Io non ho paura
Transcript
Io non ho paura
Niccolò Ammaniti Io non ho paura Que sto libro è de dicato a mia sore lla Luisa, che mi ha se guito sulla Ne ra con la sua ste lle tta d'arge nto appuntata sulla giacca. Qu esto sol o capì . Di essere cadu to n el l a ten ebra. E n el l 'i stan te i n cu i seppe, cessò di sapere. JA CK LON DON 1. Stav o per superare Salv atore quando ho sentito m ia sorella che urlav a. Mi sono girato e l'ho v ista sparire inghiottita dal grano che copriv a la collina. Non dov ev o portarm ela dietro, m am m a m e l'av rebbe fatta pagare cara. Mi sono ferm ato. Ero sudato. Ho preso fiato e l'ho chiam ata. — Maria? Maria? Mi ha risposto una v ocina sofferente. — Michele! — Ti sei fatta m ale? — Sì, v ieni. — Dov e ti sei fatta m ale? — Alla gam ba. Facev a finta, era stanca. Vado av anti, m i sono detto. E se si era fatta m ale dav v ero? Dov 'erano gli altri? Vedev o le loro scie nel grano. Saliv ano piano, in file parallele, com e le dita di una m ano, v erso la cim a della collina, lasciandosi dietro una coda di steli abbattuti. Quell'anno il grano era alto. A fine prim av era av ev a piov uto tanto, e a m età giugno le piante erano più rigogliose che m ai. Crescev ano fitte, cariche di spighe, pronte per essere raccolte. Ogni cosa era coperta di grano. Le colline, basse, si susseguiv ano com e onde di un oceano dorato. Fino in fondo all'orizzonte grano, cielo, grilli, sole e caldo. Non av ev o idea di quanto facev a caldo, uno a nov e anni, di gradi centigradi se ne intende poco, m a sapev o che non era norm ale. Quella m aledetta estate del 1 9 7 8 è rim asta fam osa com e una delle più calde del secolo. Il calore entrav a nelle pietre, sbriciolav a la terra, bruciav a le piante e uccidev a le bestie, infuocav a le case. Quando prendev i i pom odori nell'orto, erano senza succo e le zucchine piccole e dure. Il sole ti lev av a il respiro, la forza, la v oglia di giocare, tutto. E la notte si schiattav a uguale. Ad Acqua Trav erse gli adulti non usciv ano di casa prim a delle sei di sera. Si tappav ano dentro, con le persiane chiuse. Solo noi ci av v enturav am o nella cam pagna rov ente e abbandonata. Mia sorella Maria av ev a cinque anni e m i seguiv a con l'ostinazione di un bastardino tirato fuori da un canile. «Voglio fare quello che fai tu», dicev a sem pre. Mam m a le dav a ragione. «Sei o non sei il fratello m aggiore?» E non c'erano santi, m i toccav a portarm ela dietro. Nessuno si era ferm ato ad aiutarla. Norm ale, era una gara. — Dritti, su per la collina, niente curv e. È v ietato stare uno dietro l'altro. E v ietato ferm arsi. Chi arriv a ultim o paga penitenza —. Av ev a deciso il Teschio e m i av ev a concesso: — Va bene, tua sorella non gareggia. E troppo piccola. — Non sono troppo piccola! — av ev a protestato Mar ia. — Voglio fare anch'io la gara! — E poi era caduta. Peccato, ero terzo. Prim o era Antonio. Com e sem pre. Antonio Natale, detto il Teschio. Perché lo chiam av am o il Teschio non m e lo ricordo. Forse perché una v olta si era appiccicato sul braccio un teschio, una di quelle decalcom anie che si com prav ano dal tabaccaio e si attaccav ano con l'acqua. Il Teschio era il più grande della banda. Dodici anni. Ed era il capo. Gli piacev a com andare e se non obbediv i div entav a cattiv o. Non era una cim a, m a era grosso, forte e coraggioso. E si arram picav a su per quella collina com e una dannata ruspa. Secondo era Salv atore. Salv atore Scardaccione av ev a nov e anni, la m ia stessa età. Erav am o in classe insiem e. Era il m io m igliore am ico. Salv atore era piti alto di m e. Era un ragazzino solitario. A v olte v eniv a con noi m a spesso se ne stav a per i fatti suoi. Era più sv eglio del Teschio, gli sarebbe stato facilissim o spodestarlo, m a non gli interessav a div entare capo. Il padre, l'av v ocato Em ilio Scardaccione, era una persona im portante a Rom a. E av ev a un sacco di soldi in Sv izzera. Questo si dicev a. Poi c'ero io, Michele. Michele Am itrano. E anche quella v olta ero terzo, stav o salendo bene, m a per colpa di m ia sorella adesso ero ferm o. Stav o decidendo se tornare indietro o lasciarla là, quando m i sono ritrov ato quarto. Dall'altra parte del crinale quella schiappa di Rem o Marzano m i av ev a superato. E se non m i rim ettev o subito ad arram picarm i m i sorpassav a pure Barbara Mura. Sarebbe stato orribile. Sorpassato da una fem m ina. Cicciona. Barbara Mura saliv a a quattro zam pe com e una scrofa inferocita. Tutta sudata e coperta di terra. — Che fai, non v ai dalla sorellina? Non l'hai sentita? Si è fatta m ale, pov erina, — ha grugnito felice. Per una v olta non sarebbe toccata a lei la penitenza. — Ci v ado, ci v ado… E ti batto pure —. Non potev o dargliela v inta così. Mi sono v oltato e ho com inciato a scendere, agitando le braccia e urlando com e un sioux. I sandali di cuoio sciv olav ano sul grano. Sono finito culo a terra un paio di v olte. Non la v edev o. — Maria! Maria! Dov e stai? — Michele… Eccola. Era lì. Piccola e infelice. Seduta sopra un cerchio di steli spezzati. Con una m ano si m assaggiav a una cav iglia e con l'altra si tenev a gli occhiali. Av ev a i capelli appiccicati alla fronte e gli occhi lucidi. Quando m i ha v isto, ha storto la bocca e si è gonfiata com e un tacchino. — Michele…? — Maria, m i hai fatto perdere la gara! Te l'av ev o detto di non v enire, m annaggia a te —. Mi sono seduto. — Che ti sei fatta? — Sono inciam pata. Mi sono fatta m ale al piede e… — Ha spalancato la bocca, ha strizzato gli occhi, ha dondolato la testa ed è esplosa a frignare. — Gli occhiali! Gli occhiali si sono rotti! Le av rei m ollato uno schiaffone. Era la terza v olta che rom pev a gli occhiali da quando era finita la scuola. E ogni v olta con chi se la prendev a m am m a? «Dev i stare attento a tua sorella, sei il fratello m aggiore». «Mam m a, io…» «Niente m am m a io. Tu non hai ancora capito, m a io i soldi non li trov o nell'orto. La prossim a v olta che rom pete gli occhiali ti prendi una di quelle punizioni che… » Si erano spezzati al centro, dov e erano stati già incollati. Erano da buttare. Mia sorella intanto continuav a a piangere. — Mam m a… Si arrabbia… Com e si fa? — E com e si fa? Ci m ettiam o lo scotch. Alzati, su. — Sono brutti con lo scotch. Sono bruttissim i. Non m i piacciono. Mi sono infilato gli occhiali in tasca. Senza, Maria non ci v edev a, av ev a gli occhi storti e il m edico av ev a detto che si sarebbe dov uta operare prim a di div entare grande. — Non fa niente. Alzati. Ha sm esso di piangere e ha com inciato a tirare su con il naso. — Mi fa m ale il piede. — Dov e? — Continuav o a pensare agli altri, dov ev ano essere arriv ati sopra la collina da un'ora. Ero ultim o. Sperav o solo che il Teschio non m i facesse scontare una penitenza troppo dura. Una v olta che av ev o perso una gara m i av ev a obbligato a correre nell'ortica. — Dov e ti fa m ale? — Qua —. Mi ha m ostrato la cav iglia. — Una storta. Non è niente. Passa subito. Le ho slacciato la scarpa da ginnastica e l'ho sfilata con m olta attenzione. Com e av rebbe fatto un dottore. — Ora v a m eglio? — Un po'. Torniam o a casa? Ho sete da m orire. E m am m a… Av ev a ragione. Ci erav am o allontanati troppo. E da troppo tem po. L'ora di pranzo era passata da un pezzo e m am m a dov ev a stare di v edetta alla finestra. Lo v edev o m ale il ritorno a casa. Ma chi se lo im m aginav a poche ore prim a. Quella m attina av ev am o preso le biciclette. Di solito facev am o dei giri piccoli, intorno alle case, arriv av am o ai bordi dei cam pi, al torrente secco e tornav am o indietro facendo le gare. La m ia bicicletta era un ferro v ecchio, con il sellino rattoppato, e così alta che dov ev o piegarm i tutto per toccare a terra. Tutti la chiam av ano la Scassona. Salv atore dicev a che era la bicicletta degli alpini. Ma a m e piacev a, era quella di m io padre. Se non andav am o in bicicletta ce ne stav am o in strada a giocare a pallone, a ruba bandiera, a un due tre stella o sotto la tettoia del capannone a non fare niente. Potev am o fare quello che ci parev a. Macchine non ne passav ano. Pericoli non ce n'erano. E i grandi se ne stav ano rintanati in casa, com e rospi che aspettano la fine del caldo. Il tem po scorrev a lento. A fine estate non v edev am o l'ora che ricom inciasse la scuola. Quella m attina av ev am o attaccato a parlare dei m aiali di Melichetti. Si parlav a spesso, tra noi, dei m aiali di Melichetti. Si dicev a che il v ecchio Melichetti li addestrav a a sbranare le galline, e a v olte pure i conigli e i gatti che raccattav a per strada. Il Teschio ha sputato uno spruzzo di saliv a bi a n c a . — Finora non v e l'ho m ai raccontato. Perché non lo potev o dire. Ma ora v e lo dico: quei m aiali si sono m angiati il bassotto della figlia di Melichetti. Si è sollev ato un coro generale. — No, non è v ero! — È v ero. Ve lo giuro sul cuore della Madonna. Viv o! Com pletam ente v iv o. — È im possibile! Che razza di bestie dov ev ano essere per m angiarsi pure un cane di razza? Il Teschio ha fatto di sì con la testa. — Melichetti glielo ha lanciato dentro il recinto. Il bassotto ha prov ato a scappare, è un anim ale furbo, m a i m aiali di Melichetti di più. Non gli hanno dato scam po. Massacrato in due secondi — Poi ha aggiunto: — Peggio dei cinghiali. Barbara gli ha chiesto: — E perché glielo ha lanciato? Il Teschio ci ha pensato un po'. — Ha pisciato in casa. E se tu finisci là dentro, cicciona com e sei, ti spolpano fino alle ossa. Maria si è m essa in piedi. — E pazzo Melichetti? Il Teschio ha sputato di nuov o a terra. — Più pazzo dei suoi m aiali. Siam o rim asti zitti a im m aginarci la figlia di Melichetti con un padre così cattiv o. Nessuno di noi sapev a com e si chiam av a, m a era fam osa per av ere una specie di arm atura di ferro intorno a una gam ba. — Possiam o andarli a v edere! — m e ne sono uscito. — Una spedizione! — ha fatto Barbara. — È lontanissim a la fattoria di Melichetti. Ci m ettiam o un sacco, — ha brontolato Salv atore. — E inv ece è v icinissim a, andiam o… — Il Teschio è m ontato sulla bicicletta. Non sprecav a m ai l'occasione per av ere la m eglio su Salv atore. Mi è v enuta un'idea. — Perché non prendiam o una gallina dal pollaio di Rem o, così quando arriv iam o la gettiam o nel recinto dei m aiali e v ediam o com e la spolpano? — Forte! — il Teschio ha approv ato. — Ma papà m i uccide se gli prendiam o una gallina, — ha piagnucolato Rem o. Non c'è stato niente da fare, l'idea era buonissim a. Siam o entrati nel pollaio, abbiam o scelto la gallina più m agra e spelacchiata e l'abbiam o m essa in una sacca. E siam o partiti, tutti e sei e la gallina, per andare a v edere questi fam osi m aiali di Melichetti e abbiam o pedalato tra i cam pi di grano, e pedala pedala il sole è salito e ha arrov entato tutto. Salv atore av ev a ragione, la fattoria di Melichetti era lontanissim a. Quando ci siam o arriv ati av ev am o una sete trem enda e la testa che bolliv a» Melichetti se ne stav a con gli occhiali da sole seduto su un v ecchio dondolo, sotto un om brellone storto. La fattoria cadev a a pezzi e il tetto era stato riparato alla m eglio con latta e catram e. Nel cortile ci stav a un m ucchio di roba buttata: ruote di trattore, una Bianchina arrugginita, sedie sfondate, un tav olo senza una gam ba. Su un palo di legno coperto di edera erano appesi dei teschi di m ucca consum ati dalla pioggia e dal sole. E un cranio più piccolo e senza corna. Chissà di che bestia era. Un cagnaccio pelle e ossa abbaiav a alla catena. In fondo c'erano delle baracche di lam iera e i recinti dei m aiali, sull'orlo di una grav ina. Le grav ine sono piccoli cany on, lunghi crepacci scav ati dall'acqua nella pietra. Guglie bianche, rocce e denti appuntiti affiorano dalla terra rossa. Spesso dentro ci crescono oliv i sbilenchi, corbezzoli e pungitopo, e ci sono cav erne dov e i pastori m ettono le pecore. Melichetti sem brav a una m um m ia. La pelle rugosa gli pendev a addosso ed era senza peli, tranne un ciuffo bianco che gli crescev a in m ezzo al petto. Intorno al collo av ev a un collare ortopedico chiuso con degli elastici v erdi e addosso un paio di pantaloncini neri e delle ciabatte di plastica m arrone. Ci ha v isti arriv are sulle nostre biciclette, m a non si è m osso. Dov ev am o sem brargli un m iraggio. Su quella strada non passav a m ai nessuno, al m assim o qualche cam ion con il fieno. C'era puzza di piscio. E m ilioni di m osche cav alline. A Melichetti non dav ano fastidio. Gli si posav ano sulla testa e intorno agli occhi, com e alle m ucche. Solo quando gli finiv ano sulla bocca, sbuffav a. Il Teschio si è fatto av anti. — Signore, abbiam o sete. Ce l'av rebbe un po' d'acqua? Ero preoccupato perché uno com e Melichetti ti potev a sparare, gettarti ai m aiali, o darti da bere acqua av v elenata. Papà m i av ev a raccontato di uno in Am erica che av ev a un laghetto dov e tenev a i coccodrilli, e se ti ferm av i a chiedergli un'inform azione quello ti facev a entrare dentro casa, ti dav a un colpo in testa e ti buttav a in pasto ai coccodrilli. E quando era arriv ata la polizia, inv ece che andare in galera si era fatto sbranare. Melichetti potev a benissim o essere uno cosi. Il v ecchio ha sollev ato gli occhiali. — Che ci fate qui, ragazzini? Non siete un po' troppo lontani da casa? — Signor Melichetti, è v ero che ha dato da m angiare ai m aiali il suo bassotto? — se ne è uscita Barbara. Mi sono sentito m orire. Il Teschio si è girato e l'ha fulm inata con uno sguardo d'odio. Salv atore le ha tirato un calcio in uno stinco. Melichetti si è m esso a ridere e gli è v enuto un attacco di tosse che per poco non si strozzav a. Quando si è ripreso ha detto: — Chi ti racconta queste fesserie, ragazzina? Barbara ha indicato il Teschio. — Lui! Il Teschio è arrossito, ha abbassato la testa e si è guardato le scarpe. Io sapev o perché Barbara lo av ev a detto. Qualche giorno prim a c'era stata una gara di lancio dei sassi e Barbara av ev a perso. Per penitenza, il Teschio l'av ev a obbligata a slacciarsi la cam icia e a m ostrarci il seno. Barbara av ev a undici anni. Av ev a un po' di tette, uno sputo, niente a che v edere con quelle che le sarebbero v enute entro un paio di anni. Si era rifiutata. — Se non lo fai, scordati di v enire con noi, — l'av ev a m inacciata il Teschio. Io ero stato m ale, non era giusta quella penitenza. Barbara non m i piacev a, appena potev a cercav a di fregarti, m a m ostrare le tette, no, m i sem brav a troppo. Il Teschio av ev a deciso: — O ce le fai v edere o te ne v ai. E Barbara, zitta, av ev a preso e si era sbottonata la cam icetta. Non av ev o potuto fare a m eno di guardargliele. Erano le prim e tette che v edev o in v ita m ia, se escludo quelle di m am m a. Forse una v olta, quando era v enuta a dorm ire da noi, av ev o v isto quelle di m ia cugina Ev elina, che av ev a dieci anni più di m e. Com unque già m i ero fatto un'idea delle tette che m i piacev ano e quelle di Barbara non m i piacev ano per niente. Sem brav ano scam orze, delle pieghe di pelle, non m olto differenti dai rotoli di ciccia che av ev a sulla pancia. Quella storia Barbara se l'era legata al dito e adesso v olev a pareggiare i conti con il Teschio. — Così tu v ai a raccontare in giro che io av rei dato da m angiare il m io bassotto ai m aiali —. Melichetti si è grattato il petto. — Augusto, si chiam av a quel cane. Com e l'im peratore rom ano. Av ev a tredici anni quando è m orto. Un osso di pollo gli si è piantato in gola. Ha av uto un funerale da cristiano, con tanto di fossa —. Ha puntato il dito contro il Teschio. — Tu, ragazzino, ci scom m etto, sei il più grande, v ero? Il Teschio non ha risposto. — Non dev i m ai dire bugie. E non dev i infangare il nom e degli altri. Dev i dire la v erità, specialm ente a chi è più piccolo di te. La v erità, sem pre. Di fronte agli uom ini, al Padreterno, e a te stesso, hai capito? —. Sem brav a un prete che ti fa la predica. — Non facev a nem m eno pipì in casa? — ha insistito Barbara. Melichetti ha prov ato a fare no con la testa, m a il collare glielo im pediv a. — Era un cane educato. Gran cacciatore di topi. Pace all'anim a sua —. Ha indicato il fontanile. — Se av ete sete laggiù c'è l'acqua. La m igliore di tutta la regione. E non è una fesseria. Abbiam o bev uto fino a scoppiare. Era fresca e buona. Poi abbiam o preso a schizzarci e a infilare la testa sotto la canna. Il Teschio ha com inciato a dire che Melichetti era un pezzo di m erda. E sapev a per certo che quel v ecchio scem o av ev a dato il bassotto da m angiare ai m aiali. Ha fissato Barbara e ha detto: — Questa m e la pa g h i —. Se n'è andato borbottando e si è seduto per conto suo dall'altra parte della strada. Io, Salv atore e Rem o ci siam o m essi ad acchiappare girini. Mia sorella e Barbara si sono appollaiate sul bordo del fontanile e hanno im m erso i piedi nell'acqua. Dopo qualche m inuto il Teschio è tornato, tutto eccitato. —Guardate! Guardate! Guardate com 'è grossa! Ci siam o v oltati. — Cosa? — Quella. Era una collina. Sem brav a un panettone. Un enorm e panettone posato da un gigante sulla pianura. Si sollev av a di fronte a noi a un paio di chilom etri. Dorata e im m ensa. Il grano la copriv a com e una pelliccia. Non c'era un albero, una punta, un'im perfezione che ne rov inav a il profilo. Il cielo, intorno, era liquido e sporco. Le altre colline, dietro, sem brav ano nani in confronto a quella cupola enorm e. Chissà com e m ai fino a quel m om ento nessuno di noi l'av ev a notata. L'av ev am o v ista, m a senza v ederla v eram ente. Forse perché si confondev a con il paesaggio. Forse perché erav am o stati tutti con gli occhi puntati sulla strada a scov are la fattoria di Melichetti. — Scaliam ola —. Il Teschio l'ha indicata. — Scaliam o quella m ontagna. Ho detto: — Chissà cosa ci sarà lassù. Dov ev a essere un posto incredibile, m agari ci v iv ev a qualche anim ale strano. Così in alto nessuno di noi era m ai salito. Salv atore si è riparato gli occhi con la m ano e ha scrutato la cim a. — Ci scom m etto che da là sopra si v ede il m are. Sì, la dobbiam o scalare. Siam o rim asti a guardarla in silenzio. Quella era un'av v entura, altro che i m aiali di Melichetti. — E sul cocuzzolo ci m ettiam o la nostra bandiera. Così se qualcuno ci salirà, capirà che siam o arriv ati prim a noi, — ho fatto io. — Che bandiera? Non abbiam o la bandiera, — ha detto Salv atore. — Ci m ettiam o la gallina. Il Teschio ha afferrato il sacco dov e stav a il v olatile e ha com inciato a farlo girare in aria. — Giusto! Le tiriam o il collo e poi le infiliam o una m azza in culo e la piantiam o per terra. Rim arrà lo scheletro. La porto su io. Una gallina im palata potev ano prenderla per un segno delle streghe. Ma il Teschio ha tirato fuori l'asso. — Dritti, su per la collina. Niente curv e. E v ietato stare uno dietro l'altro. E v ietato ferm arsi. Chi arriv a ultim o paga penitenza. Siam o rim asti senza parole. Una gara! Perché? Era chiaro. Per v endicarsi di Barbara. Sarebbe arriv ata ultim a e av rebbe pagato. Ho pensato a m ia sorella. Ho detto che era troppo piccola per gareggiare e che non era v alido, av rebbe perso. Barbara ha fatto di no con il dito. Av ev a capito la sorpresina che le stav a preparando il Teschio. — Che c'entra? Una gara è una gara. È v enuta con noi. Sennò ci dev e aspettare giù. Questo non si potev a fare. Non potev o lasciare Maria. La storia dei coccodrilli continuav a a ronzarm i in testa. Melichetti era stato gentile, m a non bisognav a fidarsi troppo. Se l'am m azzav a, io poi che raccontav o a m am m a? — Se m ia sorella resta, resto anch'io. Ci si è m essa pure Maria. — Non sono piccola! Voglio fare la gara. — Tu stai zitta! Ci ha pensato il Teschio a risolv ere. Potev a v enire, m a non gareggiav a. Abbiam o buttato le biciclette dietro il fontanile e siam o partiti. Ecco perché m i trov av o sopra quella collina. Ho rim esso la scarpa a Maria. — Ce la fai a cam m inare? — No. Mi fa troppo m ale. — Aspetta —. Le ho soffiato due v olte sulla gam ba. Poi ho affondato le m ani nella terra rov ente. Ne ho presa un po', ci ho sputato sopra e gliel'ho spalm ata sulla cav iglia. — Così passa —. Sapev o che non funzionav a. La terra era buona per le punture di api e l'ortica, non per le storte, m a forse ci cascav a. — Va m eglio? Si è pulita il naso con un braccio. — Un po'. — Ce la fai a cam m inare? — Sì. L'ho presa per m ano. — Allora andiam o, forza, che siam o ultim i. Ci siam o av v iati v erso la cim a. Ogni cinque m inuti Maria dov ev a sedersi per far riposare la gam ba. Per fortuna si è alzato un po' di v ento che ha m igliorato le cose. Frusciav a nel grano, facendo un suono che assom igliav a a un respiro. A un tratto m i è sem brato di scorgere un anim ale passarci accanto. Nero, v eloce, silenzioso. Un lupo? Non c'erano lupi dalle nostre parti. Forse una v olpe o un cane. La salita era ripida e non finiv a m ai. Dav anti agli occhi av ev o solo grano, m a quando ho com inciato a v edere uno spicchio di cielo ho capito che m ancav a poco, che la cim a era là, e senza neanche rendercene conto, ci stav am o sopra. Non c'era proprio niente di speciale. Era coperta di grano com e tutto il resto. Sotto i piedi av ev am o la stessa terra rossa e cotta. Sopra la testa lo stesso sole incandescente. Ho guardato l'orizzonte. Una foschia lattiginosa v elav a le cose. Il m are non si v edev a. Si v edev ano però le altre colline, più basse, e la fattoria di Melichetti con i suoi recinti per i m aiali e la grav ina e si v edev a la strada bianca che tagliav a i cam pi, quella lunga strada che av ev am o percorso in bicicletta per arriv are fino a lì. E, piccola piccola, si v edev a la frazione dov e abitav am o. Acqua Trav erse. Quattro casette e una v ecchia v illa di cam pagna disperse nel grano. Lucignano, il paese v icino, era nascosto dalla nebbia. Mia sorella ha detto: — Voglio guardare pure io. Fam m i guardare. Me la sono m essa sulle spalle, anche se non m i reggev o in piedi dalla fatica. Chissà cosa v edev a senza occhiali. — Dov e stanno gli altri? Dov 'erano passati l'ordine delle spighe era sparito, m olti steli erano piegati in due e alcuni erano spezzati. Abbiam o seguito le tracce che portav ano v erso l'altro v ersante della collina. Maria m i ha stretto la m ano e m i ha conficcato le unghie nella pelle. — Che schifo! Mi sono v oltato. Lo av ev ano fatto. Av ev ano im palato la gallina. Se ne stav a in punta a una canna. Le zam pe penzoloni, le ali spalancate. Com e se prim a di rendere l'anim a al Creatore si fosse abbandonata ai suoi carnefici. La testa le pendev a da un lato, com e un orripilante pendaglio intriso di sangue. Dal becco socchiuso colav ano pesanti gocce rosse. E dal petto le usciv a la punta della canna. Un nugolo di m osche m etallizzate le ronzav a intorno e si affollav a sugli occhi, sul sangue. Un briv ido m i si è arram picato sulla schiena. Siam o andati av anti e dopo av er superato la spina dorsale della collina abbiam o com inciato a scendere. Dov e diav olo erano andati gli altri? Perché erano scesi da quella parte? Abbiam o fatto un'altra v entina di m etri e lo abbiam o scoperto. La collina non era tonda. Dietro perdev a la sua inappuntabile perfezione. Si allungav a in una specie di gobba che degradav a torcendosi dolcem ente fino a unirsi alla pianura. In m ezzo c'era una v alle stretta, chiusa, inv isibile se non da là sopra o da un aeroplano. Con la creta sarebbe facilissim o m odellare quella collina. Basta fare una palla. Tagliarla in due. Una m età poggiarla sul tav olo. Con l'altra m età fare una salsiccia, una specie di v erm e ciccione, da appiccicare dietro, lasciando al centro una piccola conca. La cosa strana era che dentro quella conca nascosta erano cresciuti degli alberi. Al riparo dal v ento e dal sole ci stav a un boschetto di querce. E una casa abbandonata, con il tetto tutto sfondato, le tegole m arroni e i trav i scuri, spuntav a tra le fronde v erdi. Siam o scesi giù per il v iottolo e siam o entrati nella v alletta. Era l'ultim a cosa che m i sarei aspettato. Alberi. Om bra. Fresco. Non si sentiv ano più i grilli, m a il cinguettio degli uccelli. C'erano ciclam ini v iola. E tappeti d'edera v erde. E un buon odore. Veniv a v oglia di trov arsi un posticino accanto a un tronco e farsi un sonno. Salv atore è apparso all'im prov v iso, com e un fantasm a. — Hai v isto? Forte! — Fortissim o! — ho risposto guardandom i in giro. Forse c'era un ruscello dov e bere. — Perché ci hai m esso tanto? Pensav o che eri tornato giù. — No, è che m ia sorella av ev a m ale a un piede, così… Ho sete. Dev o bere. Salv atore ha tirato fuori dallo zaino una bottiglia. — Ne è rim asta poca —. Con Maria ce la siam o div isa da brav i fratelli. Bastav a appena a inum idirci la bocca. — Chi ha v into la gara? — Mi preoccupav o per la penitenza. Ero stanco m orto. Sperav o che il Teschio, per una v olta, m e la potesse abbonare o spostare a un altro giorno. — Il Teschio. —E tu? — Secondo. Poi Rem o. — Barbara? — Ultim a. Com e al solito. — La penitenza chi la dev e fare? — Il Teschio dice che la dev e fare Barbara. Barbara però dice che la dev i fare tu perché sei arriv ato ultim o. — E allora? — Non lo so, m e ne sono andato a fare un giro. Mi hanno rotto queste penitenze. Ci siam o incam m inati v erso la casa. Si reggev a in piedi per scom m essa. Sorgev a al centro di uno spiazzo di terra coperto dai ram i delle querce. Crepe profonde l'attrav ersav ano dalle fondam enta fino al tetto. Degli infissi erano rim aste solo le tracce. Un fico, tutto annodato, era cresciuto sopra le scale che portav ano al balcone. Le radici av ev ano sm antellato i gradini di pietra e fatto crollare il parapetto. Sopra c'era ancora una v ecchia porta colorata d'azzurro, m arcia fino all'osso e scrostata dal sole. Al centro della costruzione un grande arco si apriv a su una stanza con il soffitto a v olta. Una stalla. Puntelli arrugginiti e pali di legno sostenev ano il solaio che in m olti punti era crollato. A terra c'era letam e rinsecchito, cenere, m ucchi di m attonelle e calcinacci. I m uri av ev ano perso gran parte dell'intonaco e m ostrav ano i sassi poggiata a secco. Il Teschio era seduto su un cassone dell'acqua. Tirav a sassi contro un bidone arrugginito e ci osser v av a. — Ce l'hai fatta, — e ha aggiunto per precisione: — Questo posto è m io. — Com e è tuo? — E m io. Io l'ho v isto per prim o. Le cose sono di chi le trov a per prim o. Sono stato spinto in av anti e per poco non finiv o faccia a terra. Mi sono v oltato. Barbara, tutta rossa, la m aglietta sporca, Ì capelli arruffati, m i è v enuta addosso pronta a fare a botte. — Tocca a te. Tu sei arriv ato ultim o. Hai perso! Ho m esso i pugni av anti. — Sono tornato indietro. Sennò arriv av o terzo. Lo sai. — Che c'entra? Hai perso! — A chi tocca fare la penitenza? — ho dom andato al Teschio. — A m e o a lei? Si è preso tutto il tem po per rispondere, poi ha indicato Barbara. — Hai v isto? Hai v isto? — Ho am ato il Teschio. Barbara ha com inciato a dare calci nella polv er e. — Non è giusto! Non è giusto! Sem pre a m e! Perché sem pre a m e? Non lo sapev o. Ma sapev o che c'è sem pre uno che si becca tutta la sfortuna. In quei giorni era Barbara Mura, la cicciona, era lei l'agnello che toglie i peccati. Mi dispiacev a, m a ero felice di non essere io al posto suo. Barbara si aggirav a tra noi com e un rinoceronte. — Facciam o la v otazione, allora! Non può decidere tutto lui. A distanza di v entidue anni non ho ancora capito com e facev a a sopportarci. Dov ev a essere per la paura di rim anere da sola. — Va bene. Facciam o la v otazione, — ha concesso il Teschio. — Io dico che tocca a te. — Pure io, — ho detto. — Pure io, — ha ripetuto a pappagallo Maria. Abbiam o guardato Salv atore. Nessuno potev a astenersi, quando c'era la v otazione. Era la regola, — Pure io, — ha fatto Salv atore, quasi sussurrando. — Visto? Cinque contro uno. Hai perso. Tocca a te, — ha concluso il Teschio. Barbara ha stretto le labbra e i pugni, ho v isto che deglutiv a una specie di palla da tennis. Ha abbassato la testa, m a non ha pianto. L'ho rispettata. — Che… dev o fare? — ha balbettato. Il Teschio si è m assaggiato la gola. La sua m ente bastarda si è m essa al lav oro. Ha tentennato un istante. — Ce la dev i… far v edere. .. Ce la dev i far v edere a tutti. Barbara ha barcollato. — Cosa v i dev o far v edere? — L'altra v olta ci hai fatto v edere le tette —. E riv olgendosi a noi. — Questa v olta ci fa v edere la fessa. La fessa pelosa. Ti abbassi le m utande e ce la fai v edere —. Si è m esso a sghignazzare aspettandosi che anche noi av rem m o fatto lo stesso, m a non è stato così. Siam o rim asti gelati, com e se un v ento del Polo Nord si fosse im prov v isam ente infilato nella v alle. Era una penitenza esagerata. Nessuno di noi av ev a v oglia di v edere la fessa di Barbara. Era una penitenza pure per noi. Lo stom aco m i si è stretto. Desiderav o essere lontano. C'era qualcosa di sporco, di… Non lo so. Di brutto, ecco. E m i dav a fastidio che ci fosse m ia sorella lì. — Te lo puoi scordare, — ha fatto Barbara scuotendo la testa. — Non m 'im porta se m i picchi. Il Teschio si è m esso in piedi e le si è av v icinato con le m ani in tasca. Tra i denti stringev a una spiga di grano. Le si è parato dav anti. Ha allungato il collo. Non è che poi era tanto più alto di Barbara. E nem m eno tanto più forte. Non ci av rei m esso una m ano sul fuoco che se il Teschio e Barbara facev ano a botte, il Teschio av ev a la m eglio tanto facilm ente. Se Barbara lo buttav a a terra e gli saltav a sopra lo potev a pure soffocare. — Hai perso. Ora ti abbassi i pantaloni. Così im pari a fare la stronza. —No! Il Teschio le ha dato uno schiaffo. Barbara ha spalancato la bocca com e una trota e si è m assaggiata la guancia. Ancora non piangev a. Si è girata v erso di noi. — Non dite niente v oi? — ha piagnucolato. — Siete com e lui! Noi zitti. — Va bene. Ma non m i v edrete m ai più. Lo giuro sulla testa di m ia m adre. — Che fai, piangi? — Il Teschio se la godev a da m atti. — No, non piango, — è riuscita a dire trattenendo i singhiozzi. Av ev a dei pantaloni di cotone v erdi con le toppe m arroni sulle ginocchia, di quelli che si com prav ano al m ercato dell'usato. Le andav ano stretti e la ciccia le ricadev a sopra la cinta. Si è aperta la fibbia e ha com inciato a slacciarsi i bottoni. Ho intrav isto le m utande bianche con dei fiorellini gialli. — Aspetta! Io sono arriv ato ultim o, —ho sentito che dicev a la m ia v oce. Tutti si sono girati. — Si, — ho inghiottito. — La v oglio fare io. — Cosa? — m i ha chiesto Rem o. — La penitenza. — No. Tocca a lei, — m i ha fulm inato il Teschio. — Tu non c'entri niente. Stai zitto. — C'entro, inv ece. Io sono arriv ato ultim o. La dev o fare io. — No. Decido io —. Il Teschio m i è v enuto incontro. Mi trem av ano le gam be, m a sperav o che nessuno se ne accorgesse. — Rifacciam o la v otazione. Salv atore si è m esso tra m e e il Teschio. — Si può rifare. Tra noi esistev ano delle regole e tra queste c'era che una v otazione si potev a rifare. Ho alzato la m ano. — Tocca a m e. Salv atore ha alzato la m ano. — Tocca a Michele. Barbara si è riallacciata la cinta e ha singhiozzato. — Tocca a lui. E giusto. Il Teschio è stato preso alla sprov v ista, ha fissato Rem o con gli occhi da pazzo. — E tu? Rem o ha sospirato. — Tocca a Barbara. — Che dev o fare? — ha chiesto Maria. Le ho fatto segno di sì con la testa. — Tocca a m io fratello. E Salv atore ha detto: — Quattro contro due. Ha v into Michele. Tocca a lui. Arriv are al piano di sopra della casa non è stato sem plice. La scala non esistev a più. I gradini erano ridotti a un am m asso di blocchi di pietra. Riusciv o a salire aggrappandom i ai ram i del fico. I rov i m i graffiav ano le braccia e le gam be. Una spina m i av ev a scorticato la guancia destra. Di cam m inare sul parapetto, non se ne parlav a. Se franav a finiv o di sotto, in una selv a di ortiche e rose selv atiche. Era la penitenza che m i ero beccato per av er fatto l'eroe. — Dev i salire al prim o piano. Entrare. Attrav ersare tutta la casa e dalla finestra in fondo saltare sull'albero e scendere. Av ev o tem uto che il Teschio m i av rebbe costretto a m ostrare il pesce o a infilarm i una m azza in culo e inv ece av ev a scelto di farm i fare una cosa pericolosa, dov e al m assim o m i potev o ferire. Meglio. Stringev o i denti e av anzav o senza lam entarm i. Gli altri stav ano seduti sotto una quercia a godersi lo spettacolo di Michele Am itrano che si scassav a le corna. Ogni tanto arriv av a un consiglio. — Passa di là. — Dev i andare dritto. Lì è pieno di spine. — Mangiati una m ora che ti fa bene. Non li stav o a sentire. Ero sul terrazzino. C'era uno spazio stretto tra i rov i e il m uro. Mi ci sono infilato dentro e sono arriv ato alla porta. Era chiusa con una catena m a il lucchetto, m angiato dalla ruggine, era aperto. Ho spinto un battente e con un gem ito ferroso la porta si è spalancata. Un gran frullare di ali. Pium e. Uno storm o di piccioni ha preso il v olo ed è uscito attrav erso un buco nel tetto. — Com 'è? Com 'è dentro? — ho sentito che dom andav a il Teschio. Non m i sono dato pena di rispondergli. Sono entrato, attento a dov e m ettev o i piedi. Ero in una stanza grande. Molte tegole erano cadute e un trav e penzolav a al centro. In un angolo c'era un cam ino, con una cappa a form a di piram ide annerita dal fum o. In un altro angolo erano am m assati dei m obili. Una v ecchia cucina rov esciata e arrugginita. Bottiglie. Cocci. Tegole. Una rete sfondata. Tutto era coperto di m erda di piccioni. E c'era un odore forte, un tanfo acre che ti si ficcav a in fondo al naso e alla gola. Sopra il pav im ento di graniglia era cresciuta una selv a di piante ed erbacce selv atiche. In fondo alla stanza c'era una porta dipinta di rosso, chiusa, che di sicuro dav a sulle altre stanze della casa. Dov ev o passare di lì. Ho poggiato un piede, sotto le suole le assi scricchiolav ano e il pav im ento ondeggiav a. A quel tem po pesav o sui trentacinque chili— Più o m eno com e una tanica d'acqua. Mi sono chiesto se una tanica d'acqua, m essa al centro di quella stanza, sfondav a il pav im ento. Meglio non prov arci. Per arriv are alla porta successiv a era più prudente cam m inare raso ai m uri. Trattenendo il respiro, in punta di piedi com e una ballerina, ho seguito il perim etro della cam era. Se il pav im ento si sfondav a finiv o nella stalla, dopo un v olo di alm eno quattro m etri. Roba da spaccarsi le ossa. Ma non è accaduto. Nella stanza dopo, grande più o m eno com e la cucina, il pav im ento m ancav a del tutto. Ai lati era crollato e ora solo una specie di ponte univ a la m ia porta con quella dall'altra parte. Dei sei trav i che reggev ano il pav im ento erano rim asti sani solo i due al centro. Gli altri erano tronconi m angiati dai tarli. Non potev o seguire i m uri. Mi toccav a attrav ersare quel ponte. I trav i che lo sostenev ano non dov ev ano essere in condizioni m igliori degli altri. Mi sono paralizzato sotto lo stipite della porta. Non potev o tornare indietro. Mi av rebbero rotto le scatole fino alla m orte. E se m i buttav o di sotto? All'im prov v iso quei quattro m etri che m i div idev ano dalla stalla non sem brav ano più tanti. Potev o dire agli altri che era im possibile arriv are alla finestra. In certi m om enti il cerv ello gioca brutti scherzi. Circa dieci anni dopo m i è successo di andare a sciare sul Gran Sasso. Era il giorno sbagliato, nev icav a, facev a un freddo polare, tirav a un v entaccio che ghiacciav a le orecchie e c'era la nebbia. Av ev o diciannov e anni e a sciare c'ero stato una v olta sola. Ero eccitatissim o e non m i im portav a niente se tutti dicev ano che era pericoloso, io v olev o sciare. Sono m ontato sulla seggiov ia, im bacuccato com e un eschim ese, e sono partito per le piste. Il v ento era così forte che il m otore dell'im pianto si spegnev a autom aticam ente e si riav v iav a solo quando le raffiche si attenuav ano. Facev a dieci m etri poi si bloccav a per un quarto d'ora poi altri quaranta m etri e v enti m inuti ferm o. Così, all'infinito. Da im pazzire. Per quel poco che riusciv o a v edere la seggiov ia era v uota. Piano piano ho sm esso di sentire le punte dei piedi, le orecchie, le dita delle m ani. Cercav o di spazzarm i la nev e di dosso, m a era fatica sprecata, cadev a silenziosa, leggera e incessante. A un certo punto ho com inciato ad assopirm i, a ragionare più lentam ente, m i sono fatto forza e m i sono detto che se m i addorm entav o sarei m orto. Ho urlato, ho chiesto aiuto. Mi ha risposto il v ento. Ho guardato in basso. Ero proprio sopra una pista. Appeso a una decina di m etri dalla nev e. Ho ripensato alla storia di quell'av iatore che durante la guerra si era buttato dall'aereo in fiam m e e non gli si era aperto il paracadute e non era m orto, salv ato dalla nev e soffice. Dieci m etri non erano tanti. Se m i buttav o bene, se non m i irrigidiv o, non m i facev o niente, il paracadutista non si era fatto niente. Una parte del cerv ello m i ripetev a ossessiv a. «Buttati! Buttati! Buttati!» Ho