Il tempo di un comune discorso L`eredità dei giusti e il

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Il tempo di un comune discorso L`eredità dei giusti e il
Il tempo di un comune discorso
L’eredità dei giusti e il destino dell’Europa
S. Maletta
L’intento di questo scritto è quello di tracciare nelle sue linee essenziali la risposta alla
seguente domanda: qual è lo specifico contributo che i giusti offrono alla costruzione dell’Europa
del terzo millennio? Il percorso tracciato poggia su tre tesi. La prima è rappresentata dalla
caratterizzazione della crisi dell’Europa nei termini elaborati dalla tradizione fenomenologica
europea a partire da Edmund Husserl. La seconda è rappresentata dall’individuazione del momento
di maggiore consapevolezza di tale crisi nell’esperienza del dissenso nei regimi comunisti
dell’Europa centrale (in Charta 77 in particolare). Nell’individuare le possibili vie d’uscita, inoltre
― e questa è la terza tesi ―, il dissenso mitteleuropeo teorizza e pratica forme di vita che
esemplificano il paradigma del giusto secondo una configurazione capace di fare sintesi delle
diverse esperienze e allo stesso tempo di suscitare in noi, esseri umani del terzo millennio, una loro
paradossale emulazione.
L’Europa e la sua crisi
Che cosa si intende per crisi dell’Europa nella prospettiva fenomenologica? Diamo una
risposta necessariamente semplificata, sperando di non banalizzare la questione1 . Husserl parla in
realtà non tanto di crisi dell’Europa quanto di «crisi delle scienze europee» 2. La crisi della scienza è
crisi della razionalità, della capacità della ragione di comprendere il senso della storia, dei suoi
avvenimenti, nonché di stabilire criteri pratici e quindi di guidare la vita. La razionalità è ridotta a
ragione strumentale, vale a dire essa è capace solo di individuare gli strumenti più efficaci ed
efficienti per realizzare fini dati. I fini sono dati nel senso che sono individuati da facoltà altre
rispetto alla ragione, quindi in modo irrazionale. Quanto più la ragione strumentale guadagna in
efficienza, tanto più l’ambito dell’irrazionale si amplia. La ragione non guida la volontà e non
orienta i sentimenti, ma è bensì schiava delle emozioni, le quali ― com’è noto ― sono facilmente
influenzabili tramite le tecniche di manipolazione sociale da chi detiene il potere nelle sue varie
forme (politico, economico-finanziario, culturale)3.
La ragione ― s’è detto ― perde la capacità di guidare la vita perché non è più in grado di
comprendere il senso della storia, la sua direzione, il suo telos. Sono gli esseri umani gli autori della
storia, ma lo sono attraverso la struttura assai complessa delle loro implicazioni intenzionali, le
quali non sempre sono del tutto consapevoli. Donne e uomini ― per così dire ― fanno la storia in
maniera preterintenzionale. Ebbene, la struttura delle implicazioni intenzionali è ordinata da un
1
Per un approccio rigoroso alla questione cfr. V. Costa, Husserl, Carocci, Roma 2009, in part. il cap. 7 “La storia e
l’identità dell’Europa”.
2
E. Husserl, La crisi delle scienze europee e la fenomenologia trascendentale.Un’introduzione alla filosofia
fenomenologica, il Saggiatore, Milano 1961 (ed. orig. Die Krisis der europäischen Wissenschaften und die
transzendentale Phänomenologie. Eine Einleitung in die phänomenologische Philosophie, in “Philosophia”, I, 1936).
3
A buon diritto Alasdair MacIntyre ha focalizzato l’attenzione sull’emotivismo inteso come dottrina etica e sulle sue
traduzioni sociali; cfr. A. MacIntyre, Dopo la virtù. Saggio di teoria morale, Armando, Roma 2007 (ed. orig. After
Virtue: A Study in Moral Theory, University of Notre Dame Press, Notre Dame 1981, 19842); S. Maletta, Biografia
della ragione. Saggio sulla filosofia politica di MacIntyre, Rubbettino, Soveria Mannelli 2007.
1
telos immanente del quale gli esseri umani possono divenire coscienti attraverso l’interrogazione
del loro proprio passato da dove emergono strati di senso, segnali di direzione. È nel passato ― e
nelle tradizioni che lo “portano” a noi ― che è possibile individuare le possibilità da attualizzare
nella vita presente. Ogni epoca, ogni generazione, in definitiva ogni essere umano, ha il compito di
riattivare, diventandone consapevole e assumendolo su di sé, il senso della storia. È solo questo,
infatti, che può fornirgli quel fine pratico che permette alla ragione di offrire alla volontà uno scopo
da perseguire. È solo così che l’uomo può cercare di vivere ragionevolmente, cosciente della posta
in gioco nelle sue proprie scelte e quindi responsabile.
