università della terza ETAStoria del cinema italiano dal neorealismo

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università della terza ETAStoria del cinema italiano dal neorealismo
UNIVERSITÀ DELLA TERZA ETA’
Sede di Trieste – Via del Lazzaretto Vecchio, 10 – tel. 040.305274
Corso pluriennale 2012/13 – 2013/14 – 2014/15
DOCENTE prof. GIOVANNI FORNI
Proposta
STORIA DEL CINEMA ITALIANO
DAL NEOREALISMO AGLI ANNI DEL FILM D’AUTORE
1942 – 1963 (e dintorni)
Motivazione e metodologie
Guardare e riflettere sul cinema del passato è come guardare e riflettere su noi stessi, sui tempi della nostra educazione
civile e sentimentale, oppure è come cercare di capire i tempi della generazione che ci ha preceduto (e quindi, in fin dei conti,
capire meglio tanti aspetti dei tempi nostri). Perché il cinema nel corso del Novecento - a differenza di altre arti - è stato lo
specchio più fedele, popolare e sfaccettato della storia degli uomini, ne ha seguito le vicende e le evoluzioni politiche e sociali,
ne ha riflesso le idee, i costumi e le mode, si è adeguato allo sviluppo economico e tecnologico. Ma, soprattutto, ne ha riflesso i
sogni e le delusioni, i successi e le sconfitte, le farse e le tragedie, le problematiche individuali e quelle collettive, gli itinerari
culturali, valoriali e morali, i tempi dell'impegno e dell'evasione.
Storia "del" cinema, dunque, e cinema "nella" storia (o, se si vuole, anche storia "attraverso" il cinema). Non è uno
scioglilingua. Vuole essere il tentativo per un approccio di tipo storicistico e pluridirezionale alla visione dei film proposti, un
approccio - si badi - alla buona, evitando pedanterie e tecnicismi, perché lo scopo dichiarato del corso è - come per ogni buon
film - quello di passare del tempo serenamente (e magari utilmente).
Dunque, la visione degli spezzoni significativi dei film programmati sarà introdotta ed accompagnata da due storie
narrative intrecciate, essenziali per la definizione critica delle pellicole:
- Il richiamo degli eventi storici di contesto (politici, economico sociali, ideali/ideologici, valoriali) caratterizzanti il
periodo;
- La narrazione della produzione cinematografica, l'evoluzione delle scuole, dei generi, degli stili e delle tecniche (con
schede dei registi e degli attori più significativi) e infine il rapporto "comunicativo" (il messaggio) che ci fu allora tra quel cinema
e il suo pubblico.
Il tutto con il fine non celato di far scoprire (o riscoprire) i vecchi buoni film di una volta e, possibilmente, di
stimolarne la visione quando, purtroppo raramente, riappaiono in TV. L’elenco che segue potrà felicitarne l’individuazione e la
scelta.
Il corso si articola su 4 moduli:
I PRODROMI DEL NEROREALISMO (1942 – 1943)
GLI ANNI DEL NEOREALISMO (1945 – 1950)
GLI ANNI DELLA STASI, TRA IMPEGNO ED INTRATTENIMENTO (1951 - 1958)
GLI ANNI DEL CINEMA D’AUTORE E DEL PRIMATO PRODUTTIVO (1959 - 1964)
PROGRAMMA – I FILM SELEZIONATI
con brevi note, appositamente redatte, per una loro delineazione specifica
e per una collocazione contestuale
I MODULO
I prodromi del Neorealismo
- GIARABUB di Goffredo Alessandrini (1942) – film propagandistico di guerra pro regime in stile tradizionale: è utile per
comparare e valutare ciò che di realmente nuovo avnza nel cinema italiano – retorica colonialista (“portare la civiltà”) e
militarista (“è bello morire per la patria”) nell’esaltazione acritica del credere, obbedire, combattere.
- UOMINI SUL FONDO di Francesco De Robertis (1941) – precede di un anno Giarabub, ed è assai diverso – dramma marinai
sommergibile affondato accidentalmente durante esercitazione a La Spezia – innovativo nella storia (non azioni militari
avventurose ed eroiche) e nelle tecniche di ripresa semidocumentaristiche, prive di ogni retorica, sobrie: propensione a
guardare alla realtà per come essa è di fatto – agile e sapiente il montaggio, di cultura europea – uso di attori non
professionisti: gli stessi marinai.
- UN PILOTA RITORNA di Roberto Rossellini (1942) – il film “Trilogia della guerra fascista”: è occasione per riflettere e
ricercare/sperimentare soluzioni nuove, una strada propria – mix di tradizione e innovazione – pilota italiano bombarda
dall’alto la Grecia; poi, fatto prigioniero vivrà in basso stessa sorte di altri prigionieri e sfollati civili – l’interesse è tutto per
le vittime della guerra, le loro paure, sofferenze, persecuzioni – sul piano tecnico si cerca di riprendere la realtà “come è nei
fatti” – primo uso del plurilinguismo (italiano, greco, inglese).
- 4 PASSI TRA LE NUVOLE di Alessandro Blasetti (1942) – commesso viaggiatore, malmaritato, accetta di fingersi per un
giorno marito di una ragazza madre presso i suoi, gente di campagna – ma sono 4 passi via dal grigio e ipocrita tran tran –
piccolo borghese di città verso un sogno “moralista” di valori autentici (ospitalità, sensibilità, sincerità) – e intanto si
intoccano, con garbo e arguzia, pilastri ufficiali del regime (e non solo): famiglia e matrimonio luoghi “eterni” per figli e
felicità – e si guarda con affettuosa malizia ai piccoli fatti e gesti quotidiani della gente comune.
- I BAMBINI CI GUARDANO di Vittorio De Sica (1943) – film “di passaggio” dai telefoni bianchi alla tendenza al reale (poi
sarà neorealismo alla grande!) – primo del sodalizio con Zavattini (il che spiega tante cose) – triste, cupa vicenda di una crisi
famigliare vista attraverso gli occhi (spettatori e giudici) di un bambino – scavo di rara sensibilità nella psicologia infantile:
bisogno d’amore, affettività lesa, pudore, solitudine – e coraggiosa propensione a vedere le cose “come stanno”, al di là di
ipocrisie formali – ma c’è ancora molto vecchio stile: il nuovo (illuminante) è a sprazzi.
- OSSESSIONE di Luchino Visconti (1943) – capolavoro subito a pieno, di radicale rottura col passato ma isolato, perché
oscurato da guerra e censura sino al 1946 – tratto da noir USA (Il postino suona sempre due volte di J.Cain) respira cultura
europea (realismo di Renoir e pessimismo disperato di Carnet) – donna malmaritata con anziano induce giovane amante a
sopprimere il marito – tema audace per l’epoca: svela un’Italia di egoismi, avidità, squallori, impulsi sessuali, opposta a
quella benpensante e posticcia accreditata sullo schermo del fascismo, ma è Italia di gente comune, “vera”, la cui vita è più
male che bene – splendido coprotagonista è il paesaggio “veracemente” italiano (la bassa ferrarese), già sicura la padronanza
dei mezzi espressivi.
II MODULO
Gli anni del Neorealismo
- ROMA CITTÀ APERTA di Roberto Rossellini (1945) – film bandiera del Neorealismo, impose al mondo del cinema un nuovo
modo di raccontare e rappresentare la realtà – nella Roma occupata dai nazisti, vicenda di gente comune scrivono la storia
vera della nazione: lotte, sofferenze, sacrifici per un domani riscattati dal fascismo e aperto alla speranza della democrazia – i
protagonisti (ingegnere partigiano, popolana, parroco) sono figure emblematiche della Resistenza e fulcro sociale e morale
Nuova Italia – linguaggio asciutto, a tratti documentaristico (film verità) di enorme intensità e risonanza drammatica (morte
Magnani è, tout court, immagine storia cinema), pur con residuali retaggi tradizionali nello stile – ma Rossellini è in progress.
- DUE LETTERE ANONIME di Mario Camerini (1945) – contemporaneo a Roma città aperta, è prezioso testimone del clima
nuovo che si sta sviluppando – Camerini in continuità/discontinuità con propri film anni ’30, guarda con coraggioso realismo
ai fatti di gente comune inseriti nel dramma storico/collettivo del momento – pervade, trabocca il turgore del melò (e del
thriller), ma c’è sincerità e passione civile – assai originale (al cinema, non certo nella società di allora) la figura del
collaborazionista non per affinità ideologiche, quanto per opportunismo personale (“così fanno tutti”).
- PAISÀ di Roberto Rossellini (1946) – secondo della trilogia su guerra mondiale: lo sguardo di Roma spazia sull’Italia – 6
episodi emblematici lungo l’avanzata alleata dalla Sicilia al veneto: costruiscono l’affresco collettivo della tragedia (guerra e
conseguenze materiali di vita) e rinascita della Nazione attraverso partecipazione e sacrificio gente del popolo (riscatto
morale del fascismo: nuovi valori ideali e civili per rifondare lo stato) – straordinaria e perfetta fusione tra racconto e
immagini: tutto appare vero, come ripreso nell’istante dell’accadimento, ma col calore e l’intelligenza che nessun
documentario può trasmettere – attori della strada e militari alleati; scenari tutti in esterni (enorme impatto visivo episodio
lagune venete): è la più alta lezione del Neorealismo.
- IL SOLE SORGE ANCORA di Aldo Vergano (1946) – prodotto dall’ANPI, ambisce a rappresentare l’universo mondo tra l’8
settembre e il 25 aprile: partigiani, tedeschi, fascisti, opportunisti, collaborazionisti, ricchi agrari e poveri contadini, e poi
l’amor di patria e l’amor cortese – è film militante, fatto a caldo, sotto pulsione accadimenti – vuole narrare (?) a chi non c’è
stato, per informare, testimoniare, educare, - emotivo, epico-spettacolare, di ispirazione gramsciana più che marxista, serio e
sincero, con tutte le forzature e ingenuità che l’immediatezza comporta di necessità – culmine assai alto è fucilazione prete e
operaio comunista, affratellati nella morte per la Liberazione (Rossellini docet).
