erso il v ecchio
nonostante papà cercasse di trattenerlo. — Allora?
Secondo te questo è un pugno di un recchione, eh?
Dim m i un'altra v olta che sono recchione e giuro
che da terra non ti rialzi m ai più.
Il v ecchio si è seduto su una sedia e con il
tov agliolo si tam ponav a uno spacco enorm e sul
labbro. Poi ha sollev ato la testa e ha guardato fisso
Felice, e ha detto con v oce ferm a: — Se sei un uom o
dim ostralo, allora —. Un lam po m alv agio gli è
balenato nello sguardo. — Av ev i detto che lo facev i
tu e ti sei rim angiato tutto. Com e dicev i? Io lo apro
com e un agnello, non c'è problem a, io non ho
paura. Io sono paracadutista. Io qua, io là.
Chiacchierone, sei solo un chiacchierone. Sei
peggio di un cane, non sei buono nem m eno a fare
la guardia a un bam bino —. Ha sputato un fiotto di
sangue sul tav olo.
— Pezzo di m erda! — ha piagnucolato Felice
trascinandosi dietro papà. — Io non lo faccio!
Perché lo dev o fare io, perché? — Sulle guance
sbarbate gli scendev ano due riv oli di lacrim e.
— Aiutam i! Aiutam i! — ha urlato papà al padre
di Barbara. E il barbiere si è av v entato su Felice.
In due riusciv ano a m alapena a tenerlo ferm o.
— Io non lo faccio, stronzo! — ha ripetuto Felice.
— Io non ci v ado in galera per te. Scordatelo!
Ora lo uccide, m i sono detto.
Il v ecchio si è m esso in piedi. — Lo faccio io,
allora. Ma sta' tranquillo, che tanto se m e ne
scendo io, te ne scendi pure tu. Ti porto giù con
m e, pezzente. Ci puoi stare sicuro.
— Mi porti dov e, rom ano di m erda? — Felice si è
fatto av anti a testa bassa. Papà e il barbiere hanno
cercato di trattenerlo m a lui se li è scrollati di
dosso com e forfora e si è av v entato di nuov o sul
v ecchio.
Il v ecchio ha tirato fuori la pistola dai pantaloni
e gliel'ha poggiata sulla fronte. — Prov a a colpirm i
un'altra v olta. Prov aci. Fallo, dài. Ti prego, fallo…
Felice si è im m obilizzato, com e se giocasse a un
due tre stella.
Papà si è m esso in m ezzo. — State calm i, basta!
Av ete rotto i coglioni tutti e due —. E li ha div isi.
— Prov aci! Il v ecchio si è cacciato la pistola sotto
la cinta. Sulla fronte di Felice è rim asto un
cerchietto rosso.
Mam m a, seduta in un angolo, piangev a e
ripetev a con la m ano sulla bocca: — Piano! Fate
piano! Fate piano! Fate piano!
— Perché gli v uole sparare? Mi sono v oltato.
Maria si era alzata e stav a alle m ie spalle.
— Torna a letto, — le ho urlato sottov oce. Ha
fatto di no con la testa.
— Maria, torna a letto!
Mia sorella ha strizzato la bocca e ha fatto no.
Ho sollev ato una m ano, stav o per darle un
ceffone, m a m i sono trattenuto. — Torna a letto e
non prov are a piangere.
Ha ubbidito.
Papà intanto era riuscito a m etterli seduti. Lui
inv ece continuav a a cam m inare, con gli occhi
lucidi, una luce folle gli si era accesa dentro.
— Basta. Facciam o la conta. Quanti siam o?
Quattro. Alla fine, di tutti quelli che erav am o,
siam o rim asti in quattro. I più fessi. Meglio. Chi
perde lo am m azza. E tanto facile.
— E si piglia l'ergastolo, — ha detto il barbiere
m ettendosi una m ano sulla fronte.
— Brav o! — Il v ecchio battev a le m ani. — Vedo
che com inciam o a ragionare.
Papà ha preso una scatola di fiam m iferi e l'ha
m ostrata a tutti. — Ecco qua. Facciam o un gioco.
Lo conoscete il tocco del soldato?
Ho chiuso la porta.
Conoscev o quel gioco.
Nel buio ho trov ato la m aglietta e i pantaloni e
m e li sono infilati. Dov 'erano finiti i sandali?
Maria era sul letto e m i guardav a. — Che fai?
— Niente —. Erano in un angolo.
— Dov e stai andando?
Me li sono infilati. — In un posto.
— La sai una cosa, tu sei cattiv o, m olto cattiv o.
Sono salito sul letto e da lì sul dav anzale. — Che
fai?
Ho guardato di sotto. — Vado da Filippo —. Papà
av ev a parcheggiato il Lupetto sotto la nostra
finestra, per fortuna.
— Chi è Filippo?
— È un am ico m io.