Qual è il senso che emerge dall’interrogazione del passato comune alle genti europee,
secondo Husserl? È un senso che emerge a livello di consapevolezza per la prima volta con la
nascita della filosofia in Grecia: l’episteme, la scienza, la conoscenza vera e rigorosa dell’intero.
Porre la scienza come telos significa assumerla come compito e quindi come qualcosa di
problematico. La scienza emerge infatti come telos nella presa di coscienza ― che si produce nel
contatto con altre culture ― di un dislivello ineliminabile tra la verità e il sapere. La vera scienza si
accompagna alla coscienza di una mancanza. L’identità europea non ha nulla a che fare con
un’origine etnica o con particolari contenuti culturali: essa è definita dall’interrogazione che investe
il senso della totalità di ciò che esiste, il senso dell’essere. È proprio la coscienza del dislivello tra
verità e sapere che permette all’Europa di evitare di fossilizzare la verità in una determinata dottrina
e di oltrepassare le proprie idiosincrasie. In tale tensione alla verità, nella coscienza di un dislivello
col proprio saperne, l’Europa rivela all’umanità tutta il telos immanente a questa. In altri termini, il
telos dell’Europa ― il sapere ― è un universale inscritto in ogni cultura particolare.
Tale tensione alla verità nella sua interezza tende a depotenziarsi soprattutto a partire dalla
modernità. Questa, in nome dell’ideale dell’oggettività, ci spinge a considerare il fondo da cui la
scienza con tutte le sue discipline emerge, il «mondo della vita» (Lebenswelt), come qualcosa di
meramente individuale e soggettivo. La scienza è il mondo delle qualità primarie che permettono di
ridurre gli enti incontrati nella Lebenswelt a idealità oggettive di carattere geometrico-matematico.
Nasce da tale atteggiamento l’oggettivismo, il quale per sua essenza è sordo ai richiami
dell’episteme verso la conoscenza dell’essere nella sua totalità. Husserl non intende con ciò
condannare tout court il metodo oggettivante della scienza moderna ― per come esso è stato
praticato ed elaborato soprattutto a partire dalla fondazione galileiana della fisica ― ma bensì
evidenziarne il deficit critico, l’inconsapevolezza del fondamento empirico e sensibile delle idealità
idealità geometrico-matematiche. In altri termini, l’oggettivismo costruisce una realtà ideale a
partire dalla Lebenswelt, la quale viene però censurata come fondamento di tale operazione di
astrazione e addirittura denunciata come mera apparenza soggettiva.
Il dissenso
In che modo l’interpretazione husserliana della crisi dell’Europa può risultare rilevante ai
nostri fini? Per rispondere a questa domanda occorre oltrepassare una comprensione superficiale del
fenomeno del dissenso.
Con il termine “dissenso” ci riferiamo a un fenomeno che nasce in Unione Sovietica a
partire dal cosiddetto Disgelo post-staliniano (il dittatore muore nel 1953) e che si diffonde in tempi
e modi diversi in altri paesi comunisti, soprattutto in quelli dell’Europa centrale (Cecoslovacchia,
Polonia, Ungheria, Germania dell’Est). In Cecoslovacchia il dissenso si sviluppa soprattutto in
seguito al fallimento del tentativo di riformare dall’interno il regime comunista (1968). Questo è un
2
punto fondamentale: il dissenso ceco si pone in radicale discontinuità con la cosiddetta Primavera di
Praga in quanto non ha e non intende avere ― se non indirettamente ― una natura politica 4.
Analizziamo velocemente il dissenso ceco e in particolare Charta 77 da una prospettiva
sociologica. Il primo fattore che salta agli occhi è quello della non violenza che, più che un metodo
di lotta politica, si manifesta nei dissidenti come uno stile di vita, il principio primo di una sorta di
estetica dell’esistenza (per usare un termine foucaultiano). Per quanto riguarda le forme
organizzative, esse si caratterizzano per la loro informalità ed elasticità, le quali, se garantiscono in
parte riservatezza e protezione dall’invadenza della polizia politica, non sfociano mai in una vera e
propria attività segreta. Un altro aspetto fondamentale di Charta 77 è infatti il suo appellarsi alle
convenzioni internazionali sui diritti umani (in particolare agli accordi di Helsinki del 1975) nel
tentativo di richiamare il regime comunista al rispetto degli impegni ufficialmente assunti di fronte
al mondo.