- GERMANIA ANNO ZERO di Roberto Rossellini (1948) – spettrale ambientazione tra le macerie di Berlino devastata nel
dopoguerra, ma peggiori sono le macerie morali perché occulte, subdole, destinate a contagiare ancora – la cinepresa segue
(tecnica zavattiniana del “pedinamento”) un ragazzino cui è stata rapita dagli adulti la vita: ucciderà in buona fede il padre e
si ucciderà perché privato dell’innocenza e della speranza – film desolato, straziante; riflessione conclusiva (dopo Roma e
Paisà) e altissima sulla totale negatività della recente storia europea e ammonimento a ripartire da “zero”, cioè per strade del
tutto diverse.
- IL BANDITO di Alberto Lattuada 81946) – film parecchio discontinuo: cadenze decisamente neorealiste all’inizio, poi
suggestioni hollywoodiane (noir e gangster story) – reduce da lager trova a casa lutti e delusioni: farà il bandito per sprezzo
del proprio destino e cercherà nella morte liberazione e riscatto – assai incisiva ed intensa la prima parte che denuncia
problematiche sociali del dopoguerra con robuste tecniche espressionistiche; approssimativi i messaggi della seconda.
- LA VITA RICOMINCIA di Mario Mattoli (1945) - quasi coevo di Roma città aperta, è esemplare di un terzo livello produttivo, quello sempre
vincente al botteghino - continua il melò anni '30 e anticipa la serie con A. Nazzari e Y. Sanson come da fotoromanzo Grand Hotel robustamente lacrimevole: reduce ritrova moglie che, per salvare il figlioletto, sì è prostituita e, per difendere il proprio onore, ha
ucciso: sarà ovviamente assolta - sullo sfondo c'è l'Italia del dopoguerra (macerie, borsa nera, cafoni arricchiti) - Alida Valli piacerà tanto
a O'Selznick che la chiamerà a Hollywood.
- CACCIA TRAGICA dì Giuseppe De Santis (1946) - cinema d'impegno civile e politico nel solco della sinistra resistenziale, che vuole
raccontare ciò che è accaduto e sta accadendo nel Paese, le responsabilità e le nuove vie d'uscita - nell'Emilia contadina e
proletaria, una cooperativa agricola (braccianti da sempre sfruttati e reduci di guerra disoccupati) cerca il proprio riscatto (e
quello della Nazione) di contro un banditismo residuale della guerra che fa il gioco degli agrari - avvincente, intenso impasto
di realtà e fiction che ricrea il clima dell'immediato dopoguerra e della ricostruzione: tensioni, sofferenze, nuovi valori straordinario bianco e nero, duro, aggressivo.
- SCIUSCIÀ di VITTORIO De Sica (1946) - primo capolavoro della maturazione umana e artistica del regista - si guarda alla
vita dei "ragazzi della guerra", due lustrascarpe, privati della fiducia (e guida) degli adulti che hanno fallito, costretti ad
autogestirsi nella realtà sociale degradata e bisognosi di evadere in sogni estrosi - è la storia di un'amicizia adolescenziale che
finirà in tragedia, perché questo è il segno dei tempi - straordinaria fusione di neorealismo durissimo (il riformatorio di stato
che distrugge le innocenze) e di surrealismo fiabesco (il cavallo bianco, unico senso della vita) alla Zavattini (suoi soggetto e
sceneggiatura) - altissimi di esiti di umana, dolente poesia - Oscar e plausi all'estero, disastro in Italia al botteghino.
- LADRI DI BICICLETTE di Vittorio De Sica (1948) . il film più noto e premiato (secondo Oscar), sinonimo di Neorealismo
sociale - sarà (con Roma città aperta) punto di riferimento per le emergenti cinematografie del I mondo - film verità basato
sulla zavattiniana teoria del pedinamento: la macchina da presa segue il personaggio (uomo qualsiasi del popolo/massa) alla
scoperta della quotidiana lotta per la sopravvivenza e delle innumerevoli sfaccettature d'ambiente - attacchino di borgata
cerca per Roma, con il figlio, la bicicletta rubatagli, strumento essenziale per il lavoro - ma tutta desichiana in quest'odissea è
la sensibilità penetrante dello sguardo, l'energia emotiva, il pathos solidale con i "vinti" di sempre - è reportage
documentaristico di vita vissuta e, insieme, poesia umanissima,
- L'ONOREVOLE ANGELINA di Luigi Zampa (1947) - film sociale e corale, coglie la vivacissima e sfaccettata vita di una
borgata romana con tutte le problematiche del dopoguerra (lavoro, abitazione, vitto, carenza dei servizi) - protagonista
assoluta è la Donna (moglie, madre, casalinga, querula cornare) soggetto che la Nuova Italia sta appena riconoscendo nella
sua dignità, nei bisogni e nei diritti - qui "K" una straordinaria Anna Magnani a tutto tondo, estrosa e generosa vessillifera
delle istanze di base - si coglie la verità del vivere della gente comune girando il film tutto in esterni, seguendo un racconto
esemplare (fiction) e alternando ai toni seri quelli sagaci e satirici: è la strada perché il Neorealismo abbia anche successo di
pubblico e di cassetta.
- LA TERRA TREMA di Luchino Visconti (1948) - reminiscenze stilistiche di Renoir e Eizenstein (la linea generale) per una
lezione di neorealismo totale, centrato tra un verismo integrale (documentare con distacco, senza passione, la lotta quotidiana
dell'uomo per la vita) e un marxismo attualizzato all'Italia del '48 (non c'è riscatto per atto individuale ma solo nell'unità di
classe) - rilettura colta e fine dei Malavoglia: una famiglia dì pescatori della Sicilia lotta non contro il Fato verghiano per una
sconfitta “"inevitabile”, ma per un sogno di riscatto l'indipendenza economica di contro lo sfruttamento mafioso dei grossisti
di pesce - saranno sconfitti, ma la lezione potrà domani " fascinoso affresco corale di un tempo e di una società - rigore
assoluto nelle scelte: attori i pescatori del luogo; uso di un dialetto incomprensibile; bianco e nero nitido, tagliente che dice
tutto da sé, dei sentimenti e delle attese - capolavoro isolato, difficile, d'élite, nello stile viscontiano.
- IL CAMMINO DELLA SPERANZA di Pietro Germi (1950) - tardo neorealismo sociale - odissea di zolfatari della Sicilia:
disoccupati in nera miseria, emigrano in cerca di lavoro e dignità in Francia, attraversando fortunosamente la Penisola - è
l'occasione per scoprire e mettere a confronto le tante Italie (Sud e Nord, furbi e onesti, burocrazia e poveri cristi) - assai
vigorosa e incisiva nelle immagini, dolente e contenuta del pathos la prima parte: perfetta - poi c'è del colore folkloristico che
si accentua nella retorica e verbosa epicità della conclusione - emerge comunque, nella discontinuità, la personalità ruvida e
generosa, sincera e civilmente impegnata che sarà di tanto Germi.
- RISO AMARO di Giuseppe De Santis (1949) - ossia come il neorealismo diventò anche cinema commerciale - De Santis lavora
su 2 binari: il sociologico civilmente impegnato e il melò esorbitante, torrido, da fotoromanzo alla Grand Hotel - dunque il
mondo del lavoro con protagonista la donna; qui le mondine del Vercellese con le loro dure condizioni di vita e sfruttamento
- e poi la fiction a quattro attorno ad una collana rubata, falso simbolo di felicità e benessere - ma la scena è rubata
dall'impetuoso, istintivo erotismo (e impettito nell'elegante naturalezza) di una Silvana Mangano al debutto e prototipo delle
future maggiorate - da contraltare un Gassman bello e luciferino - del regista la capacità di dominare questo mix che va dal
nazional popolare al grand guignol passando per il boogie - woogie e la denuncia sociale.
- IL CIELO SULLA PALUDE di Augusto Genina(1949) vita di Maria Goretti, contadinella del malarico Agro Pontino, uccisa da
un giovane che l'insidiava - neorealismo vigoroso e incisivo (ottime fotografia e locations) nel descrivere ambienti rurali e
lavori arcaici, ma solo espressivo/formale: il messaggio ideale è opposto a quello usuale che era laico e progressista - le
miserrime condizioni di vita (e l'ordine sociale che le permea) vanno accertate nel nome del Signore, non cambiate per scelta
umana- voluto da ambienti vaticani (fra poco Pio XII proclamerà Maria santa e la additerà a modello di vita) esalta una
religiosità catechistica, il lavoro che spacca la schiena come condizione biblica dell'uomo, una relegazione ancestrale e
sessuofobica per la donna - è considerato dalla critica il film del tramonto del Neorealismo.
- CUORI SENZA FRONTIERE di Luigi Zampa (1950) - racconta nella formula fiction/realismo il dramma della Venezia Giulia
nei giorni della divisione in zona A e sona B - girato tutto in esterni sul Carso, ricostruisce l'atmosfera del tempo con la
crudele divisione delle terre e delle coscienze (italiano/sloveno - comunista/anticomunista) - buone le intenzioni, ma il regista
non è al suo meglio: troppo spazio alla storia di lei, lui e l'altro; bozzettismo avvertito nei personaggi di contorno; retorica
scoperta nel bambino portacroce - eppure il film rimane documento impegnativo di quel tempo (con qualche intelligente nota
di costume fustigata dalla censura).
- LA CITTÀ DOLENTE di Mario Bonnard (1950) - film equilibrato, sa raccontare con serietà e sincerità il dramma dell'esodo
istriano da Fola dopo la firma del Trattato da Parigi - la scrittura neorealistica (assai prezioso il materiale documentario
inserito) da sobria veridicità alla storia collettiva e a quella individuale di chi ritiene invece di fermarsi: l'italiano comunista
convinto di poter realizzare lì il sogno socialista subito - terribile e pagata a caro prezzo la disillusione del titoismo - il film
però non scade nella contropropaganda o peggio nella caricatura - è questo il suo indubbio valore di testimonianza anche
oggi.