sollev ato la sbarra di sicurezza. E ho com inciato a dondolarm i. Per fortuna in quel m om ento la seggiov ia si è m ossa e ho ripreso coscienza. Ho abbassato la sbarra. Era altissim o, com e m inim o m i spezzav o le gam be. In quella casa prov av o la stessa cosa. Volev o buttarm i di sotto. Poi m i sono ricordato di av er letto su un libro di Salv atore che le lucertole possono salire sui m uri perché hanno una perfetta distribuzione del peso. Lo scaricano sulle zam pe, sul v entre e sulla coda, gli uom ini inv ece solo sui piedi ed è per questo che affondano nelle sabbie m obili. Ecco, cosa dov ev o fare. Mi sono inginocchiato, m i sono steso e ho com inciato a strisciare. A ogni m ov im ento che facev o cadev ano calcinacci e m attonelle. Leggero, leggero com e una lucertola, m i ripetev o. Sentiv o le trav i trem are. Ci ho m esso cinque m inuti buoni m a sono arriv ato sano e salv o dall'altra parte. Ho spinto la porta. Era l'ultim a. In fondo c'era la finestra che dav a sul cortile. Un lungo ram o s'insinuav a fino alla casa. Era fatta. Anche qui il pav im ento av ev a ceduto, m a solo per m età. L'altra resistev a. Ho usato la v ecchia tecnica, cam m inare appiccicato alle pareti. Sotto v edev o una stanza in penom bra. C'erano i resti di un fuoco, dei barattoli aperti di pelati e pacchi di pasta v uoti. Qualcuno dov ev a essere stato lì da non m olto tem po. Sono arriv ato alla finestra senza intoppi. Ho guardato giù. C'era un piccolo cortile recintato da una fascia di rov i e dietro il bosco che prem ev a. A terra c'erano un lav atoio di cem ento crepato, il braccio arrugginito di una gru, m ucchi di calcinacci coperti di edera, una bom bola del gas e un m aterasso. Il ram o su cui dov ev o salire era v icino, a m eno di un m etro. Non abbastanza però, da poterci arriv are senza fare un salto. Era grosso e sinuoso com e un anaconda. Si allungav a per più di cinque m etri. Mi av rebbe sostenuto. Arriv ato in fondo av rei trov ato il m odo di scendere. Sono m ontato in piedi sul dav anzale, m i sono fatto il segno della croce e m i sono lanciato a braccia in av anti com e un gibbone della foresta am azzonica. Sono finito di pancia sul ram o, ho prov ato ad abbrancarlo, m a era grande. Ho usato le gam be m a non c'erano appigli. Ho com inciato a sciv olare. Cercav o di artigliarm i alla corteccia. La salv ezza era di fronte a m e. Un ram o più piccolo stav a lì a qualche decina di centim etri. Mi sono caricato e con uno scatto di reni l'ho afferrato con tutte e due le m ani. Era secco. Si è spezzato. Sono atterrato di schiena. Sono rim asto im m obile, a occhi chiusi, sicuro di esserm i rotto l'osso del collo. Non sentiv o dolore. Me ne stav o steso, pietrificato, con il ram o tra le m ani, cercando di capire perché non soffriv o. Forse ero div entato un paralitico che anche se gli spegni una sigaretta su un braccio e gli infili una forchetta in una coscia non sente niente. Ho aperto gli occhi. Sono rim asto a fissare l'im m enso om brello v erde della quercia che incom bev a su di m e. Lo sfav illio del sole tra le foglie. Dov ev o cercare di sollev are la testa. L'ho sollev ata. Ho buttato quel ram o cretino. Ho toccato con le m ani la terra. E ho scoperto di essere su una cosa soffice. Il m aterasso. Mi sono riv isto che precipitav o, che v olav o e m i schiantav o senza farm i niente. C'era stato un rum ore basso e cupo nel m om ento esatto in cui ero atterrato. Lo av ev o sentito, potev o giurarci. Ho m osso i piedi e ho scoperto che sotto le foglie, i ram etti e la terra c'era un ondulato v erde, una tettoia di plastica trasparente. Era stata ricoperta com e per nasconderla. E quel v ecchio m aterasso ci era stato poggiato sopra. Era stato l'ondulato a salv arm i. Si era piegato assorbendo la caduta. Quindi, sotto, dov ev a essere v uoto. Potev a esserci un nascondiglio segreto o un cunicolo che portav a in una cav erna piena d'oro e pietre preziose. Mi sono m esso carponi e ho spinto in av anti la lastra. Pesav a, m a, piano piano, l'ho spostata un poco. Si è sprigionato un tanfo terribile di m erda. Ho v acillato, m i sono m esso una m ano stalla bocca e ho spinto ancora. Ero cascato sopra un buco. Era buio. Ma più spostav o la lastra e più rischiarav a. Le pareti erano fatte di terra, scav ate a colpi di v anga. Le radici della quercia erano state tagliate. Sono riuscito a spingerla ancora un po'. Il buco era largo un paio di m etri e profondo due m etri, due m etri e m ezzo. Era v uoto. No, c'era qualcosa. Un m ucchio di stracci appallottolati? No… Un anim ale? Un cane? No… Cos'era? Era senza peli… bianco… una gam ba… Una gam ba! Ho fatto un salto indietro e per poco non sono inciam pato. Una gam ba? Ho preso fiato e m i sono affacciato un istante. Era una gam ba. Ho sentito le orecchie bollenti, la testa e le braccia che m i pesav ano. Stav o per sv enire. Mi sono seduto, ho chiuso gli occhi, ho poggiato la fronte su una m ano, ho respirato. Av ev o la tentazione di scappare, di correre dagli altri. Ma non potev o. Dov ev o prim a guardare un'altra v olta. Mi sono av v icinato e ho sporto la testa. Era la gam ba di un bam bino. E un gom ito spuntav a dagli stracci. In fondo a quel buco c'era un bam bino. Era steso su un fianco. Av ev a la testa nascosta tra le gam be. Non si m uov ev a. Era m orto. Sono rim asto a guardarlo per non so quanto tem po. C'era anche un secchio. E un pentolino. Forse dorm iv a. Ho preso un sasso piccolo e gliel'ho tirato. L'ho colpito sulla coscia. Non si è m osso. Era m orto. Mortissim o. Un briv ido m i ha m orso la nuca. Ho preso un altro sasso e l'ho colpito sul collo. Ho av uto l'im pressione che si m uov esse. Un leggero m ov im ento del braccio. — Dov e stai? Dov e stai? Dov e sei finito, recchione? Gli altri! Il Teschio m i stav a chiam ando. Ho afferrato la lastra e l'ho tirata fino a tappare il buco. Poi ho sparpagliato le foglie e la terra e ci ho rim esso su il m aterasso. — Dov e stai, Michele? Sono andato v ia, m a prim a m i sono girato un paio di v olte a controllare che ogni cosa fosse al suo posto. Pedalav o sulla Scassona. Il sole alle m ie spalle era una palla rossa e im m ensa, e quando finalm ente è finito nel grano, è scom parso lasciandosi dietro una cosa arancione e v iola. Mi av ev ano chiesto com 'era andata nella casa, se era stato pericoloso, se ero caduto, se ci stav ano cose strane, se saltare sull'albero era stato difficile. Av ev o risposto a m onosillabi. Alla fine, annoiati, av ev am o preso la v ia del ritorno. Un sentiero partiv a dalla v alle, attrav ersav a i cam pi ocra e raggiungev a la strada. Av ev am o recuperato le biciclette e pedalav am o in silenzio. Sciam i di m oscerini ci ronzav ano intorno. Guardav o Maria che m i seguiv a sulla sua Graziella con le ruote m angiate dalle pietre, il Teschio, dav anti a tutti, con accanto il suo scudiero Rem o, Salv atore che av anzav a zigzagando, Barbara sulla sua Bianchi troppo grande, e pensav o al bam bino nel buco. Non av rei detto niente a nessuno. — Le cose sono di chi le trov a per prim o, — av ev a deciso il Teschio. Se era così, il bam bino in fondo al buco era m io. Se lo dicev o, il Teschio, com e sem pre, si prendev a tutto il m erito della scoperta. Av rebbe raccontato a tutti che lo av ev a trov ato lui perché era stato lui a decidere di salire sopra la collina. Questa v olta no. Io av ev o fatto la penitenza, io ero caduto dall'albero e io l'av ev o trov ato. Non era del Teschio. E neanche di Barbara. Non era di Salv atore. Era m io. Era la m ia scoperta segreta. Non sapev o se av ev o trov ato un m orto o un v iv o. Forse il braccio non si era m osso. Me l'ero im m aginato. O forse erano le contrazioni di un cadav ere. Com e quelle delle v espe, che anche se le div idi in due con le forbici continuano a cam m inare, o com e i polli, che anche senza testa sbattono le ali. Ma che ci facev a là dentro? — Che diciam o a m am m a? Non m i ero accorto che m ia sorella m i pedalav a accanto. — Cosa? — Che diciam o a m am m a? — Non lo so. — Glielo dici tu degli occhiali? — Sì, m a non le dev i dire niente di dov e siam o andati. Se lo scopre dirà che gli occhiali li hai rotti perché siam o saliti lassù. — Va bene. — Giuram elo. — Te lo giuro —. Si è baciata gli indici. Oggi Acqua Trav erse è una frazione di Lucignano. A m età degli anni Ottanta un geom etra ha costruito due lunghe schiere di v illette di cem ento arm ato. Dei cubi con le finestre circolari, le ringhiere azzurre e i tondini d'acciaio che spuntano dal tetto. Poi sono arriv ati una Coop e un bar tabacchi. E una strada asfaltata a due corsie che corre dritta com e una pista d'atterraggio fino a Lucignano. Nel 1 9 7 8 Acqua Trav erse inv ece era così piccola che non era niente. Un borgo di cam pagna, lo chiam erebbero oggi su una riv ista di v iaggi. Nessuno sapev a perché quel posto si chiam av a cosi, neanche il v ecchio Tronca. Acqua non ce n'era, se non quella che portav ano con l'autocisterna ogni due settim ane. C'era la v illa di Salv atore, che chiam av am o il Palazzo. Un casone costruito nell'Ottocento, lungo e grigio e con un grande portico di pietra e un cortile interno con una palm a. E c'erano altre quattro case. Non per m odo di dire. Quattro case in tutto. Quattro m isere case di pietra e m alta con il tetto di tegole e le finestre piccole. La nostra. Quella della fam iglia del Teschio. Quella della fam iglia di Rem o che la div idev a col v ecchio Tronca. Tronca era sordo e gli era m orta la m oglie, e v iv ev a in due stanze che dav ano sull'orto. E c'era la casa di Pietro Mura, il padre di Barbara. Angela, la m oglie, di sotto av ev a lo spaccio dov e potev i com prare il pane, la pasta e il sapone. E potev i telefonare. Due case da una parte, due dall'altra. E una strada, sterrata e piena di buche, al centro. Non c'era una piazza. Non c'erano v icoli. C'erano però due panchine sotto una pergola di uv a fragola e una fontanella che av ev a il rubinetto con la chiav e per non sprecare acqua. Tutto intorno i cam pi di grano. L'unica cosa che si era guadagnata quel posto dim enticato da Dio e dagli uom ini era un bel cartello blu con scritto in m aiuscolo A CQU A TRA V ERSE. — E arriv ato papà! — ha gridato m ia sorella. Ha buttato la bicicletta ed è corsa su per le scale. Dav anti a casa nostra c'era il suo cam ion, un Lupetto Fiat con il telone v erde. A quel tem po papà facev a il cam ionista e stav a fuori per m olte settim ane. Prendev a la m erce e la portav a al Nord. Av ev a prom esso che una v olta m i ci av rebbe portato pure a m e al Nord. Non riusciv o tanto bene a im m aginarm i questo Nord. Sapev o che il Nord era ricco e che il Sud era pov ero. E noi erav am o pov eri. Mam m a dicev a che se papà continuav a a lav orare così tanto, presto non sarem m o stati più pov eri, sarem m o stati benestanti. E quindi non dov ev am o lam entarci se papà non c'era. Lo facev a per noi. Sono entrato in casa con il fiatone. Papà era seduto al tav olo in m utande e canottiera. Av ev a dav anti una bottiglia di v ino rosso e tra le labbra una sigaretta con il bocchino e m ia sorella appollaiata su una coscia. Mam m a, di spalle, cucinav a. C'era odore di cipolle e salsa di pom odoro. Il telev isore, uno scatolone Grundig in bianco e nero che av ev a portato papà qualche m ese prim a, era acceso. Il v entilatore ronzav a. — Michele, dov e siete stati tutto il giorno? Vostra m adre stav a im pazzendo. Non pensate a questa pov era donna che dev e già aspettare il m arito e non può aspettare pure v oi? Che è successo agli occhiali di tua sorella? Non era arrabbiato v eram ente. Quando si arrabbiav a v eram ente gli occhi gli usciv ano fuori com e ai rospi. Era felice di essere a casa. Mia sorella m i ha guardato. — Abbiam o costruito una capanna al torrente, — ho tirato fuori dalla tasca gli occhiali. — E si sono rotti. Ha sputato una nuv ola di fum o. — Vieni qua. Fam m eli v edere. Papà era un uom o piccolo, m agro e nerv oso. Quando si sedev a alla guida del cam ion quasi scom pariv a dietro il v olante. Av ev a i capelli neri, tirati con la brillantina. La barba ruv ida e bianca sul m ento. Odorav a di Nazionali e acqua di colonia. Glieli ho dati. — Sono da buttare —. Li ha poggiati sul tav olo e ha detto: — Niente più occhiali. Io e m ia sorella ci siam o guardati. — E com e faccio? — ha chiesto Maria preoccupata. — Stai senza. Così im pari. Mia sorella è rim asta senza parole. — Non può. Non ci v ede, — sono interv enuto io. — E chi se ne im porta. —Ma… — Macché m a —. E ha detto a m am m a: — Teresa, dam m i quel pacchetto che sta sulla credenza. Mam m a gliel'ha portato. Papà lo ha scartato e ha tirato fuori un astuccio blu, duro e v ellutato. — Tieni. Maria lo ha aperto e dentro c'era un paio di occhiali con la m ontatura di plastica m arrone. — Prov ali. Maria se li è infilati, m a continuav a a carezzare l'astuccio. Mam m a le ha dom andato: — Ti piacciono? — Sì. Molto. La scatola è bellissim a, — ed è andata a guardarsi allo specchio. Papà si è v ersato un altro bicchiere di v ino. — Se rom pi pure questi, la prossim a v olta ti lascio senza, capito? — Poi m i ha preso per un braccio. — Fam m i sentire il m uscolo. Ho piegato il braccio e l'ho irrigidito. Mi ha stretto il bicipite. — Non m i sem bra che sei m igliorato. Le fai le flessioni? — Sì. Odiav o fare le flessioni. Papà v olev a che le facev o perché dicev a che ero rachitico. — Non è v ero, — ha detto Maria, — non le fa. — Ogni tanto le faccio. Quasi sem pre. — Mettiti qua —. Mi sono seduto anch'io sulle sue ginocchia e ho prov ato a baciarlo. — Non m i baciare, che sei tutto sporco. Se v uoi baciare tuo padre, prim a dev i lav arti. Teresa, che facciam o, li m andiam o a letto senza cena? Papà av ev a un bel sorriso, i denti bianchi, perfetti. Né io né m ia sorella li abbiam o ereditati. Mam m a ha risposto senza neanche v oltarsi. — Sarebbe giusto! Io con questi due non ce la faccio più —. Lei sì che era arrabbiata. — Facciam o cosi. Se v ogliono cenare e av ere il regalo che ho portato, Michele m i dev e battere a braccio di ferro. Sennò a letto senza cena. Ci av ev a portato un regalo! — Tu scherza, scherza… — Mam m a era troppo contenta che papà era di nuov o a casa. Quando papà partiv a, le facev a m ale lo stom aco e più passav a il tem po e m eno parlav a. Dopo un m ese si am m utoliv a del tutto. — Michele non ti può battere. Non v ale, — ha detto Maria. — Michele, m ostra a tua sorella che sai fare. E tieni larghe quelle gam be. Se stai tutto storto perdi subito e niente regalo. Mi sono m esso in posizione. Ho stretto i denti e la m ano di papà e ho com inciato a spingere. Niente. Non si m uov ev a. — Dai! Che c'hai la ricotta al posto dei m uscoli? Sei più debole di un m oscerino! Tirala fuori questa forza, Cristo di Dio! Ho m orm orato: — Non ce la faccio. Era com e piegare una sbarra di ferro. — Sei una fem m ina, Michele. Maria, aiutalo, dai! Mia sorella è m ontata sul tav olo e in due, stringendo i denti e respirando dal naso, siam o riusciti a fargli abbassare il braccio. — Il regalo! Dacci il regalo! — Maria è saltata giù dal tav olo. Papà ha preso una scatola di cartone, piena di fogli di giornale appallottolati. Dentro c'era il regalo. — Una barca! — ho detto. — Non è una barca, è una gondola, — m i ha spiegato papà. — Che è una gondola? — Le gondole sono le barche v eneziane. E si adopera un rem o solo. — Che sono i rem i? — ha dom andato m ia sorella. — Dei bastoni per m uov ere la barca. Era m olto bella. Tutta di plastica nera. Con i pezzettini argentati e in fondo un pupazzetto con una m aglietta a righe bianche e rosse e il cappello di paglia. Ma abbiam o scoperto che non la potev am o prendere. Era fatta per essere m essa sul telev isore. E tra il telev isore e la gondola ci dov ev a stare un centrino di pizzo bianco. Com e un laghetto. Non era un giocattolo. Era una cosa preziosa. Un sopram m obile. — A chi tocca prendere l'acqua? Tra poco si m angia, — ci ha dom andato m am m a. Papà era dav anti alla telev isione a guardare le notizie. Stav o apparecchiando la tav ola. — Tocca a Maria. Ieri ci sono andato io. Maria era seduta sulla poltrona con le sue bam bole. — Non ho v oglia, v ai tu. A nessuno dei due piacev a andare alla fontana e quindi si facev a a turno, un giorno per uno. Ma era tornato papà e per m ia sorella significav a che le regole non v alev ano più. Ho fatto no con il dito. — Tocca a te. Maria ha incrociato le braccia. — Io non ci v ado. — Perché? — Mi fa m ale la testa. Ogni v olta che non le andav a di fare una cosa dicev a che le facev a m ale la testa. Era la sua scusa preferita. — Non è v ero, non ti fa m ale, bugiarda. — E v ero! — E si è com inciata a m assaggiare la fronte con un'espressione di dolore sulla faccia. Mi v eniv a v oglia di strangolarla. — Tocca a lei! Dev e andare lei! Mam m a, stufata, m i ha m esso in m ano la brocca. — Vai tu, Michele, che sei più grande. Non fare tante discussioni, — lo ha detto com e se fosse una cosa da niente, senza im portanza. Un sorriso di trionfo si è allargato sulle labbra di m ia sorella. — Hai v isto? — Non è giusto. Ieri ci sono andato io. Non ci v ado. Mam m a m i ha detto con quel tono aspro che le v eniv a un attim o prim a di infuriarsi: — Ubbidisci, Michele. — No —. Sono andato da papà a lam entarm i. —Papà, non tocca a m e. Ieri ci sono andato io. Ha tolto lo sguardo dalla telev isione e m i ha guardato com e se fosse la prim a v olta che m i v edev a, si è m assaggiato la bocca e ha detto: — Lo conosci il tocco del soldato? —No. Cos'è? — Lo sai com e facev ano i soldati durante la guerra per decidere chi andav a a fare le m issioni m or tali? — Ha tirato fuori dalla tasca una scatola di fiam m iferi e m e l'ha m ostrata. — No, non lo so. — Si prendono tre fiam m iferi, — li ha tirati fuori dalla scatola, — uno per te, uno per m e e uno per Maria. A uno si toglie la capocchia —. Ne ha preso uno e lo ha spezzato, poi li ha stretti tutti e tre nel pugno e ha fatto sporgere fuori i bastoncini. — Chi prende quello senza testa v a a prendere l'acqua. Scegline uno, forza. Ne ho tirato fuori uno sano. Ho fatto un salto di gioia. — Maria, tocca a te. Vieni. Mia sorella ne ha preso anche lei uno sano e ha battuto le m ani. — Mi sa che tocca a m e, — papà ha tirato fuori quello spezzato. Io e Maria abbiam o com inciato a ridere e a u r la r e. — Tocca a te! Tocca a te! Hai perso! Hai perso! Vai a prendere l'acqua! Papà si è alzato un po' av v ilito. — Quando torno v i dov ete essere lav ati. Chiaro? — Vuoi che ci v ado io? Tu sei stanco, — ha detto m am m a. — Non puoi. È una m issione m ortale. E dev o prendere le sigarette nel cam ion —. È uscito di casa con la brocca in m ano. Ci siam o lav ati, abbiam o m angiato pasta al pom odoro e frittata e dopo av er baciato papà e m am m a ce ne siam o andati a letto senza neanche insistere per v edere la telev isione. Mi sono sv egliato durante la notte. Per un brutto sogno. Gesù dicev a alzati e cam m ina a Lazzaro. Ma Lazzaro non si alzav a. Alzati e cam m ina, ripetev a Gesù. Lazzaro non ne v olev a proprio sapere di resuscitare. Gesù, che assom igliav a a Sev erino, quello che guidav a l'autocisterna dell'acqua, si arrabbiav a. Era una figuraccia. Quando Gesù ti dice alzati e cam m ina, tu lo dev i fare, soprattutto se sei m orto. Inv ece Lazzaro se ne stav a steso, rinsecchito. Allora Gesù incom inciav a a scuoterlo com e una bam bola e Lazzaro alla fine si alzav a e gli azzannav a la gola. Lascia stare i m orti, dicev a con le labbra im brattate di sangue. Ho sbarrato gli occhi tutto sudato. Quelle notti facev a così caldo, che se, per disgrazia, ti sv egliav i, era difficile riaddorm entarti. La stanza m ia e di m ia sorella era stretta e lunga. Era ricav ata da un corridoio. I due letti erano m essi per lungo, uno dopo l'altro, sotto la finestra. Da un lato c'era il m uro, dall'altro una trentina di centim etri per m uov erci. Per il resto la stanza era bianca e spoglia. D'inv erno ci facev a freddo e d'estate non ci si respirav a. Il calore accum ulato di giorno dai m uri e dal soffitto v eniv a buttato fuori durante la notte. Av ev i la sensazione che il cuscino e il m aterasso di lana fossero appena usciti da un forno. Dietro i m iei piedi v edev o la testa scura di Maria. Dorm iv a con gli occhiali, a pancia all'aria, com pletam ente abbandonata, le braccia e le gam be larghe. Dicev a che se si sv egliav a senza gli occhiali le v eniv a paura. Di solito m am m a glieli togliev a appena si addorm entav a, perché le rim anev ano i segni in faccia. Lo zam pirone sul dav anzale producev a un fum o denso e tossico che stecchiv a le zanzare e neanche a noi facev a tanto bene. Ma allora nessuno si preoccupav a di questo genere di cose. Attaccata alla nostra stanza c'era la cam era dei nostri genitori. Sentiv o papà russare. Il v entilatore che soffiav a. L'ansim are di m ia sorella. Il richiam o m onotono di una civ etta. Il ronzio del frigorifero. La puzza di fogna che usciv a dal gabinetto. Mi sono m esso in ginocchio sul letto e m i sono appoggiato alla finestra per prendere un po' d'aria. C'era la luna piena. Era alta e lum inosa. Si v edev a lontano, com e fosse giorno. I cam pi sem brav ano fosforescenti. L'aria ferm a. Le case buie, silenziose. Forse ero l'unico sv eglio in tutta Acqua Trav erse. Mi è sem brata una bella cosa. Il bam bino era nel buco. Me lo im m aginav o m orto nella terra. Scarafaggi, cim ici e m illepiedi che gli cam m inav ano addosso, sulla pelle esangue, e v erm i che gli usciv ano dalle labbra liv ide. Gli occhi sem brav ano due uov a sode. Io un m orto non lo av ev o m ai v isto. Solo m ia nonna Giov anna. Sul suo letto, con le braccia incrociate, il v estito nero e le scarpe. La faccia sem brav a di gom m a. Gialla com e cera. Papà m i av ev a detto che dov ev o baciarla. Tutti piangev ano. Papà m i spingev a. Le av ev o posato la bocca sulla guancia fredda. Av ev a un odore dolciastro e disgustoso che si m ischiav a con l'odore dei ceri. Dopo m i ero lav ato la bocca con il sapone. E se inv ece il bam bino era v iv o? Se v olev a uscire e graffiav a con le dita le pareti del buco e chiedev a aiuto? Se lo av ev a preso un orco? Mi sono affacciato fuori e in fondo alla pianura ho v isto la collina. Sem brav a apparsa dal nulla e si stagliav a, com e un'isola uscita dal m are, altissim a e nera, con il suo segreto che m i aspettav a. — Michele, ho sete… — Maria si è sv egliata. — Mi dai un bicchiere d'acqua? — Parlav a a occhi chiusi e si passav a la lingua sulle labbra secche. — Aspetta… — Mi sono alzato. Non v olev o aprire la porta. Se m ia nonna Giov anna era seduta a tav ola insiem e al bam bino? E m i dicev a, v ieni, siediti qui con noi, che m angiam o? E sul piatto c'era la gallina im palata? Non c'era nessuno. Un raggio di luna cadev a sul v ecchio div ano a fiori, sulla credenza con i piatti bianchi, sul pav im ento di graniglia bianca e nera e facev a capolino nella cam era di papà e m am m a, arram picandosi sul letto. Ho v isto i piedi, intrecciati. Ho aperto il frigorifero e ho tirato fuori la brocca con l'acqua fredda. Mi ci sono attaccato, poi ho riem pito un bicchiere per m ia sorella che se lo è bev uto in un sorso. — Grazie. — Ora dorm i. — Perché hai fatto la penitenza al posto di Barbara? — Non lo so… — Non ti andav a che si abbassav a le m utande? — No. — E se lo dov ev o fare io? — Cosa? — Abbassarm i le m utande. Lo facev i pure per m e? — Si. — Buona notte, allora. Mi tolgo gli occhiali, — li ha chiusi nell'astuccio e si è stretta al cuscino. — Buona notte. Sono rim asto a lungo con gli occhi puntati sul soffitto prim a di riaddorm entarm i. Papà non ripartiv a. Era tornato per restare. Av ev a detto a m am m a che non v olev a v edere l'autostrada per un po' e si sarebbe occupato di noi. Forse, prim a o poi, ci portav a a m are a fare il bagno. 2. Quando m i sono sv egliato m am m a e papà dorm iv ano ancora. Ho buttato giù il latte e il pane con la m arm ellata, sono uscito e ho preso la bicicletta. — Dov e v ai? Maria era sulle scale di casa, in m utande, e m i guardav a. — A fare un giro. — Dov e? — Non lo so. — Voglio v enire con te. —No. — Io lo so dov e v ai… Vai sulla m ontagna. — No. Non ci v ado. Se papà o m am m a ti chiedono qualcosa digli che sono andato a fare un giro e che torno subito. Un altro giorno di fuoco. Alle otto della m attina il sole era ancora basso, m a già com inciav a ad arrostire la pianura. Percorrev o la strada che av ev am o fatto il pom eriggio prim a e non pensav o a niente, pedalav o nella polv ere e negli insetti e cercav o di arriv are presto. Ho preso la v ia dei cam pi, quella che costeggiav a la collina e raggiungev a la v alle. Ogni tanto dal grano si sollev av ano le gazze con le loro code bianche e nere. Si inseguiv ano, si litigav ano, si insultav ano con quei v ersacci striduli. Un falco v olteggiav a im m obile, spinto dalle correnti calde. E ho v isto pure una lepre rossa, con le orecchie lunghe, sfrecciarm i dav anti. Av anzav o a fatica, spingendo sui pedali, le ruote slittav ano sui sassi e le zolle aride. Più m i av v icinav o alla casa, più la collina gialla crescev a di fronte a m e, più un peso m i schiacciav a il petto, togliendom i il respiro. E se arriv av o su e c'erano le streghe o un orco? Sapev o che le streghe si riuniv ano la notte nelle case abbandonate e facev ano le feste e se partecipav i div entav i pazzo e gli orchi si m angiav ano i bam bini. Dov ev o stare attento. Se un orco m i prendev a, buttav a anche m e in un buco e m i m angiav a a pezzi. Prim a un braccio, poi una gam ba e così v ia. E nessuno sapev a più niente. I m iei genitori av rebbero pianto disperati. E tutti a dire: «Michele era tanto buono, com e ci dispiace». Sarebbero v enuti gli zii e m ia cugina Ev elina, con la Giulietta blu. Il Teschio non si sarebbe m esso a piangere, figuriam oci, e neanche Barbara, Mia sorella e Salv atore, sì. Non v olev o m orire. Anche se m i sarebbe piaciuto andare al m io funerale. Non ci dov ev o andare lassù. Ma che m i ero im pazzito? Ho girato la bicicletta e m i sono av v iato v erso casa. Dopo un centinaio di m etri ho frenato. Cos'av rebbe fatto Tiger Jack al m io posto? Non tornav a indietro neanche se glielo ordinav a Manitù in persona. Tiger Jack. Quella era una persona seria. Tiger Jack, l'am ico indiano di Tex Willer. E Tiger Jack su quella collina ci saliv a pure se c'era il conv egno internazionale di tutte le streghe, i banditi e gli orchi del pianeta perché era un indiano nav ajo, ed era intrepido e inv isibile e silenzioso com e un pum a e sapev a arram picarsi e sapev a aspettare e poi colpire con il pugnale i nem ici. Io sono Tiger, anche m eglio, io sono il figlio italiano di Tiger, m i sono detto. Peccato che non av ev o un pugnale, un arco o un fucile Winchester. Ho nascosto la bicicletta, com e av rebbe fatto Tiger con il suo cav allo, m i sono infilato nel grano e sono av anzato a quattro zam pe, fino a quando non ho sentito le gam be dure com e pezzi di legno e le braccia indolenzite. Allora ho com inciato a zom pettare com e un fagiano, guardandom i a destra e a sinistra. Quando sono arriv ato nella v alle, sono rim asto qualche m inuto a riprendere aria, spalm ato contro un tronco. E sono passato da un albero all'altro, com e un'om bra sioux. Con le orecchie drizzate a qualsiasi v oce o rum ore sospetto. Ma sentiv o solo il sangue che pulsav a nei tim pani. Acquattato dietro un cespuglio ho spiato la casa. Era silenziosa e tranquilla. Niente sem brav a cam biato. Se erano passate le streghe av ev ano rim esso tutto a posto. Mi sono infilato tra i rov i e m i sono ritrov ato nel cortile. Nascosto sotto la lastra e il m aterasso ci stav a il buco. Non m e l'ero sognato. Non riusciv o a v ederlo bene. Era buio e pieno di m osche e saliv a una puzza nauseante. Mi sono inginocchiato sul bordo. — Sei v iv o? Nulla. — Sei v iv o? Mi senti? Ho aspettato, poi ho preso un sasso e gliel'ho tirato. L'ho colpito su un piede. Su un piede m agro e sottile e con le dita nere. Su un piede che non si è m osso di un m illim etro. Era m orto. E da lì si sarebbe sollev ato solo se Gesù in persona glielo ordinav a. Mi è v enuta la pelle d'oca. I cani e i gatti m orti non m i av ev ano m ai fatto tanta im pressione. Il pelo nasconde la m orte. Quel cadav ere inv ece, così bianco, con un braccio buttato da una parte, la testa contro la parete, facev a ribrezzo. Non c'era sangue, niente. Solo un corpo senza v ita in un buco sperduto. Non av ev a più niente di um ano. Dov ev o v edergli la faccia. La faccia è la cosa più im portante. Dalla faccia si capisce tutto. Ma scendere lì dentro m i facev a paura. Potev o girarlo con una m azza. Ci v olev a una m azza bella lunga. Sono entrato nella stalla e lì ho trov ato un palo, m a era corto. Sono tornato indietro. Sul cortile si affacciav a una porticina chiusa a chiav e. Ho prov ato a spingerla, m a anche se era m alm essa, resistev a. Sopra la porta c'era una finestrella. Mi sono arram picato puntellandom i sugli stipiti e, di testa, m i sono infilato dentro. Bastav ano un paio di chili in più, o il culo di Barbara, e non ci sarei passato. Mi sono ritrov ato nella stanza che av ev o v isto m entre attrav ersav o il ponte. C'erano i pacchi di pasta. I barattoli di pelati aperti. Bottiglie di birra v uote. I resti di un fuoco. Dei giornali. Un m aterasso. Un bidone pieno d'acqua. Un cestino. Ho av uto la sensazione del giorno prim a, che lì ci v eniv a qualcuno. Quella stanza non era abbandonata com e il resto della casa. Sotto una coperta grigia c'era uno scatolone. Dentro ho trov ato una corda che finiv a con un uncino di ferro. Con questa posso andare giù, ho pensato. L'ho presa e l'ho buttata dalla finestrella e sono uscito. Per terra c'era il braccio arrugginito di una gru. Ci ho legato intorno la corda. Ma av ev o paura che si sciogliev a e io rim anev o nel buco insiem e al m orto. Ho fatto tre nodi, com e quelli che facev a papà al telone del cam ion. Ho tirato con tutta la forza, resistev a. Allora l'ho gettata nel buco. — Io non ho paura di niente, — ho sussurrato per farm i coraggio, m a le gam be m i cedev ano e una v oce nel cerv ello m i urlav a di non andare. I m orti non fanno niente, m i sono detto, m i sono fatto il segno della croce e sono sceso. Dentro facev a più freddo. La pelle del m orto era sudicia, incrostata di fango e m erda. Era nudo. Alto com e m e, m a più m agro. Era pelle e ossa. Le costole gli sporgev ano. Dov ev a av ere più o m eno la m ia età. Gli ho toccato la m ano con la punta del piede, m a è rim asta senza v ita. Ho sollev ato la coperta che gli copriv a le gam be. Intorno alla cav iglia destra av ev a una grossa catena chiusa con un lucchetto. La pelle era scorticata e rosa. Un liquido trasparente e denso trasudav a dalla carne e colav a sulle m aglie arrugginite della catena attaccata a un anello interrato. Volev o v edergli la faccia. Ma non v olev o toccargli la testa. Mi facev a im pressione. Alla fine, tentennando, ho allungato un braccio e ho afferrato con due dita un lem bo della coperta e stav o cercando di lev argliela dal v iso quando il m orto ha piegato la gam ba. Ho stretto i pugni e ho spalancato la bocca e il terrore m i ha afferrato le palle con una m ano gelata. Poi il m orto ha sollev ato il busto com e fosse v iv o e a occhi chiusi ha allungato le braccia v erso di m e. I capelli m i si sono rizzati in testa, ho cacciato un urlo, ho fatto un salto indietro e sono inciam pato nel secchio e la m erda si è v ersata ov unque. Sono finito schiena a terra urlando. Anche il m orto ha com inciato a urlare. Mi sono dim enato nella m erda. Poi finalm ente con uno scatto disperato ho preso la corda e sono schizzato fuori da quel buco com e una pulce im pazzita. Pedalav o, m i infilav o tra buche e cunette rischiando di spezzarm i la schiena, m a non frenav o. Il cuore m i esplodev a, i polm oni m i bruciav ano. Ho preso un dosso e m i sono ritrov ato in aria. Sono atterrato m ale, ho strusciato un piede a terra e ho tirato i freni, m a è stato peggio, la ruota dav anti si è inchiodata e sono sciv olato nel fosso a lato della strada. Mi sono rim esso in piedi con le gam be che m i trem av ano e m i sono guardato. Un ginocchio era sbucciato a sangue, la m aglietta era tutta sporca di m erda, una striscia di cuoio del sandalo si era spezzata. Respira, m i sono detto. Respirav o e sentiv o il cuore placarsi, il fiato tornare norm ale e im prov v isam ente m i è v enuto sonno. Mi sono sdraiato. Ho chiuso gli occhi. Sotto le palpebre era tutto rosso. La paura c'era ancora, m a era appena un bruciore in fondo allo stom aco. Il sole m i scaldav a le braccia gelate. I grilli m i strillav ano nelle orecchie. Il ginocchio m i pulsav a. Quando ho riaperto gli occhi delle grosse form iche nere m i cam m inav ano addosso. Quanto av ev o dorm ito? Potev ano essere cinque m inuti com e due ore. Sono salito sulla Scassona e ho ripreso la strada di casa. Mentre pedalav o continuav o a v edere il bam bino m orto che si sollev av a e stendev a le m ani v erso di m e. Quella faccia scav ata, quegli occhi chiusi, quella bocca spalancata continuav ano a balenarm i dav anti. Ora m i appariv a com e un sogno. Un incubo che non av ev a più forza. Era v iv o. Av ev a fatto finta di essere m orto. Perché? Forse era m alato. Forse era un m ostro. Un lupo m annaro. Di notte div entav a un lupo. Lo tenev ano incatenato lì perché era pericoloso. Av ev o v isto alla telev isione un film di un uom o che nelle notti di luna piena si trasform av a in lupo e assaliv a la gente. I contadini preparav ano una trappola e il lupo ci finiv a dentro e un cacciatore gli sparav a e il lupo m oriv a e tornav a uom o. Era il farm acista. E il cacciatore era il figlio del farm acista. Quel bam bino lo tenev ano incatenato sotto una lastra coperta di terra per non esporlo ai raggi della luna. I lupi m annari non si possono curare. Per ucciderli bisogna av ere una pallottola d'argento. Ma i lupi m annari non esistev ano. «Piantala con questi m ostri, Michele. I m ostri non esistono. I fantasm i, i lupi m annari, le streghe sono fesserie inv entate per m ettere paura ai creduloni com e te. Dev i av ere paura degli uom ini, non dei m ostri», m i av ev a detto papà un giorno che gli av ev o chiesto se i m ostri potev ano respirare sott'acqua. Ma se lo av ev ano nascosto lì ci dov ev a essere una ragione. Papà m i av rebbe spiegato tutto. — Papà! Papà… — Ho spinto la porta e m i sono precipitato dentro. — Papà! Ti dev o dire… — Il resto m i si è spento tra le labbra. Stav a sulla poltrona, il giornale tra le m ani e m i guardav a con gli occhi da rospo. I peggiori occhi da rospo che m i era capitato di v edere dal giorno in cui m i ero bev uto l'acqua di Lourdes pensando che era l'acqua con le bollicine. Ha schiacciato la cicca nella tazzina del caffè. Mam m a era seduta sul div ano a cucire, ha alzato la testa e l'ha riabbassata. Papà ha preso aria con il naso e ha detto: — Dov e sei stato tutto il giorno? — Mi ha squadrato da capo a piedi. — Ma ti sei v isto? Dov e cazzo ti sei rotolato? — Ha fatto una sm orfia. — Nella m erda? Puzzi com e un m aiale! Hai rotto pure i sandali! —Ha guardato l'orologio. — Lo sai che ore sono? Sono rim asto in silenzio. — Te lo dico io. Le tre e v enti. A pranzo non ti sei fatto v edere. Nessuno sapev a dov e stav i. Ti sono andato a cercare fino a Lucignano. Ieri l'hai passata liscia, oggi no. Quando era così infuriato papà non urlav a, parlav a a bassa v oce. Questo m i terrorizzav a. Ancora oggi non sopporto le persone che non sfogano la loro rabbia. Mi ha indicato la porta. — Se v uoi fare quello che ti pare è m eglio che te ne v ai» Io non ti v oglio. Vattene. — Aspetta, ti dev o dire una cosa. — Tu non m i dev i dire niente, dev i uscire da quella porta. Ho im plorato. — Papà, è una cosa im portante… — Se non te ne v ai entro tre secondi, m i alzo da questa poltrona e ti prendo a calci fino al cartello di Acqua Trav erse —. E im prov v isam ente ha alzato il tono. — Vattene v ia! Ho fatto di sì con la testa. Mi v eniv a da piangere. Gli occhi m i si sono riem piti di lacrim e, ho aperto la porta e ho sceso le scale. Sono rim ontato sulla Scassona e ho pedalato fino al torrente. Il torrente era sem pre secco, tranne d'inv erno, quando piov ev a forte. Si snodav a tra i cam pi gialli com e una lunga biscia albina. Un letto di sassi bianchi e appuntiti, di rocce incandescenti e ciuffi d'erba. Dopo un pezzo scosceso tra due colline, il torrente si allargav a form ando uno stagno che d'estate si asciugav a fino a div entare una pozzanghera nera. Il lago, lo chiam av am o. Dentro non c'erano pesci, né girini, solo larv e di zanzara e insetti pattinatori. Se ci infilav i i piedi, li tirav i fuori coperti da un fango scuro e puzzolente. Andav am o lì per il carrubo. Era grande, v ecchio e facile da salire. Sognav am o di costruirci sopra una casa. Con la porta, il tetto, la scala di corda e tutto il resto. Ma non erav am o m ai riusciti a trov are le assi, i chiodi, il genio. Una v olta il Teschio ci av ev a incastrato una rete di letto. Ma ci si stav a scom odissim i. Ti graffiav a. Ti strappav a i v estiti. E se ti m uov ev i troppo finiv i pure di sotto. Da qualche