Dal punto di vista filosofico il dissenso ceco si caratterizza essenzialmente per il primato del
momento culturale. Se per cultura infatti intendiamo la coscienza critica della propria esperienza,
ciò che segna i protagonisti di Charta 77 (qui pensiamo soprattutto a Vaclav Havel e Jan Patočka)
non è tanto la loro intraprendenza o leadership, quanto la riflessione sul significato dell’agire in un
contesto post-totalitario (per usare un termine che definiremo in seguito). Ciò ha una conseguenza
di tipo metodologico: occorre porre molta attenzione su ciò che i dissidenti dicono di sé, sui testi
che documentano tale presa di coscienza.
Ebbene, se diamo credito a tale indicazione, ciò che i dissidenti cechi sempre affermano con
decisione è la loro piena appartenenza alla tradizione europea. Ciò si esprime in forma negativa nel
rifiuto del termine “Europa dell’Est” ― assai in voga ai tempi della Guerra fredda ― come
espressione di una visione ideologica e di un’artificiale configurazione politica internazionale5. Tale
orgogliosa rivendicazione identitaria non è superficiale. Nella sue più alte espressioni culturali il
dissenso ceco dimostra una coscienza critica del proprio discorso, la quale si manifesta in primo
luogo nella consapevolezza che il comunismo non è un malattia passeggera o un incidente di
percorso ma una conseguenza della crisi della tradizione europea, in secondo luogo nella
convinzione che la crisi coinvolge tutti i paesi europei al di qua e al di là della Cortina di ferro. Il
tentativo di fuoriuscita da tale crisi messo in atto dai dissidenti ha pertanto una portata paneuropea e
quindi ― secondo la suddetta tesi husserliana ― mondiale.
In Charta 77 e in tutto il dissenso gioca un ruolo rilevante la categoria di post-totalitarismo.
Si tratta di una categoria rintracciabile anche nella scienza politica contemporanea, laddove essa
indica quel tipo di regime che subentra alla momento totalitario vero e proprio (identificabile con lo
stalinismo) e che si caratterizza per il declino della mobilitazione politica e la diffusione dell’apatia.
Tali caratteristiche si accompagnano da un lato al depotenziamento della pretesa di verità da parte
dell’ideologia ufficiale, la quale richiede ora una mera adesione formale, e dall’altro a un relativo
aumento del benessere materiale della popolazione6. Ma quando i dissidenti parlano di regime posttotalitario in genere intendono un’altra cosa. Anche se manca una teorizzazione rigorosa e univoca,
il post-totalitarismo individua una famiglia assai ampia e variegata di regimi politici e sociali che
coinvolge la quasi totalità dei paesi europei ed occidentali e sempre più i paesi in via di sviluppo. In
4
Cfr. S. Maletta, Politica e coscienza morale. La Primavera di Praga quarant'anni dopo, «La Nuova Europa», n. 4,
luglio 2008, pp. 27-39.
5
Su tale questione cfr. lo splendido articolo di Milan Kundera, The Tragedy of Central Europe, in «New York Review
of Books», vol. 31, n. 7, 26 aprile 1984.
6
Cfr. J.J. Linz, Sistemi totalitari e regimi autoritari. Un’analisi storico-comparativa, Rubbettino, Soveria Mannelli
2006 (ed. orig. Totalitarian and Authoritarian Regimes, Lynne Rienner, Boulder 2000).
3
tale famiglia esistono (almeno sino al 1989) due linee genealogiche: quella liberaldemocratica e
capitalista e quella comunista. Senza volere negare le importanti differenze7, i dissidenti di Charta
77 ritengono che ciò che unisce tali due tipi di regime è più rilevante di ciò che li separa, vale a dire
il problema comune di rispondere alla crisi di senso inaugurata dalla modernità.
Ma in che modo la crisi di senso prodotta dall’oggettivismo opera a livello politico-sociale?
Non avendo la possibilità di sviluppare un’analisi accurata del pensiero patockiano, soffermiamoci
sul modo in cui un allievo di Patočka, Vaclav Bĕlohradky, usa la categoria di oggettivismo per
interpretare la sfida del dissenso 8.