Era alto e il telone era m arcio. Papà dicev a
sem pre che ne dov ev a com prare uno nuov o. Se ci
fossi caduto sopra di piedi si sarebbe strappato e m i
sarei schiantato sul pianale del cam ion.
— Se lo fai lo dico a m am m a.
L'ho guardata. — Stai tranquilla. C'è il cam ion.
Tu dorm i. Se v iene m am m a… — Che dov ev a dirle?
— Dille… Dille quello che ti pare.
— Ma si arrabbia.
— Non im porta —. Mi sono fatto il segno della
croce, ho trattenuto il respiro, ho fatto un passo e
m i sono lasciato cadere a braccia aperte.
Sono finito di schiena al centro del telone senza
farm i neanche un graffio. Reggev a.
Maria si è affacciata alla finestra. — Torna
presto, ti prego.
— Torno subito. Non ti preoccupare —. Sono
salito sulla cabina di guida e da lì sono sceso a
terra.
La strada era tetra, com e quella notte senza
stelle. Le case erano scure e silenziose. Le uniche
finestre illum inate erano quelle di casa m ia. Il
lam pione v icino alla fontana era circondato da
una palla di m oscerini.
Il cielo si era coperto di nuov o e Acqua Trav erse
era av v olta da una coltre nera e spessa di tenebre.
Ci dov ev o entrare dentro per arriv are alla fattoria
di Melichetti.
Dov ev o farm i coraggio.
Tiger Jack. Pensa a Tiger Jack,
L'indiano m i av rebbe aiutato. Prim a di fare
una m ossa, dov ev o pensare a cosa av rebbe fatto
l'indiano al posto m io. Questo era il segreto.
Sono corso dietro casa a prendere la bicicletta. Il
cuore già m i m artellav a il petto.
Red Dragon era poggiata tutta spav alda e
colorata sulla Scassona.
Stav o per prenderla, m a m i sono detto, che sono
im pazzito? Con questo trabiccolo cretino dov e
v ado?
Volav o sulla v ecchia Scassona.
Mi incitav o. — Vai, Tiger, v ai.
Ero im m erso nell'inchiostro. La strada la
v edev o appena e quando non la v edev o, m e la
im m aginav o. Ogni tanto il bagliore fiacco della
luna riusciv a a diffondersi nella trapunta di
nuv ole che copriv a il cielo e allora scorgev o per
qualche istante i cam pi e le sagom e nere delle
colline ai lati della carreggiata.
Stringev o i denti e contav o le pedalate.
Uno, due, tre, respiro…
Uno, due, tre, respiro…
Le gom m e frusciav ano sul pietrisco. Il v ento m i
si appiccicav a in faccia com e un panno caldo.
Il richiam o stridulo di una civ etta, l'abbaio di
un cane lontano. C'era silenzio. Ma sentiv o lo stesso
i loro bisbigli nelle tenebre.
Me li im m aginav o ai bordi della strada, degli
esseri piccoli, con le orecchie da v olpe e gli occhi
rossi, che m i osserv av ano e discutev ano tra loro.
Guarda! Guarda, un ragazzino!
Che ci fa di notte da queste parti?
Pigliam olo!
Sì, sì, sì, è buono… Pigliam olo!
E dietro c'erano i signori delle colline, i giganti
di terra e spighe che m i seguiv ano, aspettando solo
che finiv o fuori strada per v enirm i sopra e
seppellirm i. Li sentiv o respirare. Facev ano lo
stesso suono del v ento nel grano.
Il segreto era rim anere al centro della strada,
m a dov ev o essere pronto a tutto.
Lazzaro non av ev a paura di niente.
Lo v edrai, m i sono detto.
Nella notte Lazzaro era lum inoso. Si accendev a
e si spegnev a com e l'insegna del bar La Perla di
Lucignano. E quando si accendev a si v edev ano le
form iche cam m inargli nelle v ene. Non andav a
v eloce, di questo ero sicuro, e se si fosse m esso a
correre sarebbe caduto a pezzi. L'im portante era
passargli a lato, senza ferm arsi, senza rallentare.
— Filippo… sto arriv ando… Filippo… arriv o… —
m i ripetev o ansim ando di fatica.
Mentre m i av v icinav o alla fattoria un terrore
nuov o, ancora più soffocante, m i crescev a dentro.
Sulla nuca av ev o i capelli dritti com e aghi.
I m aiali di Melichetti.
I signori delle colline e com pagnia bella m i
terrorizzav ano, m a sapev o che non esistev ano, che
m e li inv entav o io, che non ne potev o parlare con
nessuno perché m i av rebbero preso in giro, dei
m aiali inv ece ne potev o parlare benissim o perché
esistev ano v eram ente ed erano affam ati.
Di carne v iv a.
«Il bassotto ha prov ato a scappare, m a i m aiali
non gli hanno dato scam po. Massacrato in due
secondi». Così av ev a detto il Teschio.