tem po però nessuno ci saliv a sul carrubo. A m e inv ece continuav a a piacerm i. Ci stav o bene lassù all'om bra, nascosto tra le foglie» Si v edev a lontano, era com e essere in cim a al pennone di una nav e. Acqua Trav erse era una m acchiolina, un punto sperduto nel grano. E potev i sorv egliare la strada che andav a a Lucignano. Da lì v edev o il telone v erde del cam ion di papà prim a di chiunque altro. Mi sono arram picato al m io solito posto, a cav alcioni di un grosso ram o che si biforcav a, e ho deciso che a casa non sarei più tornato. Se papà non m i v olev a, se m i odiav a, non m i im portav a, sarei rim asto lì. Potev o v iv ere senza fam iglia, com e gli orfani. «Io non ti v oglio. Vattene v ia! » Va bene, m i sono detto. Però quando non tornerò più starai m alissim o. E allora v errai qua sotto a chiederm i di tornare m a io non tornerò e tu m i pregherai e io non tornerò e capirai che hai sbagliato e che tuo figlio non torna e v iv e sul carrubo. Mi sono tolto la m aglietta, ho poggiato la schiena contro il legno, la testa nelle m ani e ho guardato la collina del bam bino. Era lontana, in fondo alla pianura, e il sole le tram ontav a accanto. Era un disco arancione che stingev a di rosa sulle nuv ole e sul cielo. — Michele, scendi! Mi sono risv egliato e ho aperto gli occhi. Dov 'ero? Ci ho m esso un po' a renderm i conto che stav o appollaiato sul carrubo. — Michele! Sotto l'albero, sulla Graziella, c'era Maria. Ho sbadigliato. — Che v uoi? — Mi sono stiracchiato. Av ev o la schiena rotta. E sm ontata dalla bicicletta. — Mam m a ha detto che dev i tornare a casa. Mi sono rim esso la m aglietta. Incom inciav a a fare freddo. — No. Non torno più, diglielo. Io rim ango qua! — Mam m a ha detto che è pronta la cena. Era tardi. C'era ancora un po' di luce m a entro m ezz'ora sarebbe calata la notte. Questa cosa non m i piacev a tanto. — Dille che io non sono più figlio loro e che solo tu sei figlia loro. Mia sorella ha aggrottato le sopracciglia. — E non sei neanche più fratello m io? —No. — Allora ho la stanza da sola e m i posso prendere anche i giornalini? — No, questo non c'entra. — Ha detto m am m a che se non v ieni tu, v iene lei e ti piglia a m azzate —. Mi ha fatto segno di scendere. — Che m e ne frega. Tanto non può salire sull'albero. — Sì che può. Mam m a si arram pica. — E io le tiro le pietre. E m ontata in sella. — Guarda che si arrabbia. — Papà dov 'è? — Non c'è. — Dov 'è? — È andato fuori. Torna tardi. — Dov 'è andato? — Non lo so. Vieni? Av ev o una fam e terribile. — Che ci sta da m angiare? — Il purè e l'uov o, — ha detto allontanandosi. Il purè e l'uov o. Mi piacev ano tantissim o tutti e due. Soprattutto quando li m ischiav o insiem e e div entav ano una pappa deliziosa. Sono saltato giù dal carrubo. — Vabbe', v engo, solo per questa sera però. A cena nessuno parlav a. Sem brav a che ci stav a il m orto in casa. Io e m ia sorella m angiav am o seduti a tav ola. Mam m a lav av a i piatti. — Quando av ete finito andate a letto senza fiatare. Ha chiesto Maria: — E la telev isione? — Niente telev isione. Tra un po' torna v òstro padre e se v i trov o alzati sono dolori. Ho chiesto: — E ancora m olto arrabbiato? — Sì. — Che ha detto? — Ha detto che se continui cosi, il prossim o anno ti porta dai frati. Appena facev o una cosa sbagliata papà m i v olev a m andare dai frati. Salv atore e la m adre ogni tanto andav ano al m onastero di San Biagio perché lo zio era frate guardiano. Un giorno av ev o chiesto a Salv atore com e si stav a dai frati. — Di m erda, — m i av ev a risposto. — Stai tutto il giorno a pregare e la sera ti chiudono in una stanza e se ti scappa la pipi non la puoi fare e ti fanno tenere i sandali pure se fa freddo. Io li odiav o i frati, m a sapev o che non ci sarei andato m ai perché papà li odiav a più di m e e dicev a che erano dei m aiali. Ho m esso il piatto nell'acquaio. — A papà non gli passa m ai piti? Mam m a ha detto: — Se ti trov a che dorm i forse gli passa. Mam m a non sedev a m ai a tav ola con noi. Ci serv iv a e m angiav a in piedi. Con il piatto poggiato sopra il frigorifero. Parlav a poco, e stav a in piedi. Lei stav a sem pre in piedi. A cucinare. A lav are. A stirare. Se non stav a in piedi, allora dorm iv a. La telev isione la stufav a. Quando era stanca si buttav a sul letto e m oriv a. Al tem po di questa storia m am m a av ev a trentatre anni. Era ancora bella. Av ev a lunghi capelli neri che le arriv av ano a m età schiena e li tenev a sciolti. Av ev a due occhi scuri e grandi com e m andorle, una bocca larga, denti forti e bianchi e un m ento a punta. Sem brav a araba. Era alta, form osa, av ev a il petto grande, la v ita stretta e un sedere che facev a v enire v oglia di toccarglielo e i fianchi larghi. Quando andav am o al m ercato di Lucignano v edev o com e gli uom ini le appiccicav ano gli occhi addosso. Vedev o il fruttiv endolo che dav a una gom itata a quello del banco accanto e le guardav ano il sedere e poi alzav ano la testa al cielo. Io la tenev o per m ano, m i attaccav o alla gonna. E m ia, lasciatela in pace, av rei v oluto urlare. — Teresa, tu fai v enire i cattiv i pensieri, — le dicev a Sev erino, quello che portav a l'autocisterna. A m am m a queste cose non interessav ano. Non le v edev a. Quelle occhiate v oraci le sciv olav ano addosso. Quelle sbirciate nella v del v estito non le facev ano né caldo né freddo. Non era una sm orfiosa. Dall'afa non si respirav a. Erav am o a letto. Al buio. — Conosci un anim ale che com incia con un frutto? — m i ha chiesto Maria. — Com e? — Un anim ale che com incia con un frutto. Ho com inciato a pensarci. — Tu lo sai? — Sì. — E chi te l'ha detto? — Barbara. Non m i v eniv a niente. — Non esistono. — Esistono, esistono. Ci ho prov ato. — Il pescatore. — Non è un anim ale. Non v ale. Av ev o il v uoto in testa. Mi ripetev o tutta la frutta che conoscev o e ci attaccav o dietro pezzi di anim ali e non ne usciv a niente. — Il Susinello? — No. — Il Perana? —No. — Non lo so. Mi arrendo. Qual è? — Non te lo dico. — Ora m e lo dev i dire. — Vabbe', te lo dico. Il coccodrillo. Mi sono dato uno schiaffo sulla fronte. — E v ero! Il cocco drillo! Era facilissim o. Che cretino… — Buona notte, — m i ha detto Maria. — Buona notte, — le ho risposto. Ho prov ato a dorm ire, m a non av ev o sonno, m i rigirav o nel letto. Mi sono affacciato alla finestra. La luna non era più una palla perfetta e c'erano stelle da tutte le parti. Quella notte il bam bino non potev a trasform arsi in lupo. Ho guardato v erso la collina. E per un istante, ho av uto l'im pressione che una lucina baluginasse sulla cim a. Chissà cosa succedev a nella casa abbandonata. Forse c'erano le streghe, nude e v ecchie, che stav ano intorno al buco a ridere senza denti e forse tirav ano fuori dal buco il bam bino e lo facev ano ballare e gli tirav ano il pesce. Forse c'era l'orco e gli zingari che se lo cucinav ano sulla brace. Non sarei andato là sopra di notte per tutto l'oro del m ondo. Mi sarebbe piaciuto trasform arm i in un pipistrello e v olare sopra la casa. O m etterm i l'arm atura antica che il papà di Salv atore tenev a all'ingresso di casa e salire sulla collina. Con quella addosso le streghe non m i potev ano fare niente. 3. La m attina m i sono sv egliato tranquillo, non av ev o fatto sogni brutti. Sono rim asto un pò a letto, a occhi chiusi, ad ascoltare gli uccelli. Poi ho com inciato a riv edere il bam bino che si sollev av a e allungav a le braccia. — Aiuto! — ho detto. Che stupido! Per quello si era alzato. Mi chiedev a aiuto e io ero scappato v ia. Sono uscito in m utande dalla stanza. Papà stav a av v itando la m acchinetta del caffè. Il padre di Barbara era seduto a tav ola. — Buon giorno, — ha detto papà. Non era più arrabbiato. — Ciao, Michele, — ha detto il padre di Barbara. — Com e stai? — Bene. Pietro Mura era un uom o basso e tozzo, con un paio di baffoni neri che gli copriv ano la bocca e un testone quadrato. Indossav a un com pleto nero con le righine bianche e sotto la canottiera. Per tanti anni av ev a fatto il barbiere a Lucignano, m a gli affari non erano m ai andati bene e quando av ev ano aperto un nuov o salone con la m anicure e i tagli m oderni av ev a chiuso bottega e ora facev a il contadino. Ma ad Acqua Trav erse lo continuav ano a chiam are il barbiere. Se ti dov ev i tagliare i capelli andav i a casa sua. Ti facev a sedere in cucina, al sole, accanto alla gabbia con i cardellini, apriv a un cassetto e tirav a fuori un panno arrotolato, dentro ci tenev a i pettini e le forbici ben oliate. Pietro Mura av ev a le dita grosse e corte com e sigari toscani che entrav ano appena nelle forbici, e prim a di com inciare a tagliare allargav a le lam e e te le passav a sulla testa, av anti e indietro, com e un rabdom ante. Dicev a che in quel m odo potev a sentirti i pensieri, se erano buoni o cattiv i. E io, quando facev a così, cercav o di pensare solo a cose belle com e i gelati, le stelle cadenti o a quanto v olev o bene a m am m a. Mi ha guardato e ha detto: — Che v uoi fare, il capellone? Ho fatto segno di no con la testa. Papà ha v ersato il caffè nelle tazzine buone. — Ieri m i ha fatto arrabbiare. Se continua così lo m ando dai frati. Il barbiere m i ha chiesto: — Lo sai com e si tagliano i capelli ai frati? — Con il buco al centro. — Brav o. Ti conv iene ubbidire, quindi. — Forza, v estiti e fai colazione, — m i ha detto papà. — Mam m a ti ha lasciato il pane e il latte. — Dov 'è andata? — A Lucignano. Al m ercato. — Papà, ti dev o dire una cosa. Una cosa im portante. Si è m esso la giacca. — Me la dici stasera. Adesso sto uscendo. Sv eglia tua sorella e scalda il latte —. Con un sorso si è finito il caffè. Il barbiere si è bev uto il suo e sono usciti tutti e due di casa. Dopo av er preparato la colazione a Maria sono sceso in strada. Il Teschio e gli altri giocav ano a calcio sotto il sole. Togo, un bastardino bianco e nero, rincorrev a la palla e finiv a tra le gam be di tutti. Togo era apparso ad Acqua Trav erse all'inizio dell'estate ed era stato adottato da tutto il paese. Si era fatto la cuccia nel capannone del padre del Teschio. Tutti gli dav ano resti ed era div entato un grassone con una pancia gonfia com e un tam buro. Era un cagnolino buono, quando gli facev i le carezze o lo portav i dentro casa si em ozionav a e si accucciav a e facev a pipì. — Vai in porta, — m i ha urlato Salv atore. Mi ci sono m esso. A nessuno piacev a fare il portiere. A m e sì. Forse perché con le m ani ero più brav o che con i piedi. Mi piacev a saltare, tuffarm i, rotolarm i nella polv ere. Parare i rigori. Gli altri inv ece v olev ano solo fare gol. Quella m attina ne ho presi tanti. La palla m i sfuggiv a o arriv av o tardi. Ero distratto. Salv atore m i si è av v icinato. — Michele, che hai? — Che ho? — Stai giocando m alissim o. Mi sono sputato nelle m ani, ho allargato le braccia e le gam be e ho stretto gli occhi com e Zoff. — Adesso paro. Paro tutto. Il Teschio ha sm arcato Rem o, ha sparato una bordata tesa e centrale. Una palla forte, m a facile, di quelle che si possono respingere con un pugno, oppure stringere contro la pancia. Ho prov ato ad afferrarla m a m i è schizzata dalle m ani. — Gol! — ha urlato il Teschio, e ha sollev ato un pugno in aria com e se av esse segnato contro la Juv entus. La collina m i chiam av a. Potev o andare. Papà e m am m a non c'erano. Bastav a tornare prim a di pranzo. — Non ho v oglia di giocare, — ho detto e m e ne sono andato. Salv atore m i ha rincorso. — Dov e v ai? — Da nessuna parte. — Andiam o a fare un giro? — Dopo. Adesso ho da fare una cosa. Ero scappato e av ev o lasciato tutto così. La lastra buttata da una parte insiem e al m aterasso, il buco scoperto e la corda che ci pendev a dentro. Se i guardiani del buco erano v enuti, av ev ano v isto che il loro segreto era stato scoperto e m e l'av rebbero fatta pagare. E se non c'era più? Dov ev o farm i coraggio e guardare. Mi sono affacciato. Era arrotolato nella coperta. Mi sono schiarito la v oce. — Ciao… Ciao… Ciao… Sono quello di ieri. Sono sceso, ti ricordi? Nessuna risposta. — Mi senti? Sei sordo? — Era una dom anda stupida. — Stai m ale? Sei v iv o? Ha piegato il braccio, ha sollev ato una m ano e ha bisbigliato qualche cosa. — Com e? Non ho capito. — Acqua. — Acqua? Hai sete? Ha sollev ato il braccio. — Aspetta. Dov e la trov av o l'acqua? C'erano un paio di secchi per la v ernice, m a erano v uoti. Nel lav atoio ce n'era un po', m a era v erde e pullulav a di larv e di zanzara. Mi sono ricordato che quando ero entrato dentro per prendere la corda av ev o v isto un bidone pieno d'acqua. — Torno subito, — gli ho detto, e m i sono infilato nella chiostrina sopra la porta. Il bidone era m ezzo pieno, m a l'acqua era lim pida e non av ev a odore. Sem brav a buona. In un angolo buio, sopra un'asse di legno, c'erano dei barattoli, dei m ozziconi di candela, una pentola e delle bottiglie v uote. Ne ho presa una, ho fatto due passi e m i sono ferm ato. Sono tornato indietro e ho preso in m ano la pentola. Era una pentola bassa, sm altata di bianco, con il bordo e i m anici dipinti di blu e intorno c'erano disegnate delle m ele rosse ed era uguale a quella che av ev am o noi a casa. La nostra l'av ev am o com prata con la m am m a al m ercato di Lucignano, l'av ev a scelta Maria da un m ucchio di pentole sopra un banco perché le piacev ano le m ele. Questa sem brav a più v ecchia. Era stata lav ata m ale, sul fondo c'era ancora un po' di roba appiccicata. Ci ho passato l'indice e l'ho av v icinato al naso. Salsa di pom odoro. L'ho rim essa a posto e ho riem pito la bottiglia d'acqua e l'ho chiusa con un tappo di sughero, ho preso il cestino e sono uscito fuori. Ho afferrato la corda, ci ho legato il cestino e ci ho poggiato dentro la bottiglia. — Te la calo, — ho detto. — Prendila. Con la coperta addosso, a tentoni, ha cercato la bottiglia nel cestino, l'ha stappata e l'ha v ersata nel pentolino senza farne cadere neanche un po', poi l'ha rim essa nel paniere e ha dato uno strattone alla corda. Com e una cosa che facev a sem pre, tutti i giorni. Siccom e non m e la riprendev o ha dato un secondo strattone e ha grugnito qualcosa arrabbiato. Appena l'ho tirata su, ha abbassato la testa e senza sollev are il pentolino ha com inciato a bere, a quattro zam pe, com e un cane. Quando ha finito si è accoccolato da una parte e non si è più m osso. Era tardi. — Allora… Ciao —. Ho coperto il buco e m e ne sono andato. Mentre pedalav o v erso Acqua Trav erse, pensav o alla pentola che av ev o trov ato nella cascina. Mi sem brav a strano che era uguale alla nostra. Non lo so, forse perché Maria av ev a scelto quella tra tante. Com e se fosse speciale, più bella, con quelle m ele rosse. Sono arriv ato a casa giusto in tem po per il pranzo. — Veloce, v atti a lav are le m ani, — m i ha detto papà. Era seduto a tav ola accanto a m ia sorella. Aspettav ano che m am m a scolav a la pastasciutta. Sono corso in bagno e m i sono sfregato le m ani con il sapone, m i sono fatto la riga a destra e li ho raggiunti m entre m am m a riem piv a i piatti di pasta. Non usav a la pentola con le m ele. Ho guardato le stov iglie ad asciugare sul lav ello, m a anche lì non l'ho v ista. Dov ev a essere nella credenza. — Tra un paio di giorni v iene a stare qui una persona, — ha detto papà con il boccone in bocca. — Dov ete fare i brav i. Niente pianti e urli. Non m i fate fare figure di m erda. Ho chiesto: — Chi è questa persona? Si è v ersato un bicchiere di v ino. — E un am ico m io. — Com e si chiam a? — ha dom andato m ia sorella. — Sergio. — Sergio, — ha ripetuto Maria. — Che nom e buffo. Era la prim a v olta che v eniv a uno a stare da noi. A Natale v eniv ano gli zii m a non rim anev ano a dorm ire quasi m ai. Non c'era posto. Ho chiesto: — E quanto sta? Papà si è riem pito il piatto di nuov o. — Un po'. Mam m a ci ha m esso dav anti la fettina di carne. Era m ercoledì. E il m ercoledì era il giorno della fettina. La fettina che fa bene e che a m e e a m ia sorella facev a schifo. Io, con uno sforzo enorm e, quella suoletta dura e insipida la buttav o giù, m ia sorella no. Maria potev a m asticarla per ore fino a quando div entav a una palla bianca e stopposa che le si gonfiav a in bocca. E quando non ce la facev a proprio più l'appiccicav a sotto il tav olo. Lì la carne ferm entav a. Mam m a non si raccapezzav a. — Ma da dov e v iene questa puzza? Ma che sarà? — Fino a quando, un giorno, ha sfilato il cassetto delle posate e ha trov ato tutte quelle orrende pallottole attaccate alle assi com e alv eari. Ma oram ai il trucco era stato scoperto. Maria ha com inciato a lam entarsi. — Non la v oglio! Non m i piace! Mam m a si è arrabbiata subito. — Maria, m angia quella carne! — Non posso. Mi fa v enire il m ale alla testa, — ha detto m ia sorella com e se le offrissero del v eleno. Mam m a le ha m ollato uno scapaccione e Maria ha com inciato a frignare. Ora finisce a letto, ho pensato. Ma papà inv ece ha preso il piatto e ha guardato m am m a negli occhi. — Lasciala stare, Teresa. Non m angerà. Pazienza. Mettila da parte. Dopo m angiato i m iei genitori sono andati a riposare. La casa era un forno, m a loro riusciv ano a dorm ire lo stesso. Era il m om ento adatto per cercare la pentola. Ho aperto la credenza e ho rov istato tra le stov iglie. Ho guardato nel cassettone dov e m ettev am o le cose che non si usav ano più. Sono uscito fuori e sono andato dietro casa dov e c'era il lav atoio, l'orto e i fili con i panni stesi. Ogni tanto m am m a lav av a lì le stov iglie e poi le facev a asciugare al sole. Niente. La pentola con le m ele era scom parsa. Ce ne stav am o sotto la pergola a giocare a sputo nell'oceano e ad aspettare che il sole se ne calasse un po' per farci una partita a calcio, quando ho v isto papà che scendev a le scale, con i pantaloni buoni e la cam icia pulita. In m ano stringev a una borsa blu che non av ev o m ai v isto. Io e Maria ci siam o alzati e l'abbiam o raggiunto m entre saliv a sul cam ion. — Papà, papà, dov e v ai? Parti? — gli ho dom andato attaccato alla portiera. — Possiam o v enire con te? — ha im plorato m ia sorella. Un bel giro in cam ion ci v olev a proprio. Ci ricordav am o tutti e due di quando ci av ev a portato a m angiare i rustici e le paste alla crem a. Ha acceso il m otore. — Mi dispiace, ragazzi. Oggi no. Ho cercato d'infilarm i dentro la cabina. — Ma av ev i detto che non partiv i più, che stav i a casa… — Torno presto. Dom ani o dopodom ani. Scendete, forza —. Andav a di fretta. Non av ev a v oglia di discutere. Mia sorella ha prov ato ancora un po' a insistere. Io no, tanto non c'era niente da fare. Lo abbiam o guardato allontanarsi nella polv ere, al v olante della sua grossa scatola v erde. Mi sono sv egliato durante la notte. E non per un sogno. Per un rum ore. Sono rim asto così, a occhi chiusi, ad ascoltare. Mi sem brav a di essere a m are. Lo sentiv o. Solo che era un m are di ferro, un oceano pigro di bulloni, v iti e chiodi che lam biv a la riv a di una spiaggia. Lente onde di ferraglia si rom pev ano in una pesante risacca che ne copriv a e scopriv a i bordi. A quel suono si univ ano gli ululati e i guaiti disperati di un branco di cani, un coro lugubre e dissonante che non attenuav a il fragore del ferro m a lo am plificav a. Ho guardato fuori dalla finestra. Una m ietitrebbia av anzav a sferragliando sul crinale di una collina bagnato dai raggi della luna. Assom igliav a a una gigantesca cav alletta di m etallo, con due piccoli occhi tondi e lum inosi e una bocca larga fatta di lam e e punte. Un insetto m eccanico che div orav a grano e cacav a paglia. Lav orav a di notte perché di giorno era troppo caldo. Era lei che facev a il rum ore del m are. Gli ululati sapev o da dov e v eniv ano. Dal canile del padre del Teschio. Italo Natale av ev a costruito dietro casa una baracca di lam iera e ci tenev a chiusi i cani da caccia. Stav ano sem pre là dentro, estate e inv erno, dietro una rete m etallica. Quando la m attina il padre del Teschio gli portav a da m angiare, abbaiav ano. Quella notte, chissà perché, av ev ano com inciato a ululare tutti insiem e. Ho guardato v erso la collina. Papà era lì. Av ev a portato la fettina di m ia sorella al bam bino e per questo av ev a fatto finta di partire e per questo av ev a una borsa, per nasconderla dentro. Prim a di cena av ev o aperto il frigorifero e la carne non c'era più. — Mam m a, dov 'è la fettina? Mi av ev a guardato stupita. — Ora ti piace la carne? — Sí. — Non c'è più. Se l'è m angiata tuo padre. Non era v ero. L'av ev a presa per il bam bino. Perché il bam bino era m io fratello. Com e Nunzio Scardaccione, il fratello m aggiore di Salv atore. Nunzio non era un pazzo cattiv o, m a io non lo potev o guardare. Av ev o paura che m i m ischiav a la sua follia. Nunzio si strappav a i capelli con le m ani e se li m angiav a. In testa era tutto buchi e croste e sbav av a. Sua m adre gli m ettev a un cappello e i guanti cosi non si strappav a i capelli, m a lui av ev a com inciato a m ordersi a sangue le braccia. Alla fine lo av ev ano preso e lo av ev ano portato al m anicom io. Io ero stato felice. Potev a essere che il bam bino nel buco era m io fratello, ed era nato pazzo com e Nunzio e papà lo av ev a nascosto lì, per non farci spav entare m e e m ia sorella. Per non spav entare i bam bini di Acqua Trav erse. Forse io e lui erav am o gem elli. Erav am o alti uguale e sem brav a che av ev am o la stessa età. Quando erav am o nati, m am m a ci av ev a presi tutti e due dalla culla, si era seduta su una sedia e ci av ev a m esso il seno in bocca per darci il latte. Io av ev o com inciato a succhiare m a lui, inv ece, le av ev a m orso il capezzolo, av ev a cercato di strapparglielo, il sangue e il latte le colav ano dalla tetta e m am m a urlav a per casa: — È pazzo! È pazzo! Pino, portalo v ia! Portalo v ia! Uccidilo, che è pazzo. Papà lo av ev a infilato in un sacco e lo av ev a portato sulla collina per am m azzarlo, lo av ev a m esso a terra, nel grano, e dov ev a pugnalarlo m a non ce l'av ev a fatta, era sem pre figlio suo, e allora av ev a scav ato un buco, ce lo av ev a incatenato dentro e ce lo av ev a cresciuto. Mam m a non sapev a che era v iv o. Io sì. 4. Mi sono sv egliato presto. Sono rim asto a letto m entre il sole com inciav a ad accendersi. Poi non ce l'ho fatta più a starm ene ad aspettare. Mam m a e Maria dorm iv ano ancora. Mi sono alzato, m i sono lav ato i denti, ho riem pito la cartella con del form aggio e del pane e sono uscito. Av ev o deciso che di giorno sulla collina non c'era pericolo, solo di notte succedev ano le cose brutte. Quella m attina erano apparse le nuv ole. Scorrev ano v eloci su un cielo stinto proiettando m acchie scure sui cam pi di grano e si tenev ano stretta la loro pioggia portandola chissà dov e. Sfrecciav o nella cam pagna deserta, sulla Scassona, diretto alla casa. Se trov av o nel buco anche un pezzettino della fettina v olev a dire che quel bam bino era m io fratello. Ero quasi arriv ato quando sull'orizzonte è apparso un polv erone rosso. Basso. Veloce. Una nuv ola che av anzav a nel grano. Il polv erone che può fare una m acchina su una strada di terra cotta dal sole. Era distante m a ci av rebbe m esso poco a raggiungerm i. Già sentiv o il rom bo del m otore. Arriv av a dalla casa abbandonata. Quella strada portav a solo lì. Un'autom obile ha curv ato piano e m i si è m essa di fronte. Non sapev o che fare. Se tornav o indietro m i av rebbe raggiunto, se continuav o m i av rebbe v isto. Dov ev o deciderm i in fretta, si stav a av v icinando. Forse m i av ev a già v isto. Se non m i av ev a v isto era solo per la nube rossa che sollev av a. Ho girato la bicicletta e ho com inciato a pedalare, cercando di allontanarm i il più v eloce possibile. Era inutile. Più spingev o sui pedali, più la bicicletta si im puntav a, si sbilanciav a e si rifiutav a di andare av anti. Mi girav o e alle m ie spalle il polv erone crescev a. Nasconditi, m i sono detto. Ho sterzato, la bicicletta si è im pennata su un sasso e sono v olato com e un crocifisso nel grano. La m acchina era a m eno di duecento m etri. La Scassona stav a sul bordo della strada. Ho afferrato la ruota dav anti e l'ho trascinata accanto a m e. Mi sono appiccicato a terra. Senza respirare. Senza m uov ere un m uscolo. Chiedendo a Gesù Bam bino che non m i v edessero. Gesù Bam bino m i ha accontentato. Steso tra le piante, con i tafani che banchettav ano sulla m ia pelle e le m ani im m erse nella zolle infuocate, ho v isto sfilarm i dav anti una 1 2 7 m arrone. La 1 2 7 di Felice Natale. Felice Natale era il fratello m aggiore del Teschio. E se il Teschio era cattiv o, Felice lo era m ille v olte di più. Felice av ev a v ent'anni. E quando stav a ad Acqua Trav erse la v ita per m e e gli altri bam bini era un inferno. Ci picchiav a, ci bucav a il pallone e ci rubav a le cose. Era un pov ero diav olo. Senza un am ico, senza una donna. Uno che se la prendev a con i più piccoli, un'anim a in pena. E questo si capiv a. Nessuno a v ent'anni può v iv ere ad Acqua Trav erse, a m eno di fare la fine di Nunzio Scardaccione, lo strappacapelli. Felice stav a ad Acqua Trav erse com e una tigre in gabbia. Si aggirav a tra quelle quattro case infuriato, nerv oso, pronto a darti il torm ento. Fortuna che ogni tanto se ne andav a a Lucignano. Ma anche lì non si era fatto degli am ici. Quando usciv o da scuola lo v edev o seduto da solo su una panchina della piazza. In quell'anno la m oda erano i pantaloni a zam pa di elefante, le m agliette strette e colorate, il m ontone, i capelli lunghi. Felice no, i capelli se li tagliav a corti e se li tirav a indietro con la brillantina, si rasav a perfettam ente e si v estiv a con giacche m ilitari e pantaloni m im etici. E si legav a un fazzoletto intorno al collo. Girav a su quella 1 2 7 , gli piacev ano le arm i e raccontav a di av er fatto il parà a Pisa e che si era gettato dagli aerei. Ma non era v ero. Tutti sapev ano che av ev a fatto il m ilitare a Brindisi. Av ev a il v iso affilato di un barracuda e i denti piccoli e separati com e quelli di un coccodrillo appena nato. Una v olta ci av ev a detto che li av ev a così perché erano ancora i denti da latte. Non li av ev a m ai cam biati. Se non apriv a la bocca era quasi un bel ragazzo, m a se spalancav a il forno, se ridev a, facev i due passi indietro. E se ti beccav a a guardargli i denti erano dolori. Poi un giorno benedetto, senza dire niente a nessuno, era partito. Se chiedev i al Teschio dov 'era andato suo fratello rispondev a: — Al Nord. A lav orare. Questo ci bastav a e ci av anzav a. Ora inv ece era rispuntato com e un'erbaccia v elenosa. Sulla sua 1 2 7 color m erda sciolta. E scendev a giù dalla casa abbandonata. Ce l'av ev a m esso lui il bam bino nel buco. Ecco chi ce l'av ev a m esso. Nascosto tra gli alberi, ho controllato che nella v alletta non ci fosse nessuno. Quando sono stato sicuro di essere solo, sono uscito dal bosco e sono entrato nella casa passando per la solita chiostrina. Oltre i pacchi di pasta, le bottiglie di birra, la pentola con le m ele, per terra c'erano un paio di scatolette di tonno aperte. E da una parte, arrotolato, un sacco a pelo m ilitare. Felice. Era suo. Me lo v edev o, im bustato nel suo sacco, tutto contento, che si m angiav a il tonno. Ho riem pito una bottiglia d'acqua, ho preso la corda dallo scatolone e l'ho portata fuori, l'ho legata al braccio della gru, ho scostato la lastra e il m aterasso e ho guardato di sotto. Era raggom itolato com e un porcospino nella coperta m arrone. Non av ev o v oglia di scendere là dentro, m a dov ev o scoprire se c'erano i resti della fettina di m ia sorella. Anche se av ev o v isto Felice arriv are dalla collina non riusciv o a toglierm i dalla testa che quel bam bino potev a essere m io fratello. Ho tirato fuori il form aggio e gli ho dom andato: — Posso v enire? Sono quello dell'acqua. Ti ricordi? Ti ho portato da m angiare. La caciotta. È buona la caciotta. Meglio, m ille v olte m eglio della fettina. Se non m i attacchi, te la dò. Non m i ha risposto. — Allora, posso scendere? Felice potev a av erlo sgozzato. — Ti tiro la caciotta. Prendila —. Gliel'ho lanciata. Gli è caduta v icino. Una m ano nera e rapida com e una tarantola è sbucata dalla coperta e ha com inciato a tastare a terra fino a quando non ha trov ato il form aggio, lo ha afferrato e lo ha fatto scom parire. Mentre m angiav a le gam be gli frem ev ano, com e quei cani bastardi che si trov ano dav anti un av anzo di bistecca dopo giorni di digiuno. — Ho anche dell'acqua… Te la porto giù? Ha fatto un gesto con un braccio. Mi sono calato. Appena ha sentito che gli stav o v icino, si è acciam bellato contro la parete. Ho guardato intorno, non c'era traccia della fettina. — Non ti faccio niente. Hai sete? — Gli ho teso la bottiglia. — Bev i, è buona. Si è m esso seduto senza lev arsi di dosso la coperta. Sem brav a un piccolo fantasm a straccione. Le gam be m agre spuntav ano sim ili a due ram oscelli bianchi e strim inziti. Una era legata alla catena. Ha tirato fuori un braccio e m i ha strappato la bottiglia e, com e il form aggio, è scom parsa sotto la coperta. Al fantasm a si è form ato un lungo naso da form ichiere. Bev ev a. Se l'è fatta fuori tutta in v enti secondi. E quando ha finito, ha fatto pure un rutto. — Com e ti chiam i? — gli ho chiesto. Si è riaccucciato senza degnarsi di rispondere. — Com e si chiam a tuo padre? Ho aspettato inv ano. — Mio padre si chiam a Pino, e il tuo? Pure il tuo si chiam a Pino? Sem brav a addorm entato. Sono rim asto a guardarlo, poi ho detto: — Felice! Quello lo conosci? L'ho v isto. Scendev a giù in m acchina… — Non sapev o più che dire. — Vuoi che m e v ado? Se v uoi m e ne v ado —. Niente. — Va bene, m e ne v ado —. Ho afferrato la corda. — Ciao, allora… Ho sentito un sussurro, un respiro, qualcosa è uscito dalla coperta. Mi sono av v icinato. — Hai parlato? Ha bisbigliato ancora. — Non capisco. Parla più forte. — Gli orsetti…! — ha urlato. Ho fatto un salto. — Gli orsetti? Com e gli orsetti? Ha abbassato il tono della v oce. — Gli orsetti lav atori… — Gli orsetti lav atori? — Gli orsetti lav atori. Se lasci aperta la finestra della cucina gli orsetti lav atori entrano dentro e rubano le torte o i biscotti, a seconda di quello che si m angia quel giorno, — ha detto m olto serio. — Se tu, per esem pio, lasci la spazzatura dav anti a casa, gli orsetti lav atori v engono la notte e se la m angiano. Era com e una radio rotta che im prov v isam ente riprendev a a trasm ettere. — E m olto im portante chiudere bene il secchio sennò buttano tutto fuori. Di che stav a parlando? Ho cercato d'in ter r om per lo. — Qui non ci stanno orsi. E neanche lupi. Le v olpi, sì —. E poi gii ho chiesto: — Ieri per caso hai m angiato una fettina di carne? — Gli orsetti lav atori m ordono perché hanno paura dell'uom o. Chi cav olo erano questi orsetti lav atori? E cosa lav av ano? I panni? E poi gli orsi parlano solo nei fum etti. Non m i piacev a questa storia degli orsetti lav atori. Ho insistito. — Mi potresti dire, per fav ore, se ieri sera hai m angiato la fettina? E m olto im portante. E lui m i ha risposto: — Gli orsetti m i hanno detto che tu non hai paura del signore dei v erm i. Una v ocina nel cerv ello m i dicev a che non dov ev o starlo a sentire, che m e ne dov ev o scappare. Mi sono aggrappato alla corda, m a non riusciv o ad andarm ene, continuav o a fissarlo incantato. Ha insistito. — Tu non hai paura del signore dei v erm i. — Il signore dei v erm i? E chi è? — Il signore dei v erm i dice: Ehi, fessacchiottoi Ora ti m ando giù la roba. Prendila e ridam m i il secchio. Sennò scendo e ti schiaccio com e un v erm e. Sì, ti schiaccio com e un v erm e. Tu sei l'angelo custode? — Com e? — Sei l'angelo custode? Ho balbettato. — Io… Io, no… Io non sono l'angelo… — Tu sei l'angelo. Hai la stessa v oce. — Quale angelo? — Quello che parla, che dice le cose. — Non sono gli orsetti lav atori che parlano? —Non riusciv o a trov are un senso a quel farneticare. — Me lo av ev i detto tu… — Gli orsetti parlano, m a certe v olte dicono le bugie. L'angelo dice sem pre la v erità. Tu sei l'angelo custode —. Ha alzato il tono di v oce. — A m e lo puoi dire. Mi sentiv o debole. La puzza di m erda m i tappav a la bocca, il naso, il cerv ello. — Io non sono un angelo… Io sono Michele, Michele Am itrano. Non sono un… — ho m orm orato e m i sono appoggiato contro la parete e sono sciv olato a terra e lui si è alzato, ha teso le braccia v erso di m e com e un lebbroso che chiede la carità ed è rim asto sollev ato pochi istanti, poi ha fatto un passo ed è caduto giù, in ginocchio, sotto la coperta, ai m iei piedi. Mi ha toccato un dito sussurrando. Ho cacciato un urlo. Com e se m i av esse toccato una m edusa schifosa, un ragno infetto. Con quella m anina ossuta, con quelle sue unghie nere, lunghe e storte. Parlav a troppo piano. — Cosa, cosa hai detto? — Cosa hai detto? Sono m orto! — ha risposto. — Cosa? — Cosa? Sono m orto? Sono m orto? Sono m orto. Cosa? — Parla più forte. Più forte… Ti prego… Ha urlato, rauco, senza v oce, stridulo com e un'unghia sulla lav agna. — Sono m orto? Sono m orto? Sono m orto. Ho cercato la corda e m i sono tirato su, scalciando e facendogli franare la terra addosso. Ma lui continuav a a strillare. — Sono m orto? Sono m orto. Sono m orto? Pedalav o inseguito dai tafani. E giurav o che m ai e poi m ai sarei tornato su quella collina. Mai più, m i potev ano accecare, av rei parlato con quel pazzo. Com e cav olo credev a di essere m orto? Nessuno che è v iv o può credere di essere m orto. Quando uno è m orto è m orto. E se ne sta in paradiso. O al m assim o all'inferno. E se inv ece av ev a ragione? Se era m orto v eram ente? Se lo av ev ano resuscitato? Chi? Solo Gesù Cristo può resuscitasti. E nessun altro. Ma quando ti risv egli lo sai che eri m orto? Ti ricordi del paradiso? Te lo ricordi chi eri prim a? Div enti pazzo, perché il cerv ello è m arcito e ti m etti a parlare di orsetti lav atori. Non era m io gem ello e non era neanche m io fratello. E papà non c'entrav a niente con lui. La fettina non c'era. La pentola non era la nostra. La nostra, m am m a l'av ev a buttata v ia. E appena papà tornav a gli raccontav o tutto. Com e m i av ev a insegnato. E lui av rebbe fatto qualcosa. Ero quasi arriv ato alla strada quando m i sono ricordato della lastra. Ero scappato e av ev o lasciato di nuov o il buco aperto. Se Felice tornav a su capiv a subito che c'era stato qualcuno che av ev a ficcato il naso dov e non dov ev a ficcarlo. Non potev o farm i beccare solo perché av ev o paura di un pazzo incatenato in un buco. Se Felice scopriv a che ero stato io, m i av rebbe trascinato per un orecchio. Una v olta io e il Teschio erav am o saliti sulla m acchina di Felice. Facev am o che la 1 2 7 era un'astronav e. Lui guidav a e io sparav o ai m arziani. Felice ci av ev a beccati e ci av ev a tirati fuori, in m ezzo alla strada, trascinandoci per le orecchie, com e conigli. Piangev am o disperati m a lui non m ollav a. Per fortuna che m am m a era uscita e lo av ev a caricato di m azzate. Av rei v oluto lasciare tutto così, correre a casa e chiuderm i in cam era m ia a leggere i giornalini, m a sono tornato indietro, m aledicendom i. Le nuv ole se n'erano andate e si schiattav a di caldo. Mi sono tolto la m aglietta e m e la sono annodata in testa, com e un indiano. Ho preso una m azza. Se av essi incontrato Felice m i sarei difeso. Ho cercato di av v icinarm i il m eno possibile al buco, m a non ho potuto fare a m eno di guardare. Era in ginocchio sotto la coperta con il braccio teso, nella stessa posizione in cui lo av ev o lasciato. Mi è v enuta v oglia di saltare su quella m aledetta lastra e spaccarla in m ille pezzi e inv ece l'ho spinta e ci ho coperto il buco. Quando sono arriv ato m am m a lav av a i piatti. Ha buttato la padella nel lav andino. — Guarda un po' chi è tornato! Era così arrabbiata che le trem av a la m ascella. — Si può sapere dov e te ne v ai? Mi hai fatto m orire di paura… Tuo padre l'altro giorno non te le ha date. Ma questa v olta le prendi. Non ho av uto nem m eno il tem po di tirare fuori una scusa che lei ha com inciato a rincorrerm i. Saltav o da una parte all'altra della cucina com e una capra m entre m ia sorella, seduta al tav olo, m i guardav a scuotendo la testa. — Dov e scappi? Vieni qua! Sono zom pato oltre il div ano, sono passato sotto il tav olo, ho scav alcato la poltrona, sono sciv olato sul pav im ento fino in cam era m ia e m i sono nascosto sotto il letto. — Esci fuori! — No. Tu m i picchi! — Sì che ti picchio. Se esci da solo ne prendi di m eno. — No, non esco! — Va bene. Una m orsa si è chiusa sulla cav iglia. Mi sono attaccato alla zam pa del letto con tutte e due le m ani, m a non c'è stato niente da fare. Mam m a era più forte di Maciste e quella m aledetta zam pa di ferro m i sciv olav a fra le dita. Ho m ollato la presa e m i sono ritrov ato tra le sue gam be. Ho prov ato a infilarm i di nuov o sotto il letto, m a non m i ha dato scam po, m i ha tirato su per i pantaloni e m i ha m esso sotto il braccio com e fossi una v aligia. Strillav o. — Lasciam i! Ti prego! Lasciam i! Si è seduta