Bĕlohradky vede i regimi politici europei su entrambe le sponde della Cortina di ferro
affrontare la medesima sfida epocale, quella che sorge da una riduttiva identificazione
dell’universalismo europeo con un progetto di neutralizzazione morale della sfera politica e con la
conseguente tecnicizzazione dello stato. Si tratta di un processo che nasce con la modernità stessa,
in particolare con i problemi legati ai conflitti civili di natura religiosa che interessano gran parte
delle nazioni europee tra la metà del sedicesimo secolo e la metà del diciassettesimo. L’esito è che
negli anni che seguono alla de-stalinizzazione e al Disgelo ― apparentemente caratterizzati dalla
“fine delle ideologie” ―, il dialogo tra le due sponde della Cortina (tra “est” e “ovest”) è pensato
possibile esclusivamente sulla base degli imperativi funzionali della tecnica. Da questo punto di
vista e coerentemente con gli assunti dell’oggettivismo, la razionalità è pensata come
strutturalmente correlata all’impersonalità. Tutto ciò che è personale è respinto oltre i confini della
realtà e relegato tra le ombre della ragione. Lo stato appare sempre più come un apparato
burocratico che trae la propria legittimità dal rispetto di requisiti formali di carattere legale e/o dalla
sua funzionalità rispetto al sistema economico. Il problema della legittimità delle istituzioni
politiche e delle leggi positive viene progressivamente a perdere di senso, visto che ciò che si
richiede a esse è rispondenza ai requisiti formali e/o di efficienza economica ― ed è questo ciò che
Bĕlohradsky intende per «banalizzazione».
Il predominio della razionalità formale e strumentale è un aspetto essenziale del dominio
della Tecnica, vista heideggerianamente come un’entità metafisica che spinge a tergo gli esseri
umani e ne modifica la natura: «L’uomo è divenuto un essere in agguato che si getta sull’identità di
tutte le cose che ha intorno asservendole saldamente alle proprie esigenze. […] L’identità delle cose
è strappata dal rispetto e vista solo come occasione per l’affermazione del progetto umano» 9. Ciò
che caratterizza l’interpretazione di Bĕlohradsky viene dall’’insegnamento patockiano: la Tecnica si
sposa spesso a un’esaltazione orgiastica. Questo è apparso evidente nei due conflitti mondiali dello
scorso secolo, in cui l’unità orgiastica di stampo nazionalista o razzista ha costituito il terreno di una
«sconfinata mobilitazione tecnica». La Tecnica richiede una devozione senza limiti che assomiglia a
una sorta di «estasi» e che contempla il sacrifico integrale per un fine superiore. Si stabilisce così un
fenomeno «epocale»: l’assorbimento del senso nella finalità10; il senso diviene qualcosa di
producibile tecnicamente.
7
I dissidenti sanno benissimo che non si è mai visto alcuno rischiare la propria vita per fuggire da Berlino ovest a
Berlino est…
8
Su Bělohradsky vedi il sito web personale http://www.multiweb.cz/hawkmoon/default.htm (ultimo accesso 2
marzo 2013). Bĕlohradsky (n. 1944) vive in Italia dal 1970 ed è professore emerito presso l’Università di Trieste.
9
V. Bĕlohradsky, Il mondo della vita: un problema politico. L’eredità europea nel dissenso e in Charta 77, Jaca Book,
Milano 1981, p. 6.
10
Ivi, p. 7.
4
La neutralizzazione e il predominio di una razionalità impersonale fan sì che ogni scrupolo
che possa sorgere rispetto a tale mobilitazione tecnica venga qualificato come qualcosa di
meramente soggettivo e idiosincratico di cui non tener conto e con esso anche i medium attraverso
cui ogni scrupolo si esprime, il linguaggio naturale. La nascita e diffusione delle cosiddette «lingue
di legno», caratterizzate da tecnicismi ed espressioni burocratiche, è decisiva per il processo che
stiamo descrivendo.
Di contro, la vera universalità è radicata nella Lebenswelt. Ecco quindi che la questione del
mondo della vita si pone come problema teorico centrale per il pensiero del dissenso. Esso è tale
nell’opera di Patočka, il quale dedica a tale problema molti scritti nel tentativo di superare le
difficoltà lasciate irrisolte dal maestro Husserl. Non è questo il luogo in cui sviluppare un’analisi
approfondita della questione, che presenta un alto coefficiente di complessità. Diciamo che nel
pensiero del dissenso la Lebenswelt marca quella dimensione in cui l’essere umano diviene
consapevole delle sue evidenze ed esigenze originarie, in cui l’essere umano cioè fa propriamente
esperienza. Ciò non avviene attraverso una riflessione intimistica, ma bensì nella comunicazione
interpersonale e nel contrasto tra punti di vista soggettivi11 . In altre parole, la Lebenswelt non va
intesa come una dimensione che sta dietro la nostra esperienza quotidiana o in un passato più o
meno mitico e nemmeno come a un illusorio atteggiamento di spontaneità e vitalità. Essa piuttosto
allude a un orizzonte pratico che si apre a chi realizza certe possibilità esistenziali, le quali possono
venire raccolte sotto un unico titolo, quello di cura dell’anima ― la cui trattazione rappresenta il
terzo e ultimo passaggio del nostro percorso.