- TRIESTE MIA di Mario Costa (1952) – repertorio di serie C: film/canzonetta allora gettonatissimo genere tra le classi meno
acculturate (qui L. Tajoli nel repertorio nostrano di quando l’Italia si commoveva per Trieste) – ma è preziosissima e
coraggiosa testimonianza di un contesto storico dirompente: dentro banalissimo, disarmante melò feuilleton, parla di
occupazione nazista della città, dell’insurrezione del CLN, dell’occupazione titina, del 1 maggio con i 40 giorni – non ci sono
Risiera e foibe, ma il contrasto italiani/sloveni, democrazia/comunismo sì, seppure intoni storicamente farseschi: nessun film
osò affrontare quella storia né prima, né mai più dopo.
- FRANCESCO, GIULLARE DI DIO di Roberto Rossellini (1950) - anticonformista e straordinario sperimentatore, Rossellini
trascrive in immagini neorealiste episodi della vita tratti dai Fioretti, alcuni assai riusciti, altri meno - vi si predica l'amore e la
pace in quel panteismo francescano fatto di assoluta sincerità e latente (ma mai cercata) ribellione alle strutture del sistema
dominante (ideologico, sociale e istituzionale) che da lirismo, autenticità e freschezza ai momenti migliori della religiosità
laica del regista - nessun artificio agiografico (tranello in cui sono caduti tutti i Franceschi dello schermo), ma spoglia e nuda
semplicità dei fatti, dei paesaggi, dei personaggi (tutti frati veri!).
- UMBERTO D. di Vittorio De Sica (1952) - capolavoro assoluto e canto del cigno del neorealismo - è la virile e pietosa (mai
patetica) osservazione/riflessione sulla vecchiaia e la solitudine che concludono la vita dell'Uomo - pensionato statale non
riesce a finire il mese: cercherà di sopravvivere chiedendo l'elemosina (ma la dignità è ferita a morte) e mangiando alla
Caritas - quando tenterà di farla finita, sarà salvato dal suo cagnolino, il solo essere a conoscere l'affetto disinteressato:
continueranno assieme - tecnica del pedinamento alla scoperta del tran tran quotidiano, banale, disadorno, sgradevole, con
lucido distacco documentaristico, senza all'apparenza compromessi sentimentali - ma, nel profondo, la pietà di De Sica è
immensa e si esprime nel silenzio dei gesti, degli sguardi delle cose: altissima e straziante poesia sull'intimismo e l'esistenza
al tramonto - girò nei cineforum; le destre e Andreotti gridarono allo scandalo ("i panni sporchi non si mostrano fuori casa").
- MIRACOLO A MILANO di Vittorio De Sica (1951) - favola/apologo sociale sui barboni baraccati miseramente ai margini di
Milano (la capitale del capitalismo italiano), minacciati di sfratto da speculatori di aree e petrolio - dunque dimensione
realistico/fiabesca e, di necessità, l'uso di tecniche espressive neorealiste e surrealiste; denuncia dì gerarchie ed ingiustizie
sociali; messaggi utopico/populisti; schematismi sociologico/morali, ma anche tanto impegno civile e commossa adesione
alla causa degli umili - film negli assunti assai zavattiniano che De Sica dirige con intelligente sensibilità alternando,
momenti felici, sapidi ad altri grotteschi o fumosi - andarsene da Milano cavalcando le scope fu certo uno sberleffo, ma per
andare dove? Nell'Urss secondo le destre, sulla luna secondo le sinistre!
- TOTO’ CERCA CASA di Steno (1949) – i comici (Macario, Rascel) trionfano al botteghino (e nei cinema di rione e provincia),
ma il mattatore è Totò, fantastica macchina di gag (non “maschera” comica alla Charlot), espressione comunque di vita e
buon senso popolari – qui fra i cerca casa del dopoguerra: uno spunto neorealista ma solo per divertire.
- IL CAVALIERE MISTERIOSO di Riccardo Freda (1948) – l’avventuroso coppa e spada “de noaltri” (bianco e nero, mezzi
ridotti) tenta il confronto con la grandeur hollywoodiana – Casanova, per salvare il fratello ingiustamente accusato, peregrina
tra Venezia, Vienna e Pietroburgo: punirà il cattivo e troverà la donna della sua vita (sic!) – ritmo forsennato e Gassman
all’esordio (già carismatico) fanno il resto.
- LA FORZA DEL DESTINO di Carmine Gallone (1949) – il film/opera (come il film/canzone napoletana) fu gettonatissimo e
Gallone ne fu il mentore – tutto il repertorio lirico, già bello e confezionato, si riverserà sullo schermo: trame, costumi e bel
canto-spettacolo soprattutto per le periferie popolari di città e campagne non aduse a frequentare il teatro “borghese”.
III MODULO
Gli anni della stasi tra impegno e intrattenimento
- CATENE di Raffaele Mattarazzo (1949) – gran melò, archetipo e bandiera del genere che dominerà gli incassi sino a metà anni
’50. – specchio dell’Italia arretrata e patriarcale del dopoguerra, dei suoi valori, costumi e credenze di tradizione
cattolico/contadina – al centro la donna/femmina, soggetta socialmente al maschio eppur dominatrice in quanto madre,
moglie o amante, fatalmente Madonna o Eva, con pulsioni comunque colpevolizzanti – inizio trionfale coppia A. Nazzari
/ Y. Sanson, qui in torbida (e ingenuotta) triangolazione con l’Altro – “genialità” del regista nel miscellare l’eredità
neorealista (le ambientazioni) con le culture popolari del feuilleton, del romanzo rosa e del fotoromanzo alla Grand Hotel
– formula vincente con sequel ed epigoni.
- ANNA di Alberto Lattuada (1952) – melò in versione patinata per platee anche borghesi col trio vincente di Riso amaro
(Gassman il perverso, Vallone il galantuomo, Mangano la bellissima che balla il mambo) – più complessa
psicologicamente la figura di lei, morbosamente attratta da pulsioni ninfomani e verginali attese casalinghe che sfociano
in abissi di colpa, sino all’espiazione autopunitiva – si farà suora crocerossina: correvano gli anni di Pio XII –
contaminazioni hollywoodiane care al regista (insistito flashback, atmosfere noir da night club).
- SENSUALITÀ di Clemente Fracassi (1952) – al suo tempo il più trasgressivo del genere, sia per la storia (lei sposa il fratello
minore, un giovanissimo Mastroianni, ma concupisce dannatamente il più anziano, l’Amedeo nazionale), sia per
l’audacia, allora, d’esposizione cutanea e movenze maliarde della Rossi Drago – operazione commerciale che sfrutta gli
stilemi del genere (neorealismo campagnolo, qualche annotazione sociale) nonché le pruriginose e voyeuristiche attese di
un pubblico di rione periferico e di provincia.
- CRONACA DI UN AMORE di Michelangelo Antonioni (1950) – esordio e immediata evidenza di una personalità forte,
originale, solitaria – richiama Ossessione e il noir USA, apparentemente costruisce un melò alla moda nei termini del
neorealismo, in realtà scompagina/rivoluziona in senso “modernista” stilemi e tecniche di narrazione e di ripresa (campo
lungo, piani sequenza di rara suggestione) – analisi lucida e scevra da giudizi morali, su mentalità e comportamenti di
vita dell’alta borghesia di Milano (tempio del ricostituendo capitalismo italiano), egoista, cinica, operosa per avidità e
sete di supremazia, esibizionista e annoiata per vuoto di valori – straordinario ritratto di “donna di lusso” disegnato dalla
Bosè – film troppo nuovo e diverso per piacere a tanti e trovare epigoni coraggiosi.
- STROMBOLI, TERRA DI DIO di Roberto Rossellini (1950) – dopo i film sulla storia collettiva (guerra e Resistenza),
attenzione del regista a problematiche di vita ed esistenza del singolo individuo – ambientazione ancora neorealista (attori
gente del luogo, aspetti di documentarismo etnologico) ma la novità/modernità sta nell’interesse ontologico e non più
storico – profuga lituana, relitto della guerra, sposa per convenienza pescatore delle Eolie: spaesamento e poi adattamento
a durissime condizioni nuovo ambiente (natura e abitanti) – percorso di profonda, dolorosa revisione dei propri
convincimenti e costumi e di sofferto recupero della fede in un Dio consolatore e al contempo mistero cosmico – inizio
sodalizio artistico (e non solo) con Ingrid Bergman, qui musa rosselliniana, fuori da ogni cliché hollywoodiano.
- L’UOMO DI PAGLIA di Pietro Germi (1955) – piccolo grande film intimista, ingiustamente sottovalutato dalla critica –
sincero, pudico, malinconico, intenso ritratto di una vita qualsiasi, uno di noi, uomo di paglia appunto, perché
naturalmente fragile ed esposto ai colpi di vento della vita – maturo operaio, sposato e padre felice, incontra giovane
sensibile e inquieta, e con lei rivive i palpiti della giovinezza, sommando però tormentosi sensi di colpa e rimorsi –
straordinariamente sommesso e struggente il narrare di Germi, che dà anche emozionale intensità espressiva al volto del
protagonista – atmosfera da crepuscolo neorealista.
- IL GRIDO di Michelangelo Antonioni (1956) – primo film di successo (premio Locarno) – apparente ritorno ad un
neorealismo d’ambiente, dimesso, emarginato (basso Polesine, povera gente e povere cose, fango e nebbie) ma l’obiettivo
è scandagliare lo stato d’animo del protagonista, un operaio abbandonato dalla convivente, che effettuerà un
percorso/odissea (on the road) alla ricerca di un “qualcosa” per sopravvivere (la donna del passato, quelle occasionali di
un presente d’accatto e che non troverà –straziante radiografia del male oscuro del vivere, dell’incomunicabilità (capire
gli altri ed essere capiti), del disorientamento e dell’estraneazione del singolo nella fase di passaggio del Paese dal mondo
arcaico contadino all’incipiente età del boom economico – polemiche astiose da sinistra: poteva mai un operaio entrare
in crisi esistenziale?