sul div ano, m i ha steso sulle ginocchia, m i ha abbassato i pantaloni e le m utande m entre belav o com e un agnello, si è buttata indietro i capelli e ha com inciato a farm i le chiappe rosse. Mam m a ha sem pre av uto le m ani pesanti. I suoi sculaccioni erano lenti e precisi e facev ano un rum ore sordo, com e un battipanni sul tappeto. — Ti ho cercato dappertutto —. E uno. — Nessuno sapev a niente —. E due. — Mi farai m orire. Dov e v ai tutto il giorno? — E tre. — Av ranno pensato che sono una m adre che non v ale niente —. E quattro. — Che non sono buona a educare i figli. — Basta! — urlav o io. — Basta! Ti prego, ti prego, m am m a! Alla radio una v oce cantav a. «Croce. Croce e delizia. Delizia al cor». Me lo ricordo com e fosse ieri. Per tutta la v ita, quando ho ascoltato la Trav iata, m i sono riv isto con il sedere all'aria, sulle gam be di m ia m adre che, seduta com posta sul div ano, m i gonfiav a di botte. — Che facciam o? — m i ha chiesto Salv atore. Erav am o seduti sulla panchina e tirav am o i sassi contro uno scaldabagno buttato nel grano. Chi lo colpiv a facev a punto. Gli altri, in fondo alla strada, giocav ano a nascondino. La giornata era stata v entosa, m a ora, al crepuscolo, l'aria si era ferm ata, c'era afa, e dietro i cam pi si era appoggiata una striscia di nuv ole liv ide e stanche. Ho lanciato troppo lontano. — Non lo so. In bicicletta non ci posso andare, m i fa m ale il culo. Mia m adre m i ha picchiato. — Perché? — Perché torno tardi a casa. A te, tua m adre ti picchia? Salv atore ha lanciato e ha colpito lo scaldabagno con un bel toc. — Punto! Tre a uno —. Poi ha scos—so la testa. — No. Non ce la fa. E troppo grossa. — Beato te. Mia m adre inv ece è fortissim a e può correre più v eloce di una bicicletta. Si è m esso a ridere. — Im possibile. Ho raccolto un sasso più piccolo e l'ho scagliato. A questo giro l'ho quasi preso. — Te lo giuro. Una v olta, a Lucignano, dov ev am o prendere il pullm an. Quando siam o arriv ati era appena partito. Mam m a si è m essa a correre così v eloce che l'ha raggiunto e ha com inciato a dare pugni sulla porta. Si sono ferm ati. — Mia m adre se si m ette a correre m uore. — Senti, — ho detto. — Ti ricordi quando la signorina Destani ci ha raccontato la storia del m iracolo di Lazzaro? — Sì. — Secondo te quando è risorto, Lazzaro sapev a di essere m orto? Salv atore ci ha pensato su. — No. Secondo m e pensav a di essersi am m alato. — Ma com e facev a a cam m inare? Il corpo dei m orti è tutto duro. Ti ricordi quel gatto che abbiam o trov ato com 'era duro. — Quale gatto? — ha tirato e ha preso lo scaldabagno di nuov o. Av ev a una m ira infallibile. — Il gatto nero, v icino al torrente… Ti ricordi? — Sì, m i ricordo. Il Teschio lo ha spezzato in due. — Se uno è m orto e si risv eglia, non cam m ina proprio norm ale e div enta pazzo perché gli è m arcito il cerv ello e dice cose strane, non credi? — Penso di sì. — Secondo te si può rianim are un m orto o solo Gesù Cristo in persona ci può riuscire? Salv atore si è grattato la testa. — Non lo so. Mia zia m i ha raccontato una storia v era. Che una v olta il figlio di uno è stato inv estito da una m acchina ed è m orto tutto m aciullato. Il padre non riusciv a più a v iv ere, stav a m ale, piangev a tutto il giorno, è andato da un m ago e gli ha dato tutti i soldi per resuscitargli il figlio. Il m ago ha detto: «Vai a casa e aspetta. Tuo figlio tornerà stanotte». Il padre si è m esso ad aspettare, m a quello non tornav a, alla fine se n'è andato a letto. Si stav a addorm entando quando ha sentito dei passi in cucina. Si è alzato tutto felice e ha v isto il figlio, era tutto m aciullato e non av ev a un braccio e av ev a la testa spaccata, con il cerv ello che gli colav a e dicev a che lo odiav a perché lo av ev a lasciato in m ezzo alla strada per andare con le donne ed era colpa sua se era m orto. — E allora? — E allora il padre ha preso la benzina e gli ha dato fuoco. — Ha fatto bene —. Ho lanciato e finalm ente ho fatto centro. — Punto! Quattro a due. Salv atore si è piegato a cercare un sasso. — Ha fatto bene, sì. — Ma secondo te è una storia v era? — No. — Anche secondo m e. Mi sono sv egliato perché m i scappav a la pipì. Mio padre era tornato. Ho sentito la sua v oce in cucina. C'era gente. Discutev ano, si interrom pev ano, si insultav ano. Papà era m olto arrabbiato. Quella sera erav am o andati a dorm ire subito dopo cena. Av ev o ronzato intorno a m am m a com e una falena, per fare pace. Mi ero m esso addirittura a pelare le patate, m a m i av ev a tenuto il m uso tutto il pom eriggio. A cena ci av ev a sbattuto i piatti dav anti e noi av ev am o m angiato in silenzio, m entre lei girav a per la cucina e guardav a la strada. Mia sorella dorm iv a. Mi sono inginocchiato sul letto e m i sono affacciato alla finestra. Il cam ion era posteggiato accanto a una grande m acchina scura con il m uso argentato. Una m acchina per ricchi. Mi scappav a, m a per raggiungere il bagno dov ev o passare dalla cucina. Con tutte quelle persone m i v ergognav o, però m e la stav o facendo addosso. Mi sono alzato e m i sono av v icinato alla porta. Ho afferrato la m aniglia. Ho contato. — Uno, due, tre… Quattro, cinque e sei —. E ho aperto. Erano seduti a tav ola. Italo Natale, il padre del Teschio. Pietro Mura, il barbiere. Angela Mura. Felice. Papà. E un v ecchio che non av ev o m ai v isto. Dov ev a essere Sergio, l'am ico di papà. Fum av ano. Av ev ano le facce rosse e stanche e gli occhi piccoli piccoli. Il tav olo era coperto di bottiglie v uote, ceneriere piene di m ozziconi, pacchetti di Nazionali e Milde Sorte, briciole di pane. Il v entilatore girav a, m a non serv iv a a niente. Si m oriv a di caldo. Il telev isore era acceso, senza il v olum e. C'era odore di pom odoro, sudore e zam pirone. Mam m a preparav a il caffè. Ho guardato il v ecchio che tirav a fuori una sigaretta da un pacchetto di Dunhill. Ho saputo poi che si chiam av a Sergio Materia. All'epoca av ev a sessantasette anni e v eniv a da Rom a, dov e era div entato fam oso, v ent'anni prim a, per una rapina in una pellicceria di Monte Mario e un colpo alla sede centrale della Banca dell'Agricoltura. Una settim ana dopo la rapina si era com prato una rosticceria-tav ola calda in piazza Bologna. Volev a riciclare il denaro, m a i carabinieri lo av ev ano incastrato proprio il giorno dell'inaugurazione. Si era fatto parecchia galera, per buona condotta era tornato in libertà ed era em igrato in Sud Am erica. Sergio Materia era m agro. Con la testa pelata; Sopra le orecchie gli crescev ano dei capelli giallastri e radi che tenev a raccolti in una coda. Av ev a il naso lungo, gli occhi infossati e la barba, bianca, di alm eno un paio di giorni, gli m acchiav a le guance incav ate. Le sopracciglia lunghe e biondicce sem brav ano ciuffi di peli incollati sulla fronte. Il collo era grinzoso, a chiazze, com e se glielo av essero sbiancato con la candeggina. Indossav a un com pleto azzurro e una cam icia di seta m arrone. Un paio di occhiali d'oro gli poggiav ano sulla pelata lucida. E una catena d'oro con un sole spuntav a fra i peli del petto. Al polso portav a un orologio d'oro m assiccio. Era furibondo. — Fin dall'inizio av ete fatto uno sbaglio dietro l'altro —. Parlav a strano. — E questo qua è un coglione… — Ha indicato Felice. Lo guardav a con la faccia con cui si guarda uno stronzo di cane. Ha preso uno stecchino e ha com inciato a pulirsi i denti gialli. Felice era piegato sulla tav ola e con la forchetta facev a disegni sulla tov aglia. Era uguale preciso al fratello quando la m adre lo sgridav a. Il v ecchio si è grattato la gola. — Su lo av ev o detto che non ci dov ev am o fidare di v oi. Non siete buoni. E stata un'idea del cazzo. Av ete fatto stronzate su stronzate. Voi state a scherzare col fuoco —. Ha buttato lo stecchino nel piatto. — Sono un idiota! Me ne sto qua a perdere tem po… Se le cose andav ano com e dov ev ano andare, a quest'ora dov ev o stare in Brasile e inv ece sto in questo posto di m erda. Papà ha prov ato a ribattere. — Sergio ascolta… Stai tranquillo… Le cose non sono ancora… Ma il v ecchio lo ha zittito. — Quali cazzo di cose? Tu dev i stare zitto perché sei peggio degli altri. E lo sai perché? Perché non ti rendi conto. Non sei capace. Tutto tranquillo, sicuro, hai infilato una cazzata dietro l'altra. Sei un im becille. Papà ha cercato di rispondere poi ha ingoiato il boccone e ha abbassato lo sguardo. Lo av ev a chiam ato im becille. E stato com e se m i av essero dato una coltellata in un fianco. Nessuno av ev a m ai parlato così a papà. Papà era il capo di Acqua Trav erse. E inv ece quel v ecchio schifoso, arriv ato da chissà dov e, lo insultav a dav anti a tutti. Perché papà non lo cacciav a v ia? Im prov v isam ente nessuno ha parlato più. Stav ano m uti, m entì e il v ecchio ha ricom inciato a pulirsi i denti e a guardare il lam padario. Il v ecchio era com e l'im peratore. Quando l'im peratore è nero tutti dev ono stare zitti. Papà com preso. — Il telegiornale! Ecco il telegiornale, — ha detto il padre di Barbara agitandosi sulla sedia. — Incom incia! — Alza! Teresa, alza! E spegni la luce, — ha fatto papà a m am m a. A casa m ia si spegnev a sem pre la luce quando si guardav a la telev isione. Era obbligatorio. Mam m a si è precipitata sulla m anopola del v olum e e poi sull'interruttore. Nella stanza è calata la penom bra. Tutti si sono girati v erso il telev isore. Com e quando giocav a l'Italia. Nascosto dietro la porta, li ho v isti trasform arsi in sagom e oscure tinte di blu dallo scherm o. Il giornalista parlav a di uno scontro tra due treni av v enuto v icino a Firenze, c'erano stati dei m orti, m a a nessuno im portav a. Mam m a v ersav a lo zucchero nel caffè. E loro a dire: — A m e uno, a m e due, a m e senza. La m adre di Barbara ha detto: — Forse non ne parlano. Ieri non ne hanno parlato. Forse non interessa più. — Zitta tu! — ha sbuffato il v ecchio. Era il m om ento giusto per andare a fare la pipì. Bastav a arriv are in cam era dei m iei. Da lì entrav o in bagno e la facev o al buio. Mi sono im m aginato di essere una pantera nera. Sono uscito dalla stanza a quattro zam pe. Ero a pochi m etri dalla salv ezza quando il padre del Teschio si è alzato dal div ano e m i è v enuto incontro. Mi sono appiccicato sul pav im ento. Italo Natale ha preso le sigarette dal tav olo ed è tornato a sedersi sul div ano. Ho tirato un sospiro e ho ricom inciato ad av anzare. La porta stav a lì, era fatta, c'ero. Com inciav o a rilassarm i, quando tutti insiem e hanno urlato. — Ecco! Ecco! — Zitti! — State zitti! Ho allungato il collo oltre il div ano e per poco non m i è preso un colpo. Dietro il giornalista c'era la foto del bam bino. Il bam bino nel buco. Era biondo. Tutto pulito, tutto pettinato, tutto bello, con una cam icia a quadretti, sorridev a e tra le m ani stringev a la locom otiv a di un trenino elettrico. Il giornalista ha proseguito. — Continuano senza sosta le ricerche del piccolo Filippo Carducci, il figlio dell'industriale lom bardo Giov anni Carducci rapito due m esi fa a Pav ia. I carabinieri e gli inquirenti stanno seguendo una nuov a pista che porterebbe… Non ho sentito più niente. Urlav ano. Papà e il v ecchio si sono alzati in piedi. Il bam bino si chiam av a Filippo. Filippo Carducci. — Trasm ettiam o ora un appello della signora Luisa Carducci ai rapitori registrato questa m attina. — E ora che cazzo v uole questa bastarda? — ha detto papà. — Puttana! Brutta puttana! — ha ringhiato dietro Felice. Il padre gli ha dato uno schiaffo. — Statti zitto! Si è unita la m adre di Barbara. — Cretino! — Porcoddio! E basta! — ha strillato il v ecchio. — Voglio sentire! E apparsa una signora. Elegante. Bionda. Non era né giov ane né v ecchia, m a era bella. Stav a seduta su una grande poltrona di cuoio in una stanza piena di libri. Av ev a gli occhi lucidi. Si stringev a le m ani com e se le dov essero scappare. Ha tirato su con il naso e ha detto guardandoci negli occhi: — Sono la m adre di Filippo Carducci. Mi riv olgo ai sequestratori di m io figlio. Vi im ploro, non fategli m ale. E un bam bino buono, educato e m olto tim ido. Vi im ploro di trattarlo bene. Sono sicura che conoscete l'am ore e la com prensione. Anche se non av ete figli sono certa che potete im m aginare cosa v oglia dire quando te li portano v ia. Il riscatto che av ete chiesto è m olto alto, m a io e m io m arito siam o disposti a darv i tutto quello che possediam o pur di riav ere Filippo con noi. Av ete m inacciato di tagliargli un orecchio. Vi prego, v i supplico di non farlo… — Si è asciugata gli occhi, ha preso fiato e ha continuato. — Stiam o facendo il possibile. Per fav ore. Dio v e ne renderà m erito se saprete essere m isericordiosi. Dite a Filippo che la sua m am m a e il suo papà non lo hanno dim enticato e gli v ogliono bene. Papà ha fatto con le dita il segno della forbice. — Due orecchie gli tagliam o. Due. Il v ecchio ha aggiunto: — Così, troia, im pari a parlare alla telev isione! E tutti hanno ricom inciato a urlare. Mi sono infilato in cam era, ho chiuso la porta, sono salito sulla finestra e l'ho fatta di sotto. Erano stati papà e gli altri a prendere il bam bino a quella signora della telev isione. La pipì scrosciav a sul telone del cam ion e le gocce brillav ano alla luce del lam pione. «Attento, Michele, non dev i uscire di notte», m i dicev a sem pre m am m a. «Con il buio esce l'uom o nero e prende i bam bini e li v ende agli zingari». Papà era l'uom o nero. Di giorno era buono, m a di notte era cattiv o. Tutti gli altri erano zingari. Zingari trav estiti da persone. E quel v ecchio era il re degli zingari e papà il suo serv o. Mam m a no, però. Mi im m aginav o che gli zingari erano una specie di nanetti v elocissim i, con le orecchie di v olpe e le zam pe di gallina. E inv ece erano persone norm ali. Perché non glielo ridav ano? Che se ne facev ano di un bam bino pazzo? La m am m a di Filippo stav a m ale, si v edev a. Se lo chiedev a in telev isione v olev a dire che le im portav a m olto di suo figlio. E papà gli v olev a tagliare pure le orecchie. — Che fai? — ho sobbalzato, m i sono v oltato e per poco non l'ho fatta sul letto. Maria si era sv egliata. Mi sono rim esso l'uccello nelle m utande. — Niente. — Facev i pipì, ti ho v isto. — Mi scappav a. — Che c'è di là? Se dicev o a Maria che papà era l'uom o nero potev a pure im pazzire. Ho sollev ato le spalle. — Niente. — E perché litigano? — Così. — Com e così? Mi sono buttato. — Stanno giocando a tom bola. — A tom bola? — Siì. Litigano per chi tira fuori i num eri. — Chi sta v incendo? — Sergio, l'am ico di papà. — E arriv ato? —Sì. —Com 'è? — Vecchio. Dorm i ora. — Non ci riesco. Fa troppo caldo. C'è rum ore. Quando se ne v anno? Di là continuav ano a urlare. Sono sceso giù dalla finestra. — Non lo so. — Michele, m i racconti una fav ola così m i addorm ento? Papà ci raccontav a le storie di Agnolotto in Africa. Agnolotto era un cagnolino di città che si nascondev a in una v aligia e finiv a per sbaglio in Africa, tra i leoni e gli elefanti. Ci piacev a m olto questa storia. Agnolotto era capace di tenere testa agli sciacalli. E av ev a una m arm otta per am ica. Di solito quando papà tornav a ci raccontav a una nuov a puntata. Era la prim a v olta che Maria m i chiedev a di raccontarle una fav ola, ero m olto onorato. Il guaio era che io non le conoscev o. — Ecco… Io non le so, — ho dov uto am m ettere. — Non è v ero. Le conosci. — E quale conosco? — Ti ricordi la fav ola che ci ha raccontato quella v olta la m am m a di Barbara? Quella di Pierino Pierone? — Ah, già! — Me la racconti? — Va bene, m a non m e la ricordo tanto. — Ti v a di raccontarm ela nella tenda? — Sì —. Così alm eno non sentiv am o gli strilli in cucina. Mi sono m esso nel letto di m ia sorella e ci siam o tirati il lenzuolo sopra la testa. — Com incia, — m i ha sussurrato in un orecchio. — Allora, c'era Pierino Pierone che si arram picav a sem pre sugli alberi per m angiarsi la frutta. Un giorno stav a là sopra quando è arriv ata la strega Bistrega. E ha detto: «Pierino Pierone, dam m i una pera che ho una fam e trem enda». E Pierino Pierone le ha lanciato una pera. Mi ha interrotto. — Non hai detto com 'è fatta la strega Bistrega. — Giusto. E bruttissim a. Senza i capelli sopra. Ha la coda di cav allo e il naso lungo. E alta e si m angia i bam bini. E suo m arito è l'uom o nero… Mentre raccontav o, m i v edev o papà che tagliav a le orecchie a Filippo e se le m ettev a in tasca. E le attaccav a allo specchietto del cam ion com e con la coda di pelliccia. — Non è v ero. Non è sposata. Racconta bene. Io la storia la so. — Pierino Pierone le ha lanciato una pera che è finita dentro la m erda di v acca. Maria ha com inciato a ridere. Le cose con la cacca le piacev ano m olto. — La strega Bistrega ha detto ancora; «Pierino Pierone, dam m i una pera che ho una fam e trem enda». «Prendi questa! » E le ha lanciato la pera nella piscia di v acca. E l'ha sporcata tutta. Altre risate. — La strega gliel'ha chiesta di nuov o. E lui le ha lanciato un'altra pera nel v om ito di v acca. Mi ha dato una gom itata. — Questa non c'è. Non v ale. Non fare lo scem o. Con m ia sorella non si potev a cam biare neanche un po' la storia. — Allora… Ma che facev ano di là? Dov ev ano av er rotto un piatto. Ho alzato il tono. — Allora Pierino Pierone è sceso dall'albero e le ha dato la pera. La strega Bistrega lo ha preso e lo ha chiuso dentro un sacco e se lo è m esso in spalla. Siccom e Pierino Pierone m angiav a i peperoni che sono pesanti, la strega non ce la facev a a portarlo e si dov ev a ferm are ogni cinque m inuti e a un certo punto dov ev a pure fare la pipì, ha lasciato il sacco e si è nascosta dietro un albero. Pierino Pierone con i denti ha tagliato la corda ed è uscito fuori e ci ha ficcato dentro un orsetto lav atore… — Un orsetto lav atore? Lo av ev o detto apposta, per v edere se Maria li conoscev a. — Sì, un orsetto lav atore. — Chi sono? — Sono degli orsetti che se tu lasci i panni v icino al fium e loro arriv ano e te li lav ano. — E dov e stanno? — Al Nord. — E allora? — Maria sapev a che Pierino Pierone nel sacco ci av ev a m esso una pietra, però non ha detto niente. — La strega Bistrega ha ripreso il sacco e se l'è m esso sulle spalle e quando è arriv ata a casa ha detto a sua figlia: «Margherita Margheritone, v ieni giù e apri il portone e prepara il pentolone per bollire Pierino Pierone». Margherita Margheritone ha m esso l'acqua sul fuoco e la strega Bistrega ci ha v uotato il sacco dentro e l'orsetto lav atore è saltato fuori e ha com inciato a m orderle tutte e due, è sceso nel cortile e ha com inciato a m angiarsi le galline, ha buttato tutta la spazzatura in aria. La strega si è arrabbiata m oltissim o ed è uscita un'altra v olta a cercare Pierino Pierone. Lo ha trov ato e lo ha infilato nel sacco e non si è ferm ata in nessun posto. Quando è arriv ata a casa ha detto a Margherita Margheritone: «Prendilo e chiudilo in cantina che dom ani ce lo m angiam o… » Mi sono ferm ato. Maria dorm iv a e quella era una brutta storia. 5. Il v ecchio m e lo sono ritrov ato nel bagno il m attino dopo. Ho aperto la porta e stav a là che si facev a la barba, tutto curv o sul lav andino, con la testa appiccicata allo specchio e la cicca che gli pendev a dalle labbra. Addosso av ev a una canottiera lisa e dei m utandoni ingialliti da cui usciv ano due tram poli secchi e senza peli. Ai piedi portav a degli stiv aletti neri con la cerniera abbassata. Av ev a un odore aspro, nascosto dal talco e dal dopobarba. Si è girato v erso di m e e m i ha squadrato dall'alto in basso con gli occhi gonfi, una guancia coperta di schium a e il rasoio in m ano. — E tu chi sei? Mi sono puntato un dito sul petto. — Io? — Sì, tu. — Michele… Michele Am itrano. — Io sono Sergio. Buon giorno. Ho allungato la m ano. — Piacere —. Così a scuola m i av ev ano insegnato a rispondere. Il v ecchio ha pulito il rasoio nell'acqua. — Non lo sai che si bussa prim a di entrare in gabinetto? Non te lo hanno insegnato i tuoi genitori? — Mi scusi —. Volev o andarm ene m a restav o lì im palato. Un po' com e quando v edi uno storpio e cerchi di non guardarlo e non ce la fai. Ha ricom inciato a radersi il collo. — Sei il figlio di Pino? — Sì. Mi ha squadrato attrav erso lo specchio. — Tu sei un tipo silenzioso? — Sì. — Mi piacciono i bam bini silenziosi. Brav o. Vuol dire che non hai preso da tuo padre. E sei ubbidiente? — Sì. — Allora esci e chiudi la porta. Sono corso da m am m a. Stav a in cam era m ia e togliev a le lenzuola dal letto di Maria. L'ho tirata per il v estito. — Mam m a! Mam m a, chi è quel v ecchio nel bagno? — Lasciam i, Michele, che ho da fare. E Sergio, l'am ico di tuo padre. Te l'av ev a detto che v eniv a. Rim ane qualche giorno a casa nostra. — Perché? Ha sollev ato il m aterasso e lo ha rigirato. — Perché così tuo padre ha deciso. — E dov e dorm e? — Nel letto di tua sorella. — E lei? — Sta con noi. —E io? — Nel tuo letto. — Che il v ecchio dorm e nella cam era con m e? Mam m a ha preso un respiro. — Sì. — La notte? — Sei scem o? Che di giorno, forse? — Non può starci Maria con quello? E io dorm o con te. — Non dire cretinate —. Ha com inciato a m ettere le lenzuola pulite. — Vai fuori, ho da fare. Mi sono gettato a terra e m i sono aggrappato alle sue cav iglie. — Mam m a, ti prego, per fav ore, non v oglio dorm ire con quello là. Ti prego, v oglio stare con te. Nel letto con te. Ha sbuffato. — Non ci stiam o. Sei troppo grande. — Mam m a, ti prego. Mi m etto in un angolo. Mi faccio piccolo piccolo. — Ho detto di no. — Ti prego, — ho com inciato a im plorare. — Ti prego. Sarò buono. Vedrai. — Piantala —. Mi ha rim esso in piedi e m i ha guardato negli occhi. — Michele, non so più che fare con te. Perché non ubbidisci m ai? Io non ce la faccio più. Abbiam o tanti di quei problem i e ti ci m etti pure tu. Tu non capisci. Per fav ore… Ho scosso la testa. — Non v oglio. Non ci v oglio dorm ire con quello. Non ci dorm o, io. Ha tolto la federa dal cuscino. — Le cose stanno così. Se non ti v a bene, dillo a tuo padre. — Ma quello m i porta v ia… Mam m a ha sm esso di rifare il letto e si è v oltata. — Che hai detto? Ripeti. Ho sussurrato. — Mi porta v ia… Mi ha scrutato con i suoi occhi neri. — Che v uoi dire? — Voi v olete che m i porti v ia… Tu m i odî. Sei cattiv a. Tu e papà m i odiate. Io lo so. — Chi te le dice queste cose? — Mi ha afferrato per un braccio m a io m i sono div incolato e sono fuggito. Scendev o le scale e sentiv o che m i chiam av a. — Michele! Michele, torna qua! — Io non ci dorm o. No, io non ci dorm o con quello. Sono scappato al torrente e m i sono arram picato sul carrubo. Io con quel v ecchio non ci av rei dorm ito m ai. Av ev a preso Filippo. E appena m i addorm entav o prendev a pure m e. Mi infilav a in un sacco e v ia. E poi m i tagliav a le orecchie. Ma si potev a v iv ere senza orecchie? Non si m oriv a? Io alle m ie orecchie ci tenev o. A Filippo, papà e il v ecchio dov ev ano av ergliele già tagliate. Mentre io ero sul m io albero, lui, nel suo buco, non av ev a più orecchie. Chissà se gli av ev ano bendato la testa? Dov ev o andare. E dov ev o raccontargli di sua m adre, che gli v olev a ancora bene e che lo av ev a detto alla telev isione, così tutti lo sapev ano. Ma av ev o paura, se alla casa ci trov av o papà e il v ecchio? Ho guardato l'orizzonte. Il cielo era piatto, grigio e pesav a sui cam pi di grano. La collina era laggiù, gigante, v elata dal calore. Se sto attento non m i v edono, m i sono detto. — O partigiano, portam i v ia, che m i dev on seppellir. O partigiano, portam i v ia. O bella ciao ciao ciao —. Ho sentito una v oce che cantav a. Ho guardato giù. Barbara Mura trascinav a Togo, gli av ev a legato uno spago intorno al collo e lo tirav a v erso l'acqua. — La m am m a ora ti fa il bagnetto. Sarai tutto pulito. Sei contento? Sì, che sei contento —. Ma Togo non sem brav a contento. Culo a terra, puntav a le zam pe e agitav a la testa cercando di liberarsi dal cappio. — Sarai bellissim o. E ti porterò a Lucignano. Andrem o a prendere il gelato e ti com prerò il guinzaglio —. Lo ha afferrato, lo ha baciato, si è sfilata i sandali, ha fatto un paio di passi nell'acquitrino e lo ha im m erso in quella m elm a fetente. Togo ha com inciato a div incolarsi m a Barbara lo tenev a bloccato per la collottola e la coda. Lo ha spinto sott'acqua. L'ho v isto scom parire nel fango. Ha ripreso a canticchiare. — Una m attina m i son sv egliata. O bella ciao! Bella ciao! Bella ciao ciao ciao! Non lo tirav a più fuori. Lo v olev a am m azzare. Ho urlato. — Che fai? Mollalo! Barbara ha fatto un salto e per poco non è finita in acqua. Ha lasciato il cane che è riem erso e ha arrancato fino a riv a. Con un balzo sono sceso dall'albero. — E tu che ci fai qua? — m i ha chiesto Barbara tutta stizzita. — Che gli stav i facendo? — Niente. Lo lav av o. — Non è v ero. Tu lo v olev i am m azzare. —No! — Giuralo. — Te lo giuro su Dio e tutti i santi! — Si è m essa una m ano sul cuore. — Le zecche e le pulci se lo m angiano. Per questo gli facev o il bagno. Non sapev o se crederle. Ha acchiappato Togo che stav a su un sasso e scodinzolav a felice. Si era già scordato la brutta esperienza. — Guarda, se dico la v erità —. Gli ha sollev ato un orecchio. — Oddio che schifo! Tutto intorno e dentro il padiglione pullulav a di zecche. Facev a v enire il v oltastom aco. Con quelle loro testine affondate nella pelle, con le loro zam pette nere e il v entre m arrone scuro, gonfio e tondo com e un ov etto di cioccolata. — Hai v isto? Gli succhiano il sangue. Ho storto il naso. — E con il fango se ne v anno? — Alla telev isione Tarzan ha detto che gli elefanti si fanno il bagno nel fango per lev arsi gli anim aletti di dosso. — Ma Togo non è un elefante. — Che c'entra? E sem pre un anim ale. — Secondo m e bisogna tirargliele v ia, — ho detto. — Con il fango non se ne v anno. — E com e? — Con le m ani. — E chi lo fa? A m e fa senso. — Ci prov o io —. Con due dita ne ho presa una bella gonfia, ho chiuso gli occhi e ho tirato forte. Togo ha m ugolato, m a il m ostro è v enuto v ia. L'ho m esso su un sasso e l'abbiam o osserv ato. Agitav a le zam pette m a non riusciv a a m uov ersi per quanto era gonfio di sangue. — Muori, v am piro! Muori! — Barbara l'ha schiacciato con una pietra trasform andolo in un im piastro rosso. Gliene ho staccate com e m inim o una v entina. Barbara m i tenev a il cane ferm o. Dopo un po' m i sono stufato. Anche Togo non ce la facev a più. Guaiv a appena lo sfiorav o. — Le altre gliele lev iam o un altro giorno. Va bene? — Va bene —. Barbara si è guardata in giro. — Io m e ne v ado. Tu che fai? — Resto un altro po' qui —. Appena si allontanav a, prendev o la Scassona e andav o da Filippo. Ha rim esso lo spago intorno al collo di Togo. — Allora ci v ediam o dopo? — ha detto m entre si av v iav a. — Si. Si è ferm ata. — C'è uno a casa tua. Con quella m acchina grigia. E un tuo parente? — No. — Oggi è v enuto pure a casa m ia. — Che v olev a? — Non lo so. Parlav a con papà. Poi sono partiti. Mi sa che c'era pure tuo padre. Sulla m acchinona. E certo. Andav ano a tagliare le orecchie a Filippo. Ha fatto una sm orfia e m i ha dom andato: — A te quello là piace? — No. — A m e nem m eno. E rim asta in silenzio. Sem brav a che non se ne v olesse più andare. Si è girata e ha sussurrato un grazie. — Per cosa? — Per l'altro giorno… Quando hai fatto la penitenza al posto m io. Ho alzato lev spalle. — Niente. — Senti… — E div entata tutta rossa. Mi ha guardato per un secondo e ha detto: — Ti v orresti fidanzare con m e? La faccia m i è div entata bollente. — Com e? Si è piegata a carezzare Togo. — Fidanzarci. — Io e te? — Sì. Ho abbassato la testa e m i sono guardato la punta dei piedi. — Ecco… Non tanto. Ha lasciato andare un sospiro trattenuto. — Non fa niente. Non abbiam o neanche gli stessi a n n i —. Si è passata la m ano tra i capelli. — Ciao, allora. — Ciao. Se n'è andata tirandosi dietro Togo. Mi è v enuta paura delle v ipere, così, all'im prov v iso. Fino a quel giorno, quando saliv o sulla collina, non ci av ev o pensato m ai alle v ipere. Continuav a a balenarm i dav anti l'im m agine di quel bracco che ad aprile era stato m orso sul naso da una v ipera. La pov era bestia era stesa in un angolo del capannone, ansim ante, con l'occhio fisso, la schium a bianca sulle gengiv e e la lingua di fuori. — Oram ai non c'è più niente da fare —. Av ev a detto il padre del Teschio. — Il v eleno gli è entrato nel cuore. Stav am o tutti in cerchio a guardarlo. — Portiam olo a Lucignano. Dal dottore degli anim ali, — av ev o proposto. — Soldi buttati. E un ladro quello, gli fa una siringa d'acqua e ti ridà il cane m orto. Andate v ia, forza, lasciatelo m orire in pace —. Ci av ev a spinti fuori. Maria si era m essa a piangere. Attrav ersav o il grano e m i sem brav a di v edere serpenti strisciare dappertutto. Saltav o com e una quaglia e con una m azza m enav o gran colpi per terra, era un fuggi fuggi di grilli e cav allette. Il sole picchiav a in testa e sul collo, non c'era un alito di v ento e in lontananza la pianura era tutta sfocata. Quando sono arriv ato al m argine della v alle ero sfinito. Un po' d'om bra e una bev uta d'acqua era quello che ci v olev a, m i sono av v iato nel boschetto. Ma c'era qualcosa di div erso dal solito. Mi sono ferm ato. Sotto gli uccelli, i grilli e le cicale si sentiv a della m usica. Mi sono precipitato dietro un tronco. Da lì non riusciv o a v edere niente, m a sem brav a che la m usica v eniv a dalla casa. Dov ev o andarm ene v ia di corsa, m a la curiosità m i spingev a a dare un'occhiata. Se facev o attenzione, se rim anev o tra gli alberi, non m i v edev ano. Nascondendom i tra le querce m i sono av v icinato allo spiazzo. La m usica era più forte. Era una canzone fam osa. L'av ev o sentita un sacco di v olte. La cantav a una donna bionda con un signore elegante. Li av ev o v isti alla telev isione. Mi piacev a quella canzone. C'era un m asso coperto da ciuffi v erdi di m uschio proprio al lim itare della radura, un buon riparo, ci sono strisciato dietro. Ho allungato la testa e ho spiato. Parcheggiata dav anti alla casa c'era la 1 2 7 di Felice, con le portiere e il bagagliaio aperti. La m usica v eniv a dall'autoradio. Si sentiv a m ale, gracchiav a. Felice è uscito dalla stalla. Era in slip. Ai piedi av ev a gli anfibi e intorno al collo il solito fazzoletto nero. Ballav a a braccia spalancate e ancheggiav a com e una danzatrice del v entre. — Non cam bi m ai, non cam bi m ai, non cam bi m ai… — Cantav a in falsetto, insiem e alla radio. Poi si ferm av a e con v oce grav e continuav a. — Tu sei il m io ieri, il m io oggi. Il m io sem pre. Inquietudine. E da fem m ina. — Adesso, orm ai, ci puoi prov are. Chiam am i torm ento, dai. Già che ci sei. Ha indicato qualcuno. — Tu sei com e il v ento che porta i v iolini e le rose. — Parole, parole, parole… — Ascoltam i. — Parole, parole, parole… — Ti prego. Era m olto brav o. Facev a tutto da solo. Maschio e fem m ina. E quando era uom o facev a il duro. Occhio a m ezz'asta e bocca socchiusa. — Parole, parole, parole… — Io ti giuro. Poi si è buttato a terra, nella polv ere, e ha com inciato a fare le flessioni. Con due braccia, con una, con lo schiaffo, e cantav a tutto contratto. — Parole, parole, parole, parole, parole, soltanto parole, parole tra noi. Me ne sono andato. Ad Acqua Trav erse si giocav a a un due tre stella. Il Teschio, Barbara e Rem o erano ferm i, sotto il sole, in strane posizioni. Salv atore, con la testa contro il m uro, ha urlato. — Un, due, tre, stellaaa! — Si è girato e ha v isto il Teschio. Il Teschio esagerav a sem pre, inv ece di fare tre passi ne facev a quindici e v eniv a beccato. Poi non ci stav a. Tu gli dicev i che lo av ev i v isto, m a lui non ti stav a a sentire. Per lui tutto il m ondo barav a. Lui no, lui era un santo. E se gli dicev i qualcosa com inciav a a prenderti a spinte. In un m odo o nell'altro v incev a sem pre. Pure con le bam bole av rebbe fatto in m odo di v incere. Sono passato tra le case pedalando piano. Ero stanco e arrabbiato. Non ero riuscito a dire a Filippo di sua m am m a. Il cam ion di papà era posteggiato sotto casa, accanto al m acchinone grigio del v ecchio. Av ev o fam e. Ero scappato senza fare colazione. Ma non m i andav a tanto di salire. Il Teschio m i si è av v icinato. — Dov 'eri sparito? — A fare un giro. — Te ne stai sem pre per conto tuo. Dov e v ai? — Non gli piacev a quando ti facev i gli affari tuoi. — Al torrente. Mi ha squadrato sospettoso. — A che fare? Ho sollev ato le spalle. — Niente. Sull'albero. Ha fatto la faccia schifata di uno che si è m angiato una m ela m arcia. Togo è arriv ato e ha com inciato a m orderm i la ruota della bicicletta. Il Teschio gli ha m ollato un calcio. — Vai v ia, cagnaccio. Buca i copertoni con quei denti di m erda. Togo è scappato da Barbara che stav a seduta sul m uretto e le è saltato in braccio. Barbara m i ha salutato. Ho risposto con un cenno della m ano. Il Teschio ha osserv ato la scena. — Che sei div entato am ico della cicciona? — No… Mi ha squadrato per capire se dicev o la v erità. — No, te lo giuro! Si è rilassato. — Ah, ecco. Ti v a di fare una partita a pallone? Non m i andav a, m a dirgli di no era pericoloso. — Non fa troppo caldo? Mi ha afferrato il m anubrio. — Tu stai facendo un po' lo stronzo, lo sai? Ho av uto paura. — Perché? — Il Teschio potev a im prov v isam ente storcersi e decidere di tirarti giù dalla bicicletta e prenderti a botte. — Perché sì. Per fortuna è apparso Salv atore. Facev a rim balzare il pallone sulla testa. Poi lo ha stoppato con il piede e se l'è m esso sotto il braccio. — Ciao, Michele. — Ciao. Il Teschio gli ha dom andato. — Ti v a di giocare? — No. Il Teschio si è indispettito. — Siete due m erdosi! Allora, sapete che faccio? Me ne v ado a Lucignano —. E se n'è andato tutto incazzato. Ci siam o m essi a ridere, poi Salv atore m i ha det t o: — Vado a casa. Vuoi v enire da m e che giochiam o a Subbuteo? — Non m i v a tanto. Mi ha dato una pacca sulle spalle. — Va bene. Allora ci v ediam o dopo. Ciao —. Si è allontanato palleggiando. Salv atore m i piacev a. Mi piacev a com e rim anev a sem pre tranquillo e non si offendev a ogni cinque m inuti. Con il Teschio prim a di dire una cosa dov ev i pensarci tre v olte. Ho pedalato fino alla fontana. Maria av ev a preso la bacinella sm altata e la usav a com e piscina per le Barbie. Ne av ev a due, una norm ale e una tutta nera con un braccio squagliato e senza capelli. Ero stato io a ridurla così. Una sera av ev o v isto alla telev isione la storia di Giov anna d'Arco e av ev o acchiappato la Barbie e l'av ev o gettata nel fuoco urlando: — Brucia! Strega! Brucia! — Quando m i ero accorto che bruciav a v eram ente, l'av ev o afferrata per un piede e l'av ev o buttata dentro la pentola del m inestrone. Mam m a m i av ev a lev ato la bicicletta per una settim ana e m i av ev a obbligato a m angiarm i tutto il m inestrone da solo. Maria av ev a im plorato di com prargliene un'altra. — Alla tua festa. Per ora gioca con questa. Prenditela con quell'idiota di tuo fratello —. E Maria si era adattata. La Barbie bella si chiam av a Paola e quella bruciata Pov erella. — Ciao, Maria, — le ho detto sm ontando dalla bicicletta. Si è m essa una m ano sulla fronte per ripararsi dal sole. — Papà ti ha cercato… Mam m a è arrabbiata. — Lo so. Ha preso Pov erella e l'ha m essa nella piscina. — La fai sem pre arrabbiare. — Io v ado su. — Papà ha detto che dev e parlare con Sergio e non v uole che stiam o in m ezzo. — Ma io ho fam e… Ha preso un'albicocca dalla tasca dei pantaloni. — La v uoi? — Sì —. Era calda e m oscia, m a l'ho div orata e ho sputato l'osso lontano. Papà è uscito sul terrazzino, m i ha v isto e m i ha chiam ato. — Michele, v ieni qua —. Era in cam icia e pantaloncini. Non ci v olev o parlare. — Non posso, ho da fare! Mi ha fatto segno di salire su. — Vieni qua. Ho poggiato la bicicletta contro il m uro e ho salito le scale a testa bassa, rassegnato. Papà si è seduto sull'ultim o gradino. — Mettiti qui, v icino a m e —. Ha tirato fuori un pacchetto di Nazionali dalla tasca della cam icia, ha preso una sigaretta, l'ha infilata nel bocchino e se l'è accesa. — Dobbiam o parlare io e te. Non m i sem brav a tanto arrabbiato. Siam o rim asti in silenzio. A guardare, oltre i tetti, i cam pi gialli. — Fa caldo, eh? — m i ha chiesto. — Molto. Ha cacciato una nuv ola di fum o. — Dov e te ne v ai tutto il giorno, si può sapere? — Da nessuna parte. — Non è v ero. Da qualche parte v ai. — A fare dei giretti qui intorno. — Da solo? — Sì. — Che c'è? Non ti piace stare con gli am ici tuoi? — No, m i piace. E che m i piace pure stare da solo. Ha fatto segno di sì con la testa, gli occhi persi nel v uoto. L'ho guardato. Sem brav a più v ecchio, tra i capelli neri ne spuntav a qualcuno bianco, le guance gli si erano scav ate e sem brav a che non dorm iv a da una settim ana. — Hai fatto arrabbiare tua m adre. Ho strappato un ram etto di rosm arino da un v aso e ho com inciato a rigirarm elo tra le m ani. — Non l'ho fatto apposta. — Ha detto che non v uoi dorm ire con Sergio. — Non m i v a… — E