La cura dell’anima
Un buon punto di partenza per parlare della cura dell’anima ― espressione di origine
platonica12 ― è focalizzarsi sul lavoro linguistico che essa implica. La cura dell’anima è infatti
resistenza all’ideologia e al suo sistema simbolico-linguistico che lavora ad approfondire la
banalizzazione. Non è per nulla stravagante allora affermare che la principale arma della cura
dell’anima è l’arte, in particolare la letteratura, la quale opera nella direzione della salvaguardia
della complessità e della ricchezza semantica del linguaggio. Il samizdat serve proprio ad assicurare
la circolazione innanzitutto di testi letterari (racconti, poesie) e anche di saggi che generano uno
spazio di comunicazione interpersonale in cui non è richiesta la censura preventiva della propria
prospettiva soggettiva. La letteratura (e in generale l’arte) ― grazie alla salvaguardia del linguaggio
naturale di fronte alla minaccia delle lingue di legno ideologiche, grazie al ricco e complesso gioco
tra le facoltà (sensibilità, immaginazione, intelletto) che mette in moto ― permette lo sviluppo di un
pensiero riflessivo profondo in cui, grazie alla condivisione anche solo potenziale delle esperienze
altrui, il soggetto è in grado di avvicinarsi alla Lebenswelt, è capace cioè di un rapporto con sé e con
il mondo fondato sull’intenzionalità originaria del mondo della vita. E proprio tale rapporto con
l’esperienza personale e quindi umana è capace di sollevare la questione della legittimità delle
istituzioni e delle pratiche sociali, chiedendo loro di render conto di se stesse alla luce delle
evidenze ed esigenze originarie.
In definitiva la cura dell’anima, se da un lato genera una soggettività profonda e riflessiva e
proprio per questo aperta alla comunicazione interpersonale e alla condivisione di prospettive altrui,
11
Cfr. V. Bělohradsky, Rivoluzione e democrazia, Città Nuova, Roma 1979.
12
Cfr. J. Patočka, Platone e l’Europa (1973), Vita e Pensiero, Milano 1997.
5
dall’altro rinforza lo spazio pubblico del dialogo e del confronto, anche polemico, tra punti di vista
diversi. Lo spazio pubblico sembra avere un necessario corrispettivo in uno spazio interiore
anch’esso pubblico, seppur solo virtualmente. Polis e psyché sembrano richiamarsi e co-reggersi.
Per comprendere meglio questa dinamica è utile fare riferimento alla nota figura arendtiana
della banalità del male13. Com’è noto, Hannah Arendt (le cui maggiori opere erano ben conosciute
nel circuito del samizdat cecoslovacco) elabora tale concetto in occasione del processo ad Adolf
Eichmann che si svolge a Gerusalemme tra il 1961 e il 1962. La pensatrice, inviata dalla rivista
statunitense The New Yorker per seguire il dibattimento giudiziario, si trova di fronte non un
“mostro”, bensì un uomo inetto, incapace di formulare un pensiero personale e di esprimerlo in un
linguaggio diverso dalla lingua di legno nazista, infarcita di neologismi, di termini burocratici e di
eufemismi (“soluzione finale” ecc.). Eichmann è incapace di pensare ― per meglio dire, il suo stile
di pensiero è monotòno, segue esclusivamente le regole del ragionamento deduttivo a partire da
principi assiomatici. In poche righe ― destinate a venire sviluppate in alcuni scritti appartenenti
all’ultima fase della sua vita, tra cui la grande opera incompiuta La vita della mente14 ― Arendt ci
offre un’antropologia dell’homo totalitarius che coincide con una fenomenologia del male di grande
attualità. L’ideologia, attraverso una propaganda onnipervasiva, e il terrore, in quanto fenomeno
psicologico prima ancora che fisico, son capaci di produrre effetti profondi e di lunga durata sulla
stessa struttura percettivo-cogitativa (su ciò che i greci chiamavano nous) di molti individui.
Eichmann è un idiota (nel senso etimologico del termine), uno zotico, in quanto è intrappolato nel
particolare punto di vista che egli considera come suo proprio ma che in realtà è pesantemente
determinato dall’ideologia. In altri termini, Eichmann è incapace di quell’empatia che ci consente di
uscire dalla nostra prospettiva ― dalla doxa, cioè dal modo in cui le cose sembrano a me ― per
condividere, seppur parzialmente, la prospettiva altrui.