Forse di notte Melichetti li lasciav a liberi Si
aggirav ano intorno alla fattoria, enorm i, cattiv i,
con le zanne affilate e i nasi all'aria.
Più m i ci tenev o lontano da quelle bestiacce e
m eglio era.
In lontananza una luce fioca è apparsa nelle
tenebre.
La fattoria.
Ero quasi arriv ato.
Ho frenato. Il v ento non c'era più. L'aria era
ferm a e calda. Dalla grav ina poco distante
arriv av a il suono dei grilli. Sono sceso dalla
bicicletta e l'ho buttata tra i rov i, accanto alla
strada.
Non si v edev a niente.?
Av anzav o v eloce respirando appena, e
continuav o a gettarm i occhiate alle spalle.
Tem ev o che l'artiglio affilato di un m ostro m i
affondasse nel collo. Ora che ero a piedi c'erano un
sacco di rum ori, fruscii, tonfi, suoni strani.
Intorno av ev o una m assa nera e com patta che
prem ev a contro la strada. Mi sono bagnato le
labbra secche, av ev o un sapore am aro in bocca. Il
cuore m i m artellav a in gola.
Ho poggiato la suola del sandalo su una roba
v iscida, ho sobbalzato, ho lanciato un gridolino
strozzato e sono finito a terra grattugiandom i un
ginòcchio.
— Chi è? Chi è? — ho balbettato e m i sono
appallottolato, aspettandom i di essere av v iluppato
dai tentacoli gelatinosi e urticanti di una m edusa.
Due tonfi sordi e un «Buà buà buà».
Un rospo! Av ev o pestato un rospo del grano.
Quel cretino si era m esso in m ezzo alla strada.
Mi sono rialzato e zoppicando ho proseguito
v erso la lucina.
Non m i ero portato neanche una torcia. Av rei
potuto prendere quella che stav a nel cam ion di
papà.
Quando sono arriv ato ai bordi del cortile, m i
sono nascosto dietro un albero.
La casa era a un centinaio di m etri. Le finestre
erano buie. Solo una lam padina pendev a di fianco
alla porta e illum inav a un pezzo di m uro scrostato
e il dondolo arrugginito.
Poco oltre, nell'oscurità, c'erano i recinti dei
m aiali. Già da lì sentiv o l'odore ributtante dei loro
escrem enti.
Dov e potev a stare Filippo?
Giù nella grav ina, av ev a detto Salv atore.
Dentro quel lungo canalone c'ero andato un paio di
v olte d'inv erno con papà a cercare i funghi. Era
tutto rocce, buchi e pareti di pietra.
Se passav o per i cam pi, arriv av o sul bordo della
grav ina e da lì potev o scendere sul fondo senza
dov erm i av v icinare troppo alla casa.
Era un buon piano.
Ho attrav ersato il cam po di corsa. Av ev ano
tagliato il grano. Di giorno, senza le spighe, m i
av rebbero v isto, m a ora, senza la luna, ero al
sicuro.
Mi sono ferm ato sul pizzo del burrone. Sotto era
così nero che non m i rendev o conto di quanto era
scoscesa la roccia, se era liscia o se c'erano degli
appigli.
Continuav o a m aledirm i per non esserm i
portato la torcia. Non potev o scendere di lì.
Rischiav o di farm i m ale.
L'unica era av v icinarsi alla casa, in quel punto
la grav ina era più bassa, e c'era una stradina che
andav a giù tra le rocce. Ma lì c'erano anche i
m aiali.
Ero coperto di sudore.
«I m aiali hanno il m igliore odorato del m ondo,
altro che i segugi», dicev a il padre del Teschio, che
era cacciatore.
Non potev o passare di lì. Mi av rebbero sentito.
Cos'av rebbe fatto Tiger Jack al posto m io?
Li av rebbe affrontati. Li av rebbe m assacrati
con il suo Winchester e li av rebbe trasform ati in
salsicce da arrostire sul fuoco insiem e a Tex e a
Capelli d'argento.
No. Non era nel suo stile.
Cos'av rebbe fatto?
Pensa, m i sono detto. Sforzati.
Av rebbe cercato di lev arsi l'odore um ano di
dosso, questo av rebbe fatto.
Gli indiani quando andav ano a caccia di bufali
si spalm av ano di grasso e si m ettev ano sulla
schiena le pellicce. Ecco cosa dov ev o fare: m i
dov ev o spalm are di terra. Non di terra, di m erda.
Meglio. Se puzzav o di m erda non si sarebbero
accorti di m e.
Mi sono av v icinato il più possibile alla casa,
rim anendo nel buio.
La puzza aum entav a.
Oltre i grilli sentiv o qualcos'altro. Una m usica.
Note di pianoforte e una v oce roca che esultav a:
«Che acqua gelida qua, nessuno più m i salv erà.
Son caduto dalla nav e, son caduto, m entre a bordo
c'era il ballo. Onda su onda… »
Melichetti era un cantante?