perché? — Perché v oglio dorm ire con v oi. Nel v ostro letto. Tutti insiem e. Se ci stringiam o, c'entriam o. — Sergio che penserà se non dorm i con lui? — Non m 'im porta. — Non si trattano così gli ospiti. Im m agina se tu v ai a stare da qualcuno e nessuno v uole dorm ire con te. Che penseresti? — Non m 'im porterebbe, io v orrei una stanza tutta per m e. Com e all'albergo. Ha accennato un sorriso e con due dita ha lanciato il m ozzicone in strada. Gli ho chiesto: — Sergio è il tuo capo? Per questo dev e stare da noi? Mi ha guardato sorpreso. — Com e è il m io capo? — Sì, decide lui le cose. — No, non decide niente. E un m io am ico. Non era v ero. Il v ecchio non era suo am ico, era il suo capo. Io lo sapev o. Potev a dirgli pure le m ale parole. — Papà, m a tu dov e dorm i quando v ai al Nord? — Perché? — Così. — In albergo, dov e capita, a v olte nel cam ion. — Ma di notte al Nord che succede? Mi ha guardato, ha preso un respiro con il naso e m i ha chiesto: — Che c'è? Non sei contento che sono tornato? — Sì. — Di' la v erità. — Sí, sono contento. — Mi ha stretto tra le braccia, forte. Sentiv o il suo sudore. Mi ha sussurrato in un orecchio: — Stringim i, Michele, stringim i! Fam m i sentire quanto sei forte. L'ho abbracciato più forte che potev o e m i v eniv a da piangere. Le lacrim e m i scendev ano e m i si stringev a la gola. — Che fai, piangi? Ho singhiozzato. — No, non piango. Ha tirato fuori dalla tasca un fazzoletto str opiccia to. — Asciugati quelle lacrim e, che se qualcuno ti v ede fai la figura della fem m ina. Michele, in questi giorni ho m olto da fare e quindi dev i ubbidire. Tua m adre è stanca. Piantala con questi capricci. Se fai il brav o, appena finisco ti porto a m are. Andiam o sul pedalò. Ho rantolato. — Che è il pedalò? — E una barca che inv ece dei rem i ha i pedali com e una bicicletta. Mi sono asciugato le lacrim e. — Ci si può andare fino in Africa? — Dev i pedalare per arriv are in Africa. — Io v oglio andare v ia da Acqua Trav erse. — Che c'è, non ti piace più? Gli ho ridato il fazzoletto. — Andiam o al Nord. — Perché te ne v uoi andare? — Non lo so… Non m i piace più stare qua. Ha guardato lontano. — Ci andrem o. Ho strappato un altro ram etto di rosm arino. Av ev a un buon odore. — Tu li conosci gli orsetti lav atori? Ha aggrottato le sopracciglia. — Gli orsetti lav atori? — Sì. — No, che sono? — Niente… Sono degli orsi che lav ano i panni… Ma forse non esistono. Papà si è rim esso in piedi e si è sgranchito la sch ien a . — Aahh! Senti, io torno in casa, dev o parlare con Sergio. Perché non v ai a giocare che tra un po' m angiam o? — Ha aperto la porta e stav a per entrare, m a si è ferm ato. — Mam m a ha preparato le tagliatelle. Dopo, chiedile scusa. In quel m om ento è arriv ato Felice. Ha inchiodato la 1 2 7 in una nuv ola di polv ere ed è sceso com e se dentro ci fosse uno sciam e di v espe. — Felice! — ha urlato papà. — Sali su un attim o. Felice ha fatto segno di sì e quando m i è passato v icino m i ha dato un colpo sulla nuca e ha detto: — Com e stai, fessacchiotto? Ora da Filippo non c'era nessuno. Il secchio con la m erda era pieno. Il pentolino dell'acqua v uoto. Filippo tenev a la testa av v olta nella coperta. Non si era neanche accorto che ero sceso nel buco. La cav iglia m i sem brav a peggiorata, era più gonfia e v iola. Le m osche ci si av v entav ano sopra. Mi sono av v icinato. — Ehi? — Non dav a segno di av erm i sentito. — Ehi? Mi senti? — Mi sono av v icinato di più. — Mi senti? Ha sospirato. — Sì. Allora papà non gli av ev a tagliato le orecchie. — Ti chiam i Filippo, v ero? — Sì. Me l'ero preparata durante la strada. — Sono v enuto a dirti una cosa m olto im portante. Allora… Tua m adre dice che ti v uole bene. E dice che le m anchi. Lo ha detto ieri alla telev isione. Al telegiornale. Ha detto che non ti dev i preoccupare… E che non v uole solo le tue orecchie, m a ti v uole tutto. Niente. — Mi hai sentito? Niente. Ho ripetuto. — Allora… Tua m adre dice che ti v uole bene. E dice che le m anchi. Lo ha detto ieri alla telev isione. Ha detto che non ti dev i preoccupare. .. E che non v uole solo le tue orecchie. — La m ia m am m a è m orta. — Com e è m orta? Da sotto la coperta ha risposto. — La m ia m am m a è m orta. — Ma che dici? È v iv a. L'ho v ista io, alla telev isione… — No, è m orta. Mi sono m esso una m ano sul cuore. — Te lo giuro sulla testa di m ia sorella Maria che è v iv a. L'ho v ista ieri notte, era in telev isione. Stav a bene. E bionda. E m agra. E un po' v ecchia… È bella, però. Era seduta su una poltrona alta, m arrone. Grande. Com e quella dei re. E dietro c'era un quadro con una nav e. E v ero o no? — Sì. Il quadro con la nav e… — Parlav a piano, le parole erano soffocate dalla stoffa. — E hai un trenino elettrico. Con la locom otiv a con il fum aiolo. L'ho v isto. — Non ce l'ho più. Si è rotto. La tata l'ha buttato v ia. — La tata? Chi è la tata? — Liliana. E m orta anche lei. Anche Peppino è m orto. E papà è m orto. E nonna Arianna è m orta. E m io fratello è m orto. Sono tutti m orti. Sono tutti m orti e v iv ono in buchi com e questo. E in uno ci sono io. Tutti quanti. Il m ondo è un posto pieno di buchi dov e dentro ci sono i m orti. E anche la luna è una palla tutta piena di buchi e dentro ci sono altri m orti. — Non è v ero —. Gli ho poggiato una m ano sulla schiena. — Non si v ede niente. La luna è norm ale. E tua m adre non è m orta. L'ho v ista io. Mi dev i stare a sentire. È rim asto un po' zitto, poi m i ha chiesto: — Allora perché non v iene qui? Ho scosso la testa. — Non lo so. — Perché non v iene a prenderm i? — Non lo so. — E perché io sto qui? — Non lo so —. Poi ho detto, così piano che non potev a sentirm i: — Mio papà ti ci ha m esso qua. Mi ha dato un calcio. — Tu non sai niente. Lasciam i in pace. Tu non sei l'angelo custode. Tu sei cattiv o. Vattene —. E si è m esso a piangere. Non sapev o che fare. — Io non sono cattiv o. Io non c'entro niente. Non piangere, per fav ore. Ha continuato a scalciare. — Vattene. Vattene v ia. — Ascoltam i… — Vai v ia! Sono scattato in piedi. — Io sono v enuto fino a qua per te, ho fatto tutta la strada, due v olte, e tu m i cacci v ia. Va bene, io m e ne v ado, m a se m e ne v ado non torno più. Mai più. Rim arrai qui, da solo, per sem pre e ti taglieranno tutte e due le orecchie —. Ho afferrato la corda e ho com inciato a risalire. Lo sentiv o piangere. Sem brav a che stesse soffocando. Sono uscito dal buco e gli ho detto: — E non sono il tuo angelo custode! — Aspetta… — Che v uoi? — Rim ani… — No. Hai detto che m e ne dev o andare e ora m e ne v ado. — Ti prego. Rim ani. — No! — Ti prego. Solo per cinque m inuti. — Va bene. Cinque m inuti. Ma se fai il pazzo m e ne v ado. — Non lo faccio. Sono sceso giù. Mi ha toccato un piede. — Perché non esci da quella coperta? — gli ho dom andato e m i sono rannicchiato v icino a lui. — Non posso, sono cieco… — Com e sei cieco? — Gli occhi non si aprono. Voglio aprirli m a rim angono chiusi. Al buio ci v edo. Al buio non sono cieco —. Ha av uto un'esitazione. — Lo sai, m e lo av ev ano detto che tornav i. — Chi? — Gli orsetti lav atori. — Basta con questi orsetti lav atori! Papà m i ha detto che non esistono. Hai sete? — Sì. Ho aperto la cartella e ho tirato fuori la bottiglia. — Ecco. — Vieni —. Ha sollev ato la coperta. Ho fatto una sm orfia. — Lì sotto? — Mi facev a un po' schifo. Ma così potev o v edere se av ev a ancora le orecchie al loro posto. Ha com inciato a toccarm i. — Quanti anni hai? — Mi passav a le dita sul naso, sulla bocca, sugli occhi. Ero paralizzato. — Nov e. E tu? — Nov e. — Quando sei nato? — Il dodici settem bre. E tu? — Il v enti nov em bre. — Com e ti chiam i? — Michele. Michele Am itrano. Tu che classe fai? — La quarta. E tu? — La quarta. — Uguale. — Uguale. — Ho sete. Gli ho dato la bottiglia. Ha bev uto. — Buona. Vuoi? Ho bev uto pure io. — Posso alzare un po' la coperta? — Stav o crepando di caldo e di puzza. — Poco. L'ho tirata v ia quel tanto che bastav a a prendere aria e a guardargli la faccia. Era nera. Sudicia. I capelli biondi e sottili si erano im pastati con la terra form ando un grov iglio duro e secco. Il sangue rappreso gli av ev a sigillato le palpebre. Le labbra erano nere e spaccate. Le narici otturate dal m occio e dalle croste. — Posso lav arti la faccia? — gli ho dom andato. Ha allungato il collo, ha sollev ato la testa e un sorriso si è aperto sulle labbra m artoriate. Gli erano div entati tutti i denti neri. Mi sono tolto la m aglietta e l'ho bagnata con l'acqua e ho com inciato a pulirgli sul v iso. Dov e passav o rim anev a la pelle bianca, così bianca che sem brav a trasparente, com e la carne di un pesce bollito. Prim a sulla fronte, poi sulle guance. Quando gli ho bagnato gli occhi ha detto: — Piano, fa m ale. — Faccio piano. Non riusciv o a sciogliere le croste. Erano dure e spesse. Ma sapev o che erano com e le croste dei cani. Quando gliele stacchi i cani riprendono a v edere. Ho continuato a bagnargliele, ad am m orbidirle fino a quando una palpebra si è sollev ata e subito si è richiusa. Un istante solo, sufficiente perché un raggio di luce gli ferisse l'occhio. — Aaahhhaa! — ha urlato e ha infilato la testa nella coperta com e uno struzzo. L'ho sbatacchiato. — Lo v edi? Lo v edi? Non sei cieco! Non sei cieco per niente! — Non posso tenerli aperti. — E perché stai sem pre al buio. Però ci v edi, v ero? — Sí! Sei piccolo. — Non sono piccolo. Ho nov e anni. — Hai i capelli neri. —Sì. Era m olto tardi. Dov ev o tornare a casa. — Ora però dev o andare. Dom ani torno. Con la testa sotto la coperta ha detto: — Prom esso? — Prom esso. Quando il v ecchio è entrato nella m ia cam era m i stav o organizzando per fregare i m ostri. Da piccolo sognav o sem pre i m ostri. E anche ora, da adulto, ogni tanto, m i capita, m a non riesco più a fregarli. Aspettav ano solo che m i addorm entassi per im paurirm i. Fino a quando, una notte, ho inv entato un sistem a per non fare brutti sogni. Ho trov ato un posto dov e rinchiudere quegli esseri deform i e spav entosi e dorm ire sereno. Mi rilassav o e aspettav o che le palpebre div entassero pesanti e quando stav o per cadere addorm entato, proprio in quel m om ento esatto, m i im m aginav o di v ederli cam m inare, tutti insiem e, su per una salita. Com e nella processione della Madonna di Lucignano. La strega Bistrega gobba e rugosa. Il lupo m annaro a quattro zam pe, con i v estiti strappati e le zanne bianche. L'uom o nero, un'om bra che sciv olav a com e una serpe tra le pietre. Lazzaro, un m angiacadav eri div orato dagli insetti e av v olto da una nube di m osche. L'orco, un gigante con gli occhi piccoli e il gozzo, le scarpe enorm i e un sacco sulle spalle pieno di bam bini. Gli zingari, delle specie di v olpi che cam m inav ano su zam pe di gallina. L'uom o con il cerchio, un tipo con una tuta blu elettrico e un cerchio di luce che potev a lanciare lontanissim o. L'uom o pesce che v iv ev a nelle profondità del m are e reggev a la m adre sulle spalle. Il bam bino polpo, nato con i tentacoli al posto delle gam be e delle braccia. Av anzav ano tutti insiem e. Verso un posto im precisato. Erano terrificanti. E infatti nessuno si ferm av a a guardarli. A un tratto appariv a un pullm an, tutto dorato, con i cam panelli e le lucette colorate. Sul tetto c'era un m egafono che strillav a. «Signore e signori, salite sul pullm an dei desideri! Salite su questo pullm an m agnifico che v i porterà tutti al circo senza tirare fuori una lira! Oggi gratis al circo! Salite! Salite!» I m ostri, felici di quella insperata occasione, saliv ano sul pullm an. A quel punto m 'im m aginav o che la m ia pancia si apriv a, un lungo taglio si spalancav a e loro ci entrav ano dentro tutti tranquilli. Quegli scem i credev ano che era il circo. Io richiudev o la ferita e loro rim anev ano fregati. Ora bastav a addorm entarsi con le m ani sulla pancia per non fare brutti sogni. Li av ev o appena intrappolati, quando il v ecchio è entrato, m i sono distratto, ho tolto le m ani e loro sono fuggiti. Ho chiuso gli occhi e ho fatto finta di dorm ire. Il v ecchio facev a un sacco di rum ori. Trafficav a nella v aligia. Tossiv a. Soffiav a. Mi sono coperto la testa con un braccio e ho guardato che com binav a. Un raggio di luce rischiarav a uno spicchio di stanza. Il v ecchio stav a seduto sul letto di Maria. Secco, gobbo e scuro. Fum av a. E quando aspirav a v edev o quel naso a becco e gli occhi incav ati tingersi di rosso. Sentiv o l'odore del fum o e l'odore della colonia. Ogni tanto facev a no con la testa. Poi sbuffav a com e se stesse litigando con qualcuno. Ha incom inciato a spogliarsi. Si è tolto gli stiv aletti, le calze, i pantaloni, la cam icia. È rim asto in m utande. Av ev a la pelle flaccida, appesa a quelle ossa lunghe com e se l'av essero cucita sopra. Ha buttato la sigaretta dalla finestra. La cicca è scom parsa nella notte, com e un lapillo infuocato. Si è sciolto i capelli e sem brav a un v ecchio Tarzan m alato. Si è sdraiato sul letto. Ora non lo v edev o più, m a era v icino. A m eno di m ezzo m etro dai m iei piedi. Se allungav a un braccio m i acchiappav a una cav iglia. Mi sono chiuso com e un riccio. Non dov ev o dorm ire. Se m i addorm entav o m i potev a prendere. Dov ev o inv entarm i qualcosa. Metterm i i chiodi nel letto. Così non av rei dorm ito. Si è raschiato la gola. — Si schiatta di caldo qua dentro. Com e fai a starci? Ho sm esso di respirare. — Lo so che non stai dorm endo. Mi v olev a fregare. — Sei un furbetto tu… Non ti piaccio, eh? No, non m i piaci! Av rei v oluto rispondere. Ma non potev o. Stav o dorm endo. E anche da sv eglio non av rei m ai av uto il coraggio di dirglielo. — Pure ai m iei figli non piacev o —. Ha raccolto da terra una bottiglia che m am m a av ev a m esso apposta per lui e ha preso un paio di sorsi. — È calda com e piscio, — si è lam entato. — Due ne av ev o. Uno è v iv o, m a è com e se fosse m orto. L'altro è m orto, m a è corne se fosse v iv o. Quello v iv o si chiam a Giuliano. È più grande di te. Non v iv e più in Italia. Se n'è andato. In India… Cinque anni fa. Sta in una com unità. Gli hanno riem pito il cerv ello di stronzate. Si è rapato. Si v este tutto di arancione e si crede indiano pure lui. E crede che si v iv e un sacco di v olte. Si droga com e un cane e ci m orirà com e un cane, là. Certo io non v ado laggiù a riprenderlo… Gli è v enuto un attacco di tosse. Secca. Spacca polm oni. Ha ripreso fiato e ha continuato. — Francesco è m orto cinque anni fa. A ottobre farebbe trentadue anni. Quello sì che era brav o, a lui gli v olev o bene —, Si è acceso un'altra sig a r et t a . — Un giorno ha conosciuto una. L'ho v ista e non m i è piaciuta. Da subito. Dicev a che facev a l'insegnante di ginnastica. Una troietta… Una biondina secca… m ezza slav a. Gli slav i sono i peggiori. Me lo ha incartato com e una caram ella. Era una pov eraccia e ha v isto Francesco e gli si è attaccata perché Francesco è un brav o ragazzo, generoso, uno che alla fine si facev a prendere in giro da tutti. Chissà cosa cazzo gli ha fatto per riscem irlo così. Dopo m i hanno raccontato che quella troia intrallazzav a con una specie di m ago. Un pezzo di m erda che gii dev e av er lanciato una fattura. Quei due insiem e lo hanno fottuto. Me lo hanno indebolito. S'era sm agrito. Era un ragazzone forte, è div entato uno scheletro, non si reggev a più in piedi. Un giorno v iene e dice che si sposa. Non c'è stato niente da fare. Io ci ho prov ato a dirgli che quella lo rov inav a, m a alla fine la v ita era la sua. Si sono sposati. Sono partiti per il v iaggio di nozze in m acchina. Andav ano a Positano e ad Am alfi, sulla costiera. Passano due giorni e non chiam a. E norm ale, dico, stanno in v iaggio di nozze. Chiam erà. E inv ece chi chiam a? Il com m issariato di Sorrento. Dicono che dev o andare subito là. Gli chiedo perché. Non m e lo possono dire per telefono. Dev o andare là se lo v oglio sapere. Mi dicono che è per m io figlio. Io com e cazzo ci andav o? Io non ci potev o andare. Se facev ano un controllo ero finito. Mi cercav ano perché non m i ero presentato alla condizionale. Mi rim ettev ano dentro. Li ho fatti chiam are da uno che conoscev o. Uno am m anicato. E quello m i dice che m io figlio è m orto. Com e è m orto? E quello m i dice che si è am m azzato, che si è buttato giù da un dirupo. Che ha fatto un v olo di duecento m etri e si è schiantato sulle rocce. Mio figlio? Francesco che si am m azzav a? Mi v olev ano prendere per il culo? Io non ci potev o andare. Allora ho m andato quella deficiente di sua m adre a v edere che era successo. — Che era successo? — m i è scappato. — Secondo loro Francesco si è ferm ato lungo la strada a guardare il panoram a, lei stav a in m acchina, lui le ha fatto una fotografia poi ha scav alcato il m uretto e si è buttato di sotto. Uno fa una foto alla m oglie e poi si butta di sotto? Dice che lo hanno trov ato spiaccicato, con l'uccello fuori dai pantaloni e la m acchina fotografica al collo. Secondo te uno che si v uole am m azzare, fa una foto, si tira fuori l'uccello e si butta di sotto? Ma che stronzata è? Io lo so com e è andata la cosa… Altro che panoram a. Francesco si è ferm ato perché dov ev a pisciare. Non la v olev a fare in m ezzo alla strada. E un giov ane educato. Ha scav alcato il m uretto e si è liberato e quella troia lo ha spinto giù. Ma nessuno m i crede. Una spinta e v ia. Am m azzato. — E perché? — Brav o. Perché? Non lo so. Non ci av ev a una lira. Non lo so proprio. Non ci dorm o la notte. Ma la stronza l'ha pagata… Le ho… Vabbe', lasciam o perdere, che è tardi. Buona notte. Ha buttato la sigaretta dalla finestra e si è m esso a dorm ire e dopo due m inuti dorm iv a e dopo tre russav a. 6. Quando m i sono sv egliato il v ecchio non c'era più. Av ev a lasciato il letto disfatto, un pacchetto di Dunhill accartocciato sul dav anzale, le m utande per terra e la bottiglia d'acqua m ezza v uota. Era caldo. Le cicale strillav ano. Mi sono alzato e ho guardato in cucina. Mam m a stirav a e ascoltav a la radio. Mia sorella giocav a a terra. Ho chiuso la porta. La v aligia del v ecchio era sotto il letto. L'ho aperta e ho guardato dentro. Vestiti. Una boccetta di profum o. Una bottiglia di Stock 84 . Una stecca di sigarette. Una cartellina con dentro un m azzetto di fotografie. La prim a era di un ragazzo alto e m agro, v estito con una tuta blu da m eccanico. Sorridev a. Assom igliav a al v ecchio. Francesco, quello che si era buttato di sotto con l'uccello di fuori. Nella cartellina c'erano anche dei ritagli di giornale. Parlav ano della m orte di Francesco. C'era pure una foto di sua m oglie. Sem brav a una ballerina della telev isione. Ho trov ato anche un quaderno di scuola a righe con la copertina di plastica colorata. L'ho aperto. Nella prim a pagina c'era scritto: questo quaderno appartiene a Filippo Carducci. Quarta C. Le prim e pagine erano strappate. L'ho sfogliato. C'erano dei dettati, dei riassunti e un tem a. Racconta cosa hai fatto domenica. Domenica è tornato mio papà. Mio papà vive in America molto spesso e torna ogni tanto. Ha una villa con la piscina e il trampolino e ci sono gli orsetti lavatori. Vivono nel giardino, lo ci devo andare. I n America lui ci sta per lavoro e quando toma mi porta sempre i regali. Questa volta mi ha portato delle specie di racchette da tennis che si mettono sotto i piedi e così si può camminare sulla neve. Senza si affonda e si può anche morire. Quando andrò in montagna le dovrò usare quando vado sulla neve. Papà mi ha detto che queste racchette le usano gli eschimesi. Gli eschimesi vivono sul ghiaccio al Polo Nord e hanno anche le case di ghiaccio. Dentro non hanno il frigorifero perché non servirebbe a niente. Mangiano molte foche e qualche volta i pinguini. Ha detto che una volta mi ci porta. I o gli ho chiesto se può venire anche Peppino con noi. Peppino è il nostro giardiniere e deve tagliare tutte le piante e quando è inverno deve togliere tutte le foglie dal prato. Peppino ha almeno cento anni e appena vede una pianta la taglia. Si stanca molto e la sera deve mettere i piedi nell'acqua calda. Se viene con noi al Polo Nord non deve fare niente lì non ci sono piante c'è solo la neve e può riposarsi. Papà ha detto che ci deve pensare se può venire anche Peppino con noi. Dopo essere andati all'aeroporto siamo andati a mangiare al ristorante io, mio papà e mia mamma. Loro hanno parlato di dove devo fare le medie. Se devo stare a Pavia oppure in America. I o non ho detto niente ma preferisco Pavia dove vanno tutti i miei compagni. I n America posso giocare con gli orsetti lavatori. Dopo pranzo siamo tornati a casa ho mangiato un'altra volta e sono andato a letto. Questo ho fatto domenica. 1 compiti li avevo già fatti sabato. Ho chiuso il quaderno di Filippo e l'ho infilato nella cartellina. In fondo alla v aligia c'era un asciugam ano arrotolato. L'ho aperto e dentro c'era una pistola. Sono rim asto a fissarla. Era grande, av ev a il calcio di legno ed era nera. L'ho sollev ata. Era pesantissim a. Forse era carica. L'ho rim essa a posto. «Inseguendo una libellula in un prato, un giorno che av ev o rotto col passato», cantav ano alla radio. Mam m a ballav a e intanto stirav a e cantav a anche lei. — Quando già credev o di esserci riuscito son caduto. Era di buon um ore. Da una settim ana era peggio di un cane rabbioso e ora cantav a tutta contenta con la sua v oce rauca e m aschile. — Una frase sciocca, un v olgare doppio senso, m i ha allarm ato… Sono uscito dalla m ia cam era abbottonandom i i pantaloncini. Lei m i ha sorriso. — Eccolo qua! Quello che non dorm iv a con gli ospiti… Buon giorno! Vieni a darm i un bacio. Grande, lo v oglio. Voglio v edere quanto grande lo riesci a dare. — Mi acchiappi? — Sì. Ti acchiappo. Ho preso la rincorsa e le sono saltato in braccio e lei m i ha afferrato al v olo e m i ha stam pato un bacio sulla guancia. Poi m i ha stretto e m i ha fatto girare. Io pure le ho dato un sacco di baci. — Anch'io! Anch'io! — ha strillato Maria. Ha lanciato le bam bole in aria e si è av v inghiata a noi. — Tocca a m e. Tocca a m e. Togliti, — le ho detto. — Michele, non fare così —. Mam m a ha preso anche Maria. — Tutti e due! — E ha com inciato a girare per la stanza cantando a squarciagola. — Il m agazzino che contiene tante casse, alcune nere, alcune gialle, alcune rosse… Da una parte all'altra. Da una parte all'altra. Fino a quando non siam o crollati sul div ano. — Sentite… Il cuore. Sentite il cuore… di v ostra. .. m adre… m uore… — Av ev a il fiatone. Le abbiam o poggiato la m ano sul seno, sotto c'era un tam buro. Siam o rim asti uno v icino all'altro, buttati sui cuscini. Poi m am m a si è sistem ata i capelli e m i ha chiesto: — Allora Sergio non ti ha m angiato questa notte? — No. — Ti ha fatto dorm ire? — Sì. — Russav a? —Sì. — Com e russav a? Fam m i sentire. Ho cercato di fargli il v erso. — Ma questo è un m aiale! Così fanno i m aiali. Maria, facci sentire com e russa papà. E Maria ha fatto papà. — Non siete capaci. Adesso v i faccio sentire papà. Lo facev a identico. Con il fischio. Abbiam o riso m olto. Si è alzata e si è tirata giù il v estito. — Ti scaldo il latte. Le ho chiesto: — E papà dov e sta? — È uscito con Sergio… Ha detto che la prossim a settim ana ci porta a m are. E andrem o pure al ristorante a m angiare le cozze. Io e Maria abbiam o com inciato a saltare sui div ano. — A m are! A m are! A m angiare le cozze! Mam m a ha guardato v erso i cam pi poi ha chiuso le persiane. — Speriam o bene. Ho fatto colazione. C'era il pan di Spagna. Me ne sono m angiate due fette inzuppate nel latte. Senza farm i v edere ne ho tagliata un'altra, l'ho av v olta nel tov agliolo e m e la sono cacciata in tasca. Filippo sarebbe stato felice. Mam m a ha sparecchiato. — Appena hai finito porta questo dolce a casa di Salv atore. Mettiti la m aglietta pulita. Mam m a era brav a a cucinare. E quando preparav a le torte o i m accheroni al forno o cuocev a il pane, ne facev a sem pre in più e lo v endev a alla m am m a di Salv atore. Mi sono lav ato i denti, ho m esso la m aglietta delle Olim piadi e sono uscito con la teglia tra le m ani. Non c'era v ento. Il sole piom bav a a picco sulle case. Maria stav a seduta sulle scale con le sue Barbie, in uno spicchio d'om bra. — Tu la sai costruire una casa per le bam bole? — Certo —. Non lo av ev o m ai fatto, m a non dov ev a essere difficile. — Nel cam ion di papà c'è uno scatolone. Possiam o tagliarlo e farci una casa. E poi colorarlo. Ora non ho tem po, però. Dev o andare da Salv atore —. Sono sceso in strada. Non c'era nessuno. Solo le galline che razzolav ano nella polv ere e le rondini che s'infilav ano sotto i tetti. Dal capannone v eniv ano dei rum ori. Mi sono av v icinato. La 1 2 7 di Felice av ev a il cofano sollev ato e stav a tutta piegata da una parte. Da sotto spuntav ano un paio di grossi anfibi neri. Quando Felice era ad Acqua Trav erse trafficav a sem pre con la m acchina. La lav av a. La ingrassav a. La spolv erav a. Ci av ev a pure dipinto sopra una larga striscia nera, com e su quelle dei poliziotti am ericani. Sm ontav a il m otore e poi non riusciv a a rim etterlo a posto o si perdev a qualche bullone, allora ci obbligav a ad andare fino a Lucignano a com prarglielo. — Michele! Michele, v ieni qua! — ha urlato Felice da sotto la m acchina. Mi sono ferm ato. — Che v uoi? — Aiutam i. — Non posso. Dev o fare un serv izio per m ia m a dr e —. Volev o dare la torta alla m am m a di Salv atore, saltare sulla Scassona e correre da Filippo. — Vieni qua. — Non posso… Dev o fare una cosa. Ha ringhiato. — Se non v ieni qua, ti am m azzo… — Che v uoi? — Sono incastrato. Non posso m uov erm i. Si è staccata una ruota m entre stav o sotto, porcalaputtana. Sto qua sotto da m ezz'ora! Ho guardato dentro il cofano, da sopra il m otore v edev o la faccia nera di grasso e gli occhi rossi e disperati. — Vado a chiam are tuo padre? Il padre di Felice da giov ane era m eccanico. E quando Felice trafficav a con la m acchina si arrabbiav a da m orire. — Sei scem o? Quello m i fa due coglioni… Aiutam i. Potev o andarm ene e lasciarlo là. Mi sono guardato in giro. — Non ci pensare neanche… Io da qui esco e quando esco ti spezzo com e una liquirizia. Di te rim arrà solo una tom ba dov e i tuoi genitori andranno a portare i fiori, — ha detto Felice. — Che dev o fare? — Prendi il cric dentro la m acchina e m ettilo v icino alla ruota. L'ho m esso e ho girato la m anov ella. Lentam ente la m acchina si è sollev ata. Felice em ettev a dei m ugolìi di gioia. — Così. Così, che esco. Brav o! E sciv olato fuori. Av ev a la cam icia im brattata di olio nero. Si è passato una m ano sui capelli. — Credev o di m orirci. Mi sono rov inato la schiena. Tutto per colpa di quel rom ano di m erda! — Ha com inciato a fare le flessioni bestem m iando. — Il v ecchio? — Sì, lo odio —. Si è rim esso in piedi e ha preso a calci i sacchi di m ais. — Gli ho detto che non ci posso arriv are fin lassù con la m acchina. Su quella strada m i si sfondano gli am m ortizzatori, m a a quello non gliene frega un cazzo. Perché non ci v a lui con la sua Mercedes di m erda? Perché non ci sta lui? Io non ce la faccio più. E non fare questo e non fare quello. Mi ha fatto due coglioni così perché sono andato un paio di v olte a m are. Era m olto m eglio quando quel pezzo di m erda non c'era. Ma io m e ne v ado… — Ha dato un pugno al trattore e si è sfogato spaccando le cassette di leg n o. — Se m i dice un'altra v olta che sono un idiota gli dò un pugno che te lo attacco al m uro. E ora com e cazzo ci v ado su… — Si è bloccato e si è ricordato che c'ero pure io. Mi ha afferrato per la m aglietta e m i ha sollev ato e m i ha appiccicato il naso in faccia. — Non raccontare a nessuno quello che ti ho detto, capito? Se scopro che hai spifferato una parola sola ti taglio il pesce e m e lo m angio con i broccoli… — Ha preso dalla tasca un coltello. La lam a è schizzata fuori a due centim etri dalla punta del m io naso. — Capito? Ho balbettato. — Capito. Mi ha gettato a terra. — A nessuno! Ora sparisci —. E si è m esso a girare per il capannone. Ho preso la torta e sono filato v ia. La fam iglia Scardaccione era la più ricca di Acqua Trav erse. Il padre di Salv atore, l'av v ocato Em ilio Scardaccione, av ev a m olti terreni. Tanta gente, soprattutto quando era periodo di m ietitura, faticav a per lui. Arriv av ano da fuori. Da lontano. Sopra i cam ion. A piedi. Anche papà, per m olti anni, prim a di div entare cam ionista, era andato a lav orare a stagione per l'av v ocato Scardaccione. Per entrare in casa di Salv atore si passav a per un cancello di ferro battuto, poi attrav ersav i un cortile con i cespugli quadrati, la palm a lunga lunga e una fontana di pietra con i pesci rossi, saliv i una scala di m arm o con i gradini alti ed eri arriv ato. Appena entrav i ti trov av i in un corridoio scuro, senza finestre, così lungo che ci potev i andare in bicicletta. Da un lato c'era una fila di stanze da letto sem pre chiuse, dall'altro il salone. Era uno stanzone con gli angeli dipinti sul soffitto e un tav olo grande e lucido con le sedie intorno. Tra due quadri con le cornici d'oro c'era una v etrina con dentro delle tazze e dei bicchieri preziosi e delle fotografie di uom ini in div isa. Vicino alla porta d'ingresso c'era l'arm atura m ediev ale con in m ano una m azza con una palla piena di chiodi. L'av ev a com prata l'av v ocato nella città di Gubbio. Non si potev a toccare perché cadev a. Durante il giorno le persiane non si apriv ano m ai. Neanche d'inv erno. Odorav a di chiuso, di legno antico. Sem brav a di stare in chiesa. La signora Scardaccione, la m adre di Salv atore, era una grassona alta un m etro e m ezzo e portav a la rete sui capelli. Av ev a le gam be gonfie com e salsicce che le facev ano sem pre m ale e usciv a solo a Natale e a Pasqua per andare dal parrucchiere a Lucignano. Passav a la v ita in cucina, l'unica stanza lum inosa della casa, insiem e alla sorella, zia Lucilla, tra v apori e odori di ragù. Sem brav ano due foche. Piegav ano la testa insiem e, ridev ano insiem e, battev ano le m ani insiem e. Due grosse foche am m aestrate con la perm anente. Se ne stav ano tutto il giorno su due poltrone consum ate a controllare che Antonia, la cam eriera, non sbagliav a qualcosa, non si riposav a troppo. Tutto dov ev a essere in ordine per quando rientrav a l'av v ocato Scardaccione dalla città. Ma l'av v ocato non rientrav a m ai. E quando rientrav a se ne v olev a andare. — Lucilla! Lucilla, guarda chi c'è! — ha detto Letizia Scardaccione quando m i ha v isto entrare in cucina. Zia Lucilla ha sollev ato la testa dalla m acchina da cucire e ha sorriso. Sul naso av ev a dei fondi di bottiglia che le facev ano gli occhi piccoli com e pi om bi n i . — Michele! Michele bello! Che hai portato, la torta? — Sì, signora. Eccola —, Gliel'ho consegnata. — Dàlla ad Antonia. Antonia stav a im bottendo i peperoni seduta al tav olo. Antonia Am m irati av ev a diciotto anni, era m agra m a non tanto. Av ev a i capelli rossi e gli occhi blu e quando era piccola le erano m orti i genitori in un incidente stradale. Sono andato da Antonia e le ho dato la torta. Lei m i ha carezzato la testa con il dorso della m ano. Antonia m i piacev a m olto, era bella e m i sarebbe piaciuto fidanzarm i con lei, m a era troppo grande e av ev a il ragazzo a Lucignano che m ontav a le antenne della telev isione. — Quant'è brav a la tua m am m a, eh? — ha detto Letizia Scardaccione. — E quant'è bella? — ha aggiunto zia Lucilla. — E anche tu sei proprio un bel bam bino. È v ero, Lucilla? — È proprio bello. — Antonia, non è bello Michele? Se fosse grande non te lo sposeresti? Antonia ha riso. — Subito m e lo sposerei. Zia Lucilla m i ha acchiappato una guancia e m e l'ha quasi staccata. — E tu te la piglieresti Antonia? Sono div entato tutto rosso e ho fatto no con la testa. E le due sorelle si sono m esse a ridere tutte contente e non la finiv ano più. Poi Letizia Scardaccione ha preso un sacchetto. — Qua ci sono dei v estiti che a Salv atore v anno piccoli. Prenditeli. Se i pantaloni sono troppo lunghi te li accorcio. Prenditeli, fam m i questo fav ore. Guarda com e v ai com binato. Mi sarebbe piaciuto. Erano com e nuov i. Ma m am m a dicev a che noi non accettav am o l'elem osina da nessuno. Soprattutto da quelle due. Dicev a che i m iei v estiti andav ano benissim o. E che quando era ora di cam biarli, lo decidev a lei. — Grazie, signora. Ma non posso. Zia Lucilla ha aperto una scatola di latta e ha battuto le m ani. — Guarda che tengo qui. Le caram elle al m iele! Ti piacciono le caram elle al m iele? — Molto, signora. — Accom odati pure. Queste le potev o prendere. Mam m a non potev a scoprirlo perché m e le m angiav o tutte. Ne ho fatto una bella scorta. Mi sono riem pito le tasche. E Letizia Scardaccione ha aggiunto: — E dàlle anche a tua sorella. La prossim a v olta che v ieni porta pure lei. Ho ripetuto com e un pappagallo. — Grazie, grazie, grazie… — Prim a di andartene v ai a salutare Salv atore. Sta in cam era sua. Mi raccom ando però, non rim anere assai che dev e suonare. Oggi ha la lezione. Sono uscito dalla cucina e ho attrav ersato quel corridoio tetro, con quei m obili neri e tristi. Sono passato dav anti alla cam era di Nunzio. La porta era chiusa a chiav e. Una v olta l'av ev o trov ata aperta ed ero entrato. Non c'era niente, tranne un letto alto con le ringhiere di ferro e delle cinghie di cuoio. Al centro, le m attonelle del pav im ento erano tutte rigate e rov inate. Quando passav i sotto il palazzo v edev i Nunzio che cam m inav a av anti e indietro, dalla porta alla finestra. L'av v ocato av ev a prov ato ogni cosa per farlo guarire, una v olta lo av ev a pure portato da padre Pio, m a Nunzio si era attaccato a una Madonna e l'av ev a fatta cadere e i frati lo av ev ano cacciato dalla chiesa. Da quando stav a in m anicom io non era più tornato ad Acqua Trav erse. Dov ev o andare da Filippo, glielo av ev o prom esso. Gli dov ev o portare la torta e le caram elle. Ma facev a caldo. Potev a aspettare. Tanto non gli cam biav a niente. E poi av ev o v oglia di stare un po' con Salv atore. Ho sentito il pianoforte attrav erso la porta della sua stanza. Ho bussato. — Chi è? — Michele. — Michele? — Mi ha aperto, si è guardato intorno com e un ricercato, m i ha spinto dentro e ha chiuso a chiav e. La cam era di Salv atore era grande, spoglia e con i soffitti alti. Contro una parete c'era un pianoforte v erticale. Su un'altra un letto così alto che dov ev i prendere uno scaletto per salirci. E una lunga libreria con dentro tanti libri disposti secondo i colori delle copertine. I giochi erano conserv ati in un cassettone. Una tenda bianca e pesante lasciav a filtrare un raggio di luce in cui danzav a la polv ere. In m ezzo alla stanza, sul pav im ento, c'era il panno v erde del Subbuteo. Schierate sopra, la Juv entus e il Torino. Mi ha chiesto: — Che ci fai qua? — Niente. Ho portato una torta. Posso rim anere? Tua m adre ha detto che hai la lezione… — Sì, rim ani, — ha abbassato il tono della v oce, — m a se si accorgono che non suono non m i lasciano più in pace —. Ha preso un disco e lo ha m esso sul giradischi. — Così credono che suono —. E ha aggiunto tutto serio. — È Chopin. — Chi è Chopin? — È uno brav o. Io e Salv atore av ev am o la stessa età, però m i sem brav a più grande. Un po' perché era più alto di m e, un po' perché av ev a le cam icie bianche sem pre pulite e i pantaloni lunghi e con la piega. Un po' per il tono pacato che usav a. Lo obbligav ano a suonare, un insegnante v eniv a una v olta alla settim ana da Lucignano a fargli lezione, e lui, anche se odiav a la m usica, non si lam entav a e aggiungev a sem pre: — Ma quando sono grande sm etto. — Ti v a di fare una partita? — gli ho chièsto. Il Subbuteo era il m io gioco preferito. Non ero m olto brav o, m a m i piacev a da m orire. D'inv erno con Salv atore facev am o tornei infiniti, passav am o pom eriggi interi a dare schicchere a quei piccoli calciatori di plastica. Salv atore giocav a anche da solo. Si spostav a da una parte all'altra. Se non giocav a con il Subbuteo allora incolonnav a m igliaia di soldatini per la stanza e copriv a tutto il pav im ento fino a che non c'era più posto nem m eno per m ettere i piedi. E quando finalm ente erano ordinati in schiere geom etriche com inciav a a spostarli uno per uno. Passav a ore in silenzio a disporre eserciti per poi, quando arriv av a Antonia a dire che la cena era serv ita, rim etterli tutti nelle scatole da scarpe. — Guarda, — m i ha detto, e ha tirato fuori da un cassetto otto scatolette di cartone v erde. Ognuna contenev a una squadra di calcio. — Guarda che m i ha regalato papà. Me le ha portate da Rom a. — Tutte queste? — Le ho prese in m ano. Dov ev a essere v eram ente ricco l'av v ocato per spendere tutti quei soldi. Ogni anno che Dio m andav a, alla m ia festa e a Natale, chiedev o a papà e a Gesù Bam bino di regalarm i il Subbuteo, m a non c'era v erso, nessuno dei due ci sentiv a. Mi bastav a una squadra. Senza il cam po e le porte. Pure di serie B. Mi sarebbe piaciuto andare da Salv atore con la m ia squadra perché, ne ero sicuro, se era m ia av rei giocato