- LA STRADA di Federico Fellini (1954) – “sento di aver detto tutto quello per cui si possa piangere e ridere, soffrire e sperare”
– così Fellini al suo primo, più genuino capolavoro (Oscar miglior film straniero) – neorealismo classico delle immagini,
tutte in esterni (brughiere e borghi popolati da gente semplice, a guardare con stupita meraviglia le epifanie laiche dei
saltimbanchi girovaghi quanto quelle della religiosità mariana) ma soprattutto lirismo memoriale autobiografico, vera
sostanza del regista – s’impastano così in magica fusione realtà e fiaba, immagine visiva e poesia rievocatrice e
nostalgica – i due protagonisti paiono gli archetipi dell’essere umano: Zampanò possanza ferina, grettezza sentimentale e
mascolina, ruvidezza; Gelsomina ingenuità e purezza di spirito, dedizione e grazia, l’intrinseco della femminilità – il
Matto è il moderno grillo parlante, civilizzato, l’alter ego di Fellini – indimenticabile Giulietta Masina, maschera
umanissima tra le più universali come Charlot o Keaton.
- SENSO
di Luchino Visconti (1954) – accantonato il neorealismo (ma ci tornerà ancora con Rocco e i suoi fratelli)
Visconti attua una svolta drastica: dal contemporaneo sociale al passato storico, l’Ottocento risorgimentale e romantico,
già intriso di inquieta decadenza – storia di una passione sensuale dall’innamoramento all’estenuazione fisica e al
degrado morale, e storia di una squallida vendetta tra una contessa veneziana già in età e un giovane ufficiale austriaco
frivolo, opportunista, cinico, amorale – sconfitta di singoli dentro un affresco storico assai ampio (la sconfitta italiana del
1866 a Custoza e il lungo tramonto destinato a sconfitta di un mondo aristocratico, quello imperial austriaco, i cui modi
di essere e di vivere suscitano in Visconti rimpianti e nostalgie: tematiche e atmosfere che ritorneranno nel Gattopardo e
nella trilogia tedesca) – scenografie di inusitata, puntigliosa magnificenza (palazzi e ville venete, costumi e arredi, calli
notturne e campagna veronese) – primo geniale technicolor, che si ispira alla pittura macchiaiola di Lega e Fattori –
grandissimi Alida Valli e Farley Granger.
- ACHTUNG BANDITI di Carlo Lizzani (1951) – ultimo film sulla Resistenza (fatto fondante di Repubblica e Democrazia!)
prima del grande gelo anni ’50 (centrismo DC e revanchismo di destra) – prodotto da Cooperativa per rifiuto di
finanziamenti pubblici e privati – gruppo partigiano scende dai monti su Genova per aiutare gli operai di una fabbrica a
salvare i macchinari da dislocare in Germania – esordio generoso di Lizzani, in chiave nazional-popolare: alpini RSI
passano all’antifascismo, e capo operaio (comunista) e proprietario azienda (liberal-democratico) sono giustiziati assieme
dai tedeschi, simboli di una unità antifascista ormai travolta dalla guerra fredda – frammentario il montaggio.
- I SETTE DELL’ORSA MAGGIORE di Duilio Coletti (1953) – esemplare del clima politico anni ’50 su rievocazione di “gesta
eroiche” nella catastrofica guerra 40/43: Amba Alagi, El Alamein, carica Savoia cavalleria sul Don – qui imprese gruppo
sommozzatori del X MAS (quella del principe Borghese) contro basi navali inglesi – tra verità storica (i fatti ricostruiti in
modo documentaristico sono il meglio del film) e il romanzesco avventuroso (spie, taverne del porto, danza del ventre)
c’è il ritorno ai “Valori Spirituali della Patria”, tra l’ultima nostalgia monarchica e il rinascente neofascismo – tentativo di
far rileggere all’indietro la storia agli Italiani.
- ROMA ORE 11 di Giuseppe De Santis (1955) – film di forte impegno civile e di analisi sociale, tutto rivolto al femminile –
ispirato ad un fatto di cronaca (il crollo di una scala per l’eccessivo peso di troppe aspiranti ad un solo posto di
dattilografa) evidenzia le problematiche relative al nuovo ruolo riconosciuto alla donna nell’Italia repubblicana: il diritto
al lavoro come soluzione alle necessità materiali e garanzia di identità ed emancipazione – film corale che mette a fuoco
diversità di ceto, carattere, cultura, esperienze di vita e che analizza il ruolo sociale di alcuni servizi pubblici (protezione
civile, sanità, mass media di allora) – c’è comunque della frammentarietà narrativa e il rischio del bozzettismo.
- IL SOLE NEGLI OCCHI di Antonio Pietrangeli (1953) – buona prova d’esordio che fissa gli stilemi cari al regista: guardare
alle problematiche femminili in un società in rapida evoluzione – ragazza del contado va a far la domestica a Roma: la
attendono esperienze che, dopo gli abbagli iniziali, la matureranno dolorosamente ma consapevolmente – i fatti narrati
contano per i riferimenti/sedimentazioni interiori che segnano il passaggio dell’adolescenza all’esser donna – in
contraltare l’egoismo superficiale ed irresponsabile del maschio e dunque la sua fragilità morale – finissimo lavoro di
indagine psicologica ma anche di analisi sociologica: i modi di vivere e di pensare dei diversi datori di lavoro, emblemi di
classi o ceti.
- LA SFIDA di Francesco Rosi (1957) – film d’esordio ed immediata affermazione (premio speciale giuria di Venezia) –
preannuncia alta qualità cinema italiano triennio d’oro ‘59/61 – narrazione robusta e compatta, impegno civile e stile
asciutto e rigoroso – affronta snodo storia nazionale contemporanea: la pervasività criminale nella società meridionale –
ascesa e caduta di un piccolo contrabbandiere che ha tentato di inserirsi nel più speculativo mercato dell’ortofrutta a
Napoli dominio della camorra – ambientazioni neorealistiche (esterni suggestivi nei quartieri spagnoli e nell’agro
campano) e atmosfere che richiamano certo noir hollywoodiano per tensione, violenza, ritmo (Kazan di Fronte del porto)
– Rosi è regista coraggioso, appassionato, sanguigno: racconterà sempre storie per scuotere le coscienze.
- DON CAMILLO di Julien Duvivier (1952) – nel film, tratto da Mondo piccolo di Guareschi, si specchiò appassionatamente
l’Italia intera, divisa dalla guerra fredda nei poli antitetici e complementari di DC e PCI, qui con i faccioni di Fernandel e
Gino Cervi – epopea nazional/contadina della Bassa padana, terra di ardori verdiani, vista con l’ottica piccolo-borghese
dello scrittore, sapido umorista e conservatore nostalgico, non reazionario – profluvio di passioni viscerali all’insegna
dell’”in hoc signo vinces”: Crocifisso o Falce e martello, ma stemperato da bonomia accattivante, disposta, a fronte di
urgenze maggiori, alla mediazione fatta di buon senso e popolare solidarietà – commedia strapaesana, ma anche satira
politica e commedia di costume.
- ANNI FACILI di Luigi Zampa (1953) – secondo della trilogia di satira politica (Anni difficili prima, Anni ruggenti poi) su testi
di V. Brancati, moralista radicale e dalle battute caustiche – specchiato professore siciliano accetta di rappresentare a
Roma interessi ed intrallazzi di barone conterraneo con ditta di medicinali – nelle giungla dei Ministeri, tra burocrazie,
trasformismi e corruzione sarà il solo a pagare: “occorre gente più scaltra, duttile e alla fine meno onesta!” – amarissimo
quadro di un’Italia repubblicana che ricicla dal vecchio regime prassi degeneri e le fa sue (rilanciandoli alla grande: è
allora questione di genomi italici?) – film discontinuo: fresco e lucido ma anche eccessivo e verboso – bloccato da
censura per farsa su rituali neofascisti attorno al gen. Graziani.
- GUARDIE E LADRI di Mario Monicelli (1951) – d’impostazione tradizionale (gag, equivoci da cabaret) e ritmi da vecchie
comiche hollywoodiane, ma con quale verve arguta e brillante, quale sensibilità umana! – le “maschere” del ladruncolo
che scappa (la lepre Totò, qui in stato di grazia) e della guardia che insegue (il cane Fabrizi) si trasformano nelle mani di
Monicelli in dolenti “personaggi” a tutto tondo, portabandiera della perenne lotta per la sopravvivenza – sullo sfondo
periferie popolari e il quotidiano dover “tirar a campà” per giovani e anziani – e i due, nei contrapposti e ineludibili ruoli
assegnati della vita, sapranno trovare terreni comuni di reciproca comprensione e solidarietà, in fondo i valori migliori
dell’uomo – dunque film DOC, di un tardo neorealismo.
- ALTRI TEMPI di Alessandro Blasetti (1952) – il regista, già autore della rinascita degli anni ’30, si ripropone sperimentatore
con un collage di corti o film ad episodi che consente la contestualità di generi diversi (dal comico al drammatico) e la
presenza di cast stellare – successo e tanti epigoni – episodi da novelle dell’800; il Processo di Frine di E. Scafoglio è
d’ambientazione napoletana: avvocato paglietta (formidabile De Sica) difende e fa assolvere da omicidio confesso
popolana procace e generosa nell’offerta di grazie (splendida Lollobrigida) sul solo presupposto dell’essere “maggiorata
fisica” – la qualifica diventerà luogo comune nello spettacolo/divertimento “all’italiana”.
- L’ORO DI NAPOLI di Vittorio De Sica (1954) – il regista segue la moda e, volendo restare se stesso, gira in esterni, come
all’epoca di Sciuscià – i racconti di Marotta rivivono con brio e naturalezza: la “napoletanità” intesa come sapienza e
prassi di vita, si estrinseca nella gestualità vociante e nelle ritualità scaramantiche del popolo dei vicoli e dei bassi, fra le
pizze prorompenti di Sophia Loren e il pernacchio gigante di Eduardo de Filippo – si vedrà anche l’episodio eliminato
allora dalla casa di produzione perché ritenuto deprimente, quel Funeralino, gioiellino di un neorealismo ormai fuori
tempo, di intensa, pudica, perfetta commozione, quasi testamento consapevole del regista della sua arte migliore – ci
saranno ancora grandi film ed enormi successi, ma magie non più!