Qualcuno stav a seduto sul dondolo. A terra,
v icino, c'era una radio. O era Melichetti o sua
figlia zoppa.
L'ho spiato un po', acquattato dietro dei v ecchi
pneum atici di trattore.
Sem brav a m orto.
Mi sono av v icinato di più.
Era Melichetti.
La testa rinsecchita abbandonata su un cuscino
lurido, la bocca aperta e la doppietta sulle
ginocchia. Russav a così forte che anche da là
riusciv o a sentirlo.
Via libera.
Sono uscito allo scoperto, ho fatto qualche passo
e i latrati acuti di un cane hanno stracciato il
silenzio. Per un istante anche i grilli si sono zittiti.
Il cane! Mi ero scordato del cane.
Due occhi rossi correv ano nell'oscurità. Si
tirav a dietro la catena e abbaiav a tutto strozzato.
Mi sono tuffato a pesce nelle stoppie.
— Che c'è? Che hai? Che ti ha preso? — ha
sobbalzato Melichetti. Stav a sul dondolo e girav a
la testa com e un gufo. — Tiberio! Buono! Stai
buono, Tiberio!
Ma la bestia non la finiv a più di abbaiare,
allora Melichetti si è stiracchiato, si è m esso il
collare ortopedico e si è tirato su, ha spento la radio
e ha acceso la torcia.
— Chi c'è? Chi c'è? C'è qualcuno? — ha urlato al
buio e si è fatto un paio di giri sv ogliati per il
cortile con la doppietta sotto il braccio, puntando il
fascio di luce intorno. E ritornato indietro
brontolando. — Piantala di fare questo casino. Non
c'è nessuno.
L'anim ale si è schiacciato a terra e ha preso a
ringhiare tra i denti.
Melichetti è entrato in casa sbattendo la porta.
Mi sono tenuto il più lontano possibile dal cane e
m i sono av v icinato alla porcilaia. Scorgev o, nelle
tenebre, le sagom e squadrate dei recinti. Il puzzo
acre aum entav a e m i grattav a la bocca.
Mi dov ev o m im etizzare. Mi sono tolto la
m aglietta e i pantaloncini. In m utande ho
im m erso le m ani nella terra inzuppata di piscia e
storcendo il naso m i sono cosparso il busto, le
braccia, le gam be e la faccia di quella pappa
schifosa.
— Vai, Tiger. Vai e non ti ferm are, — ho
sussurrato e ho com inciato ad av anzare a quattro
zam pe. Faticav o. Affondav o con le m ani e con le
ginocchia nel fango.
Il cane ha ripreso ad abbaiare.
Mi sono ritrov ato tra due recinti. Dav anti a m e
c'era un corridoio largo m eno di un m etro che si
perdev a nell'oscurità.
Li sentiv o. Erano lì. Facev ano dei v ersi bassi e
profondi che assom igliav ano al ruggito di un
leone. Av v ertiv o la loro forza nel buio, si
m uov ev ano in branco e pestav ano con gli zoccoli, e
le sbarre v ibrav ano per le spinte.
Vai av anti e non ti girare, m i sono ordinato.
Pregav o che la m ia arm atura fatta di m erda
funzionasse. Se uno di quei bestioni infilav a il
m uso tra le sbarre, con un m orso m i staccav a una
gam ba.
Vedev o la fine del recinto quando c'è stato uno
scalpiccio im prov v iso e dei grugniti, com e se
litigassero.
Non ho potuto fare a m eno di guardare.
A un m etro, due occhi gialli e m aligni m i
osserv av ano. Dietro quei piccoli fari ci dov ev ano
essere centinaia di chili di m uscoli, carne e setole e
unghie e zanne e fam e.
Ci siam o fissati per un istante infinito, poi
l'essere ha fatto uno scatto e ho av uto la certezza
che av rebbe abbattuto il recinto.
Ho urlato e sono saltato in piedi e sono corso e
sono sciv olato nel letam e e m i sono rialzato, ho
ricom inciato a correre, a bocca aperta, nel nero,
stringendo a m orte i pugni e a un tratto ero in
aria, v olav o, il cuore m i è finito in bocca e le
budella m i si sono chiuse in un pugno di dolore.
Av ev o superato il bordo della grav ina.
Precipitav o nel v uoto.
Sono finito, un m etro più sotto, tra i ram i di un
uliv o che crescev a sbilenco tra le rocce scoscese e
sollev av a la chiom a sopra lo strapiom bo.
Mi sono abbrancato a un ram o. Se non ci fosse
stato quell'albero benedetto a ferm are la m ia
caduta m i sarei spiaccicato sulle rocce. Com e
Francesco.
Uno spicchio di luna si era aperto un v arco
attrav erso le nuv ole liv ide e riusciv o a v edere,
sotto di m e, quella lunga ferita nella cam pagna.