Che cosa determina tale sorta di sindrome? Si tratta di una metanoia, di una modificazione
profonda non solo del modo di pensare, ma anzitutto del modo di percepire la realtà. Di per sé la
percezione è sempre affettivamente totalizzata ed è sempre “abitata” da un pensiero. L’ideologia
come forma del pensare è capace di agire sino a modificare la percezione stessa del mondo e la sua
totalizzazione affettiva. Se l’ideologia ad esempio insegna che l’ebreo appartiene a una “razza” di
esseri viventi inferiore non solo agli “ariani” ma pure ai mammiferi superiori (cani, cavalli ecc.),
allora la percezione affettiva di tale “forma di vita inferiore” muterà di conseguenza. La propaganda
ideologica può avere delle conseguenze così radicali in quanto opera non solo e non tanto al livello
intellettuale, quanto al livello dell’immaginazione. Il totalitarismo è un fenomeno così potente in
quanto opera attraverso una colonizzazione onnipervasiva dell’immaginario sociale15 che consente
al movimento totalitario una regolazione della psiche individuale che opera sul piano dell’affezione,
vale a dire del modo in cui la soggettività viene modificata da un agente esterno o interno. Al
processo Eichmann afferma di non essere mai stato animato da particolari sentimenti malevoli nei
confronti degli ebrei. Se ci poniamo dalla prospettiva delineata dalla Arendt, non c’è motivo per non
credergli: non occorre essere mossi da odio o antipatia per organizzare ― come fece Eichmann ―
la deportazione di milioni di “esemplari” di una specie vivente subumana la cui esistenza viene
13
H. Arendt, La banalità del male. Eichmann a Gerusalemme, Feltrinelli, Milano 2001 (ed. orig. Eichmann in
Jerusalem: The Banality of Evil, Faber&Faber, London 1963).
14
H. Arendt, La vita della mente, Il Mulino, Bologna 1987, p. 96 (ed. orig. The Life of the Mind, Secker&Warburg,
London 1978). Cfr. S. Maletta, Il giusto della politica. Il soggetto dissidente e lo spazio pubblico, Mimesis, Milano
2012, in part. cap. II.
15
Qui intendo il termine “immaginario” come insieme dei contenuti prodotti dall’immaginazione tendenti a porsi come
autonomi rispetto a essa.
6
ritenuta nociva. Tale oggettiva asetticità (a pensarci bene) appare assai più disumana di qualunque
gesto violento sostenuto da una passione negativa. Del resto la figura arendtiana del male banale
appare del tutto consistente con la fondamentale tesi proposta da Solzenycin in Arcipelago Gulag,
laddove il grande scrittore russo afferma che il fattore che ha moltiplicato la violenza nello scorso
secolo ― il secolo più violento della storia dell’umanità ― è l’ideologia. È questa che ha portato
milioni di uomini “normali”, buoni padri di famiglia, a partecipare a genocidi e a commettere azioni
malvagie in nome di un malinteso “senso del dovere”: la costruzione dell’uomo nuovo e della
società perfetta meritano pur qualche “sacrificio” personale…
In definitiva, Eichmann è incapace di vedere il mondo con gli occhi altrui perché la propria
immaginazione, soffocata da un immaginario colonizzato dall’ideologia nazista, non sostiene gli
ordinari processi empatici che ci permetto di giudicare gli affari umani tenendo conto di una
complessità di fattori sconosciuta a chi è prigioniero della propria doxa. In questo senso precipuo lo
SS è incapace di pensare, inadatto cioè al pensiero vero, profondo, in cui la riflessione ci permette
di far dialogare, seppur solo virtualmente, prospettive diverse, di metterci, come si dice, nei panni
altrui. Il male commesso da individui siffatti è banale in quanto non può essere radicale. Arendt lo
dice chiaramente: solo il bene può essere radicale, in quanto radicato nella profondità di un animo
umano ricco di percezioni affettivamente totalizzate e di pensiero, ravvivato da un’attività
immaginativa che ci consente di uscire virtualmente dalla caverna della nostra doxa per incontrare
veramente gli altri, di una riflessione capace di soppesare i vari fattori di una questione e,
soprattutto, vulnerabile rispetto alla ferita dell’Altro, esterno o interno che sia.
Il pensiero profondo riflessivo, chiamato da Arendt Selbstdenken, possiede però anche un
aspetto “nichilistico”, in quanto esso produce una continua messa in discussione del senso dato
grazie a una nuova visione dell’intero generata da un avvenimento inaspettato, da un evento che
costringe l’essere umano attento e disponibile a lasciarsi interrogare a ri-problematizzare il mondo
alla luce di ciò che è accaduto. Un avvenimento siffatto è ovviamente il totalitarismo con i suoi
effetti terroristici di proporzioni inaudite e inimmaginate.