- UN AMERICANO A ROMA di Steno (1954) – IL MORALISTA di Giorgio Bianchi (1957)due spezzoni significativi a
testimoniare il fenomeno Alberto Sordi negli anni ’50, all’apparenza continuatore di quell’istrionismo fregolistico alla
Totò, legato al macchiettismo regionale (Roma invece di Napoli) – in realtà costruttore nel tempo di una “maschera
nazionale”, l’italiano medio (e assai mediocre), compiaciuto molto più dei propri vizi che delle virtù, sorta di specchio
critico di un’analisi agrodolce della Nazione – prezioso barometro delle evoluzioni (ed involuzioni) di costumi e di
mentalità nella fase di passaggio dalla Ricostruzione al boom economico – pose le basi della “commedia all’italiana”.
- PANE, AMORE E FANTASIA i di Luigi Comencini (1953) – commedia di ambientazione agreste d’enorme successo
popolare – superamento ideale del neorealismo (che assentiva anche al sorriso, pUrché impegnato!!) per una visione
bucolica della vita: pane come bisogno materiale, amore come aspirazione interiore, fantasia come companatico
nazionale per risolvere ogni problema – intreccio leggero di innamoramenti, equivoci, bisticci tra maturo, galante
maresciallo, giovane imbranato carabiniere veneto, avvenente campagnola (la Bersagliera) di selvatica vitalità ed una
ancor piacente levatrice – eccezionali prove recitative di De Sica e Lollobrigia, definitivamente consacrata “bellezza
italica” – tutto scorre in superficie ma con brio straordinario e allegra voglia di vivere: era quello che gli italiani, dopo il
duro periodo della Ricostruzione, volevano per il proprio futuro.
- POVERI MA BELLI di Dino Risi (1956) – superata la sagra paesana, l’ambientazione diventa stracittadina con i bulli di piazza
Navona: alle soglie del boom cambiano scenari e prototipi umani – amicissimi per la pelle, rivaleggiano con gagliarda
ribalderia per le appetitose curvilinee della Allasio, tutta acqua e sapone, nulla della trasgressività erotica di B. Bardot! –
commedia fresca, agile, scanzonata, di un giovanilismo sbruffone, in realtà condito di buoni (e tradizionali) sentimenti:
finiranno casa e famiglia, ciascuno con la sorellina dell’altro – c’è un’emergente disinvoltura nelle relazioni fra sessi, con
la donna (anche adolescente) libera di cercare, scegliere, “provare” prima dell’impegno definitivo – è cinema che esprime
tendenze/aspirazioni: la realtà era ben più vischiosa.
- LE NOTTI DI CABIRIA di Federico Fellini (1956) – come nella Strada, ancora forte è il richiamo neorealista a guardare
“attorno” a sé (dopo la Dolce vita guarderà solo “dentro” di sé): la vita è commedia da dover recitare per il solo fatto
d’esser nati ed ha risvolti amari, crudi, beffardi – Fellini affida alla candida figuretta della prostituta Cabiria l’immagine
migliore dell’Uomo, che vive tra brutture e meschinerie senza esserne corrotto ed auspica di migliorare per un’etica
personale – passerà da delusione in delusione assieme a tutti, ricchi e poveri, persone all’apparenza dabbene e papponi,
perché su questa terra non ci sono miracoli e le promesse si rinviano all’aldilà: basta crederci! – ma il puro di cuore
troverà, anche dopo le sconfitte, dentro di sé il “miracolo” di amare ancora la vita – visione laica, ricca di umana,
commossa pietà – Giulietta, grandissima, Palma d’oro a Cannes; Federico II Oscar consecutivo a Hollywood.
- LE FATICHE DI ERCOLE di Pietro Francisci (1957) – negli anni di stasi e disimpegno, fu campione di incassi nel ’57-’58 e
girò il mondo come testimonial della italica inventività – primo “peplum” o storico (si fa per dire) mitologico, che supera
gli schemi del kolossal e si produce a bassi costi – l’eroe è uno stereotipo superdotato sessualmente (Steve Reeves mister
Universo), agisce con spettacolarità muscolare fra scenografie di cartapesta di delirante kitsch, mosso da valori
elementarizzati (libertà, giustizia) contro i “Cattivi” in difesa dei “Buoni” oppressi il popolo tout court e Lei,
naturalmente, adeguata partner sexy – il vero exploit fu però la scanzonata, goliardica, ironica bailamme tutta visiva per
permetter allo spettatore/massa di chiudere per 90 minuti il cervello nel cassetto.
IV MODULO
Gli anni del cinema d’autore e del primato internazionale
- IL GENERALE DELLA ROVERE dì Roberto Rossellini (1959) – ritorno cult del regista (Leone d’oro a Venezia) alle
atmosfere/tematiche del primo neorealismo – riapre con autorevolezza il discorso sul momento fondante la nuova Italia (anni
‘43/45) dopo i colpevoli silenzi degli anni ’50 – opera buona, non eccezionale, ma dai grandi meriti civili: ripropone un cinema
d’informazione storica e riflessione critica sull’identità morale della Resistenza che ha costruito l’Italia democratica – da un
racconto di Montanelli, anziano “uomo qualunque”, antieroe per eccellenza, vive di espedienti nell’Italia occupata dai tedeschi:
collaborerà per opportunismo, ma a S. Vittore conosce gli “eroi normali” della Resistenza, ne sarà sedotto dai valori morali e saprà
morire come loro, riacquistando dignità di uomo e di italiano –centrale la recitazione intensa di De Sica.
- LA PRESA DEL POTERE DA PARTE DI LUIGI XIV dì Roberto Rossellini (1966) – straordinario ed inquieto intellettuale,
acuto e sensibile osservatore delle evoluzioni sociali e di costume, instancabile sperimentatore che si rimette sempre in
gioco, l’ultimo, grande Rossellini guarda al nuovo strumento di intrattenimento di massa, la TV – ricerca e studia nuovi e
più idonei modi narrativi ed espressivi per un prodotto che sia d’alta qualità, intelligente, visivamente attraente per il
piccolo schermo a fruizione casalinga: una TV colta che sappia divulgare saperi significativi seppur difficili – in questo
caso la costruzione del moderno Stato nazionale assoluto da parte del Re Sole – poi verranno l’uomo nell’età del ferro e
gli atti degli apostoli, Socrate e Agostino, Cartesio e Pascal.
- LA GRANDE GUERRA
dì Mario Monicelli (1959) – film di straordinario impegno civile– rilettura controcorrente e
demitizzante della storia retorica e nazionalista dei film anni ’50, trasudanti amor patrio e combattenti “eroi”, qui vista
nell’ottica del fante contadino/operaio che soffrì e morì nelle trincee del grande massacro – film antimilitarista vero e
crudo: lo spettatore vede e può (se vuole) riflettere, come da lezione rosselliniana – ma il tono “tragico” di fondo (la
guerra) è contaminato, secondo l’umore del regista, dai ritmi della commedia quando segue i due protagonisti (in stato di
grazia il duo Gassman/Sordi) “antieroi” per eccellenza e fatalmente perdenti, ma in grado alla fine (come il Generale di
Rossellini) di riscattarsi – perfetta la fusione dei due toni: l’umoristico invera ed esalta l’assunto tragico – film corale
(tanti personaggi e tante storie umane diverse) dentro un grande affresco di luoghi e atmosfere d’epoca.
- LA MARCIA SU ROMA dì Dino Risi (1962) – si riprende la formula di Monicelli: frullare nella salsa agrodolce della
commedia satirica un fatto decisivo e tragico della storia nazionale – i toni esilaranti (soprattutto per il nuovo duo
Gassman/Tognazzi) evitano censure e consentono il racconto, seppur deformato dalla farsa, di verità terribili e dolorose,
ignorate dai libri scolastici e dall’ufficialità dei governi centristi – due ex commilitoni, spiazzati socialmente nel primo
dopoguerra, si convincono delle mirabolanti promesse del neonato fascismo – partecipano come squadristi marciatori alla
“rivoluzione” del manganello e dell’olio di ricino, ma, di fronte ad un brutale assassinio, si ritirano proprio mentre il Re
affida l’Italia al cavalier Benito Mussolini – a manovrare la goliardata nazionalista e dannunziana erano i padroni del
vapore.
- IL DELITTO MATTEOTTI dì Florestano Vancini (1973) – solo per esemplificare un altro modo di raccontare per immagini la
storia patria – puntuale ricostruzione del fatto delittuoso entro il suo contesto politico su documentazione d’epoca (atti
parlamentari, indagini istruttorie, memoriali) – come i padroni del vapore, dopo la goliardata della marcia, tirano le fila a
proprio vantaggio e l’Italia da regime liberale passa alla dittatura fascista – cinema d’alto impegno civile per far sapere
alla gente come erano andate le cose.
- I COMPAGNI dì Mario Monicelli (1962) – storia dei primordi della classe operaia italiana, quando iniziò la lotta per quei diritti
sociali e civili che il fascismo travolse – a fine ‘800 in un opificio di Torino, operai e operaie iniziano a prendere
coscienza di sé (essere sfruttati) e quindi un percorso di lotta per diritti basilari (passare da 14 a 13 le ore di lavoro
quotidiano!) sotto la guida di un professore socialista, “intellettuale borghese imprestato alla classe operaia” – complesso
affresco sulla società del tempo: dai miseri quartieri dormitorio al lavoro organizzato in fabbrica, con richiami ai modi di
vita dell’alta borghesia capitalista e sulla catena di comando della produzione, interna ed esterna (l’esercito a difesa della
proprietà privata) – commossa, amara, talvolta divertita, ma soprattutto pessimistica visione del regista, che ricostruisce
con grande sensibilità e puntualità storica fatti, atmosfere, figure – perfette le scene di massa – tra Dickens, Marx e De
Amicis.