Ho prov ato a girarm i m a il tronco ondeggiav a
com e un pennone. Ora si spezza, m i sono detto.
Finisco giù con tutto l'albero.
Mi trem av ano le m ani e le gam be e a ogni
m ov im ento av ev o la sensazione di sciv olare giù.
Quando finalm ente ho stretto tra le dita la roccia
ho ripreso aria. Sono risalito sul bordo della
grav ina.
Era profonda e si sv iluppav a a destra e a
sinistra per div erse centinaia di m etri. Dentro era
tutto buchi, anfratti e alberi.
Filippo potev a essere dov unque.
Alla m ia destra partiv a un v iottolo che
s'insinuav a ripido tra le rocce bianche. C'era un
palo conficcato nella terra, a cui era legata una
corda consum ata che dov ev a serv ire a Melichetti
per aiutarsi a scendere. Mi ci sono attaccato e ho
seguito il sentiero scosceso. Dopo pochi m etri sono
arriv ato su un terrapieno coperto di sterco. Era
recintato da un parapetto fatto con dei ram i legati
tra loro. A uno spuntone erano appesi dei v estiti,
delle corde e delle falci. Poco più in là erano
am m ucchiati dei pali di legno. Legate a una radice
che spuntav a dal terreno c'erano tre caprette e
una capra più grande. Mi fissav ano.
Gli ho detto: — Inv ece di guardarm i com e delle
cretine, ditem i dov e sta Filippo.
Un'om bra nera e silenziosa m i è calata addosso
dal cielo, m i è passata sopra, m i sono riparato la
testa con le m ani.
Una civ etta.
E risalita, si è dissolta nel nero, poi è scesa di
nuov o v erso il terrapieno ed è ritornata in cielo.
Strano, erano uccelli buoni.
Perché m i attaccav a?
— Me ne v ado, m e ne v ado, — ho sussurrato.
La stradina proseguiv a e io ho ripreso la discesa
reggendom i alla corda. Dov ev o cam m inare
rannicchiato e tastare con le m ani gli ostacoli che
m i si parav ano dav anti, com e fanno i ciechi.
Quando sono arriv ato in fondo alla gola, sono
rim asto a bocca aperta. I cespugli di pungitopo, i
cardi, i corbezzoli, i m uschi e le rocce erano coperti
di puntini lum inosi che pulsav ano com e piccoli
fari nella notte. Lucciole.
Le nubi si erano diradate e una m ezza luna
tingev a di giallo la grav ina. I grilli cantav ano. Il
cane di Melichetti av ev a sm esso di abbaiare. C'era
pace.
Di fronte a m e crescev a un boschetto di uliv i e
dietro, sull'altro v ersante della gola, si apriv a una
stretta spaccatura nella pietra.
Da dentro usciv a un odore acido, di sterco. Sono
entrato appena e ho sentito m ov im enti e belati.
Un tappeto di pecore. Le av ev ano chiuse dentro la
grotta con una rete m etallica. Erano stipate com e
sardine. Spazio per Filippo non ce n'era.
Sono tornato sull'altro v ersante, m a non
riusciv o a trov are buchi, tane dov e nascondere un
bam bino.
Quando m i ero buttato giù dalla finestra non
m i era nem m eno passato per la testa che forse non
riusciv o a trov arlo. Mi bastav a attrav ersare il
buio e non farm i m angiare dai m aiali e lui era lì.
Non era così.
Quella grav ina era lunghissim a e Filippo
potev ano av erlo m esso da un'altra parte.
Ero av v ilito. — Filippo, dov e sei? — ho urlato.
Ma m olto piano. Melichetti m i potev a sentire. —
Rispondim i! Dov e sei? Rispondim i.
Niente.
Mi ha risposto solo una civ etta. Facev a un v erso
strano,
sem brav a
che dicesse «Tuttom io,
tuttom io, tuttom io». Potev a essere la stessa che m i
av ev a attaccato prim a.
Non era giusto. Av ev o fatto tutta quella strada,
av ev o rischiato la v ita per lui e lui non si facev a
trov are. Ho com inciato a correre av anti e indietro
tra le rocce e gli uliv i, a caso, m entre m i pigliav a
la disperazione.
Per la rabbia ho afferrato un ram o da terra e ho
com inciato a batterlo contro una roccia, fino a
spellarm i le m ani. Poi m i sono seduto. Scuotev o il
capo e cercav o di allontanare il pensiero che tutto
era stato inutile.
Ero scappato di casa com e uno scem o.
Papà dov ev a essere infuriato. Mi av rebbe
am m azzato di botte.
Si dov ev ano essere accorti che non c'ero in
cam era m ia. E anche se non lo av ev ano scoperto,
tra poco arriv av ano lì per uccidere Filippo.
Papà e il v ecchio dav anti, Felice e il barbiere
dietro. A tutta v elocità, nel buio, sulla m acchina
grigia con il m irino sul cofano, schiacciando con le
ruote i rospi.