Ma il nichilismo può non costituire l’esito finale se un nuovo senso si dà alla percezione e
comprensione di chi ha saputo mettere in discussione tutto e di conseguenza vede le cose in modo
assai diverso dagli altri, al punto che può apparire come un folle16. Emerge qui la dimensione del
rischio, che appartiene strutturalmente alla cura dell’anima in quanto compito teorico e pratico, e in
ultima istanza la dimensione del sacrificio. Tali dimensioni sono ineludibili, al punto che ― come
dice Havel ai pacifisti occidentali che negli anni Ottanta si opponevano allo spiegamenti dei missili
nucleari della Nato in funzione anti-sovietica ― essere indisponibili al rischio e al sacrificio, sino a
quello supremo, teorizzare e addirittura giustificare tale indisponibilità significa sottomettere la
propria esistenza al senso dato, ovvio, banale, dove le cose appaiono tutte già dotate di un
significato in quanto mezzi per fini dati, vale a dire decisi in modo impersonale. «Lo slogan
“Meglio rossi che morti!” [...] mi terrorizza come espressione della rinuncia da parte degli
occidentali a ogni domanda di senso della vita e come accettazione del potere impersonale in quanto
tale. Infatti ciò che in realtà lo slogan afferma è che non c’è nulla per cui valga la pena dare la
propria vita»17. In altre parole, se non c’è nulla per cui valga la pena morire, non c’è nulla per cui
16
Di «follia buona» parla esplicitamente Havel in occasione della consegna a Rotterdam del Premio Erasmo nel 1986;
cfr. V. Havel, Elogio della follia, in L’Altra Europa, 2, 1987, pp. 27-32.
17
V. Havel, La politique e la conscience, in Essais politiques, Calmann-Lévy, Paris 1990, p. 242 (si tratta di un discorso
scritto da Havel in occasione della laurea honoris causa conferitagli il 14 maggio 1984 dall’Università di Toulouse-Le
Mirail e letto in sua assenza).
7
valga veramente pena vivere: il senso si manifesta solo a chi per trovarlo è disposto a mettere in
discussione tutto.
È qui decisivo chiarire che il senso non è qualcosa che si possa produrre o che si possa
indurre a manifestarsi. L’atteggiamento adeguato nei suoi confronti è quello appunto della cura
dell’anima, la quale si compie in un atto teorico dai grandi effetti pratici: la comprensione della
differenza tra ciò che è degno di rispetto e ciò che solamente utile. Ciò che è degno di rispetto, in
quanto dotato di un valore in sé, può essere considerato un assoluto e, come dice Bĕlohradsky, «si
annunzia ormai solo in certi scrupoli, in certi sussulti». Qui il pensatore ceco fa riferimento a quel
fenomeno che la tradizione filosofica chiama coscienza morale. Tale fenomeno, analizzato con
rigore, appare costituito da un’intrinseca dimensione intersoggettiva che occorre chiarire. Ma prima
di farlo, è necessario rendersi conto che per Patočka e i suoi allievi in tali scrupoli e sussulti, nel
fenomeno della coscienza morale, in realtà si manifesta l’Essere in quanto tale, vale a dire un nonente che non è “niente” ma coincide con la manifestatività medesima, con il darsi stesso del senso.
Qui l’Essere appare come qualcosa di misterioso (poiché non lo posso circoscrivere
concettualmente), di evidente (in quanto non lo posso negare) e pure come ciò che c’è di più intimo
all’io. Anzi, ancora più radicalmente, l’io stesso è suscitato in tale esperienza morale la quale
implica, nei sussulti e negli scrupoli, una domanda, una richiesta, un appello. In altri termini, l’io si
costituisce attraverso la risposta a tale appello che avviene nella sua parola e azione.
Vediamo di fornire un esempio di tale dinamica apparentemente così oscura; lo prendiamo
dalle Lettere a Olga di Havel: perché pagare la corsa del tram quando, a notte fonda, s’è sicuri che
non si può essere scoperti? O meglio: perché in un’occasione simile vengono degli scrupoli? La
struttura di tale dilemma è chiaramente quella di un dialogo «fra il mio “io”, quale soggetto della
propria libertà (posso o meno pagare), la sua abilità di riflettere (considero che cosa devo fare) e la
sua volontà (pagherò o non pagherò), e qualcosa che si trova al di fuori del mio “io”, separato da lui
e non uguale a lui»18. Ciò che è essenziale di tale strano interlocutore è che non gli si può sfuggire e
che la sua voce, pur essendo in me, vi giunge come «dal di fuori». Inoltre si tratta di qualcuno cui io
tengo più di me stesso ― di me stesso cioè in quanto mero portatore di interessi utilitari. In tale
esperienza morale interiore l’Essere assume «un profilo significativamente personale»19 e nella sua
voce l’io «riconosce la chiamata alle sue origini e al suo scopo, la sua corretta appartenenza e
responsabilità»20.