- LA VILLEGGIATURA di Marco Leto (1973) – testimonianza di solitaria e suggestiva risonanza tematica: la persecuzione
degli intellettuali dissidenti e dei militanti politici dopo la soppressione fascista delle libertà civili – professore
universitario liberale non presta per dignità giuramento al fascismo – inviato al confine di Ventotene, incontrerà gli
antifascisti, maturerà percorsi di riflessione critica ed approderà alla lotta clandestina come imperativo morale – al centro
il dibattito sul ruolo dell’intellettuale: restare nell’autoreferenziale turris eburnea della propria cultura o, come Gramsci e
Gobetti, essere organico alla lotta di giustizia e libertà – straordinario cammeo di Adolfo Celi, funzionario di Stato colto e
sensibile ma disincantato esecutore di ogni potere costituito – film evocatore sapiente, anche per una fotografia quasi
documentaria, di intense atmosfere d’epoca sospese tra privato (affetti famigliari, studi, meditazioni) e pubblico (gli
accadimenti attorno di violenza e morte).
- ESTATE VIOLENTA di Valerio Zurlini (1959) – nella Riccione oziosa e appartata dell’estate ’43, che esorcizza il lontano
dramma della guerra, vedova ancor giovane di anziano medaglia d’oro, di severa educazione cattolica alto borghese,
scopre nell’innamoramento di un giovane la propria natura di donna, affettiva e sensuale – lui, imboscato figlio di
gerarca fascista, mette a nudo un disperato bisogno di affetto e certezze – forse il più bel film d’amore (non melo!)
italiano per sensibilità, finezza, veridicità dell’introspezione psicologica che segue l’iter della passione dall’insorgenza
nelle inconsce motivazioni pregresse, alle contraddizioni di età, carattere, cultura sino alla violenta irruzione della realtà
esterna, terribile della guerra – con fluida coerenza registica, la storia privata scorre accanto e poi confluisce in quella
collettiva della Nazione, nella plumbea sospensione temporale tra il 25 luglio e l’8 settembre.
- LA LUNGA NOTTE DEL ’43 di Florestano Vancini (1960) – opera prima di alto profilo artistico e premio speciale a Venezia,
nella lezione “drammatica” di Rossellini – da un racconto di Bassani, ricostruzione puntuale di un fatto accaduto (la
rappresaglia fascista su 11 cittadini) con l’intersecarsi di una storia privata a tre (la fiction) che mette a nudo mondi
interiori labirintici, segnati da pulsioni, inerzie colpose, ipocrisie, vili opportunismi – straordinaria la valorizzazione
ambientale di una Ferrara invernale e nebbiosa, cupa e torbida come gli anni finali di guerra civile, dai risvolti spesso
terribili come le vere motivazioni del massacro – geniale conclusione “voluta” dal regista con l’attualizzazione della
storia agli anni ’50, nel clima di indifferenza storico/civile che permea la buona borghesia di provincia nel rimuovere le
zone oscure (e le colpe) del proprio passato – mix di storia collettiva e privata (una specchio dell’altra), senza possibili
speranze e riscatti, pessimista circa le “italiche virtù”.
- TUTTI A CASA di Luigi Comencini (1960) – i giorni fatali dopo l’8 settembre ’43, visti nell’ottica della gente comune:
conclusione drammatica di un passato di violenze e inizio di un futuro ignoto, tutto da costruire – scelta obbligata di vita
per molti giovani e non solo di quella generazione: stare con fascisti e tedeschi o con alleati e resistenti (ma i più stettero
opportunisticamente alla finestra) – film episodico nello svolgimento ma unitario nella trama: giovane tenente tornando a
casa del Nord al Sud è testimone di ciò che accade (sbandamento dell’esercito regio, treni blindati, bombardamenti,
rastrellamenti, rappresaglie, caccia all’ebreo, borsa nera, miseria) sino alla presa di consapevolezza della realtà dei fatti e
alla sofferta maturazione: resistenza, dunque, come necessità di sopravvivenza, prima che sdegno morale e scelta
ideologica – nei toni agro/dolci della commedia “all’italiana” esiti notevoli (con qualche caduta) per vitalità ed incisività
narrativa, segnata da un Sordi contenuto e perciò più umanamente vero.
- LA CIOCIARA di Vittorio De Sica (1961) – parabola del regista negli anni ’60: grandi successi commerciali grazie all’uso
“attrattivo” di stereotipi di “italianità” amati anche all’estero: colorismo paesano, recitazione/ divismo della Loren (qui,
non a caso, Oscar), ma senza l’antica, commossa sensibilità nel guardare alla vita degli uomini – da Moravia, giovane
vedova e figlia adolescente, sfollate in paesino della Ciociaria, assistono al passaggio della guerra ed ai suoi orrori, sino a
stupro da parte di soldati marocchini – l’intercalare di toni tragici e da commedia non è fuso, spesso stride e molte cose
sono sopra le righe alla ricerca del facile consenso di un pubblico di massa.
- KAPO’ di Gillo Pontecorvo (1960) – film double face di eccessiva, dissonante incoerenza narrativa, ma anche di forte sincero
impegno civile – nella prima parte, lineare, asciutto, duro sino alla crudezza, ricostruisce con maestria e verità quel
mondo del Male che rinvia a P. Levi di “Se questo è un uomo”: giovane ebrea, deportata in lager, subisce processo di
degradazione umana sino a famigliarizzare, per sopravvivere, con i propri aguzzini e sarà Kapò – poi il registro muta e
diventa melò indigeribile, impastato di sentimentalismo e ideologia: s’innamora di bel prigioniero sovietico e trova nella
morte sacrificale per gli altri e il socialismo il proprio riscatto/redenzione – bianconero cupo, tagliato, “sporco”
nell’immagine che rende con vigore tutto l’orrore concentrazionario.
- IL TERRORISTA di Gianfranco De Bosio (1962) – gli esiti del film convalidano le ambizioni di partenza:
avvicendare scene d’azione (guerriglia condotta da un GAP partigiano in una grande città) con la
“visualizzazione” sullo schermo delle enormi problematiche politiche della Resistenza, attraverso i dialoghi
tra i membri dei partiti del CLN sulle prospettive immediate (attendere o agire, e come?) e su quelle future
(insurrezione, e come? e quale Italia da rifare dopo?) – insomma la storia di fatti individuali e la storia alta
della Nazione – al centro la riflessione sull’uso della violenza (nesso: azione militare/ostaggi/rappresaglia).
Direbbe C. Pavone: un film sulla moralità della Resistenza – alternanza coesa di interni (i dialoghi con
qualche didascalica verbosità) ed esterni (dinamicità svelta e crudele; sullo sfondo una Venezia caliginosa,
cupa e triste, come fu quel periodo) – assai intenso G. M. Volontè.
- TIRO AL PICCIONE di Giuliano Montaldo (1961) – film d’esordio che caratterizza subito il regista: forte
impegno/passione civile e ricerca storica anticonformistica (e dolente), rivolta a figure emblematiche di
perdenti – dall’autobiografia di uno di loro, scandaglia con rispetto e serietà il mondo assai differenziato della
Repubblica di Salò, i “ragazzi dell’8 settembre” anzitutto, e poi i reduci di tante guerre perse e gli anziani
attivi nel ventennio – senza apriorismi ideologici, ricerca le motivazioni della loro scelta di campo, e mette e
fuoco caratteri, psicologie, retroterra personali, identità culturali e registra l’itinerario storico e umano dei
singoli sino al drammatico, cupo tramonto – film duro, veritiero che nulla concede al retorico e poco al
convenzionale (la relazione del protagonista con l’ausiliaria).
- UNA VITA DIFFICILE di Dino Risi (1961) – film chiave nel racconto che il cinema fa sulla storia della
Nazione, perché abbraccia non un momento isolato, ma un periodo lungo di cui tenta la sintesi – storia di un
intellettuale di sinistra che, da partigiano idealista ed ideologizzato e poi da giornalista coerente e militante
nelle lotte del dopoguerra, finisce col dover fare i conti con la realtà che si è prodotta: l’Italia del centrismo
DC e del boom con i suoi neovalori (o disvalori), conformismo, consumismo e arrivismo sociale – materia
incandescente che parla della transizione dall’Italia autoritaria ed autarchica a quella democratica ed
industriale – progetto ambizioso, difficile, impegnato che Risi risolve brillantemente nell’agrodolce della
commedia all’italiana: si parla di cose alte e serissime nei toni leggeri ed ammiccanti che sanno coinvolgere
un pubblico di massa – la vera briscola è un Sordi straordinariamente “italiano”.
- ROCCO E I SUOI FRATELLI di Luchino Visconti (1960) – estremo ritorno del regista al Neorealismo: temi di
attualità, analisi sociologica, gente del popolo, qui emigrati dal Sud nella Milano industriale del boom – film
“enorme” per ricchezza narrativa e problematica (le storie dei cinque fratelli, parallele ed intersecantisi,
costruiscono il quadro d’assieme di quell’età) e per assoluta coerenza di stile e tecniche espressive, molte
desunte dall’esperienza teatrale – affresco epico/corale sul passaggio della Nazione da arretrata società
contadino/patriarcale a moderna società industriale attraverso contraddizioni, sradicamenti, lacerazioni e
sofferenze, costretta in dinamiche violentemente contrapposte: integrazione/modificazione coatta di
mentalità, costumi, modi d’essere oppure emarginazione/espulsione/autodistruzione – i vecchi collaudati
valori (unità, solidarietà, eticità del gruppo famigliare) confliggono con quelli nuovi, nati dai modificati
rapporti economici (individualismo esasperato, ricerca edonistica di una vita consumata nel breve tra sesso e
denaro).