Michele, che aspetti? Torna a casa, m i ha
ordinato la v oce di Maria.
— Torno, — ho detto.
Av ev o fatto quello che potev o e lui non si era
fatto trov are. Non av ev o colpe.
Dov ev o m uov erm i in fretta, potev ano arriv are
da un m om ento all'altro.
Se correv o, senza ferm arm i m ai, forse arriv av o
a casa prim a che loro usciv ano. Nessuno si sarebbe
accorto di nulla. Sarebbe stato bello.
Mi sono arram picato v eloce tra le rocce
ripercorrendo la strada già fatta. Ora che c'era un
po' di luce era più facile.
La civ etta. Volteggiav a sopra il terrapieno, e
quando passav a dav anti alla luna v edev o la
sagom a nera, le ali larghe e corte.
— Ma che v uoi? — Sono passato sul terrapieno di
corsa, v icino alle caprette, e l'uccello ha picchiato
di nuov o. Mi sono allontanato e m i sono v oltato a
guardare quella civ etta pazza.
Continuav a a v olteggiare sul terrapieno.
Sfiorav a la catasta di pali poggiati contro la
roccia, facev a un giro e tornav a indietro, testarda.
Ma perché facev a così? C'era un topo? No. Cosa,
allora?
Il nido!
Certo. Il nido. I piccoli.
Anche le rondini se gli butti giù il nido
continuano a girare in tondo fino a quando non
m uoiono di stanchezza.
A quella civ etta gli av ev ano coperto il nido. E le
civ ette fanno il nido nei buchi.
I buchi!
Sono tornato indietro e ho com inciato a spostare
i pali accatastati con la civ etta che m i sfiorav a. —
Aspetta, aspetta, — le ho detto.
Nascosta alla buona c'era un'apertura nella
roccia. Una bocca ov ale larga com e la ruota di un
cam ion.
La civ etta ci si è infilata dentro.
Era nero com e la pece. E c'era odore di legna
bruciata e cenere. Non capiv o quanto era
profondo. Ci ho infilato la testa e ho chiam ato. —
Filippo? Mi ha risposto l'eco della m ia v oce
— Filippo? — Mi sono affacciato di più. —
Filippo?
Ho aspettato. Nessun rum ore.
— Filippo, m i senti? Non c'era.
Non c'è. Corri a casa, m i ha ripetuto la v oce di
m ia sorella.
Ho fatto tre passi quando ho av uto l'im pressione
di sentire un lam ento, un gem ito sordo.
Me l'ero im m aginato?
Sono tornato indietro e ho cacciato la testa nel
buco.
— Filippo? Filippo, ci sei?
E dal buco è uscito un «Mm m m ! Mm m m ! »
— Filippo, sei tu?
— Mm m m ! Era lì!
Ho sentito un peso che m i si sciogliev a nel petto,
m i sono appoggiato alla roccia e sono sciv olato giù.
Sono rim asto lì seduto, abbandonato su quel
terrapieno coperto di cacche di capra, con il sorriso
sufla bocca.
Lo av ev o trov ato.
Mi v eniv a da piangere. Mi sono asciugato gli
occhi con le m ani.
— Mm m m !
Mi sono alzato. — Arriv o. Arriv o subito. Hai
v isto? Sono v enuto, ho m antenuto la prom essa.
Hai v isto?
Una corda. Ne ho trov ata una, arrotolata
accanto alle falci. L'ho legata alla radice dov e
stav ano le capre e l'ho gettata nel buco. — Eccom i!
Mi sono calato dentro. Il cuore pom pav a così
forte da farm i trem are il petto e le braccia. Le
tenebre m i dav ano le v ertigini. Mi m ancav a
l'aria. Sem brav a di stare nel petrolio e facev a
freddo.
Non ho fatto neanche due m etri che ho toccato
terra. Era pieno di pali, pezzi di legno, cassette dei
pom odori am m assate. Carponi, con le m ani av anti
tastav o il buio. Ero nudo e trem av o per il gelo.
— Filippo, dov e sei?
— Miram i!
Gli av ev ano tappato la bocca.
— Sto… — Un piede m i si è infilato tra i ram i,
sono sciv olato a braccia in av anti sopra delle
fascine piene di spine. Una fitta aguzza di dolore
m i ha azzannato la cav iglia. Ho urlato e un
rigurgito caldo e acido di bile m i è salito su. Una
v am pata ghiacciata m i ha spazzato la schiena e ho
sentito le orecchie in fiam m e.
Con le m ani che trem av ano ho tirato fuori il
piede incastrato. Il dolore m i prem ev a dentro la
ca v iglia . — Mi sa che ho preso una storta, — ho
rantolato. — Dov e stai?
— Mm m m !
Mi sono trascinato, a denti stretti, v erso il
gem ito, e l'ho trov ato. Era sotto le fascine. Gliele
ho tolte di dosso e l'ho tastato. Era steso a terra.