m eglio, non av rei perso così tanto. Av rei v oluto bene a quei giocatori, ne av rei av uto cura e av rei battuto Salv atore. Lui ne av ev a già quattro. E ora il padre gliene av ev a com prate altre otto. Perché a m e niente? Perché a m io papà non gli fregav a niente di m e, dicev a che m i v olev a bene m a non era v ero. Mi av ev a regalato una stupida barca di Venezia da m ettere sopra il telev isore. E non potev o neanche toccarla. Ne v olev o una. Se suo padre gliene av esse regalate quattro non dicev o niente, m a erano otto. In tutto ora ne av ev a dodici. Con una in m eno che gli cam biav a? Mi sono schiarito la v oce e ho sussurrato. — Me ne regali una? Salv atore ha aggrottato le sopracciglia e ha com inciato a girare per la stanza. Poi ha detto: — Mi dispiace, io te la darei pure, m a non posso. Se papà sa che te l'ho data si arrabbia. Non era v ero. Quando m ai suo padre controllav a le squadre. Salv atore era tirchio. — Ho capito. — Tanto che ti cam bia? Ci puoi v enire a giocare quando v uoi. Se av essi av uto qualcosa da scam biare forse una m e la dav a. Ma io non av ev o niente. No, una cosa da scam biare ce l'av ev o. — Se ti dico un segreto, m e ne dài una? Salv atore m i ha guardato di sbieco. — Che segreto? — Un segreto incredibile. — Non c'è segreto che v ale una squadra. — Il m io sì —. Mi sono baciato gli indici. — Te lo giuro. — E se poi è una fregatura? — Non lo è. Ma se dici che è una fregatura ti ridò la squadra. — Non m i interessano i segreti. — Lo so. Ma questo è bello. Non l'ho detto a nessuno. Se il Teschio lo v iene a sapere, fa i salti di gioia… — Dillo al Teschio allora. Ma orm ai ero disposto a tutto. — Mi prendo anche il Lanerossi Vicenza. Salv atore ha sgranato gli occhi. — Anche il Lanerossi Vicenza? — Sì. Il Lanerossi Vicenza lo odiav am o. Era iellato. Se ci giocav i perdev i sem pre. Nessuno dei due av ev a m ai v into con quella squadra. E av ev a un giocatore decapitato, un altro attaccato con la colla e il portiere tutto piegato. Salv atore ci ha pensato un po' su e finalm ente ha concesso: — D'accordo. Ma se è un segreto di m erda non te la dò. E così gli ho raccontato tutto. Di quando ero caduto dall'albero. Del buco. Di Filippo. Di quanto era pazzo. Della sua gam ba m alata. Della puzza. Di Felice che lo guardav a. Di papà e del v ecchio che gli v olev ano tagliare le orecchie. Di Francesco che si era buttato di sotto con l'uccello di fuori. Di sua m adre alla telev isione. Tutto. Prov av o una sensazione bellissim a. Com e quando m i ero m angiato un v aso pieno di pesche sciroppate. Dopo ero stato m ale, m i sem brav a di scoppiare, nella pancia av ev o il terrem oto e m i era v enuta pure la febbre e m am m a prim a m i av ev a preso a schiaffi, poi m i av ev a m esso la testa nel gabinetto e ficcato due dita in gola. E av ev o tirato fuori una quantità infinita di una pappa gialla e acida. E av ev o ripreso a v iv ere. Mentre parlav o Salv atore stav a in silenzio, im passibile. E ho concluso. — E poi parla sem pre di questi orsetti lav atori. Di questi orsetti che lav ano i panni. Gli ho detto che non esistono, m a lui non m i sta a sentire. — Esistono gli orsetti lav atori. Sono rim asto a bocca aperta. — Com e esistono? Mio padre ha detto che non esistono. — Viv ono in Am erica —. Ha preso la Grande enciclopedia degli anim ali e l'ha sfogliata. — Eccolo. Guarda —. Mi ha passato il libro. C'era la fotografia a colori di una specie di v olpe. Con il m usetto bianco e sugli occhi una m ascherina nera com e quella di Zorro. Però era più pelosa di una v olpe e av ev a le zam pe più piccole e ci potev a prendere le cose. Tra le m ani stringev a una m ela. Era un anim ale m olto carino. — Allora esiste… — Sì —. Salv atore ha letto. — Genere carniv ori orsiform i della fam iglia dei Prociònidi, dal corpo un po' tozzo, con il m uso appuntito e la testa grossa, occhi grandi circondati da m acchie bruno—nere. Il pelam e è grigio e la coda non troppo lunga. Viv e in Canada e negli Stati Uniti. Viene com unem ente chiam ato orsetto lav atore per la curiosa abitudine di sciacquare i cibi prim a di m angiarli. — Non lav a i panni, m a il m angiare… Ecco —. Ero scom bussolato. — E io che gli ho detto che non esistev ano… Salv atore m i ha chiesto: — E perché lo tengono là dentro? — Perché non lo v ogliono ridare a sua m adre —. Gli ho afferrato un polso. — Vuoi v enire a v ederlo? Ci possiam o andare subito. Ti v a? So una scorciatoia… Ci m ettiam o poco. Non m i ha risposto. Ha rim esso i calciatori nelle loro scatole e ha arrotolato il cam po del Subbuteo. — Allora? Ti v a? Ha girato la chiav e e ha aperto la porta. — Non posso. Viene il m aestro. Se non ho fatto i com piti glielo dice a quelle due e poi chi le sente. — Ma com e? Non v uoi v ederlo? Non ti è piaciuto il m io segreto? — Non m olto. Non m i interessano i pazzi nei buchi. — Me lo dài il Vicenza? — Prenditelo. Tanto m i fa schifo —. Mi ha cacciato in m ano la scatola e m i ha spinto fuori dalla stanza. E ha chiuso la porta. Pedalav o v erso la collina e non capiv o. Com e potev a non fregargli di un bam bino incatenato in un buco? Salv atore m i av ev a detto che il m io segreto gli facev a schifo. Non glielo dov ev o dire. Av ev o sprecato il m io segreto. E che ci av ev o guadagnato? Il Lanerossi Vicenza, che portav a pure iella. Ero peggio di Giuda che av ev a barattato Gesù per trenta denari. Con trenta denari chissà quante squadre ci si potev ano com prare. Av ev o la scatola infilata dentro i pantaloncini. Mi dav a fastidio. Gli spigoli m i entrav ano nella pelle. Volev o buttarla, m a non ne av ev o il coraggio. Mi sarebbe piaciuto tornare indietro nel tem po. Av rei dato la torta alla signora Scardaccione e m e ne sarei andato v ia, senza neanche passare da Salv atore. Ho fatto la salita così di corsa che quando sono arriv ato m i v eniv a da v om itare. Av ev o abbandonato la bicicletta poco prim a della salita e l'ultim o pezzo m e l'ero fatto a piedi correndo nel grano. Mi sem brav a che il cuore m i si strappav a dal petto. Volev o andare subito da Filippo, m a m i sono dov uto accasciare sotto un albero e aspettare che m i passav a il fiatone. Quando m i sono sentito m eglio, ho guardato se Felice stav a nei paraggi. Non c'era nessuno. Sono entrato nella casa, ho preso la corda. Ho spostato la lastra e l'ho chiam ato. — Filippo! — Michele! — Ha com inciato a m uov ersi tutto. Mi stav a aspettando. — Sono v enuto, hai v isto? Hai v isto che sono v enuto? — Lo sapev o. — Te lo hanno detto gli orsetti lav atori? — No. Lo sapev o io. Lo av ev i prom esso. — Av ev i ragione, gli orsetti lav atori esistono. L'ho letto in un libro. L'ho v isto pure in fotografia. — Bello, v ero? — Molto. Tu ne hai m ai v isto uno? — Sì. Li senti? Li senti com e fischiano? Non sentiv o nessun fischio. Non c'era niente da fare. Era pazzo. — Vieni? — Mi ha fatto segno di scendere. Ho afferrato la corda; — Arriv o —. Mi sono calato. Av ev ano fatto pulizie. Il secchio era v uoto. Il pentolino era pieno d'acqua. Filippo era av v olto nella sua schifosa coperta, solo che lo av ev ano lav ato. Gli av ev ano fasciato la cav iglia con una benda. E intorno al piede non av ev a più la catena. — Ti hanno pulito! Ha sorriso. I denti non glieli av ev ano lav ati. — Chi è stato? Tenev a una m ano sugli occhi. — Il signore dei v erm i e i suoi nani serv itori. Sono scesi e m i hanno lav ato tutto. Io ho detto che potev ano lav arm i quanto gli parev a m a tu li av resti acchiappati lo stesso e che potev ano fuggire quanto v olev ano m a tu potev i inseguirli per div ersi chilom etri senza stancarti. Gli ho afferrato un polso. — Che gli hai detto il m io nom e? — Quale nom e? — Il m io. — E qual è il tuo nom e? — Michele… — Michele? No! — Mi hai appena chiam ato… — Tu non ti chiam i Michele. — E com e m i chiam o? — Dolores. — Io non m i chiam o Dolores. Sono Michele Am itrano. — Se lo dici tu —. Ho av uto l'im pressione che m i prendev a in giro. — Ma che gli hai detto al signore dei v erm i? — Gli ho detto che l'angelo custode li av rebbe acchiappati. Ho tirato un sospiro di solliev o. — Ah, brav o! Hai detto che ero l'angelo custode —. Ho preso la torta dalla tasca. — Guarda che ti ho portato. Si è sbriciolata… — Non ho av uto neanche il tem po di finire la frase che m i si è av v entato contro. Mi ha strappato quello che rim anev a della torta e se l'è cacciata tutta in bocca, poi, a occhi chiusi, ha cercato le briciole. Mi ha infilato le m ani dov unque. — Ancora! Ancora! Dam m ene ancora! — Mi graffiav a con le unghie. — Non ce ne ho più. Te lo giuro. Aspetta… —Nella tasca di dietro av ev o le caram elle. — Tieni. Prendi. Le scartav a, le m asticav a e le ingoiav a a una v elocità incredibile. —Ancora! Ancora! — Ti ho dato tutto. Non v olev a credere che non av ev o più niente. Continuav a a cercare le briciole. — Dom ani te ne porto ancora. Cosa v uoi? Ha com inciato a grattarsi la testa. — Voglio… v oglio… il pane. Il pane con il burro. Con il burro e la m arm ellata. Con il prosciutto. E il form aggio. E il cioccolato. Un panino m olto grosso. — Vedo cosa c'è a casa. Mi sono seduto. Filippo non la sm ettev a di toccarm i i piedi e di slacciarm i i sandali. E a un tratto m i è v enuta un'idea. Una grande idea. Non av ev a la catena. Era libero. Potev o portarlo fuori. Gli ho chiesto: — Ti v a di uscire? — Uscire dov e? — Uscire fuori. — Fuori? — Sì, fuori. Fuori dal buco. E stato zitto e ha chiesto: — Dal buco? Quale buco? — Questo buco qui. Qui dentro. Dov e siam o. Ha fatto di no con la testa. — Non ci sono buchi. — Questo non è un buco? —No. — Ma sì che è un buco e lo hai detto pure tu. — Quando l'ho detto? — Hai detto che il m ondo è tutto pieno di buchi dov e dentro ci stanno i m orti. E che anche la luna è piena di buchi. — Ti sbagli. Io non l'ho detto. Com inciav o a perdere la pazienza. — E dov e siam o allora? — In un posto dov e si aspetta. — E che si aspetta? — Di andare in paradiso. Un po' av ev a ragione. Se rim anev i lì dentro tutta la v ita, m oriv i e poi la tua anim a v olav a in paradiso. Se ti m ettev i a discutere con Filippo, ti si intrecciav ano i pensieri. — Dài, ti porto fuori. Vieni —. L'ho preso, m a si è irrigidito tutto e trem av a. — Va bene. Va bene. Non usciam o. Stai buono, però. Non ti faccio niente. Ha infilato la testa nella coperta. — Fuori non c'è aria. Fuori soffoco. Non ci v oglio andare. — Non è v ero. Fuori c'è un sacco d'aria. Io sto sem pre fuori e non soffoco. Com e m ai? — Tu sei un angelo. Dov ev o farlo ragionare. — Ascoltam i bene. Ieri ti ho giurato che tornav o e sono tornato. Ora ti giuro che se v ieni fuori non ti succede niente. Mi dev i credere. — Perché dev o andare fuori? Io sto bene qui. Dov ev o dirgli una bugia. — Perché fuori c'è il paradiso. E io ti dev o portare in paradiso. Io sono un angelo e tu sei m orto e io ti dev o portare in paradiso. Ci ha pensato un po'. — Dav v ero? — Veram ente. — Andiam o, allora —. E ha com inciato a fare dei v ersi acuti. Ho prov ato a m etterlo in piedi, m a tenev a le gam be piegate. Non si reggev a. Se non lo sostenev o cadev a. Alla fine gli ho legato la corda intorno ai fianchi. E gli ho av v olto la testa con la coperta, così stav a buono. Sono risalito e ho com inciato a issarlo. Pesav a troppo. Stav a lì, a v enti centim etri da terra, tutto indurito e sbilenco e io sopra, con la corda sulla spalla, tutto piegato in av anti e senza la forza per tirarlo su. — Aiutam i, Filippo. Non ce la faccio. Ma era com e un m acigno e la corda m i sciv olav a dalle m ani. Ho fatto un passo indietro e la corda si è allentata. Av ev a toccato terra. Mi sono affacciato. Era ribaltato, a pancia all'aria, con la coperta in testa. — Filippo, tutto bene? — Sono arriv ato? — ha chiesto. — Aspetta —. Sono corso intorno alla casa per cercare una tav ola, un palo, qualcosa che m i potesse aiutare. Nella stalla ho trov ato una v ecchia porta scrostata e m ezza rotta. L'ho trascinata fino al cortile. Volev o calarla nel buco e farci salire sopra Filippo. L'ho m essa in piedi sul ciglio, m a m i è caduta a terra e si è spaccata in due m età piene di schegge appuntite. Il legno era tutto m angiato dai tarli. Non era buona. — Michele? — Filippo m i stav a chiam ando. — Un m om ento! Aspetta un m om ento! — ho urlato e ho preso un pezzo di quella porta bastarda e l'ho sollev ata sulla testa e l'ho gettata su una scala. Una scala? Era lì, a due m etri dal buco. Una bellissim a scala di legno pittato di v erde adagiata sull'edera che copriv a un m ucchio di calcinacci e di terra. Era sem pre stata lì e io non l'av ev o m ai v ista. Ecco com e scendev ano. — Ho trov ato una scala! — ho detto a Filippo. L'ho presa e l'ho calata nel buco. L'ho trascinato nel boschetto, sotto un albero. C'erano gli uccelli. Le cicale. L'om bra. E c'era un buon odore di terra um ida, di m uschio. Gli ho dom andato: — Posso lev arti la coperta dalla faccia? — C'è il sole? —No. Non v olev a togliersela, alla fine sono riuscito a conv incerlo a farsi bendare gli occhi con la m ia m aglietta. Era contento, si v edev a da com e sorridev a. Un v enticello gli accarezzav a la pelle e lui se lo godev a tutto. Gli ho chiesto: — Perché ti hanno m esso qui? — Non lo so. Non m i ricordo. — Niente proprio? — Mi sono trov ato qua. — Che ti ricordi? — Che ero a scuola —. Dondolav a la testa. — Questo m e lo ricordo. C'era ginnastica. E poi sono uscito fuori. Una m acchina bianca si è ferm ata. E m i sono trov ato qua. — Ma tu dov e abiti? — In v ia Modigliani 3 6 . All'angolo con v ia Cav alier D'Arpino. — E dov e sta? — A Pav ia. — In Italia? — Sì. — Anche qui è Italia. Ha sm esso di parlare. Ho pensato che si era addorm entato, m a a un certo punto m i ha chiesto: — Che uccelli sono questi? Mi sono guardato intorno. — Passeri. — Sei sicuro che non sono pipistrelli? — No. Quelli di giorno dorm ono e fanno un altro rum ore. — Le v olpi v olanti inv ece v olano anche di giorno e cinguettano com e gli uccelli. E pesano più di un chilo. Se si attaccano ai ram i piccoli cadono a terra. Queste, secondo m e, sono v olpi v olanti. Dopo la storia degli orsetti lav atori non potev o più dire niente, m agari in Am erica esistev ano anche le v olpi v olanti. Gli ho dom andato: — Ma tu sei m ai andato in Am erica? — Ieri ho v isto la m ia m am m a. Mi ha detto che non può v enire a prenderm i perché è m orta. E m orta con tutta la m ia fam iglia. Sennò, ha detto, v errebbe subito. Mi sono tappato le orecchie. — Filippo, è tardi. Ti dev o portare giù. — Posso tornare giù dav v ero? — Sí. — Va bene. Torniam o. Era stato m ezz'ora m uto, con la m aglietta legata sugli occhi. Ogni tanto il collo e la bocca gli si irrigidiv ano e le dita delle m ani e dei piedi gli si contraev ano com e per un tic. Era rim asto incantato, ferm o, ad ascoltare le v olpi v olanti. — Attaccati al m io collo —. Si è aggrappato e l'ho trascinato fino al buco. — Adesso scendiam o la scala, reggiti bene. Non m i m ollare. È stato difficile. Filippo si stringev a così forte che non riusciv o a respirare e non potev o v edere i pioli della scala, ero costretto a cercarli con i piedi. Quando siam o arriv ati giù ero bianco com e un lenzuolo e ansim av o. L'ho sistem ato in un angolo. L'ho coperto e gli ho dato da bere e gli ho detto: — È tardissim o. Me ne dev o andare. Papà m i am m azza. — Io sto qua. Ma tu m i dev i portare i panini. E anche un pollo arrosto. — Il pollo lo m angiam o la dom enica. Oggi m am m a fa le polpette. Ti piacciono le polpette? — Con il pom odoro? — Si. — Mi piacciono m olto. Mi dispiacev a di lasciarlo. — Io v ado allora… —Stav o per aggrapparm i a un piolo, quando la scala è stata tirata v ia. Ho sollev ato lo sguardo. Sul ciglio c'era uno con un cappuccio m arrone in testa. Era v estito tale e quale a un soldato. — Cucù? Cucù? L'aprile non c'è più, — ha cantato e ha com inciato a fare le piroette. — E ritornato m aggio al canto del cucù! Indov ina chi sono? — Felice! — Brav o! — ha detto, ed è rim asto un po' in silenzio. — Com e cazzo hai fatto a capirlo? Aspetta! Aspetta un attim o. Se n'è andato e quando è riapparso im bracciav a il fucile. — Eri tu! — Felice battev a le m ani, — Eri tu, porcalaputtana! Trov av o sem pre le cose m esse div erse. Prim a credev o di essere pazzo. Poi ho pensato che c'era il fantasm a Form aggino. E inv ece eri tu. Michelino. Meno m ale, stav o uscendo scem o. Ho sentito stringere la cav iglia. Filippo m i si era attaccato ai piedi e bisbigliav a. — Il signore dei v erm i v iene e v a. Il signore dei v erm i v iene e v a. Il signore dei v erm i v iene e v a. Ecco chi era il signore dei v erm i! Felice m i ha guardato attrav erso i buchi del ca ppu ccio. — Hai fatto am icizia con il principe? Hai v isto com e l'ho lav ato bene? Facev a i capricci, m a alla fine ho v into io. La coperta però m ica m e l'ha v oluta dare. Ero in trappola. Non riusciv o a v ederlo. Il sole che filtrav a tra il fogliam e m i accecav a. — Becca qua! Un coltello si è piantato a terra. A dieci centim etri dal m io sandalo e a v enti dalla testa di Filippo. — Hai v isto che m ira? Potev o farti saltare il ditone del piede com e niente. E poi che facev i? Non riusciv o a parlare. Mi si era tappata la gola. — Che facev i senza un dito? — ha ripetuto. — Dim m elo? Dim m elo un po'? — Moriv o dissanguato. — Brav o. E se inv ece ti sparo con questo, — m i ha m ostrato il fucile, — che ti succede? — Muoio. — Vedi che le cose le sai. Vieni su, forza! — Felice ha preso la scala e l'ha calata giù. Non v olev o, m a non av ev o altra scelta. Mi av rebbe sparato. Non ero sicuro che ce l'av rei fatta a salire, m i trem av ano le gam be. — Aspetta, aspetta, — ha detto Felice. — Mi prendi il coltello, per piacere? Mi sono piegato e Filippo ha bisbigliato: — Non torni più? Ho tirato fuori il coltello dalla terra e senza farm i v edere gli ho risposto sottov oce: — Torno. — Prom esso? Felice m i ha ordinato: — Richiudilo e m ettitelo in tasca. — Prom esso. — Forza, forza! Sali su, fessacchiotto. Che aspetti? Ho com inciato a salire. Filippo intanto continuav a a bisbigliare. — Il signore dei v erm i v iene e v a. Il signore dei v erm i v iene e v a. Il signore dei v erm i v iene e v a. Quando oram ai ero quasi fuori, Felice m i ha preso per i pantaloni e con tutte e due le m ani m i ha lanciato contro la casa com e un sacco. Mi sono schiantato sul m uro e m i sono sciolto a terra. Ho prov ato ad alzarm i. Av ev o sbattuto sul fianco. Una fitta di dolore m i irrigidiv a la gam ba e il braccio. Mi sono v oltato. Felice si era tolto il cappuccio e av anzav a v erso di m e a passo di carica puntandom i il fucile contro. Vedev o il carro arm ato dei suoi anfibi div entare sem pre più grande. Ora m i spara, ho pensato. Ho com inciato a strisciare, tutto acciaccato, v erso il bosco. — Volev i farlo scappare, eh? Ma ti sei sbagliato. Hai fatto i conti senza l'hostess —. Mi ha dato un calcio sul sedere. — Alzati, fessacchiotto. Che fai là a terra? Alzati! Per caso ti sei fatto m ale? — Mi ha sollev ato per l'orecchio. — Ringrazia Iddio che sei figlio di tuo padre. Sennò a quest'ora… Ora ti porto a casetta. Deciderà tuo padre la punizione. Io il m io dov ere l'ho fatto. Ho fatto la guardia. E ti dov ev o sparare —. Mi ha trascinato nel boschetto. Av ev o così tanta paura che non riusciv o a piangere. Inciam pav o, finiv o a terra e lui m i rim ettev a in piedi tirandom i per l'orecchio. — Muov iti, su, su, su! Siam o usciti fuori dagli alberi. Di fronte a noi la distesa gialla e incandescente di grano si allungav a fino al cielo. Se m i ci tuffav o dentro non m i av rebbe trov ato m ai. Con la canna del fucile Felice m i ha spinto alla 1 2 7 e ha detto: — Ah già, ridam m i il coltello! Ho prov ato a ridarglielo m a non riusciv o a infilare la m ano nella tasca. — Faccio io! — Me lo ha preso. Ha aperto lo sportello, ha sollev ato il sedile e ha detto: — Sali! Sono entrato e dav anti c'era Salv atore. — Salv atore, che ci…? — Il resto m i è m orto in bocca. Era stato Salv atore. Av ev a fatto la spia a Felice. Salv atore m i ha guardato e si è girato dall'altra parte. Mi sono seduto dietro senza dire una parola. Felice si è piazzato al v olante. — Caro Salv atore, sei stato proprio brav o. Qua la m ano —. Felice gliel'ha presa. — Av ev i ragipne, il ficcanaso c'era. E io che non ti credev o —. È sceso. — Le prom esse sono prom esse. E quando Felice Natale fa una prom essa, la m antiene. Guida. Vai piano però. — Adesso? — ha chiesto Salv atore. — E quando? Siediti al posto m io. Felice è entrato dalla porta del passeggero e Salv atore è passato al v olante. — Qui è perfetto per im parare. Basta che segui la discesa e ogni tanto freni. Salv atore Scardaccione m i av ev a v enduto per una lezione di guida. — Così m i sfondi la m acchina! — Felice urlav a e con la testa incollata al parabrezza controllav a il fondo sconnesso della strada. — Frena! Frena! Salv atore arriv av a appena sopra il v olante e lo stringev a com e se v olesse spezzarlo. Quando Felice m i era v enuto addosso puntandom i il fucile contro m i ero pisciato sotto. Solo ora m e ne accorgev o. Av ev o i pantaloncini zuppi. . La m acchina era piena di tafani im pazziti. Sobbalzav am o sui dossi, ci infilav am o nelle buche. Dov ev o aggrapparm i alla m aniglia. Salv atore non m i av ev a m ai detto che v olev a guidare la m acchina. Potev a chiederlo al padre di insegnargli a portarla. L'av v ocato non gli dicev a m ai di no. Perché lo av ev a chiesto a Felice? Mi facev a m ale tutto, le ginocchia sbucciate, le costole, un braccio e un polso. Ma soprattutto il cuore. Salv atore m e lo av ev a spezzato. Era il m io m igliore am ico. Una v olta, su un ram o del carrubo, av ev am o pure fatto il giuram ento d'am icizia eterna. Tornav am o insiem e da scuola. Se uno usciv a prim a, aspettav a l'altro. Salv atore m i av ev a tradito. Av ev a ragione m am m a quando dicev a che gli Scardaccione si credev ano chissà chi solo perché av ev ano i soldi. E dicev a che anche se affogav i quelli nem m eno ti guardav ano in faccia. E io m i ero im m aginato un sacco di v olte le due sorelle Scardaccione sul bordo delle sabbie m obili che cuciv ano a m acchina e io che affondav o e allungav o la m ano e chiedev o aiuto e quelle m i lanciav ano le caram elle con il m iele e dicev ano che non potev ano alzarsi per colpa delle gam be gonfie. Ma con Salv atore erav am o am ici. Mi ero sbagliato. Av ev o una v oglia trem enda di piangere, m a m i sono giurato che se una sola lacrim a m i usciv a dagli occhi, av rei preso la pistola del v ecchio e m i sarei sparato. Ho tirato fuori dai pantaloncini la scatola del Lanerossi Vicenza. Era tutta m olla di pipì. L'ho poggiata sul sedile. Felice ha urlato: — Basta, ferm a! Non ce la faccio più. Salv atore ha frenato di colpo, il m otore si è spento, la m acchina si è inchiodata e se Felice non m ettev a le m ani av anti si scassav a le corna sul parabrezza. Ha spalancato la portiera ed è sceso. — Lev ati! Salv atore si è spostato dall'altra parte, m uto. Felice ha afferrato il v olante e ha detto: — Caro Salv atore, te lo dev o dire, tu sei proprio negato a guidare. Lascia perdere. Il ciclism o è il tuo futuro. Quando siam o entrati ad Acqua Trav erse m ia sorella, Barbara, Rem o e il Teschio giocav ano a m ondo in m ezzo alla polv ere. Ci hanno v isti e hanno sm esso di giocare. Il cam ion di papà non c'era. E neanche la m acchina del v ecchio. Felice ha parcheggiato la 1 2 7 nel capannone. Salv atore è schizzato dalla m acchina, ha preso la bicicletta e se n'è andato senza nem m eno guardarm i. Felice ha tirato su il sedile. — Esci fuori! Non v olev o uscire. Una v olta, a scuola, av ev o rotto la v etrata del cortile con uno di quei bastoni che serv ono per fare ginnastica. Volev o far v edere ad Angelo Cantini, un m io com pagno di classe, che quel v etro era indistruttibile. E inv ece si era trasform ato in un m iliardo di cubetti quadrati. Il preside av ev a chiam ato m am m a e le av ev a detto che le dov ev a parlare. Quando era arriv ata m i av ev a guardato e m i av ev a detto in un orecchio: — Noi due facciam o i conti dopo —. Ed era entrata dal preside m entre io aspettav o seduto nel corridoio. Quella v olta av ev o av uto paura, m a niente in confronto ad adesso. Felice av rebbe raccontato tutto a m am m a e lei lo av rebbe detto a papà. E papà si sarebbe arrabbiato tantissim o. E il v ecchio m i av rebbe portato v ia. — Esci fuori! — m i ha ripetuto Felice. Mi sono fatto coraggio e sono sm ontato. Mi v ergognav o. Av ev o i pantaloni bagnati. Barbara si è m essa una m ano sulla bocca. Rem o è corso dal Teschio. Maria si è lev ata gli occhiali e se li è puliti con la m aglietta. C'era una luce abbagliante, non riusciv o a tenere gli occhi aperti. Dietro di m e sentiv o i passi pesanti di Felice. Affacciata alla finestra c'era la m am m a di Barbara. A un'altra la m am m a del Teschio. Mi fissav ano con gli occhi v acui. Ci sarebbe stato un silenzio assoluto se Togo non av esse com inciato ad abbaiare con quella sua v ocetta stridula. Il Teschio gli ha dato un calcio e Togo è scappato v ia guaendo. Ho salito le scale di casa e ho aperto la porta. Le persiane erano accostate e c'era poca luce. La radio era accesa. Il v entilatore girav a. Mam m a, in sottov este, era seduta al tav olo e pelav a le patate. Mi ha v isto entrare seguito da Felice. Le è sciv olato il coltello di m ano. È caduto sul tav olo, e da lì è finito sul pav im ento. — Che è successo? Felice si è cacciato le m ani nella m im etica, ha abbassato la testa e ha detto: — Era su. Con il ragazzino. Mam m a si è alzata dalla sedia, ha spento la radio, ha fatto un passo, poi un altro, si è ferm ata, si è m essa le m ani in faccia e si è accucciata a terra guardandom i. Sono scoppiato a piangere. È corsa da m e e m i ha preso in braccio. Mi ha stretto forte al seno e si è accorta che ero tutto bagnato. Mi ha poggiato sulla sedia e m i ha guardato le gam be e le braccia sbucciate, il sangue rappreso sulle ginocchia. Mi ha sollev ato la m aglietta. — Che ti è successo? — m i ha chiesto. — Lui! È stato lui… m i ha… preso a m azzate! —Ho indicato Felice. Mam m a si è girata, ha squadrato Felice e ha ringhiato: — Che cosa gli hai fatto, disgraziato? Felice ha alzato le m ani. — Niente. Che gli ho fatto? L'ho riportato a casa. Mam m a ha strizzato gli occhi. — Tu! Com e ti perm etti, tu? — Le v ene del collo le si sono gonfiate e le trem av a la v oce. — Com e ti perm etti, eh? Hai picchiato m io figlio, bastardo! — E si è lanciata su Felice. Lui è indietreggiato. — Gli ho dato un calcio nel sedere. E che sarà m ai? Mam m a ha cercato di schiaffeggiarlo. Felice le ha serrato i polsi per tenerla lontana, m a lei era una leonessa. — Bastardo! Io ti strappo gli occhi! — L'ho trov ato dentro la fossa… Volev a liberare il ragazzino. Non gli ho fatto niente. Basta, sm ettila! Mam m a era scalza, m a lo ha colpito lo stesso con un calcio nei coglioni. Il pov ero Felice ha em esso un v erso strano, un incrocio tra un gargarism o e il risucchio di un lav andino, si è m esso le m ani sui genitali ed è caduto in ginocchio. Ha fatto una sm orfia di dolore e ha prov ato a urlare m a non gli è v enuto, non av ev a più aria nei polm oni. Io, in piedi sulla sedia, ho sm esso di frignare. Sapev o quanto fa m ale una botta sulle palle. E quella era una botta sulle palle m olto seria. Mam m a non ha av uto nessuna pietà. Ha preso la padella dal lav ello e ha colpito Felice in faccia. Lui ha ululato ed è crollato a terra. Mam m a ha sollev ato di nuov o la padella, lo v olev a am m azzare, m a Felice l'ha presa per una cav iglia e ha tirato. Mam m a è cascata. La padella è schizzata sul pav im ento. Felice le si è buttato sopra con tutto il corpo. Io ho guaito disperato. —Lasciala! Lasciala! Lasciala! — Felice le ha afferrato le braccia, le si è piazzato sullo stom aco e l'ha tenuta ferm a. Mam m a m ordev a e graffiav a com e una gatta. Le si era sollev ata la sottov este. Si v edev a il sedere e il ciuffo nero tra le gam be e una spallina si era strappata e un seno le usciv a fuori bianco e grande e con il capezzolo scuro. Felice si è ferm ato e l'ha guardata. Ho v isto com e l'ha guardata. Sono sceso dalla sedia e ho cercato di ucciderlo. Gli sono saltato addosso e ho prov ato a strozzarlo. In quel m om ento sono entrati papà e il v ecchio. Papà si è gettato su Felice, lo ha afferrato per un braccio e l'ha tirato v ia da sopra a m am m a. Felice è rotolato sul pav im ento e io insiem e a lui. Ho battuto forte la tem pia. Un bollitore dell'acqua ha com inciato a fischiarm i nella testa, e nelle narici av ev o l'odore del disinfettante che dav ano nel bagno della scuola. Lam pi gialli m i esplodev ano dav anti agli occhi. Papà prendev a a calci Felice e Felice strisciav a sotto il tav olo e il v ecchio cercav a di trattenere papà che spalancav a la bocca e allungav a le m ani e buttav a all'aria le sedie con i piedi. Il sibilo nella testa era così forte che non sentiv o nem m eno il m io pianto. Mam m a m i ha preso e m i ha portato in cam era sua, ha chiuso la porta con il gom ito e m i ha adagiato sul letto. Non riusciv o a sm ettere di piangere. Sussultav o tutto ed ero paonazzo. Mi stringev a tra le braccia e ripetev a: — Non è niente. Non è niente. Passa. Passa tutto. Mentre piangev o non riusciv o a staccare gli occhi dalla fotografia di padre Pio attaccata all'arm adio. Il frate m i guardav a e sem brav a sorridere soddisfatto. In cucina papà, il v ecchio e Felice urlav ano. Poi sono usciti tutti e tre di casa sbattendo la porta. Ed è tornata la calm a. I colom bi tubav ano sotto il tetto. Il rum ore del frigorifero. Le cicale. Il v entilatore. Quello era il silenzio. Mam m a, con gli occhi gonfi, si è v estita, si è disinfettata un graffio su una spalla e m i ha lav ato, asciugato, infilato sotto le lenzuola. Mi ha fatto m angiare una pesca con lo zucchero e si è stesa accanto a m e. Mi ha dato la m ano. Non parlav a più. Non av ev o la forza nem m eno per piegare un dito. Ho appoggiato la fronte sul suo stom aco e ho chiuso gli occhi. Si è aperta la porta. — Com e sta? La v oce di papà. Parlav a piano, com e se il dottore gli av esse detto che ero in fin di v ita. Mam m a m i ha accarezzato i capelli. — Ha preso una botta in testa. Ma ora dorm e. — Tu com e stai? — Bene. — Sicura? — Sì. Ma quello non dev e entrare più in casa nostra. Se tocca ancora Michele lo am m azzo e poi am m azzo a te. — Ci ho già pensato io. Dev o andare. La porta si è chiusa. Mam m a m i si è accoccolata accanto e m i ha sussurrato in un orecchio: — Quando div enti grande te ne dev i andare da qui e non ci dev i tornare m ai più. Era notte. Mam m a non c'era. Maria m i dorm iv a accanto. L'orologio ticchettav a sul com odino. Le lancette brillav ano di giallo. Il cuscino odorav a di papà. La luce bianca della cucina s'incuneav a sotto la porta. Di là stav ano litigando. Era pure arriv ato l'av v ocato Scardaccione, da Rom a. Era la prim a v olta che v eniv a a casa nostra. Quel pom eriggio erano successe cose terribili. Così terribili, così im m ense che non ci si potev a nem m eno arrabbiare. Mi av ev ano lasciato stare. Non ero agitato. Mi sentiv o al sicuro. Mam m a ci av ev a chiusi dentro la sua cam era e non av rebbe perm esso a nessuno di entrare. In testa av ev o un bozzo che se lo toccav o m i facev a m ale, m a per il resto stav o bene. Questo un po' m i dispiacev a. Appena scopriv ano che non ero m alato m i rim ettev ano nella stanza con il v ecchio. E io v olev o rim anere nel loro letto per sem pre. Senza più uscire, senza più v edere Salv atore, Felice, Filippo, nessuno. Nulla sarebbe cam biato. Sentiv o le v oci in cucina. Il v ecchio, l'av v ocato, il barbiere, il padre del Teschio, papà. Litigav ano per una telefonata che dov ev ano fare e su quello che bisognav a dire. Ho m esso la testa sotto il cuscino. Vedev o l'oceano di ferro in tem pesta, cav alloni di chiodi si sollev av ano e spruzzi di bulloni colpiv ano l'autobus bianco che affondav a in silenzio sollev ando il m uso e dentro c'erano i m ostri che si agitav ano e sbattev ano i pugni terrorizzati. Non c'era niente da fare. I v etri erano indistruttibili. Ho aperto gli occhi. — Michele, sv egliati —. Papà stav a seduto sul bordo del letto e m i scuotev a la spalla. — Ti dev o parlare. Era buio. Ma una m acchia di luce bagnav a il soffitto. Non gli v edev o gli occhi e non capiv o se era arrabbiato. In cucina continuav ano a parlare. — Michele, che hai fatto oggi? — Niente. — Non dire fesserie —. Era arrabbiato. — Non ho fatto niente di m ale. Te lo giuro. — Felice ti ha trov ato da quello. Ha detto che lo v olev i liberare. Mi sono tirato su. — No! Non è v ero! Te lo giuro! L'ho tirato fuori, m a l'ho rim esso subito dentro. Non lo v olev o liberare. E lui che dice le bugie. — Parla piano che tua sorella dorm e —. Maria era stesa a pancia in giù e stringev a il cuscino. Ho sussurrato. — Non m i credi? Mi ha guardato. Gli occhi gli luccicav ano nel buio com e a un cane. — Quante v olte lo hai v isto? —Tre. — Quante v olte? — Quattro. — Ti può riconoscere? — Com e? — Se ti v ede ti riconosce? Ci ho pensato. — No. Non ci v ede. Tiene sem pre la testa sotto la coperta. — Gli hai detto il tuo nom e? — No. — Ci hai parlato? — No… Poco. — Che ti ha detto? — Niente. Parla di cose strane. Non si capisce niente. — E tu che gli hai detto? — Niente. Si è alzato. Sem brav a se ne v olesse andare, poi si è riseduto sul letto. — Ascoltam i bene. Non sto scherzando. Se ci torni io ti am m azzo di botte. Se torni un'altra v olta lì, quelli gli sparano in testa —. Mi ha dato uno strattone v iolento. — Per colpa tua. Ho balbettato. — Non ci torno più. Te lo giuro. — Giuralo sulla m ia testa. — Te lo giuro. — Di', giuro sulla tua testa che non ci torno più. Ho detto: — Giuro sulla tua testa che non ci torno più. — Hai giurato sulla testa di tuo padre —. È rim asto in silenzio seduto v icino a m e. In cucina il padre di Barbara urlav a con Felice. Papà ha guardato fuori dalla finestra. — Scordalo. Non esiste più. E non ne dev i parlare con nessuno. Mai più. — Ho capito. Non ci v ado più. Si è acceso una sigaretta. Gli ho chiesto: — Sei ancora arrabbiato con m e? — No. Mettiti a dorm ire —. Ha preso una grossa boccata e si è appoggiato con le m ani sul dav anzale. I capelli lucidi gli brillav ano della luce del lam pione. — Ma, Cristo di Dio, perché gli altri ragazzini se ne stanno buoni e tu te ne v ai in giro a fare fesserie? — Allora sei arrabbiato con m e? — No, non sono arrabbiato con te. Piantala —. Si è preso la testa tra le m ani e ha sussurrato. — Che razza di casino —. Scuotev a la testa. — Ci sono cose che sem brano sbagliate quando uno… — Av ev a la v oce rotta e non trov av a le parole. — Il m ondo è sbagliato, Michele. Si è alzato e si è sgranchito la schiena e ha fatto per uscire. — Dorm i. Dev o tornare di là. — Papà, m i dici una cosa? Ha gettato la sigaretta dalla finestra. — Che c'è? — Perché lo av ete m esso nel buco? Non l'ho capito proprio bene. Ha afferrato la m aniglia, ho creduto che non m i v olesse rispondere, poi ha detto: — Non te ne v olev i andare da Acqua Trav erse? — Sì. — Presto ce ne andrem o in città. — Dov e andrem o? — Al Nord. Sei contento? Ho fatto sì con la testa. E tornato da m e e m i ha guardato negli occhi. L'alito gli sapev a di v ino. — Michele, ora ti parlo com e a un uom o. Ascoltam i bene. Se torni lì lo uccidono. Lo hanno giurato. Non ci dev i tornare più se non v uoi che gli sparano e se v uoi che ce ne andiam o in città. E non ne dev i parlare m ai. Hai capito? — Capito. Mi ha baciato in testa. — Ora dorm i e non ci pensare. Vuoi bene a tuo padre? — Sì. — Mi v uoi aiutare? — Sì. — Allora dim entica tutto. — Va bene. — Dorm i ora —. Ha baciato Maria che neanche se n'è accorta ed è uscito dalla stanza chiudendo piano la porta. 