- IL POSTO di Ermanno Olmi (1960) – “opera prima” a Venezia, è film d’impegno, girato in modo
intenzionalmente minimalista: piccole storie di vita quotidiana di gente del popolo, qualsiasi, con
ambientazioni dal vivo (strade anonime, case di ringhiera, interni spaesanti della moderna e fredda
architettura industriale), in un linguaggio scarno, sommesso, pudico che suggerisce un soffuso, dolente
pessimismo, con l’uso di attori non professionisti, forse acerbi ma espressione di vita vissuta (non
“interpretata” sullo schermo) – nella Milano del grande boom, un adolescente cerca un “posto” per vivere e
sognare qualcosa – finirà più prosaicamente per sopravvivere nel grigiore uniforme e conformista del mondo
impiegatizio – Olmi, come De Sica, vede e riprende, non giudica e non insegna: lezione di umiltà intellettuale
e di verità (quella che, attorno a noi, non sappiamo spesso vedere).
- IL MAESTRO DI VIGEVANO di Elio Petri (1962) – il boom diffuso iniziò con l’avvio /proliferazione di aziende
medio/piccole (i capannoni a conduzione famigliare) nelle province del Nord Ovest (i distretti della sedia,
della scarpa ecc.) – ciò determinò processi contrastanti nella mentalità, nei modi di lavorare e vivere, nei
costumi della gente (individualismo e arrivismo, benessere e consumismo, emancipazione ed emarginazione
– il film narra questo passaggio con la storia di un maestro elementare (il mondo della tradizione che non sa
adeguarsi) e di sua moglie (popolana che sa evolversi da casalinga a operaia ad imprenditrice) – commedia
all’italiana che vuole informare e far riflettere, di taglio realistico e con registri che variano dal serio
all’amaro, dal comico al patetico, al grottesco e che più volte non sanno fondersi.
- BANDITI AD ORGOSOLO di Vittorio De Seta (1961) – isolato ed irripetibile capolavoro, opera prima a Venezia
– nell’Italia del primo boom, c’è nell’ “isola Sardegna” (di per sé già emarginata), l’ “isola Barbagia”, mondo
ancestrale di pastori nomadi sopravvissuto ai millenni ed ora all’estremo tramonto, con i suoi ritmi di vita
dettati dalla scansione delle stagioni e dall’essenzialità dei bisogni e dei gesti, i suoi rapporti elementari di
tipo tribale – l’Uomo vive immerso in una Natura dominante, aspra che è anche Destino ineluttabile e
capriccioso contro cui nulla si può: testimone di un omicidio da parte di banditi, un pastore, a torto ritenuto
dalla legge complice, si dà alla macchia, perderà il proprio gregge, si farà a sua volta bandito – intenti
documentaristici e passione antropologica si fondono perfettamente in un bianco/nero essenziale, asciutto, di
rigorosa veridicità che è lezione professionale e morale, alla Robert Flaherty.
- GLI ULTIMI di Vito Pandolfi (1963) – film scritto da David M. Turoldo, prete friulano, intellettuale e
progressista, che sta con i perdenti, e diretto da un laico fine e colto, marxista: ciò bastò perché fosse
boicottato dai cinema parrocchiali – gioiellino sul filo della memoria (ambientazioni, persone, modi d’essere
e di vivere) di quella millenaria civiltà contadina che al Nord si disperse all’apparire del boom – racconta
l’infanzia dura e dolente di un bambino della Bassa friulana – realismo robusto, severo nella rivisitazione
nostalgica di un mondo dai valori semplici ma moralmente integri e tenaci, con spunti poetici esaltati da un
b/n incisivo – solo limite, il didascalico invadente della voce narrante.
- LA DOLCE VITA di Federico Fellini (1960) – Palma d’oro a Cannes, simboleggiò un’epoca in Italia e nel
mondo, esibendo i nuovi stili di vita basati sull’ “apparire” e non sull’ “essere”, nati dall’opulenza del boom –
o meglio i risvolti più inquieti, torbidi, marcescenti di vecchi protagonisti sociali (aristocratici, intellettuali
postmoderni) e dei nuovi parvenu arrivisti (cinematografari, imprenditori d’assalto, faccendieri d’accatto) –
un viaggio nella notte di Via Veneto (e nel sonno della Ragione), fatto di soldi, sesso e vuoti interiori –
ripetitivo l’episodio sul bigottismo delle plebi suburbane – film a narrazione episodica (col giornalista
Mastroianni trait d’union girovago e smarrito), ma potente e unitario è l’affresco nel suo complesso – ancora
all’apparenza neorelismo (si analizza la realtà circostante) pur con ampie concessioni all’eccessivo e al
visionario, di fatto è film di svolta per il regista: dopo guarderà solamente dentro di sé, nell’io dolente e
ipertrofico della memoria e dell’evocazione magico/nostalgica.
- I MOSTRI di Dino _Risi (1963) – nella Dolce Vita c’era l’high-society, qui la piccola borghesia (in 2 soli episodi
il sottoproletariato), cresciuta nei miti/status symbol del boom (Fiat ‘600 e TV) arrivista e opportunista,
ipocrita e qualunquista, culturalmente torpida e cialtronesca nel suo perbenismo di facciata – insomma
quell’italiano medio, l’uomo di massa, compiaciuto dei propri “italici” difetti (e disvalori), sì da reiterarli
avanti, ieri come oggi! – ardito, feroce pamphlet, aguzzo come uno spillo, costruito per sketch da
avanspettacolo più che su episodi (oltre 20!) che porta alla risata immediata e contagiosa (ma anche, purché
si rifletta, catartica) – mestieraccio di Risi e virtuosismo “mostruoso” del duo Gassmann/Tognazzi.
- DIVORZIO ALL’ITALIANA di Pietro Germi (1961) – film svolta per il regista: dai toni seri del neorealismo
sociale o intimistico, passa alla commedia all’italiana con una originalissima, disinvolta riscrittura ma
restando nel solco della sua moralità alta e risentita (cinema come impegno laico e strumento di lotta civile) –
come in una Sicilia (metafora farsesca dell’Italia ) bigotta e ipocrita nei costumi e arretrata culturalmente, si
possa “divorziare” utilizzando l’art. 587 del C.P., cioè commettendo delitto d’onore – esilarante, sanguigno,
graffiante pamphlet su un certo modo italico di vivere la sessualità (machismo, voyeurismo, ossessione
erotica nel maschio; oggetto e soggetto morboso di pulsioni, subalternità della donna) – satira di feroce
sarcasmo, venata da umor nero che sconfina nel grottesco - fu viatico anticipatore delle lotte per i diritti
civili del ’68.
- L’APE REGINA di marco Ferreri (192) – autore difficile, talora astruso, piacere alla sinistra radical-chic – intellettuale del ’68
e dintorni, libertario (se non anarchico), laicista, di compiaciuto manicheismo ma anche strenuo assertore di diritti civili:
suo referente è L. Bunuel – analizza e denuncia costumi, mentalità, comportamenti borghesi attraverso “favole amare”,
satire metaforico/allegoriche dalle tinte paradossali, grottesche, condite di umor nero – qui anatomizza il rapporto di
coppia, dove vige non la parità (e il rispetto) bensì la legge di chi sa essere dominante – un quarantenne borghese si
accasa con giovane seria, perbene, illibata, educata alla precettistica del catechismo: sposata, si impossesserà del
brav’umo sino all’esserne fecondata, per poi emarginarlo dalla sua vita – pamphlet brillante ed acre: lei, l’ape regina, è
simbolo, non personaggio.
- IO LA CONOSCEVO BENE di Antonio Pietrangeli (1964) – profilo delicatissimo e intenso di giovane provinciale (una
Sandrelli straordinaria) che cerca a Roma di inserirsi nella vita “alla moda”, quella che conosce da rotocalchi, cinema e
TV: sfilate in passerella, night club, party, bagni al chiaro di luna, insomma l’effimero e il vacuo emerso dal boom –
tutto “appare” facile, ma non lo “è”, a partire dall’uso del proprio corpo e dai conti con la coscienza – intorno, il mondo
maschile, opportunista, infido, egoista, furbesco, volgare – film protofemminista che svela sofferenze e costi della
donna nella ricerca e definizione di una nuova collocazione valoriale ed esistenziale – eccezionale lavoro tecnico del
regista, di frantumazione della tradizionale struttura narrativa e sua ricomposizione in un montaggio accelerato,
nervoso, analogico per spazi e tempi secondo il pulsare interiore della protagonista.
- L’AVVENTURA di Michelangelo Antonioni (1960) – primo della trilogia sull’”incomunicabilità” (poi Notte ed Eclisse), che
lo affermò come “maestro” nell’avanguardia internazionale (con I. Bergman e A. Resnais) – trama esile (una ragazza
scompare d’improvviso senza come e perché; il fidanzato e l’amico di lei la cercano), atmosfere sospese, rarefatte in
paesaggi (uno scoglio delle Eolie, la Noto barocca) evocati come luoghi dell’anima, in lunghi silenzi e poche parole,
dure come pietre – Antonioni scava “dentro”, nelle fragilità, insicurezze, instabilità, nei vuoti valoriali dell’umo
moderno e prodotto del troppo benessere guarda beninteso all’high society, la disfacentesi aristocrazia e l’alta borghesia
imprenditoriale prive di stimoli motivanti se non il sesso e il denaro, ed alle loro corti di noir e ballerine – visione
pessimistica, che non diventa tragedia solo se c’è mutua comprensione della reciproca miseria interiore – la “musa” è
Monica Vitti.
- ACCATTONE di Pier Paolo Pasolini (1961) – esordio spiazzante per contenuto e tecniche di un intellettuale colto, inquieto,
sensibilissimo osservatore e acuto lettore delle trasformazioni materiali e dei sommovimenti antropologici apportati dal
passaggio di civiltà a fine anni ’50 – sperimentatore sempre all’avanguardia, scandaglia la quotidianità di vita del
sottoproletariato periferico di Roma, i borgatari, esclusi e ghettizzati dall’esplosione caotica e sfrenata della città –
dunque ribelli, di disperato vitalismo e nell’affermare una propria identità nell’ “anticonformismo” (soprattutto
antioperaio verso chi lavora inserito nel sistema borghese) e nella “diversità” voluta di essere solo se stessi – una ricerca
impossibile di libertà ed autonomia, orgogliosa e straziata, vinta in partenza e priva id ogni positività – consapevole ed
urticante provocazione per amore di una verità senza ipocrisie: così era P.P.P. – ricorda Scuscià di De Sica.