Nudo. Av ev a le braccia e le gam be legate con lo
scotch da pacchi.
— Mm m m !
Gli ho m esso le m ani sulla faccia. Anche sulla
bocca av ev a lo scotch.
— Non puoi parlare. Aspetta, te lo lev o. Forse ti
faccio un po' m ale.
Gliel'ho strappato v ia. Non ha urlato, m a ha
com inciato ad ansim are.
— Com e stai?
Non ha detto niente.
— Filippo, com e stai, rispondim i? Ansim av a
com e il bracco m orso dalla v ipera.
— Ti senti m ale?
Gli ho toccato il petto. Si gonfiav a e si sgonfiav a
troppo in fretta.
— Ora andiam o v ia. Andiam o v ia. Aspetta —.
Ho prov ato a slegargli i polsi e le cav iglie. Era
stretto. Alla fine, con i denti, disperato, ho
com inciato a segare lo scotch. Gli ho liberato
prim a le m ani e poi i piedi.
— Ecco fatto. Andiam o —. Gli ho preso un
braccio. Ma il braccio è ricaduto senza forze. —
Mettiti dritto, ti prego. Dobbiam o andare, stanno
a r r iv a ndo —. Cercav o di tirarlo su, m a ricadev a
giù com e un burattino. Non c'era più un briciolo di
energia in quel corpicino esausto. Non era m orto
solo perché continuav a a respirare. — Io non ti
posso portare su. Mi fa m ale la gam ba! Ti prego,
Filippo, aiutam i… — L'ho preso per le braccia. —
Dài! Dài! — L'ho m esso seduto, m a appena l'ho
lasciato si è afflosciato a terra. — Che dev o fare?
Non lo capisci che ti sparano se resti qua? — Un
groppo m i otturav a la gola. — Muori così, scem o,
brutto scem o! Io sono v enuto qui per te, fino a qua,
io la prom essa l'ho m antenuta e tu… e tu… — Sono
scoppiato a piangere. Ero scosso dai singhiozzi. —
Ti… dev i… alzare… stupido, stupido… che… non sei
altro —. Ci ho riprov ato ancora e ancora, testardo,
m a si è lasciato andare nella cenere, con il capo
tutto piegato, com e una gallina m orta. — Alzati!
Alzati! — ho urlato, e l'ho preso a pugni.
Non sapev o che fare. Mi sono accucciato, con la
testa sulle ginocchia. — Non sei ancora m orto,
lo capisci? — Sono rim asto così, a piangere. —
Questo non è il paradiso.
Per un istante ha sm esso di ansim are e ha
bisbigliato qualcosa.
Ho av v icinato l'orecchio alla bocca. — Cos'hai
detto?
Ha sussurrato. — Non ce la faccio.
L'ho scosso. — Com e non ce la fai?
— Non ce la faccio, scusam i.
— Sì che ce la fai. Sì…
Non parlav a più. L'ho abbracciato. Coperti di
fango, trem av am o di freddo. Non c'era più niente
da fare. Non ce la facev o neanche io. Mi sentiv o
stanco da m orire, strem ato, la cav iglia
continuav a a battere. Ho chiuso gli occhi, il cuore
ha com inciato a rilassarsi e senza v olerlo m i sono
addorm entato.
Ho riaperto gli occhi.
Era buio. Per un secondo ho creduto di essere a
casa, nel m io letto.
Poi ho sentito il cane di Melichetti abbaiare. E
delle v oci.
Erano arriv ati.
L'ho strattonato. — Filippo! Filippo, stanno qua!
Ti v ogliono am m azzare. Alzati.
Ha ansim ato. — Non posso.
— Sì, inv ece. Ci scom m etti? — Mi sono
inginocchiato e con le m ani l'ho spinto in av anti,
tra i ram i, fregandom ene del m ale. Mio, suo.
Dov ev o portarlo fuori da quel buco. Le fascine m i
graffiav ano m a ho continuato a spingere,
stringendo i denti, fino sotto la bocca nella roccia.
Le v oci erano v icine. E un bagliore balenav a
sulle fronde degli alberi
L'ho acchiappato per le braccia. — Ora dev i
m etterti in piedi. Lo dev i fare. E basta —. L'ho
tirato su, m i si è aggrappato al collo. Si è m esso
dr itt o. — Hai v isto, stupido? Hai v isto che ti sei
m esso in piedi, eh? Ora però dev i salire. Io ti spingo
da sotto, m a tu ti dev i attaccare al buco.
Ha preso a tossire. Sem brav a che dentro il petto
gli schizzassero dei sassi. Quando finalm ente ha
sm esso, ha scosso la testa e ha detto: — Senza te
non v ado.
— Com e?
— Senza te non v ado.
Lo abbracciav o com e fosse un fantoccio. — Non
fare il cretino. Arriv o subito.