7. Era tutto in disordine. Il tav olo era pieno di bottiglie, tazzine e piatti sporchi. Le m osche ronzav ano sui resti del cibo. Le sigarette traboccav ano dalle ceneriere, le sedie e le poltrone erano tutte storte. C'era puzza di fum o. La porta della m ia stanza era socchiusa. Il v ecchio dorm iv a v estito sul letto di m ia sorella. Un braccio buttato giù. La bocca aperta. Ogni tanto si scacciav a una m osca che gli cam m inav a sulla faccia. Papà si era steso sul m io letto con la testa contro il m uro. Mam m a dorm iv a rannicchiata sul div ano. Si era coperta con la trapunta bianca. Spuntav ano i capelli neri, un pezzettino di fronte e un piede nudo. La porta di casa era spalancata. Una leggera corrente tiepida facev a frusciare il giornale sul com ò. Il gallo ha cantato. Ho aperto il frigo. Ho preso il latte, m i sono riem pito un bicchiere e sono uscito sul terrazzino. Mi sono seduto sugli scalini a guardare l'alba. Era di un arancione v iv ido, sporcata da una m assa gelatinosa e v iolacea che si stendev a com e cotone sull'orizzonte, m a più in alto il cielo era pulito e nero e qualche stella era ancora accesa. Mi sono finito il latte, ho poggiato il bicchiere su uno scalino e sono sceso in strada. Il pallone del Teschio era v icino alla panchina, gli ho dato un calcio. E finito sotto la m acchina del v ecchio. Dal capannone è apparso Togo. Ha guaito e sbadigliato insiem e. Si è stiracchiato allungandosi e trascinando le zam pe di dietro e m i è v enuto incontro scodinzolando. Mi sono inginocchiato. — Togo, com e stai? Mi ha preso una m ano con la bocca e m i ha tirato. Non stringev a forte m a av ev a i denti appuntiti. — Dov e m i v uoi portare, eh? Dov e m i v uoi por tar e? — L'ho seguito nel capannone. I colom bi, appollaiati sui trav i di ferro del tetto, sono v olati v ia. In un angolo, buttata a terra, c'era la sua cuccia, una v ecchia coperta grigia, tutta bucata. — Mi v uoi far v edere la tua casa? Togo ci si è steso e si è aperto com e un pollo alla diav ola. Sapev o che v olev a. Gli ho grattato la pancia e lui si è im m obilizzato, in grazia di Dio, solo la coda gli andav a a destra e a sinistra. La coperta era uguale a quella di Filippo. L'ho odorata. Non puzzav a com e la sua. Sapev a di cane. Ero steso sul letto a leggere Tex. Ero rim asto in cam era tutto il giorno. Com e quando av ev o la febbre e non andav o a scuola. A un certo punto era v enuto Rem o a chiederm i se v olev o fare una partita, m a gli av ev o detto di no, che ero m alato. Mam m a av ev a pulito casa fino a che tutto era tornato splendente, poi era andata dalla m adre di Barbara. Papà e il v ecchio si erano sv egliati ed erano usciti. Mia sorella è entrata in cam era di corsa ed è saltata sul letto tutta contenta. Tenev a qualcosa dietro la schiena. — Indov ina che m i ha prestato Barbara? Ho abbassato il giornaletto. — Non lo so. — Indov ina, dài! — Non lo so —. Non av ev o v oglia di giocare. Ha tirato fuori Ken. Il m arito di Barbie, quello spilungone e con la puzza sotto il naso. — Così possiam o giocare. Io prendo Paola e tu lui. Li spogliam o e li m ettiam o nel frigorifero… Così si abbracciano, capito? — Non m i v a. Mi ha squadrato. — Che hai? — Niente. Lasciam i in pace, sto leggendo. — Che noioso che sei! — Ha sbuffato e se n'è andata. Mi sono rim esso a leggere. Era un num ero nuov o, m e lo av ev a prestato Rem o. Ma non riusciv o a concentrarm i. L'ho buttato a terra. Pensav o a Filippo. Ora com e facev o? Gli av ev o prom esso che tornav o da lui, m a non potev o, av ev o giurato a papà che non ci andav o. Se ci andav o gli sparav ano. Ma perché? Mica lo liberav o, ci parlav o solo. Non facev o niente di m ale. Filippo m i aspettav a. Era lì, nel buco, e si chiedev a quando tornav o, quando gli portav o le polpette. — Non posso v enire, — ho detto ad alta v oce. L'ultim a v olta che ero andato da lui gli av ev o detto: «Hai v isto che sono v enuto?» E lui m i av ev a risposto che lo sapev a. Non erano stati gli orsetti lav atori a dirglielo. «Me lo av ev i prom esso». Mi bastav a parlarci cinque m inuti. «Filippo, non posso più tornare. Se torno ti uccidono. Scusam i, non è colpa m ia». E alm eno si m ettev a l'anim a in pace. Inv ece così pensav a che non lo v olev o più v edere e che non m antenev o le prom esse. Ma non era v ero. Questa cosa m i torm entav a. Se non ci potev o andare io, glielo potev a dire papà. «Mi dispiace, Michele non può v enire, per questo non m antiene la prom essa. Se v iene ti uccidono. Ha detto di salutarti». — Basta, m e lo dev o scordare! — ho detto alla stanza. Ho raccolto il giornalino, sono andato in bagno e m i sono m esso a leggere sulla tazza, m a ho dov uto sm ettere subito. Papà m i chiam av a dalla strada. E ora che v olev a da m e? Ero stato buono, non m i ero m osso di casa. Mi sono tirato su i pantaloni e sono uscito sul terrazzino. — Vieni qua! Vieni! — Mi ha fatto segno di scendere. Era accanto al cam ion. C'erano anche m am m a, Maria, il Teschio e Barbara. — Che c'è? Mam m a ha detto: — Scendi, c'è una sorpresa. Filippo. Papà av ev a liberato Filippo. E lo av ev a portato da m e. Il cuore ha sm esso di batterm i. Mi sono precipitato giù per le scale. — Dov 'è? — Stai là —. Papà è salito sul cam ion e ha tirato fuori la sorpresa. — Allora? — m i ha chiesto papà. Mam m a ha ripetuto: — Allora? Era una bicicletta tutta rossa, con il m anubrio che sem brav a le corna di un toro. La ruota dav anti piccola. Il cam bio a tre m arce. Le gom m e con i tacchetti. Il sellino lungo che ci potev i andare in due. Mam m a ha chiesto ancora: — Che c'è? Non ti piace? Ho fatto di sì con la testa. Ne av ev o v ista una quasi uguale, qualche m ese prim a, al negozio di biciclette di Lucignano. Ma era più brutta, non av ev a il fanalino argentato e la ruota dav anti non era piccola. Ero entrato dentro a guardarla e il com m esso, un uom o alto, con i baffi e il grem biule grigio, m i av ev a detto: — Bella, eh? — Tanto. — E l'ultim a che m i è rim asta. E un affare. Perché non te la fai regalare dai tuoi genitori? — Mi piacerebbe… — E allora? — Ce l'ho già. — Quella? — Il com m esso av ev a storto il naso indicando la Scassona poggiata contro il lam pione. Mi sono scusato. — Era di papà. — E ora di cam biarla. Dillo ai tuoi. Faresti tutta un'altra figura con un gioiello com e questo. Me n'ero andato. Non m i era passato neanche per la testa di chiedergli quanto costav a. Questa qui era m olto più bella. Sopra la canna c'era scritto in oro Red Dragon. — Che v uol dire Red Dragon? — ho chiesto a papà. Lui ha sollev ato le spalle e ha detto: — Lo sa tua m adre. Mam m a si è coperta la bocca e si è m essa a ridere. — Quanto sei scem o, che so l'inglese io? Papà m i ha guardato. — Allora che fai? Non la prov i? — Ora? — E quando, dom ani? Mi scocciav a prov arla dav anti a tutti. — Posso portarla a casa? Il Teschio ci è m ontato sopra. — Se non la prov i tu, la prov o io. Mam m a gli ha dato uno scapaccione. — Scendi subito da quella bicicletta! È di Michele. — La v uoi v eram ente portare sopra? — m i ha dom andato papà. — Sì. — E ce la fai? — Sì. — Va bene, m a solo per oggi… Mam m a ha detto: — Ma sei im pazzito, Pino? La bicicletta in casa? Fa le strisce. — Ci sta attento. Mia sorella ha preso gli occhiali, li ha buttati a terra ed è scoppiata a piangere. — Maria, raccogli subito quegli occhiali, — si è infuriato papà. Lei ha incrociato le braccia. — No! Non li prendo, non è giusto. Tutto a Michele e a m e niente! — Aspetta il tuo turno —. Papà ha tirato fuori dal cam ion un pacchetto con la carta blu e un fiocco. — Questo è per te. Maria si è rim essa gli occhiali, ha prov ato a disfare il nodo m a non ci riusciv a, allora lo ha strappato con i denti. — Aspetta! La carta è buona, la teniam o —. Mam m a ha sciolto il fiocco e ha tolto la carta. Dentro c'era una Barbie con la corona in testa e un v estito di raso bianco tutto stretto e le braccia nude. Maria per poco non è sv enuta — La Barbie ba ller in a …! — Mi si è afflosciata addosso. — È bellissim a. Papà ha chiuso il telone del cam ion. — E ora con i regali state a posto per i prossim i dieci anni. Io e Maria abbiam o salito le scale di casa. Io con la bicicletta in spalla, lei con la sua Barbie ballerina in m ano. — È bella, v ero? — ha detto Maria guardandosi la bam bola. — Sì. Com e la chiam i? — Barbara. — Perché Barbara? — Perché Barbara ha detto che da grande div enterà com e la Barbie. E Barbie è Barbara in inglese. — E con Pov erella che ci fai, la butti? — No. Fa la cam eriera —. Poi m i ha guardato e m i ha chiesto: — A te non ti è piaciuto il regalo? — Sì. Ma pensav o che era un'altra cosa. Quella notte ho dorm ito con il v ecchio. Mi ero appena m esso a letto e m i stav o finendo Tex quando è entrato in cam era. Sem brav a che gli av essero scaricato addosso altri v enti anni. La faccia per quanto era scav ata si era ridotta a un teschio. — Dorm i? — ha sbadigliato. Ho chiuso il giornaletto e m i sono girato v erso il m uro. — No. — Ahhh! Sono cotto —. Ha acceso la lam pada accanto al letto e ha com inciato a spogliarsi. — Tra andata e ritorno ho fatto l'iradiddio di chilom etri. Ho la schiena a pezzi. Dev o dorm ire —. Ha sollev ato in aria i pantaloni, li ha esam inati e ha storto il naso. — Dev o rifarm i il guardaroba —. Si è lev ato gli stiv aletti e le calze e li ha poggiati sul dav anzale. Gli puzzav ano i piedi. Ha trafficato nella v aligia, ha tirato fuori la bottiglia di Stock 84 e ci si è attaccato. Ha fatto una sm orfia e si è pulito la bocca con la m ano. — Am m azza, che schifo —. Ha preso la cartellina, l'ha aperta, ha guardato il blocco di fotografie e m i ha chiesto: — Vuoi v edere m io figlio? — Mi ha passato una foto. Era quella che av ev o v isto la m attina in cui av ev o frugato nella sua roba. Francesco v estito da m eccanico. — Bel ragazzo, v ero? — Sì. — Qua stav a ancora bene, dopo si è sm agrito. Una falena m arrone è entrata dalla finestra e ha preso a sbattere contro la lam padina. Facev a un rum ore sordo ogni v olta che colpiv a il v etro incandescente. Il v ecchio ha preso un giornale e l'ha spiaccicata contro il m uro. — 'Ste farfalle di m erda —. Mi ha passato un'altra foto. — Casa m ia. Era una v illetta bassa con le finestre dipinte di rosso. Dietro il tetto di paglia spuntav ano le cim e di quattro palm e. Seduta sulla porta c'era una ragazza negra con un due pezzi giallo. Av ev a i capelli lunghi e tenev a un prosciutto tra le m ani, com e un trofeo. Accanto alla casa c'era un piccolo garage quadrato e dav anti una m acchina enorm e, bianca, senza il tetto e con i v etri neri. — Che m acchina è? — ho chiesto. — Una Cadillac. L'ho presa usata. È perfetta. Gli ho dov uto rifare solo le gom m e —. Si è tolto la cam icia. — E stato un buon affare. — E chi è quella negra? Si è steso sul letto. — Mia m oglie. — Hai una m oglie negra? — Sì. Quella v ecchia l'ho lasciata. Questa ha v entitre anni. E un fiorellino. Si chiam a Sonia. E se quello ti sem bra un prosciutto, ti sbagli, è specie. Originale del Veneto. Gliel'ho portato dall'Italia. In Brasile non esiste, è una raffinatezza. E stata una rogna portarlo. M'hanno pure ferm ato alla dogana. Lo v olev ano aprire, pensav ano che dentro c'era la droga… Vabbe', spengo la luce, che sono stanco. Nella stanza è calato il buio. Sentiv o che respirav a e facev a degli strani rum ori con la bocca. A un certo punto ha detto: — Non sai com e si sta laggiù. La v ita non costa niente. Tutti che ti serv ono. Non fai un cazzo tutto il giorno. Altro che questo paese di m erda. Io con questo paese ho chiuso. Gli ho chiesto: — Dov e sta il Brasile? — Lontano. Troppo lontano. Buona notte e sogni d'oro. — Buona notte. 8. E tutto si è ferm ato. Una fata av ev a addorm entato Acqua Trav erse. I giorni seguiv ano uno dopo l'altro, bollenti, uguali e senza fine. I grandi non usciv ano più nem m eno la sera. Prim a, dopo cena, m ettev ano fuori i tav oli e giocav ano a carte. Ora se ne rim anev ano dentro. Felice non si v edev a più. Papà se ne stav a tutto il giorno a letto e parlav a solo con il v ecchio. Mam m a cucinav a. Salv atore si era chiuso in casa. Andav o sulla m ia nuov a bicicletta. Tutti v olev ano prov arla. Il Teschio si facev a Acqua Trav erse su una ruota sola. Io neanche due m etri. Me ne stav o spesso per conto m io. Pedalav o oltre il torrente secco, prendev o stradine polv erose tra i cam pi che m i portav ano distante, dov e non c'era più niente se non pali abbattuti e filo spinato m angiato dalla ruggine. In lontananza le m ietitrebbia rosse trem olav ano nelle onde di calore che saliv ano dai cam pi. Era com e se Dio av ev a tagliato i capelli a zero al m ondo. Qualche v olta i cam ion con i sacchi di grano passav ano per Acqua Trav erse lasciandosi dietro scie di fum o nero. Quando stav o in strada av ev o l'im pressione che tutti osserv av ano quello che facev o. Mi parev a di scorgere dietro le finestre la m adre di Barbara che m i spiav a, il Teschio che m i indicav a e bisbigliav a con Rem o, Barbara che m i sorridev a strana. Ma anche quando stav o solo, seduto su un ram o del carrubo o in bicicletta, quell'im pressione non m i lasciav a. Anche quando m i apriv o un v arco nei resti di quel m are di spighe destinato a essere stipato nelle balle e intorno non av ev o che cielo, m i parev a che m ille occhi m i guardav ano. Non ci v ado, state tranquilli. L'ho giurato. Ma la collina era là, e m i aspettav a. Ho com inciato a fare la strada che portav a alla fattoria di Melichetti. E ogni giorno, senza renderm ene conto, ne facev o un pezzettino in più. Filippo si era scordato di m e. Lo sentiv o. Cercav o di chiam arlo con il pensiero. Filippo? Filippo m i senti? Non posso v enire. Non posso. Non m i pensav a. Forse era m orto. Forse non c'era più. Un pom eriggio, dopo m angiato, m i sono m esso sul letto a leggere. La luce prem ev a contro gli scuri e filtrav a nella stanza bollente. Av ev o i grilli nelle orecchie. Mi sono addorm entato con il giornaletto di Tiram olla in m ano. Ho sognato che era notte, m a io ci v edev o lo stesso. Le colline si m uov ev ano nel buio. Si spostav ano lente com e tartarughe sotto un tappeto. Poi tutte insiem e spalancav ano gli occhi, buchi rossi che si apriv ano nel grano, e si sollev av ano, sicure di non essere v iste, e div entav ano dei giganti fatti di terra e coperti di spighe che av anzav ano ondeggiando sui cam pi e m i v eniv ano addosso e m i seppelliv ano. Mi sono risv egliato in un bagno di sudore. Sono andato al frigo a prendere l'acqua. Vedev o i giganti. Sono uscito e ho preso la Scassona. Ero dav anti al sentiero che portav a alla casa abbandonata. La collina era lì. Fosca, v elata dal caldo. Mi sem brav a di scorgere due occhi neri nel grano, proprio sotto la cim a, m a erano solo m acchie di luce, delle pieghe del terreno. Il sole av ev a com inciato a scendere e sm orzarsi. L'om bra della collina copriv a lentam ente la pianura. Potev o salire. Ma la v oce di papà m i trattenev a. «Ascoltam i bene. Se torni lì lo uccidono. Lo hanno giurato». Chi? Chi lo av ev a giurato? Chi lo uccidev a? Il v ecchio? No. Non lui. Lui non era abbastanza potente. Loro, i giganti di terra. I signori della collina. Ora erano stesi nei cam pi ed erano inv isibili, m a di notte si sv egliav ano e attrav ersav ano la cam pagna. Se adesso andav o da Filippo, non im portav a che era giorno, si sarebbero sollev ati com e onde dell'oceano e sarebbero arriv ati lì e av rebbero scaricato la loro terra nel buco e lo av rebbero seppellito. Torna indietro, Michele. Torna indietro, m i ha detto la v ocina di m ia sorella. Ho girato la bicicletta e m i sono lanciato nel grano, tra le buche, pedalando com e un disperato e sperando di passargli sopra la schiena a quei m aledetti m ostri. Ero nascosto sotto una roccia del torrente secco. Sudav o. Le m osche non m i lasciav ano in pace. Il Teschio li av ev a stanati tutti. Ero rim asto solo io. Ora si facev a difficile. Dov ev o uscire di corsa, senza ferm arm i m ai, tagliate il cam po di stoppie, arriv are fino al carrubo e urlare: — Tana libera tutti! Ma il Teschio era lì, v icino all'albero, di punta com e un segugio, e quando m i av rebbe v isto correre si sarebbe lanciato pure lui e con quattro falcate m i av rebbe fregato. Dov ev o correre e basta, e se ce la facev o, bene, e se non ce la facev o, chi se ne im portav a. Stav o per m uov erm i, quando un'om bra nera m i è calata addosso. Il Teschio! Era Salv atore. — Spostati, sennò m i v ede. E qui v icino. Gli ho fatto spazio e si è infilato sotto la roccia pure lui.' Senza v olere, m i è uscito: — Gli altri? — — Li ha pigliati tutti. Siam o rim asti solo io e te. Era la prim a v olta che ci parlav am o dal giorno di Felice. Il Teschio m i av ev a chiesto perché ci av ev o litigato. «Non abbiam o litigato. E che Salv atore m i sta antipatico», av ev o risposto io. Il Teschio m i av ev a poggiato un braccio sulle spalle. «Brav o. Quello è uno stronzo». Salv atore si è asciugato il sudore dalla fronte. — Chi v a a fare tana? — Vacci tu. — Perché? — Perché sei più v eloce. — Io corro più v eloce se è lontano, m a fino al carrubo sei più v eloce tu. Sono stato zitto. — Ho un'idea, — ha proseguito. — Usciam o insiem e, tutti e due. Quando arriv a il Teschio io m i m etto in m ezzo e tu corri al carrubo. Così lo freghiam o . Che ne dici? — E una buona idea. Solo che tana la faccio io e tu perdi. — Non fa niente. È l'unico m odo per fotterlo a quel fesso. Ho sorriso. Mi ha guardato e m i ha allungato la m ano. — Pace? — Va bene —. Gliel'ho stretta. — Lo sai che la Destani non sta più in classe nostra? Quest'anno v iene una m aestra nuov a. — Chi te l'ha detto? — Mia zia ha parlato con il preside. Dice che è bella. E forse non scassa com e la Destani. Ho strappato un ciuffo d'erba. — Tanto per m e è uguale. — Perché? — Perché ce ne andiam o v ia da Acqua Trav erse. Salv atore m i ha guardato sorpreso. — E dov e andate? — Al Nord. — Dov e? Ho tirato lì. — A Pav ia. — E dov e sta Pav ia? Ho sollev ato le spalle. — Non lo so. Ma v iv rem o in un palazzo, all'ultim o piano. E papà si com pra pure la 1 3 1 Mirafiori. E v ado a scuola lì. Salv atore ha preso un sasso e se l'è passato da una m ano all'altra. — E non torni più? — No. — E non la v edi la m aestra? Ho guardato a terra. — No. Ha sussurrato. — Mi dispiace —. Mi ha guardato. — Pronto? — Pronto. — Allora andiam o. E non ti ferm are m ai. Al tre. — Uno, due e tre, — e siam o scattati. — Eccoli! Eccoli lì! — ha urlato Rem o, appollaiato sul carrubo. Ma il Teschio non ha potuto nulla, erav am o troppo v eloci. Abbiam o sbattuto insiem e contro l'albero e abbiam o strillato. — Tana libera tutti! 9. Ci erav am o sv egliati e tutto era v elato di grigio. Facev a caldo, era um ido, e sbuffi im prov v isi d'aria sm uov ev ano l'afa. Nella notte delle nuv ole grosse e nerv ose si erano accum ulate sull'orizzonte e av ev ano com inciato ad av anzare su Acqua Trav erse. Siam o rim asti incantati a guardarle. Ci erav am o dim enticati che dal cielo potev a scendere acqua. Ora stav am o sotto il capannone. Ero sdraiato sui sacchi di grano, con la testa nelle m ani, tranquillo, a guardare le v espe che costruiv ano un alv eare. Gli altri si erano m essi seduti in cerchio accanto all'aratro. Salv atore era sbracato sul seggiolino di ferro del trattore, con i piedi poggiati sul v olante. Am av o quelle v espe. Rem o gli av ev a buttato giù la casa a pietrate alm eno dieci v olte, m a quelle testarde tornav ano sem pre a ricostruirla nello stesso posto, all'angolo tra due tralicci e una grondaia. Im pastav ano la paglia e il legno con la saliv a e ci costruiv ano un alv eare che sem brav a di cartone. Gli altri chiacchierav ano, m a io non li stav o a sentire. Il Teschio com e al solito parlav a a v oce alta e Salv atore ascoltav a in silenzio. Mi sarebbe piaciuto se si m ettev a a piov ere, nessuno ne potev a più della siccità. Ho sentito Barbara dire: — Perché non andiam o a Lucignano a prendere il gelato? Ho i soldi. — Ce l'hai pure per noi i soldi? — No. Non bastano. Forse per due coppette. — E allora che ci v eniam o a fare a Lucignano, noi? A v edere te che ti riem pi di gelato e div enti ancora più grossa? Perché quelle v espe facev ano l'alv eare? Chi gli av ev a insegnato a farlo? «Lo sanno. È nella loro natura», m i av ev a risposto papà una v olta che glielo av ev o chiesto. Mia sorella m i si è av v icinata e ha detto: — Io v ado a casa. Tu che fai? — Sto qua. — Vabbe'. Mi v ado a fare pane, burro e zucchero. Ciao —. Se n'è andata seguita da Togo. E qual era la m ia natura? Che sapev o fare io? — Allora? — ha chiesto Rem o. — Facciam o una partita a ruba bandiera? Sapev o arram picarm i sul carrubo. Questo lo sapev o fare bene e nessuno m e lo av ev a insegnato. Il Teschio si è alzato, ha dato un calcio al pallone e lo ha spedito dall'altra parte della strada. — Ragazzi, ho una grande idea. Perché non andiam o al posto dell'altra v olta? Forse potev o raggiungere Maria e farm i una fetta di pane, burro e zucchero pure io, m a non av ev o fam e. — Dov e? — Sulla m ontagna. — Quale m ontagna? — Alla casa abbandonata. Dav anti alla fattoria di Melichetti. Mi sono v oltato. Il corpo im prov v isam ente si è risv egliato, il cuore ha preso a m arciarm i nel petto e lo stom aco si è strizzato. Barbara era poco conv inta. — Che ci andiam o a fare? È lontano. E se si m ette a piov ere? Il Teschio le ha fatto il v erso. — E se si m ette a piov ere? Ci bagnam o! E poi nessuno ti ha chiesto di v enire. Neanche Rem o sem brav a entusiasta. — Che ci andiam o a fare? — Esploriam o la casa. L'altra v olta ci è entrato solo Michele. Rem o m i ha detto qualcosa. L'ho guardato. — Cosa? Non ho capito? — Che c'è dentro la casa? — m i ha chiesto. — Com e? — Che c'è dentro la casa? Non riusciv o a parlare, non av ev o più saliv a. Ho balbettato. — Niente… Non lo so… — Av ev o la sensazione che un liquido gelato m i scendev a dalla testa, nel collo e lungo i fianchi. — Un po' di m obili v ecchi, una cucina, roba così. Il Teschio ha chiesto a Salv atore: — Andiam o? — No, non m i v a, — Salv atore ha scosso la testa. — Barbara ha ragione, è lontano. — Io ci v ado. Ci possiam o fare la nostra base se g r e t a —. Il Teschio ha preso la bicicletta appoggiata al trattore. — Chi v uole v enire v iene. Chi non v uole v enire, non v iene —. Ha dom andato a Rem o: — Tu che fai? — Vengo —, Rem o si è alzato e ha chiesto a Barbara: — Tu v ieni? — Se non si fanno gare. — Niente gare, — ha assicurato il Teschio e ha dom andato di nuov o a Salv atore. — Tu allora non v ieni? Io aspettav o, senza dire niente. — Io sto con Michele, — ha fatto Salv atore, e guardandom i negli occhi m i ha chiesto: — Tu che fai, ci v ai? Mi sono m esso in piedi e ho detto: — Sì, ci v ado. Salv atore è saltato giù dal trattore. — Va bene, andiam o. Av anzav am o di nuov o, tutti quanti, com e la prim a v olta, v erso la collina. Pedalav am o in fila indiana. Mancav a solo m ia sorella. C'era un'atm osfera pesante e il cielo av ev a un colore innaturale, scarlatto. Le nuv ole, prim a am m assate sull'orizzonte, ora si accalcav ano sopra di noi e si spingev ano una contro l'altra com e orde di Unni prim a della battaglia. Erano grosse e cupe. Il sole era opaco e torbido com e se un filtro lo scherm asse. Non facev a né caldo né freddo, m a tirav a v ento. Ai lati della strada e sui cam pi la paglia era chiusa nelle balle, disposte com e pedine su una scacchiera. Dov e non era passata la m ietitrebbia, si form av ano lunghe onde che spettinav ano il grano. Rem o guardav a preoccupato l'orizzonte. — Ora si m ette a piov ere. Più m i av v icinav o alla collina più m i sentiv o m ale. Un peso m i prem ev a sullo stom aco. I resti della colazione si rotolav ano nella pancia. Mi m ancav a l'aria e un v elo di sudore m i bagnav a la schiena e il collo. Che stav o facendo? Ogni pedalata era un pezzo di giuram ento che si sbriciolav a. «Ascoltam i, Michele, non ci dev i tornare più. Se torni lì, lo uccidono. Per colpa tua». «Non ci torno più». «Giuralo sulla m ia testa». «Te lo giuro». «Di', giuro sulla tua testa che non ci torno più». «Giuro sulla tua testa che non ci torno più». Stav o rom pendo il giuram ento, andav o da Filippo e se m i trov av ano lo av rebbero am m azzato. Volev o tornare indietro, m a le gam be pedalav ano e una forza irresistibile m i trascinav a v erso la collina. Un tuono lontano ha lacerato il silenzio. — Torniam o a casa, — ha detto Barbara com e se av esse sentito i m iei pensieri. Ho boccheggiato. — Sì, torniam o a casa. Il Teschio ci è passato accanto sghignazzando. — Se v i cagate sotto per un po' d'acqua, andate a casa, che è m eglio. Io e Barbara ci siam o guardati e abbiam o continuato a spingere. Il v ento crescev a. Alitav a sui cam pi e sollev av a la pula in aria. Era dura tenere le biciclette dritte, le raffiche ci spingev ano fuori dalla strada. — Eccoci. Era lontano, eh? — ha detto il Teschio sgom m ando sul pietrisco. Il sentiero che portav a alla casa era lì dav anti. Salv atore m i ha guardato e m i ha chiesto: — Andiam o? — Sì, andiam o. Abbiam o com inciato la salita. Faticav o a stare al passo con gli altri. Red Dragon era una fregatura. Non lo v olev o am m ettere, m a era così. Se ti tirav i su, ti trov av i il m anubrio in bocca e se cam biav i m arcia, se ne usciv a la catena. Per non rim anere indietro dov ev o usare il rapporto più duro. Dai cam pi, alla nostra destra, si è alzato uno storm o di corv i. Gracchiav ano e v olteggiav ano ad ali spiegate, trascinati dalle correnti. Il sole era inghiottito dal grigio e di colpo sem brav a sera. Un tuono. Un altro. Ho guardato le nuv ole che rotolav ano e si av v olgev ano una sull'altra. Una ogni tanto s'illum inav a com e se dentro ci fosse esploso un fuoco d'artificio. Stav a arriv ando il tem porale. E se Filippo era m orto? Un cadav ere bianco accucciato in fondo a un buco. Coperto di m osche e gonfio di larv e e v erm i; le m ani rinsecchite e le labbra dure e grigie. No, non era m orto. E se non m i riconoscev a? Se non m i v olev a più parlare? «Filippo, sono Michele. Sono tornato. Te lo av ev o giurato, sono tornato». «Tu non sei Michele. Michele è m orto. E sta in un buco com e m e. Vattene». Dav anti a noi si è schiusa la v alletta.. Era cupa e silenziosa. Gli uccelli e i grilli tacev ano. Quando siam o passati tra le querce una goccia grossa e pesante m i ha colpito la fronte, un'altra il braccio e un'altra la spalla e il tem porale ci si è rov esciato addosso. Ha com inciato a piov ere fitto e teso. L'acquazzone sferzav a le cim e degli alberi e il v ento soffiav a tra i ram i, fischiav a tra le foglie e la terra si succhiav a l'acqua com e una spugna secca e le gocce rim balzav ano contro la terra asciutta e spariv ano e i fulm ini cadev ano sui cam pi. — Ripariam oci! — ha urlato il Teschio. — Corriam o. Correv am o, m a tanto erav am o già zuppi. Ho rallentato, se v edev o la 1 2 7 o qualcosa di strano, m e la dav o a gam be. Macchine non ce n'erano e non ho notato niente di strano. Si sono infilati dentro la stalla. Il buco era là, dietro i rov i, v olev o correre e scoperchiarlo e v edere Filippo, m a m i sono costretto a seguirli. Gli altri erano in piedi e saltav ano, eccitati dal tem porale. Ci siam o tolti le m agliette e le abbiam o strizzate. Barbara era obbligata a tirarsi in av anti la cam icia, sennò le si v edev ano le tette. Tutti ridev ano nerv osi e si m assaggiav ano le braccia infreddolite, e guardav ano fuori. Sem brav a che il cielo si fosse bucato. Nel fragore dei tuoni, i lam pi univ ano le nuv ole con la terra. Il piazzale, in pochi m inuti, si è riem pito di pozzanghere e dai fianchi della v alle colav ano rigagnoli sporchi di terra rossa. Filippo dov ev a m orirsi di paura. Tutta quell'acqua si infilav a dentro il buco e se non sm ettev a presto potev a annegarlo. Il rum ore della pioggia sulla lastra lo stav a assordando. Dov ev o andare da lui. — Sopra c'è una m oto, — ho sentito che dicev a là m ia v oce. Si sono girati tutti a guardarm i. — Sì, c'è una m oto… Il Teschio è saltato in piedi com e se si fosse seduto su un form icaio. — Una m otocicletta? — Sì. — Dov e sta? — Al piano di sopra. Nell'ultim a stanza. — E che ci fa? Ho sollev ato le spalle. — Non lo so. — Secondo te v a ancora? — Potrebbe. Salv atore m i ha guardato, av ev a un sorriso beffardo sulle labbra. — E perché non ce lo hai detto m ai? Il Teschio ha storto la testa. — Giusto! Perché non ce lo hai detto, eh? Ho inghiottito. — Perché non m i andav a. Av ev o fatto la penitenza. Un lam po di com prensione gli ha attrav ersato gli occhi. — Andiam ola a v edere. Pensa se funziona… Il Teschio, Salv atore e Rem o si sono gettati fuori dalla stalla, di corsa, riparandosi la testa con le m ani e spintonandosi dentro le pozzanghere. Barbara si è av v iata, m a si è ferm ata sotto la pioggia. — Tu non v ieni? — Arriv o. Tu v ai. L'acqua le av ev a lisciato i capelli che le cadev ano giü com e spaghetti sporchi. — Non v uoi che ti aspetto? — No, v ai. Arriv o subito. — Va bene —. Si è m essa a correre. Ho fatto il giro della casa e sono passato tra í rov i. Il cuore m i battev a nei tim pani e le gam be m i si piegav ano. Sono entrato nel piazzale. Si era trasform ato in un pantano frustato dalla pioggia. Il buco era aperto. Non c'era più la lastra v erde e nem m eno il m aterasso. L'acqua m i colav a addosso, m i sciv olav a dentro i pantaloncini e le m utande e i capelli m i si incollav ano alla fronte e il buco era li, una bocca nera nella terra scura, e io m i av v icinav o, respirav o appena, stringev o i pugni, m entre intorno a m e il cielo cadev a e ondate di dolore incandescente m i av v olgev ano la gola. Ho chiuso e riaperto gli occhi sperando che qualcosa cam biasse. Il buco era ancora lì. Nero com e il buco di un lav andino. Barcollando, m i sono av v icinato. I piedi nel fango. Mi sono passato una m ano sulla faccia per asciugarm ela. Quasi crollav o a terra, m a continuav o ad av anzare. Non c'è. Non guardare. Vattene v ia. Mi sono ferm ato. Vai. Vai a v edere. Non ce la faccio. Mi sono guardato i sandali coperti di m elm a. Fai un passo, m i sono detto. L'ho fatto. Fanne un altro. L'ho fatto. Brav o. Un altro e un altro ancora. E ho v isto l'orlo del buco dav anti ai m iei piedi. Ci sei. Ora bisognav a solo guardarci dentro. Ho av uto la certezza che lì dentro non c'era più nessuno. Ho sollev ato la testa e ho guardato. Era così. Non c'era più niente. Nem m eno il secchio e il pentolino. Solo acqua sporca e una coperta zuppa. Se lo erano portati v ia. Senza dirm i niente. Senza av v ertirm i. Se n'era andato e io non lo av ev o nem m eno salutato. Dov e stav a? Non lo sapev o, m a sapev o che era m io e che m e lo av ev ano portato v ia. — Dov e sei? — ho urlato alla pioggia. Sono caduto in ginocchio. Ho im m erso le dita nel fango e l'ho strizzato nelle m ani. — La m oto non esiste. Mi sono v oltato. Salv atore. Era in piedi. A qualche m etro da m e, la cam icia zuppa, i pantaloni sporchi di fango. — La m oto non esiste, v ero? Ho gorgogliato un no. Ha indicato il buco. — Stav a là? Ho fatto segno di sì con la testa, e ho balbettato. — Lo hanno portato v ia. Salv atore si è av v icinato, ha guardato dentro e m i ha fissato. — Io lo so dov e sta. Ho sollev ato lentam ente il capo. — Dov e sta? — Sta da Melichetti. Giù nella grav ina. — Com e lo sai? — L'ho sentito ieri. Papà parlav a con tuo padre e con quello di Rom a. Mi sono m esso dietro la porta dello studio e li ho sentiti. Lo hanno spostato. Lo scam bio non è riuscito, hanno detto —. Si è tirato indietro la frangetta bagnata. — Hanno detto che questo posto non è più sicuro. Il tem porale è passato. Veloce, così com e era scoppiato. Era distante oram ai. Una m assa scura che av anzav a sulla cam pagna inzuppandola e proseguiv a per la sua strada. Scendev am o per il sentiero. L'aria era così pulita che lontano, oltre la pianura ocra, si v edev a una strisciolina v erde. Il m are. Era la prim a v olta che lo v edev o da Acqua Trav erse. L'acquazzone av ev a lasciato un odore di erba e terra bagnata e un poco di fresco. Le nuv ole rim aste nel cielo erano bianche e sfilacciate e lam e di un sole accecante tagliav ano la pianura. Gli uccelli av ev ano ripreso a cantare, sem brav a ci fosse una gara canora. Al Teschio av ev o detto che gli av ev o fatto uno scherzo. — Bello scherzo del cazzo, — av ev a risposto. Ho av uto il presentim ento che nessuno ci sarebbe più salito su quella collina, era troppo lontana, e non c'era niente di bello in quel v ecchio rudere. E quella v alletta nascosta portav a m ale. Filippo era finito da Melichetti con i m aiali, perché lo scam bio non era riuscito e perché il buco non era più sicuro, così av ev ano detto. E non c'entrav ano niente i signori della collina e i m ostri che m i inv entav o io. «Piantala con questi m ostri, Michele. I m ostri non esistono. Dev i av ere paura degli uom ini, non dei m ostri». Così m i av ev a detto papà. Era colpa sua. Non lo av ev a m ollato e non lo av rebbe m ollato m ai. I gatti quando catturano le lucertole ci giocano, ci giocano pure se la lucertola è tutta aperta e con le budella di fuori e senza la coda. La inseguono calm i, si siedono e la colpiscono e ci si div ertono fino a quando la lucertola non m uore, e quando è m orta la toccano appena con la zam pa, com e se gli facesse schifo, e quella non si m uov e più e allora la guardano e se ne v anno. Un rom bo assordante, un frastuono m etallico ha spezzato la quiete e ha coperto tutto. Barbara ha urlato indicando il cielo. — Guardate! Guardate! Da dietro la collina sono apparsi due elicotteri. Due libellule di ferro, due grosse libellule blu con scritto sui fianchi Carabinieri. Si sono abbassati su di noi e noi abbiam o com inciato a sbracciarci e a urlare, si sono affiancati, hanno girato nello stesso m om ento, com e se ci v olessero far v edere quanto erano brav i, e poi hanno planato sui cam pi, sono v olati sopra Acqua Trav erse e sono scom parsi all'orizzonte. I grandi non c'erano più. Le m acchine stav ano lì, m a loro non c'erano. Le case v uote, le porte aperte. Correv am o tutti da una casa all'altra. Barbara era agitata. — Da te c'è qualcuno? —No. E da te? — Nem m eno. — Dov e sono? — Rem o av ev a il fiatone. — Ho guardato pure nell'orto. — Che facciam o? — ha chiesto Barbara. Ho risposto: — Non lo so. Il Teschio cam m inav a al centro della strada, con le m ani in tasca e lo sguardo truce, com e un pistolero in un v illaggio fantasm a. — Chi se ne frega. Meglio. Aspettav o da tanto tem po che se ne andav ano tutti a fare in culo —. E ha sputato. — Michele! Mi sono v oltato. Mia sorella era in m utande e canottiera, fuori dal capannone, con le sue Barbie in m ano e con Togo che la seguiv a com e un'om bra. Sono corso da lei. — Maria! Maria! Dov e stanno i grandi? Mi ha risposto tranquilla. — A casa di Salv atore. — Perché? Ha indicato il cielo. — Gli elicotteri. — Com e? — Sì, sono passati gli elicotteri, e dopo sono usciti tutti in strada e urlav ano e sono andati a casa di Salv atore. — Perché? — Non lo so. Mi sono guardato intorno. Salv atore non c'era più. — E tu che ci fai qui? — Mam m a ha detto che dev o aspettare qui. Mi ha chiesto dov 'eri andato. — E tu che le hai detto? — Che eri andato sulla m ontagna. I grandi sono rim asti a casa di Salv atore tutta la sera. Noi aspettav am o nel cortile, seduti sul bordo della fontana. — Quando finiscono? — m i ha chiesto Maria per la centesim a v olta. E io per la centesim a v olta le ho risposto: — Non lo so. Ci av ev ano detto di aspettare, stav ano parlando. Barbara saliv a le scale e bussav a alla porta ogni cinque m inuti, m a nessuno apriv a. Era pr eoccu pata. — Ma di che parlano per così tanto tem po? — Non lo so. Il Teschio se n'era andato insiem e a Rem o. Salv atore era dentro, di sicuro rintanato in cam era sua. Barbara m i si è seduta accanto. — Ma che sta succedendo? Ho sollev ato le spalle. Mi ha guardato. — Che hai? — Niente. Sono stanco. — Barbara! — Angela Mura era affacciata alla finestra. — Barbara, v ai a casa. Barbara ha chiesto: — Quando v ieni? — Presto. Corri. Barbara ci ha salutato e se n'è andata m ogia m ogia. — Mia m am m a quando esce? — ha chiesto Maria ad Angela Mura. Ci ha guardato e ha detto: — Andate a casa e m angiate da soli, arriv a presto —. Ha richiuso la finestra. Maria ha fatto no con la testa. — Io non ci v ado, io aspetto qua. Mi sono alzato. — Andiam o, che è m eglio. — No! — Forza. Dam m i la m ano. Ha incrociato le braccia. — No! Io rim ango qui tutta la notte, non m i im porta. — Dam m i la m ano, su. Si è aggiustata gli occhiali e si è m essa in piedi. — Io però non dorm o. — E non dorm ire. E, m ano nella m ano, siam o tornati a casa. 10. Urlav ano così forte che ci hanno sv egliato. Ci erav am o abituati a tutto. Alle riunioni notturne, al rum ore, alla v oce alta, ai piatti rotti, m a ora urlav ano troppo. — Perché strillano così? — m i ha chiesto Maria stesa sul suo letto. — Non lo so. — Che ore sono? — Tardi. Era notte fonda, la stanza era buia ed erav am o in cam era nostra, sv egli com e grilli. — Falli sm ettere, — si è lam entata Maria. — Mi dànno fastidio. Digli di strillare più piano. — Non posso. Cercav o di capire che dicev ano, m a le v oci si m ischiav ano. Maria m i si è sdraiata accanto. — Ho paura. — Loro hanno paura. — Perché? — Perché urlano. Quelle urla erano com e i soffi dei ram arri. I ram arri quando non possono più scappare e li stai per prendere, spalancano la bocca, si gonfiano e soffiano e cercano di farti paura perché loro hanno più paura di te, tu sei il gigante, e l'ultim a cosa che gli rim ane è cercare di spav entarti. E se tu non lo sai che sono buoni, che non fanno niente, che è una finta, non li tocchi. Si è aperta la porta. Per un istante la stanza si è illum inata. Ho v isto la figura nera di m am m a, e dietro il v ecchio. Mam m a ha richiuso la porta. — Siete sv egli? — Sì, — le abbiam o risposto. Ha acceso la luce sul com odino. In m ano stringev a un piatto con del pane e del form aggio. Si è seduta sul bordo del letto. — Vi ho portato da m a ngia r e —. Parlav a piano, con la v oce stanca. Av ev a le occhiaie, i capelli in disordine ed era sciupata. — Mangiate e m ettetev i a dorm ire. — Mam m a…? — ha detto Maria. Mam m a ha poggiato il piatto sulle ginocchia. — Che c'è? — Che succede? — Niente —. Mam m a cercav a di tagliare il form aggio, m a la m ano le trem av a. Non era brav a a recitare. — Ora m angiate e poi… — Si è piegata, ha poggiato il piatto a terra e si è m essa una m ano in faccia e ha com inciato a