-IL TAGLIO DEL BOSCO di Vittorio Cottafavi (1962) – gioiellino di nicchia, sconosciuto, riprende stilemi del vecchio
neorealismo (ambientazioni povere, qui una Maremma appartata; storie di gente del popolo; autori non professionisti,
tranne un intenso G.M. Volontè), ma in chiave tutta intimista, sommessa, pudica nello scavo nostalgico di affetti
famigliari semplici e perciò più veri e forti, lungi da retoriche, sociologismi e volontà di denuncia – a un racconto di C.
Cassola, boscaiolo vive in solitudine il ricordo/rimpianto della giovane moglie morta – maestro di Kolossal all’italiana,
Cottafavi fu un grande artigiano: qui volle essere un autore e ci riuscì.
- I PUGNI IN TASCA di Marco Bellocchio (1965) – opera prima, suscitò subito attenzione e scandalo nel cinema
internazionale per la carica dirompente e distruttiva verso un’istituzione sacramentale della società medio/alto borghese:
la famiglia, luogo di riti convenzionali ed ipocriti – rabbia a lungo repressa (i pugni in tasca) di un giovane nevrotico ed
epilettico (uno sconvolgente Lou Castel), che esplode con lucida follia nell’eliminazione dei consanguinei ritenuti “non
sani” e dunque “inutili” (darwinismo sociale) – c’è angoscia, durezza, crudeltà urticante che però non scade mai a livelli
puramente scenici – anticipa in modo profetico temi, stati d’animo, malesseri della futura contestazione del ’68, nel
segno di un ribellismo distruttivo e autodistruttivo, disperato – riecheggia H. Pinter, Buñuel e Nouvelle Vague, ma c’è
nel regista marcata originalità, coerenza e già pieno possesso delle tecniche espressive.
- LE MANI SULLA CITTA’ di Francesco Rosi (1963) – speculazioni edilizie, cementificazioni e scempio del paesaggio,
degrado della vita sociale, collusione tra politica e malaffare con voto di scambio mafioso, occupazione degli Enti
Locali ai soli fini di potere e profitti illeciti, conflitto d’interesse: siamo ai primi anni ’60 e sembra di parlare di cose dei
nostri giorni – film che iniziò il genere “politico” distintivo degli anni della contestazione: impegno, passione civile e
moralità, coraggio di guardare alle cose dietro la facciata ufficiale e perbenista e di denunciarle ad un’opinione pubblica
di massa, torpida e acritica, e perciò politicamente subalterna – Rosi imprime al film un ritmo serrato ed asciutto, con
dietro lucida e dolente indignazione – lezione evoluta e matura del neorealismo “sociale” (specie il Visconti di La Terra
trema) e che meritò il Leone d’oro a Venezia, quasi medaglia al valor civile.
- SALVATORE GIULIANO di Francesco Rosi (1962) – solo pochi spezzoni del film per ribadire l’altezza artistica di Rosi –
film inchiesta di incisiva potenza: le immagini, girate nei luoghi degli accadimenti (celeberrime quelle sulla strage di
Portella delle Ginestre di eizensteiniana epicità) vivisezionano con filologico rigore un fatto di cronaca (come morì
“veramente” il bandito Giuliano?) per cercare quella verità negata dall’omertà di pezzi dello Stato – dal separatismo
siciliano al banditismo anticontadino e anticomunista al soldo dei poteri e interessi forti, sino alla ricerca dei mandanti
occulti della prima strage di Stato nell’intreccio mafia/politica – l’immediato dopoguerra come prodromo dell’Italia di
Falcone? e di oggi? – bianco e nero di eccezionale impatto visivo.
- UN UOMO DA BRUCIARE di Paolo e Vittorio Taviani (1962) – esordio e premio della critica a Venezia – narrazione di un
fatto di mafia: lupara bianca per il sindacalista Salvatore Carnevale, protagonista dell’occupazione delle terre in Sicilia –
si punta meno sulla ricostruzione socio/ambientale (neorealismo classico) e s’investe molto di più sul
personaggio/uomo (esordio di G. M. Volontè) con le sue energie esteriori e le interiori debolezze, velleità ed ambizioni
– il messaggio sembra essere: il riscatto sociale passa per l’azione/sacrificio del singolo più che per l’apporto delle
masse – dunque un “messia” laico e moderno, da subito consapevolmente perdente, ma icona vittoriosa nel futuro –
molte tecniche di ripresa sono innovative: così il film dentro il film, che presagisce al protagonista la propria morte nella
fantasia della fiction.
- IL VANGELO SECONDO SAN MATTEO di Per Paolo Pasolini (1964) – dopo le mille versioni tra muto e sonoro della vita
di Gesù, mummificate in stereotipi di routine più o meno commerciali, eccezionale rilettura ex novo di un laico
marxista del Vangelo di Matteo, il più “popolano” (non popolare) dei 4 – P.P.P. esce dall’involucro formale del
neorealismo (location nei Sassi di Matera) creando un’atmosfera sospesa tra cielo e terra, di assoluta semplicità e
purezza, ove il Dio Uomo effonde il Verbo a favore di giusti e derelitti, emarginati e sofferenti ,cioè del popolo nella sua
realtà sociale, ed esclude i farisei, pochi e potenti, arroganti ed ipocriti – sublime epos religioso che affascina credenti e
non, con immagini ispirate ai grandi della pittura (Giotto, i Fiamminghi, Piero della Francesca, Caravaggio) – l’intenso
ed inquietante Gesù di Enrique Jrazoqui esprime, nella disperata vitalità, l’autobiografica volontà di sfida e riscatto di
P.P.P.
- IL GATTOPARDO di _Luchino Visconti (1963) – Visconti rilegge Tomasi di Lampedusa con autonomia culturale – storia
del momento fondativo della Nazione, dall’impresa sovvertitrice dei Mille al compromesso (il gattopardismo) che resse
il Regno sabaudo fino a Novecento inoltrato, tra vecchia aristocrazia fondiaria avviata al tramonto (il nobile nipote del
Principe, lo squattrinato Tancredi) e la nascente borghesia degli affari e del danaro (matrimonio con la parvenu ma ricca
Angelica) – borghesia, si badi, similmente opportunista, ma più cinica e volgare, priva di stile, raffinatezza, senso del
bello, il mondo cioè del Principe di Salina (un virile, intenso Burt Lancaster) – piacere del regista nel narrare
liberamente un mondo di nostalgici richiami, nell’amara consapevolezza del suo superamento storico – incanto
fascinoso delle scenografie, di assoluta perfezione – interni di palazzi, arredi e costumi, rituali e modi di vivere: sintesi è
il gran ballo finale – Palma d’oro a Cannes.
- SENILITA’ di Mauro Bolognini (1962) – ridurre Svevo sullo schermo è difficile assai per le tematiche poco appetibili per un
largo pubblico: qui si parla di “senilità” come condizione esistenziale ben prima che anagrafica – storia, tutta interiore,
di un impiegato grigio, insicuro, velleitario, contradditorio, emblema dell’ “inetto” letterario di tanta cultura europea
della crisi di fin de siecle (Kafka, Musil, T. Mann) – un “vinto” non da fattori a lui esterni come in Verga, bensì da se
stesso, dal proprio “male di vivere” – cercherà con una ragazza del popolo di pragmatica vitalità una vana e dolorosa
rivincita, per finire nella solitudine e nell’impotenza – splendide, di assoluta qualità visiva le ambientazioni, la
fotografia, veri punti di forza del film: Trieste non è mai stata così bella al cinema, crepuscolare, piovosa, suggestiva
città dell’anima mitteleuropea – la critica sdegnò (o non capì) il film, al di là di alcune ombre, relegandolo all’oblio.
- LA ROSA ROSSA di Franco Giraldi (1971) – triestino il regista, istriano l’autore del testo, P.A. Quarantotti Gambini – da ciò
l’intensa “aria di famiglia” nelle atmosfere che rievocano tempi, culture, mentalità, modi di vivere, mescolanze etniche
di un luogo di frontiera della Mitteleuropa, decaduta ma non tramontata – ex generale di Francesco Giuseppe ma
italiano di origini e nome, si ritira dopo la dissoluzione dell’Impero a Capodistria presso due anziani cugini, provocando
il riaffiorare di ricordi, pulsioni sopite, rimpianti, struggimenti dolci o amari, comunque dolenti – un mondo intimistico,
di scavo interiore (trait d’union passato/presente è un rosa rossa), di per sé difficile da tradurre in immagini con coerenza
– ma Giraldi fa il miracolo con intelligente lievità, eleganza di tocco, partecipe sensibilità: un “gioiellino”
misconosciuto a critica e pubblico.
- PER UN PUGNO DI DOLLARI di Sergio Leone (1964) esauritosi il “peplum”, Cinecittà sforna un’altra genialata di enorme
successo commerciale: il western all’italiana, umiliando Hollywood nel suo genere più tipico – Leone ribalta i vecchi
stilemi e pone a protagonista non l’eroe che agisce per amore e valori morali, ma un antieroe senza patria e nome,
disincantato, cinico, violento, mOsso dall’avidità del denaro – paesaggi desolati, lunari, di un West remoto e perduto;
atmosfere cupe, intrise di esasperata violenza protratta sino alla crudeltà più SADICA; tempo scandito dalla sola morte
– poi verrà il profluvio dei Ringo, Django, Sartana (il western spaghetti), ma Leone è cosa seria: ha personalità, forte
tensione drammatica senza cadere nel risibile, humor fine, straordinarie tecniche di ripresa e, soprattutto, un Clint
Eastwood dal physique du role e le musiche complici di Ennio Moricone.