Ora sem brav ano lì. Il cane abbaiav a sopra la
m ia testa.
— No.
— Tu inv ece te ne v ai, hai capito? — Se lo
m ollav o crollav a a terra. L'ho preso tra le braccia
e l'ho spinto v erso l'alto. — Prendi la corda, forza.
E l'ho sentito più leggero. Si era attaccato! Quel
bastardo alla fine si era attaccato alla corda! Era
su di m e. Poggiav a i piedi sulle m ie spalle.
— Ora io ti spingo, m a tu continua a tirarti su
con le braccia, capito? Non m ollare.
Ho v isto la sua piccola testa av v olta dalla luce
pallida del buco.
— Sei arriv ato. Ora tirati fuori.
Ci ha prov ato. Lo sentiv o che si sforzav a
inu tilm ente. — Aspetta. Ti aiuto io, — ho detto,
afferrandolo per le cav iglie. — Ti dò una spinta. Tu
buttati —. Ho fatto forza sulle gam be e stringendo i
denti l'ho lanciato fuori e l'ho v isto sparire
inghiottito dalla bocca, nello stesso istante ho
sentito com e un lungo chiodo appuntito conficcarsi
dentro l'osso della cav iglia fino al m idollo e una
fitta tagliente di dolore attrav ersarm i com e una
scossa la gam ba fino all'inguine, e sono crollato
giù.
— Michele! Michele, ce l'ho fatta! Vieni.
Ho ruttato aria acida. — Arriv o. Arriv o subito.
Ho prov ato ad alzarm i m a la gam ba non
rispondev a più. Da terra ho cercato di acchiappare
la corda senza riuscirci.
Sentiv o le v oci sem pre più v icine. Il rum ore dei
passi.
— Michele, v ieni?
— Arriv o.
La testa m i girav a, m a m i sono m esso in
ginocchio. Non ce la facev o a tirarm i su. Ho detto:
— Filippo, scappa! Si è affacciato. — Sali!
— Non ce la faccio. La gam ba. Scappa, tu!
Ha fatto no con la testa. — No, non v ado —. La
luce alle sue spalle era più forte.
— Scappa. Stanno qui. Scappa. —No.
— Te ne dev i andare. Ti prego! Vattene! —No.
Ho urlato e im plorato. — Vattene! Vattene! Se
non te ne v ai ti am m azzano, lo v uoi capire? Si è
m esso a piangere.
— Vattene. Vattene v ia. Ti prego, ti scongiuro.
Vattene v ia… E non ti ferm are. Non ti ferm are
m ai. Mai più… Nasconditi! — Sono caduto a terra.
— Non ce la faccio, — ha detto. — Ho paura.
— No, tu non hai paura. Non hai paura. Non c'è
niente da av ere paura. Nasconditi.
Ha fatto sì con la testa ed è scom parso.
Da terra ho com inciato a cercare la corda nel
buio, l'ho sfiorata, m a l'ho perduta. Ci ho
riprov ato, m a era troppo in alto.
Attrav erso il buco ho v isto papà. In una m ano
tenev a una pistola, nell'altra una pila elettrica.
Av ev a perso. Com e al solito.
La luce m i ha accecato. Ho chiuso gli occhi. —
Papà, sono io, sono Miche… Poi c'è stato il bianco.
Ho aperto gli occhi.
La gam ba m i facev a m ale. Non era la gam ba di
prim a. L'altra. Il dolore era una pianta
ram picante. Un filo spinato che si attorciglia alle
budella. Una cosa trav olgente. Rossa. Una diga che
si è rotta.
Niente può arginare una diga che si è rotta.
Un rom bo m ontav a. Un rom bo m etallico che
crescev a e copriv a tutto. Mi pulsav a nelle
orecchie.
Ero bagnato. Mi sono toccato la gam ba. Una
cosa densa e calda m i im piastricciav a tutto.
Non v oglio m orire. Non v oglio.
Ho aperto gli occhi.
Ero in un v ortice di paglia e luci.
C'era un elicottero.
E c'era papà. Mi tenev a tra le braccia. Mi
parlav a m a non sentiv o. I capelli gli brillav ano
m ossi dal v ento.
Luci m i accecav ano. Dalle tenebre spuntav ano
esseri neri e cani. Veniv ano v erso di noi.
I signori della collina.
Papà, stanno arriv ando. Scappa. Scappa.
Sotto il rom bo il cuore m i m arciav a nel petto.
Ho v om itato.
Ho aperto gli occhi di nuov o.
Papà piangev a. Mi carezzav a. Le m ani rosse.
Una figura scura si è av v icinata. Papà lo ha
guardato.
Papà, dev i scappare.
Nel rom bo papà ha detto: — Non t'ho
riconosciuto. Aiutatem i, v i prego, è m io figlio. E
ferito. Non l'ho…
Ora era di nuov o buio.
E c'era papà.
E c'ero io.
FINE