piangere in silenzio. — Mam m a… Mam m a… Perché piangi? — Maria è scoppiata a singhiozzare. Anch'io sentiv o un groppo che m i si gonfiav a nella gola. Ho detto: — Mam m a? Mam m a? Ha sollev ato la testa e m i ha guardato con gli occhi rossi e lucidi. — Che c'è? — E m orto, v ero? Mi ha dato uno schiaffo sulla guancia e m i ha sbatacchiato com e se fossi di pezza. — Nessuno è m orto! Nessuno è m orto! Capito? — Ha fatto una sm orfia di dolore e ha sussurrato. — Tu sei troppo piccolo… — Ha spalancato la bocca e m i ha stretto al petto. Ho com inciato a piangere. Ora piangev am o tutti. Di là il v ecchio urlav a. Mam m a l'ha sentito e si è scostata da m e. — Ora basta! — Si è asciugata le lacrim e. Ci ha dato due fette di pane. — Mangiate. Maria ha affondato i denti nel pane, m a non potev a ingoiare, scossa com 'era dai singhiozzi. Mam m a le ha strappato la fetta dalle m ani. — Non av ete fam e? Non fa niente —. Ha preso il piatto. — Mettetev i giù —. Ha tirato v ia i cuscini e ha spento la luce. — Se v i danno fastidio i rum ori, infilate la testa qua sotto. Forza! — Ce li ha poggiati sul capo. Ho prov ato a liberarm i. — Mam m a, ti prego. Non respiro. — Ubbidite! — Ha ringhiato e ha prem uto forte. Maria era disperata, sem brav a che la stav ano sgozzando. — Finiscila! — Mam m a ha urlato cosi forte, che per un istante pure di là hanno sm esso di litigare. Ho av uto paura che la picchiav a. Maria si è azzittita. Se ci m uov ev am o, se parlav am o, m am m a ripetev a com e un disco rotto: — Sssst! Dorm ite. Io ho fatto finta di dorm ire e ho sperato che anche Maria facesse lo stesso. E dopo un po' si è placata pure lei. Mam m a è rim asta così per tanto tem po, ero sicuro che sarebbe stata tutta la notte con noi, m a si è alzata. Pensav a che dorm iv am o. Ha chiuso la porta ed è uscita. Ci siam o tolti i cuscini. Era buio, m a il riflesso fioco del lam pione in strada rischiarav a la stanza. Mi sono alzato. Maria si è m essa a sedere, si è infilata gli occhiali e, tirando su con il naso, m i ha chiesto: — Che fai? Mi sono poggiato un dito sul naso. — Zitta. Ho m esso l'orecchio sulla porta. Continuav ano a discutere, più piano ora. Sentiv o la v oce di Felice e del v ecchio, m a non capiv o niente. Ho prov ato a guardare dal buco della serratura, m a si v edev a il m uro. Ho afferrato la m aniglia. Maria si è m orsa la m ano. — Che fai, sei pazzo? — Zitta! — Ho aperto uno spiraglio. Felice era in piedi, v icino alla cucina. Addosso portav a una tuta v erde, la zip abbassata fin sotto le costole lasciav a scorgere i pettorali gonfi. Av ev a lo sguardo fisso e la bocca socchiusa sui dentini da latte. Si era rapato i capelli a zero. — Io? — ha detto m ettendosi una m ano sul petto. — Sì, tu, — ha fatto il v ecchio. Era seduto a tav ola, con una gam ba poggiata su un ginocchio, una sigaretta tra le dita e un sorriso perfido sulla bocca. — Io sarei frocio? Recchione? — ha chiesto Felice. Il v ecchio ha conferm ato. — Esattam ente. Felice ha storto la testa. — E… E com e lo av resti scoperto? — Si v ede da tutto. Sei frocio. Non c'è niente da fare. E… — Il v ecchio ha fatto un tiro. — Lo sai qual è la cosa peggiore? Felice ha aggrottato le sopracciglia, interessato. — No, qual è? Sem brav ano due am ici che si fanno confidenze segrete. Il v ecchio ha spento la cicca nel piatto. — E che non lo sai. Questo è il tuo problem a. Sei nato frocio e non lo sai. Hai una certa età, non sei più un pischello. Renditi conto. Staresti m eglio. Faresti quello che fanno i froci, ossia prenderlo in culo. Inv ece ci fai il duro, ci fai l'uom o, parli e straparli, m a tutto quello che fai e dici suona falso, suona frocio. Papà stav a in piedi e sem brav a seguire il discorso, m a era da un'altra parte. Il barbiere era poggiato alla porta com e se la casa dov esse cadere da un m om ento all'altro e m am m a, seduta sul div ano, guardav a, con un'espressione v uota, la telev isione con il v olum e a zero. Il lam padario era av v olto da una nube di m oscerini che cadev ano neri e stecchiti sui piatti bianchi. — Ascoltatem i, ascoltatem i, ridiam oglielo. Ridiam oglielo, — se n'è uscito papà all'im prov v iso. Il v ecchio lo ha guardato, ha scosso la testa e ha sorriso. — Tu sta' buono, che è m eglio. Felice ha guardato papà, poi si è av v icinato al v ecchio. — Io sarò pure recchione, m a tu intanto, pezzo di m erda di un rom ano, ti prendi questo cazzotto —. Ha sollev ato un braccio e gli ha dato un pugno in bocca. Il v ecchio è stram azzato a terra. Ho fatto due passi indietro e m i sono m esso le m ani nei capelli. Felice av ev a picchiato il v ecchio. Ho com inciato a trem are e m i è salito su il v om ito, m a non ho potuto fare a m eno di tornare a guardare. In cucina, papà urlav a. — Che cazzo fai? Sei im pazzito? — Av ev a afferrato Felice per un braccio e cercav a di tirarlo v ia. — Mi ha detto che sono recchione, questo bastardo. .. — Felice stav a per m ettersi a frignare. — Io lo am m azzo… Il v ecchio era a terra. Mi facev a pena. Volev o aiutarlo e non potev o. Tentav a di risollev arsi, m a gli sciv olav ano i piedi sul pav im ento e le braccia non lo sostenev ano. Dalla bocca gli colav a sangue e saliv a. Gli occhiali che portav a sulla testa ora stav ano sotto il tav olo. Continuav o a guardargli quei polpacci bianchi, secchi e senza peli che spuntav ano dai pantaloni di tela azzurra. Si è attaccato con le m ani al bordo del tav olo e lentam ente si è tirato su e si è m esso in piedi. Ha preso un tov agliolo e se l'è prem uto sulla bocca. Mam m a piangev a sul div ano. Il barbiere era inchiodato alla porta com e se av esse v isto il diav olo. Felice ha fatto due passi v erso il v ecchio nonostante papà cercasse di trattenerlo. — Allora? Secondo te questo è un pugno di un recchione, eh? Dim m i un'altra v olta che sono recchione e giuro che da terra non ti rialzi m ai più. Il v ecchio si è seduto su una sedia e con il tov agliolo si tam ponav a uno spacco enorm e sul labbro. Poi ha sollev ato la testa e ha guardato fisso Felice, e ha detto con v oce ferm a: — Se sei un uom o dim ostralo, allora —. Un lam po m alv agio gli è balenato nello sguardo. — Av ev i detto che lo facev i tu e ti sei rim angiato tutto. Com e dicev i? Io lo apro com e un agnello, non c'è problem a, io non ho paura. Io sono paracadutista. Io qua, io là. Chiacchierone, sei solo un chiacchierone. Sei peggio di un cane, non sei buono nem m eno a fare la guardia a un bam bino —. Ha sputato un fiotto di sangue sul tav olo. — Pezzo di m erda! — ha piagnucolato Felice trascinandosi dietro papà. — Io non lo faccio! Perché lo dev o fare io, perché? — Sulle guance sbarbate gli scendev ano due riv oli di lacrim e. — Aiutam i! Aiutam i! — ha urlato papà al padre di Barbara. E il barbiere si è av v entato su Felice. In due riusciv ano a m alapena a tenerlo ferm o. — Io non lo faccio, stronzo! — ha ripetuto Felice. — Io non ci v ado in galera per te. Scordatelo! Ora lo uccide, m i sono detto. Il v ecchio si è m esso in piedi. — Lo faccio io, allora. Ma sta' tranquillo, che tanto se m e ne scendo io, te ne scendi pure tu. Ti porto giù con m e, pezzente. Ci puoi stare sicuro. — Mi porti dov e, rom ano di m erda? — Felice si è fatto av anti a testa bassa. Papà e il barbiere hanno cercato di trattenerlo m a lui se li è scrollati di dosso com e forfora e si è av v entato di nuov o sul v ecchio. Il v ecchio ha tirato fuori la pistola dai pantaloni e gliel'ha poggiata sulla fronte. — Prov a a colpirm i un'altra v olta. Prov aci. Fallo, dài. Ti prego, fallo… Felice si è im m obilizzato, com e se giocasse a un due tre stella. Papà si è m esso in m ezzo. — State calm i, basta! Av ete rotto i coglioni tutti e due —. E li ha div isi. — Prov aci! Il v ecchio si è cacciato la pistola sotto la cinta. Sulla fronte di Felice è rim asto un cerchietto rosso. Mam m a, seduta in un angolo, piangev a e ripetev a con la m ano sulla bocca: — Piano! Fate piano! Fate piano! Fate piano! — Perché gli v uole sparare? Mi sono v oltato. Maria si era alzata e stav a alle m ie spalle. — Torna a letto, — le ho urlato sottov oce. Ha fatto di no con la testa. — Maria, torna a letto! Mia sorella ha strizzato la bocca e ha fatto no. Ho sollev ato una m ano, stav o per darle un ceffone, m a m i sono trattenuto. — Torna a letto e non prov are a piangere. Ha ubbidito. Papà intanto era riuscito a m etterli seduti. Lui inv ece continuav a a cam m inare, con gli occhi lucidi, una luce folle gli si era accesa dentro. — Basta. Facciam o la conta. Quanti siam o? Quattro. Alla fine, di tutti quelli che erav am o, siam o rim asti in quattro. I più fessi. Meglio. Chi perde lo am m azza. E tanto facile. — E si piglia l'ergastolo, — ha detto il barbiere m ettendosi una m ano sulla fronte. — Brav o! — Il v ecchio battev a le m ani. — Vedo che com inciam o a ragionare. Papà ha preso una scatola di fiam m iferi e l'ha m ostrata a tutti. — Ecco qua. Facciam o un gioco. Lo conoscete il tocco del soldato? Ho chiuso la porta. Conoscev o quel gioco. Nel buio ho trov ato la m aglietta e i pantaloni e m e li sono infilati. Dov 'erano finiti i sandali? Maria era sul letto e m i guardav a. — Che fai? — Niente —. Erano in un angolo. — Dov e stai andando? Me li sono infilati. — In un posto. — La sai una cosa, tu sei cattiv o, m olto cattiv o. Sono salito sul letto e da lì sul dav anzale. — Che fai? Ho guardato di sotto. — Vado da Filippo —. Papà av ev a parcheggiato il Lupetto sotto la nostra finestra, per fortuna. — Chi è Filippo? — È un am ico m io. Era alto e il telone era m arcio. Papà dicev a sem pre che ne dov ev a com prare uno nuov o. Se ci fossi caduto sopra di piedi si sarebbe strappato e m i sarei schiantato sul pianale del cam ion. — Se lo fai lo dico a m am m a. L'ho guardata. — Stai tranquilla. C'è il cam ion. Tu dorm i. Se v iene m am m a… — Che dov ev a dirle? — Dille… Dille quello che ti pare. — Ma si arrabbia. — Non im porta —. Mi sono fatto il segno della croce, ho trattenuto il respiro, ho fatto un passo e m i sono lasciato cadere a braccia aperte. Sono finito di schiena al centro del telone senza farm i neanche un graffio. Reggev a. Maria si è affacciata alla finestra. — Torna presto, ti prego. — Torno subito. Non ti preoccupare —. Sono salito sulla cabina di guida e da lì sono sceso a terra. La strada era tetra, com e quella notte senza stelle. Le case erano scure e silenziose. Le uniche finestre illum inate erano quelle di casa m ia. Il lam pione v icino alla fontana era circondato da una palla di m oscerini. Il cielo si era coperto di nuov o e Acqua Trav erse era av v olta da una coltre nera e spessa di tenebre. Ci dov ev o entrare dentro per arriv are alla fattoria di Melichetti. Dov ev o farm i coraggio. Tiger Jack. Pensa a Tiger Jack, L'indiano m i av rebbe aiutato. Prim a di fare una m ossa, dov ev o pensare a cosa av rebbe fatto l'indiano al posto m io. Questo era il segreto. Sono corso dietro casa a prendere la bicicletta. Il cuore già m i m artellav a il petto. Red Dragon era poggiata tutta spav alda e colorata sulla Scassona. Stav o per prenderla, m a m i sono detto, che sono im pazzito? Con questo trabiccolo cretino dov e v ado? Volav o sulla v ecchia Scassona. Mi incitav o. — Vai, Tiger, v ai. Ero im m erso nell'inchiostro. La strada la v edev o appena e quando non la v edev o, m e la im m aginav o. Ogni tanto il bagliore fiacco della luna riusciv a a diffondersi nella trapunta di nuv ole che copriv a il cielo e allora scorgev o per qualche istante i cam pi e le sagom e nere delle colline ai lati della carreggiata. Stringev o i denti e contav o le pedalate. Uno, due, tre, respiro… Uno, due, tre, respiro… Le gom m e frusciav ano sul pietrisco. Il v ento m i si appiccicav a in faccia com e un panno caldo. Il richiam o stridulo di una civ etta, l'abbaio di un cane lontano. C'era silenzio. Ma sentiv o lo stesso i loro bisbigli nelle tenebre. Me li im m aginav o ai bordi della strada, degli esseri piccoli, con le orecchie da v olpe e gli occhi rossi, che m i osserv av ano e discutev ano tra loro. Guarda! Guarda, un ragazzino! Che ci fa di notte da queste parti? Pigliam olo! Sì, sì, sì, è buono… Pigliam olo! E dietro c'erano i signori delle colline, i giganti di terra e spighe che m i seguiv ano, aspettando solo che finiv o fuori strada per v enirm i sopra e seppellirm i. Li sentiv o respirare. Facev ano lo stesso suono del v ento nel grano. Il segreto era rim anere al centro della strada, m a dov ev o essere pronto a tutto. Lazzaro non av ev a paura di niente. Lo v edrai, m i sono detto. Nella notte Lazzaro era lum inoso. Si accendev a e si spegnev a com e l'insegna del bar La Perla di Lucignano. E quando si accendev a si v edev ano le form iche cam m inargli nelle v ene. Non andav a v eloce, di questo ero sicuro, e se si fosse m esso a correre sarebbe caduto a pezzi. L'im portante era passargli a lato, senza ferm arsi, senza rallentare. — Filippo… sto arriv ando… Filippo… arriv o… — m i ripetev o ansim ando di fatica. Mentre m i av v icinav o alla fattoria un terrore nuov o, ancora più soffocante, m i crescev a dentro. Sulla nuca av ev o i capelli dritti com e aghi. I m aiali di Melichetti. I signori delle colline e com pagnia bella m i terrorizzav ano, m a sapev o che non esistev ano, che m e li inv entav o io, che non ne potev o parlare con nessuno perché m i av rebbero preso in giro, dei m aiali inv ece ne potev o parlare benissim o perché esistev ano v eram ente ed erano affam ati. Di carne v iv a. «Il bassotto ha prov ato a scappare, m a i m aiali non gli hanno dato scam po. Massacrato in due secondi». Così av ev a detto il Teschio. Forse di notte Melichetti li lasciav a liberi Si aggirav ano intorno alla fattoria, enorm i, cattiv i, con le zanne affilate e i nasi all'aria. Più m i ci tenev o lontano da quelle bestiacce e m eglio era. In lontananza una luce fioca è apparsa nelle tenebre. La fattoria. Ero quasi arriv ato. Ho frenato. Il v ento non c'era più. L'aria era ferm a e calda. Dalla grav ina poco distante arriv av a il suono dei grilli. Sono sceso dalla bicicletta e l'ho buttata tra i rov i, accanto alla strada. Non si v edev a niente.? Av anzav o v eloce respirando appena, e continuav o a gettarm i occhiate alle spalle. Tem ev o che l'artiglio affilato di un m ostro m i affondasse nel collo. Ora che ero a piedi c'erano un sacco di rum ori, fruscii, tonfi, suoni strani. Intorno av ev o una m assa nera e com patta che prem ev a contro la strada. Mi sono bagnato le labbra secche, av ev o un sapore am aro in bocca. Il cuore m i m artellav a in gola. Ho poggiato la suola del sandalo su una roba v iscida, ho sobbalzato, ho lanciato un gridolino strozzato e sono finito a terra grattugiandom i un ginòcchio. — Chi è? Chi è? — ho balbettato e m i sono appallottolato, aspettandom i di essere av v iluppato dai tentacoli gelatinosi e urticanti di una m edusa. Due tonfi sordi e un «Buà buà buà». Un rospo! Av ev o pestato un rospo del grano. Quel cretino si era m esso in m ezzo alla strada. Mi sono rialzato e zoppicando ho proseguito v erso la lucina. Non m i ero portato neanche una torcia. Av rei potuto prendere quella che stav a nel cam ion di papà. Quando sono arriv ato ai bordi del cortile, m i sono nascosto dietro un albero. La casa era a un centinaio di m etri. Le finestre erano buie. Solo una lam padina pendev a di fianco alla porta e illum inav a un pezzo di m uro scrostato e il dondolo arrugginito. Poco oltre, nell'oscurità, c'erano i recinti dei m aiali. Già da lì sentiv o l'odore ributtante dei loro escrem enti. Dov e potev a stare Filippo? Giù nella grav ina, av ev a detto Salv atore. Dentro quel lungo canalone c'ero andato un paio di v olte d'inv erno con papà a cercare i funghi. Era tutto rocce, buchi e pareti di pietra. Se passav o per i cam pi, arriv av o sul bordo della grav ina e da lì potev o scendere sul fondo senza dov erm i av v icinare troppo alla casa. Era un buon piano. Ho attrav ersato il cam po di corsa. Av ev ano tagliato il grano. Di giorno, senza le spighe, m i av rebbero v isto, m a ora, senza la luna, ero al sicuro. Mi sono ferm ato sul pizzo del burrone. Sotto era così nero che non m i rendev o conto di quanto era scoscesa la roccia, se era liscia o se c'erano degli appigli. Continuav o a m aledirm i per non esserm i portato la torcia. Non potev o scendere di lì. Rischiav o di farm i m ale. L'unica era av v icinarsi alla casa, in quel punto la grav ina era più bassa, e c'era una stradina che andav a giù tra le rocce. Ma lì c'erano anche i m aiali. Ero coperto di sudore. «I m aiali hanno il m igliore odorato del m ondo, altro che i segugi», dicev a il padre del Teschio, che era cacciatore. Non potev o passare di lì. Mi av rebbero sentito. Cos'av rebbe fatto Tiger Jack al posto m io? Li av rebbe affrontati. Li av rebbe m assacrati con il suo Winchester e li av rebbe trasform ati in salsicce da arrostire sul fuoco insiem e a Tex e a Capelli d'argento. No. Non era nel suo stile. Cos'av rebbe fatto? Pensa, m i sono detto. Sforzati. Av rebbe cercato di lev arsi l'odore um ano di dosso, questo av rebbe fatto. Gli indiani quando andav ano a caccia di bufali si spalm av ano di grasso e si m ettev ano sulla schiena le pellicce. Ecco cosa dov ev o fare: m i dov ev o spalm are di terra. Non di terra, di m erda. Meglio. Se puzzav o di m erda non si sarebbero accorti di m e. Mi sono av v icinato il più possibile alla casa, rim anendo nel buio. La puzza aum entav a. Oltre i grilli sentiv o qualcos'altro. Una m usica. Note di pianoforte e una v oce roca che esultav a: «Che acqua gelida qua, nessuno più m i salv erà. Son caduto dalla nav e, son caduto, m entre a bordo c'era il ballo. Onda su onda… » Melichetti era un cantante? Qualcuno stav a seduto sul dondolo. A terra, v icino, c'era una radio. O era Melichetti o sua figlia zoppa. L'ho spiato un po', acquattato dietro dei v ecchi pneum atici di trattore. Sem brav a m orto. Mi sono av v icinato di più. Era Melichetti. La testa rinsecchita abbandonata su un cuscino lurido, la bocca aperta e la doppietta sulle ginocchia. Russav a così forte che anche da là riusciv o a sentirlo. Via libera. Sono uscito allo scoperto, ho fatto qualche passo e i latrati acuti di un cane hanno stracciato il silenzio. Per un istante anche i grilli si sono zittiti. Il cane! Mi ero scordato del cane. Due occhi rossi correv ano nell'oscurità. Si tirav a dietro la catena e abbaiav a tutto strozzato. Mi sono tuffato a pesce nelle stoppie. — Che c'è? Che hai? Che ti ha preso? — ha sobbalzato Melichetti. Stav a sul dondolo e girav a la testa com e un gufo. — Tiberio! Buono! Stai buono, Tiberio! Ma la bestia non la finiv a più di abbaiare, allora Melichetti si è stiracchiato, si è m esso il collare ortopedico e si è tirato su, ha spento la radio e ha acceso la torcia. — Chi c'è? Chi c'è? C'è qualcuno? — ha urlato al buio e si è fatto un paio di giri sv ogliati per il cortile con la doppietta sotto il braccio, puntando il fascio di luce intorno. E ritornato indietro brontolando. — Piantala di fare questo casino. Non c'è nessuno. L'anim ale si è schiacciato a terra e ha preso a ringhiare tra i denti. Melichetti è entrato in casa sbattendo la porta. Mi sono tenuto il più lontano possibile dal cane e m i sono av v icinato alla porcilaia. Scorgev o, nelle tenebre, le sagom e squadrate dei recinti. Il puzzo acre aum entav a e m i grattav a la bocca. Mi dov ev o m im etizzare. Mi sono tolto la m aglietta e i pantaloncini. In m utande ho im m erso le m ani nella terra inzuppata di piscia e storcendo il naso m i sono cosparso il busto, le braccia, le gam be e la faccia di quella pappa schifosa. — Vai, Tiger. Vai e non ti ferm are, — ho sussurrato e ho com inciato ad av anzare a quattro zam pe. Faticav o. Affondav o con le m ani e con le ginocchia nel fango. Il cane ha ripreso ad abbaiare. Mi sono ritrov ato tra due recinti. Dav anti a m e c'era un corridoio largo m eno di un m etro che si perdev a nell'oscurità. Li sentiv o. Erano lì. Facev ano dei v ersi bassi e profondi che assom igliav ano al ruggito di un leone. Av v ertiv o la loro forza nel buio, si m uov ev ano in branco e pestav ano con gli zoccoli, e le sbarre v ibrav ano per le spinte. Vai av anti e non ti girare, m i sono ordinato. Pregav o che la m ia arm atura fatta di m erda funzionasse. Se uno di quei bestioni infilav a il m uso tra le sbarre, con un m orso m i staccav a una gam ba. Vedev o la fine del recinto quando c'è stato uno scalpiccio im prov v iso e dei grugniti, com e se litigassero. Non ho potuto fare a m eno di guardare. A un m etro, due occhi gialli e m aligni m i osserv av ano. Dietro quei piccoli fari ci dov ev ano essere centinaia di chili di m uscoli, carne e setole e unghie e zanne e fam e. Ci siam o fissati per un istante infinito, poi l'essere ha fatto uno scatto e ho av uto la certezza che av rebbe abbattuto il recinto. Ho urlato e sono saltato in piedi e sono corso e sono sciv olato nel letam e e m i sono rialzato, ho ricom inciato a correre, a bocca aperta, nel nero, stringendo a m orte i pugni e a un tratto ero in aria, v olav o, il cuore m i è finito in bocca e le budella m i si sono chiuse in un pugno di dolore. Av ev o superato il bordo della grav ina. Precipitav o nel v uoto. Sono finito, un m etro più sotto, tra i ram i di un uliv o che crescev a sbilenco tra le rocce scoscese e sollev av a la chiom a sopra lo strapiom bo. Mi sono abbrancato a un ram o. Se non ci fosse stato quell'albero benedetto a ferm are la m ia caduta m i sarei spiaccicato sulle rocce. Com e Francesco. Uno spicchio di luna si era aperto un v arco attrav erso le nuv ole liv ide e riusciv o a v edere, sotto di m e, quella lunga ferita nella cam pagna. Ho prov ato a girarm i m a il tronco ondeggiav a com e un pennone. Ora si spezza, m i sono detto. Finisco giù con tutto l'albero. Mi trem av ano le m ani e le gam be e a ogni m ov im ento av ev o la sensazione di sciv olare giù. Quando finalm ente ho stretto tra le dita la roccia ho ripreso aria. Sono risalito sul bordo della grav ina. Era profonda e si sv iluppav a a destra e a sinistra per div erse centinaia di m etri. Dentro era tutto buchi, anfratti e alberi. Filippo potev a essere dov unque. Alla m ia destra partiv a un v iottolo che s'insinuav a ripido tra le rocce bianche. C'era un palo conficcato nella terra, a cui era legata una corda consum ata che dov ev a serv ire a Melichetti per aiutarsi a scendere. Mi ci sono attaccato e ho seguito il sentiero scosceso. Dopo pochi m etri sono arriv ato su un terrapieno coperto di sterco. Era recintato da un parapetto fatto con dei ram i legati tra loro. A uno spuntone erano appesi dei v estiti, delle corde e delle falci. Poco più in là erano am m ucchiati dei pali di legno. Legate a una radice che spuntav a dal terreno c'erano tre caprette e una capra più grande. Mi fissav ano. Gli ho detto: — Inv ece di guardarm i com e delle cretine, ditem i dov e sta Filippo. Un'om bra nera e silenziosa m i è calata addosso dal cielo, m i è passata sopra, m i sono riparato la testa con le m ani. Una civ etta. E risalita, si è dissolta nel nero, poi è scesa di nuov o v erso il terrapieno ed è ritornata in cielo. Strano, erano uccelli buoni. Perché m i attaccav a? — Me ne v ado, m e ne v ado, — ho sussurrato. La stradina proseguiv a e io ho ripreso la discesa reggendom i alla corda. Dov ev o cam m inare rannicchiato e tastare con le m ani gli ostacoli che m i si parav ano dav anti, com e fanno i ciechi. Quando sono arriv ato in fondo alla gola, sono rim asto a bocca aperta. I cespugli di pungitopo, i cardi, i corbezzoli, i m uschi e le rocce erano coperti di puntini lum inosi che pulsav ano com e piccoli fari nella notte. Lucciole. Le nubi si erano diradate e una m ezza luna tingev a di giallo la grav ina. I grilli cantav ano. Il cane di Melichetti av ev a sm esso di abbaiare. C'era pace. Di fronte a m e crescev a un boschetto di uliv i e dietro, sull'altro v ersante della gola, si apriv a una stretta spaccatura nella pietra. Da dentro usciv a un odore acido, di sterco. Sono entrato appena e ho sentito m ov im enti e belati. Un tappeto di pecore. Le av ev ano chiuse dentro la grotta con una rete m etallica. Erano stipate com e sardine. Spazio per Filippo non ce n'era. Sono tornato sull'altro v ersante, m a non riusciv o a trov are buchi, tane dov e nascondere un bam bino. Quando m i ero buttato giù dalla finestra non m i era nem m eno passato per la testa che forse non riusciv o a trov arlo. Mi bastav a attrav ersare il buio e non farm i m angiare dai m aiali e lui era lì. Non era così. Quella grav ina era lunghissim a e Filippo potev ano av erlo m esso da un'altra parte. Ero av v ilito. — Filippo, dov e sei? — ho urlato. Ma m olto piano. Melichetti m i potev a sentire. — Rispondim i! Dov e sei? Rispondim i. Niente. Mi ha risposto solo una civ etta. Facev a un v erso strano, sem brav a che dicesse «Tuttom io, tuttom io, tuttom io». Potev a essere la stessa che m i av ev a attaccato prim a. Non era giusto. Av ev o fatto tutta quella strada, av ev o rischiato la v ita per lui e lui non si facev a trov are. Ho com inciato a correre av anti e indietro tra le rocce e gli uliv i, a caso, m entre m i pigliav a la disperazione. Per la rabbia ho afferrato un ram o da terra e ho com inciato a batterlo contro una roccia, fino a spellarm i le m ani. Poi m i sono seduto. Scuotev o il capo e cercav o di allontanare il pensiero che tutto era stato inutile. Ero scappato di casa com e uno scem o. Papà dov ev a essere infuriato. Mi av rebbe am m azzato di botte. Si dov ev ano essere accorti che non c'ero in cam era m ia. E anche se non lo av ev ano scoperto, tra poco arriv av ano lì per uccidere Filippo. Papà e il v ecchio dav anti, Felice e il barbiere dietro. A tutta v elocità, nel buio, sulla m acchina grigia con il m irino sul cofano, schiacciando con le ruote i rospi. Michele, che aspetti? Torna a casa, m i ha ordinato la v oce di Maria. — Torno, — ho detto. Av ev o fatto quello che potev o e lui non si era fatto trov are. Non av ev o colpe. Dov ev o m uov erm i in fretta, potev ano arriv are da un m om ento all'altro. Se correv o, senza ferm arm i m ai, forse arriv av o a casa prim a che loro usciv ano. Nessuno si sarebbe accorto di nulla. Sarebbe stato bello. Mi sono arram picato v eloce tra le rocce ripercorrendo la strada già fatta. Ora che c'era un po' di luce era più facile. La civ etta. Volteggiav a sopra il terrapieno, e quando passav a dav anti alla luna v edev o la sagom a nera, le ali larghe e corte. — Ma che v uoi? — Sono passato sul terrapieno di corsa, v icino alle caprette, e l'uccello ha picchiato di nuov o. Mi sono allontanato e m i sono v oltato a guardare quella civ etta pazza. Continuav a a v olteggiare sul terrapieno. Sfiorav a la catasta di pali poggiati contro la roccia, facev a un giro e tornav a indietro, testarda. Ma perché facev a così? C'era un topo? No. Cosa, allora? Il nido! Certo. Il nido. I piccoli. Anche le rondini se gli butti giù il nido continuano a girare in tondo fino a quando non m uoiono di stanchezza. A quella civ etta gli av ev ano coperto il nido. E le civ ette fanno il nido nei buchi. I buchi! Sono tornato indietro e ho com inciato a spostare i pali accatastati con la civ etta che m i sfiorav a. — Aspetta, aspetta, — le ho detto. Nascosta alla buona c'era un'apertura nella roccia. Una bocca ov ale larga com e la ruota di un cam ion. La civ etta ci si è infilata dentro. Era nero com e la pece. E c'era odore di legna bruciata e cenere. Non capiv o quanto era profondo. Ci ho infilato la testa e ho chiam ato. — Filippo? Mi ha risposto l'eco della m ia v oce — Filippo? — Mi sono affacciato di più. — Filippo? Ho aspettato. Nessun rum ore. — Filippo, m i senti? Non c'era. Non c'è. Corri a casa, m i ha ripetuto la v oce di m ia sorella. Ho fatto tre passi quando ho av uto l'im pressione di sentire un lam ento, un gem ito sordo. Me l'ero im m aginato? Sono tornato indietro e ho cacciato la testa nel buco. — Filippo? Filippo, ci sei? E dal buco è uscito un «Mm m m ! Mm m m ! » — Filippo, sei tu? — Mm m m ! Era lì! Ho sentito un peso che m i si sciogliev a nel petto, m i sono appoggiato alla roccia e sono sciv olato giù. Sono rim asto lì seduto, abbandonato su quel terrapieno coperto di cacche di capra, con il sorriso sufla bocca. Lo av ev o trov ato. Mi v eniv a da piangere. Mi sono asciugato gli occhi con le m ani. — Mm m m ! Mi sono alzato. — Arriv o. Arriv o subito. Hai v isto? Sono v enuto, ho m antenuto la prom essa. Hai v isto? Una corda. Ne ho trov ata una, arrotolata accanto alle falci. L'ho legata alla radice dov e stav ano le capre e l'ho gettata nel buco. — Eccom i! Mi sono calato dentro. Il cuore pom pav a così forte da farm i trem are il petto e le braccia. Le tenebre m i dav ano le v ertigini. Mi m ancav a l'aria. Sem brav a di stare nel petrolio e facev a freddo. Non ho fatto neanche due m etri che ho toccato terra. Era pieno di pali, pezzi di legno, cassette dei pom odori am m assate. Carponi, con le m ani av anti tastav o il buio. Ero nudo e trem av o per il gelo. — Filippo, dov e sei? — Miram i! Gli av ev ano tappato la bocca. — Sto… — Un piede m i si è infilato tra i ram i, sono sciv olato a braccia in av anti sopra delle fascine piene di spine. Una fitta aguzza di dolore m i ha azzannato la cav iglia. Ho urlato e un rigurgito caldo e acido di bile m i è salito su. Una v am pata ghiacciata m i ha spazzato la schiena e ho sentito le orecchie in fiam m e. Con le m ani che trem av ano ho tirato fuori il piede incastrato. Il dolore m i prem ev a dentro la ca v iglia . — Mi sa che ho preso una storta, — ho rantolato. — Dov e stai? — Mm m m ! Mi sono trascinato, a denti stretti, v erso il gem ito, e l'ho trov ato. Era sotto le fascine. Gliele ho tolte di dosso e l'ho tastato. Era steso a terra. Nudo. Av ev a le braccia e le gam be legate con lo scotch da pacchi. — Mm m m ! Gli ho m esso le m ani sulla faccia. Anche sulla bocca av ev a lo scotch. — Non puoi parlare. Aspetta, te lo lev o. Forse ti faccio un po' m ale. Gliel'ho strappato v ia. Non ha urlato, m a ha com inciato ad ansim are. — Com e stai? Non ha detto niente. — Filippo, com e stai, rispondim i? Ansim av a com e il bracco m orso dalla v ipera. — Ti senti m ale? Gli ho toccato il petto. Si gonfiav a e si sgonfiav a troppo in fretta. — Ora andiam o v ia. Andiam o v ia. Aspetta —. Ho prov ato a slegargli i polsi e le cav iglie. Era stretto. Alla fine, con i denti, disperato, ho com inciato a segare lo scotch. Gli ho liberato prim a le m ani e poi i piedi. — Ecco fatto. Andiam o —. Gli ho preso un braccio. Ma il braccio è ricaduto senza forze. — Mettiti dritto, ti prego. Dobbiam o andare, stanno a r r iv a ndo —. Cercav o di tirarlo su, m a ricadev a giù com e un burattino. Non c'era più un briciolo di energia in quel corpicino esausto. Non era m orto solo perché continuav a a respirare. — Io non ti posso portare su. Mi fa m ale la gam ba! Ti prego, Filippo, aiutam i… — L'ho preso per le braccia. — Dài! Dài! — L'ho m esso seduto, m a appena l'ho lasciato si è afflosciato a terra. — Che dev o fare? Non lo capisci che ti sparano se resti qua? — Un groppo m i otturav a la gola. — Muori così, scem o, brutto scem o! Io sono v enuto qui per te, fino a qua, io la prom essa l'ho m antenuta e tu… e tu… — Sono scoppiato a piangere. Ero scosso dai singhiozzi. — Ti… dev i… alzare… stupido, stupido… che… non sei altro —. Ci ho riprov ato ancora e ancora, testardo, m a si è lasciato andare nella cenere, con il capo tutto piegato, com e una gallina m orta. — Alzati! Alzati! — ho urlato, e l'ho preso a pugni. Non sapev o che fare. Mi sono accucciato, con la testa sulle ginocchia. — Non sei ancora m orto, lo capisci? — Sono rim asto così, a piangere. — Questo non è il paradiso. Per un istante ha sm esso di ansim are e ha bisbigliato qualcosa. Ho av v icinato l'orecchio alla bocca. — Cos'hai detto? Ha sussurrato. — Non ce la faccio. L'ho scosso. — Com e non ce la fai? — Non ce la faccio, scusam i. — Sì che ce la fai. Sì… Non parlav a più. L'ho abbracciato. Coperti di fango, trem av am o di freddo. Non c'era più niente da fare. Non ce la facev o neanche io. Mi sentiv o stanco da m orire, strem ato, la cav iglia continuav a a battere. Ho chiuso gli occhi, il cuore ha com inciato a rilassarsi e senza v olerlo m i sono addorm entato. Ho riaperto gli occhi. Era buio. Per un secondo ho creduto di essere a casa, nel m io letto. Poi ho sentito il cane di Melichetti abbaiare. E delle v oci. Erano arriv ati. L'ho strattonato. — Filippo! Filippo, stanno qua! Ti v ogliono am m azzare. Alzati. Ha ansim ato. — Non posso. — Sì, inv ece. Ci scom m etti? — Mi sono inginocchiato e con le m ani l'ho spinto in av anti, tra i ram i, fregandom ene del m ale. Mio, suo. Dov ev o portarlo fuori da quel buco. Le fascine m i graffiav ano m a ho continuato a spingere, stringendo i denti, fino sotto la bocca nella roccia. Le v oci erano v icine. E un bagliore balenav a sulle fronde degli alberi L'ho acchiappato per le braccia. — Ora dev i m etterti in piedi. Lo dev i fare. E basta —. L'ho tirato su, m i si è aggrappato al collo. Si è m esso dr itt o. — Hai v isto, stupido? Hai v isto che ti sei m esso in piedi, eh? Ora però dev i salire. Io ti spingo da sotto, m a tu ti dev i attaccare al buco. Ha preso a tossire. Sem brav a che dentro il petto gli schizzassero dei sassi. Quando finalm ente ha sm esso, ha scosso la testa e ha detto: — Senza te non v ado. — Com e? — Senza te non v ado. Lo abbracciav o com e fosse un fantoccio. — Non fare il cretino. Arriv o subito. Ora sem brav ano lì. Il cane abbaiav a sopra la m ia testa. — No. — Tu inv ece te ne v ai, hai capito? — Se lo m ollav o crollav a a terra. L'ho preso tra le braccia e l'ho spinto v erso l'alto. — Prendi la corda, forza. E l'ho sentito più leggero. Si era attaccato! Quel bastardo alla fine si era attaccato alla corda! Era su di m e. Poggiav a i piedi sulle m ie spalle. — Ora io ti spingo, m a tu continua a tirarti su con le braccia, capito? Non m ollare. Ho v isto la sua piccola testa av v olta dalla luce pallida del buco. — Sei arriv ato. Ora tirati fuori. Ci ha prov ato. Lo sentiv o che si sforzav a inu tilm ente. — Aspetta. Ti aiuto io, — ho detto, afferrandolo per le cav iglie. — Ti dò una spinta. Tu buttati —. Ho fatto forza sulle gam be e stringendo i denti l'ho lanciato fuori e l'ho v isto sparire inghiottito dalla bocca, nello stesso istante ho sentito com e un lungo chiodo appuntito conficcarsi dentro l'osso della cav iglia fino al m idollo e una fitta tagliente di dolore attrav ersarm i com e una scossa la gam ba fino all'inguine, e sono crollato giù. — Michele! Michele, ce l'ho fatta! Vieni. Ho ruttato aria acida. — Arriv o. Arriv o subito. Ho prov ato ad alzarm i m a la gam ba non rispondev a più. Da terra ho cercato di acchiappare la corda senza riuscirci. Sentiv o le v oci sem pre più v icine. Il rum ore dei passi. — Michele, v ieni? — Arriv o. La testa m i girav a, m a m i sono m esso in ginocchio. Non ce la facev o a tirarm i su. Ho detto: — Filippo, scappa! Si è affacciato. — Sali! — Non ce la faccio. La gam ba. Scappa, tu! Ha fatto no con la testa. — No, non v ado —. La luce alle sue spalle era più forte. — Scappa. Stanno qui. Scappa. —No. — Te ne dev i andare. Ti prego! Vattene! —No. Ho urlato e im plorato. — Vattene! Vattene! Se non te ne v ai ti am m azzano, lo v uoi capire? Si è m esso a piangere. — Vattene. Vattene v ia. Ti prego, ti scongiuro. Vattene v ia… E non ti ferm are. Non ti ferm are m ai. Mai più… Nasconditi! — Sono caduto a terra. — Non ce la faccio, — ha detto. — Ho paura. — No, tu non hai paura. Non hai paura. Non c'è niente da av ere paura. Nasconditi. Ha fatto sì con la testa ed è scom parso. Da terra ho com inciato a cercare la corda nel buio, l'ho sfiorata, m a l'ho perduta. Ci ho riprov ato, m a era troppo in alto. Attrav erso il buco ho v isto papà. In una m ano tenev a una pistola, nell'altra una pila elettrica. Av ev a perso. Com e al solito. La luce m i ha accecato. Ho chiuso gli occhi. — Papà, sono io, sono Miche… Poi c'è stato il bianco. Ho aperto gli occhi. La gam ba m i facev a m ale. Non era la gam ba di prim a. L'altra. Il dolore era una pianta ram picante. Un filo spinato che si attorciglia alle budella. Una cosa trav olgente. Rossa. Una diga che si è rotta. Niente può arginare una diga che si è rotta. Un rom bo m ontav a. Un rom bo m etallico che crescev a e copriv a tutto. Mi pulsav a nelle orecchie. Ero bagnato. Mi sono toccato la gam ba. Una cosa densa e calda m i im piastricciav a tutto. Non v oglio m orire. Non v oglio. Ho aperto gli occhi. Ero in un v ortice di paglia e luci. C'era un elicottero. E c'era papà. Mi tenev a tra le braccia. Mi parlav a m a non sentiv o. I capelli gli brillav ano m ossi dal v ento. Luci m i accecav ano. Dalle tenebre spuntav ano esseri neri e cani. Veniv ano v erso di noi. I signori della collina. Papà, stanno arriv ando. Scappa. Scappa. Sotto il rom bo il cuore m i m arciav a nel petto. Ho v om itato. Ho aperto gli occhi di nuov o. Papà piangev a. Mi carezzav a. Le m ani rosse. Una figura scura si è av v icinata. Papà lo ha guardato. Papà, dev i scappare. Nel rom bo papà ha detto: — Non t'ho riconosciuto. Aiutatem i, v i prego, è m io figlio. E ferito. Non l'ho… Ora era di nuov o buio. E c'era papà. E c'ero io. FINE