Emergono qui i tratti di una soggettività dissidente che potrebbero essere assunti, seppur
provvisoriamente, come gli elementi basilari di un’antropologia del giusto (dell’essere umano
giusto)21. Elemento caratterizzante il giusto è innanzitutto la lotta contro la sua propria tendenza a
cedere al male e quindi la tensione al governo di sé. La lotta contro il male è condotta a nome di
un’istanza veritativa che, in quanto tale, non può non presentarsi che come assoluta. Tale istanza,
cioè, seppur percepita interiormente, fenomenologicamente appare provenire “dall’alto”, a motivo
della riverenza che essa suscita ― qualcosa da temere e allo stesso tempo da onorare. Di tale istanza
veritativa il giusto si pone come testimone, vale a dire (secondo l’etimo) come martire. Il senso
dell’azione del giusto non è identificabile tanto in uno scopo o in un fine quanto nella
riaffermazione di un principio, quello del legame tra la politica e la sfera dei bisogni, anzitutto il
18
V. HAVEL, Lettere a Olga, Santi Quaranta, Treviso 2010, p. 403 (ed. orig. Dopisy Olze, Praha 1985, 19994).
19
Ivi, p. 404.
20
Ivi, p. 405.
21
Cfr. S. Maletta, Il giusto della politica, cit.; M. Nicoletti, La politica e il male, Morcelliana, Brescia 2000.
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bisogno di senso. Gli effetti dell’azione del giusto inoltre non sono comprensibili rimanendo
all’interno di una prospettiva strumentale e/o strategica. Essi di dispiegano ― proprio a motivo
della sua natura testimoniale ― sul piano della sfera pubblica nei termini del ristabilimento di una
dialettica tra verità e politica capace di riconfigurarne limiti e istanze. Il giusto è difatti quell’essere
umano che resiste a un potere politico che rivendica la propria assolutezza nel suo ruolo di custode
della verità. Così facendo il potere politico assoluto produce la sua figura totalitaria che, negando
l’alterità e trascendenza della verità, la riduce a ideologia.
Il giusto si pone come baluardo di fronte alla diffusione sociale apparentemente irrefrenabile
del male banale (nel senso arendtiano dell’espressione) in quanto, operando una scelta, spinge tutti
coloro che non ne censurano la testimonianza a prender posizione. In tal modo la massa informe e
omologata dalla propaganda ideologica può iniziare un percorso di “singolarizzazione” attraverso la
decisione e il giudizio.
In questa prospettiva è importante cogliere l’autentico valore teorico e pratico del sacrificio,
il quale non viene ricercato strumentalmente ai fini di avvalorare la testimonianza: la disponibilità
alla sofferenza e alla morte smascherano piuttosto la violenza, generando così un tempo intermedio
che il pensiero riflessivo può di nuovo abitare. Nella sua paradossale preferenza per il principio
socratico che è meglio subire l’ingiustizia che commetterla, il giusto sceglie di rimanere nel conessere, decide (sperando contro ogni speranza) di persistere nella scommessa sulla ragione comune,
salvaguardando attraverso la propria esistenza le condizioni di un comune discorso. Anche di
fronte al persecutore il giusto rimane disponibile a partecipare al logos, che è sempre ricerca
comune della verità e del senso. E tale disponibilità smaschera il persecutore poiché lo induce a dar
conto di sé.
Conclusione
In definitiva, letta nella prospettiva del pensiero del dissenso la figura del giusto appare
dotata di una rilevanza culturale inaspettata. Visto che il fenomeno della banalizzazione è
indubbiamente aumentato negli ultimi decenni ― visto che la ragione appare sempre più incapace
di guidare le nostre vite e di affrontare questioni di inaudita portata come quelle sollevate dalle
tecnoscienze che toccano la natura stessa della vita ―, gli esseri umani del terzo millennio si
trovano in misura maggiore di fronte al problema dell’insensatezza, il quale (come abbiamo visto)
deve gran parte della sua nocività al fatto di non presentarsi come tale, bensì di venire nascosto
dall’apparente ovvietà che caratterizza il senso dato delle cose. Tale ovvietà di senso è insita nei
mezzi medesimi di cui è oramai satura la nostra quotidianità, la quale è governata dal seguente
principio inespresso: puoi, quindi devi, rispetto al quale ogni interrogativo non meramente
funzionale appare come un’inutile perdita di tempo. Il corrispettivo di tale banalizzazione sul piano
politico è costituito dalle figure à la Eichmann, il quale esemplifica, con la sua incapacità di
pensiero, la riduzione della legittimità alla legalità e quindi l’assunzione acritica da parte del
soggetto dei fini immanenti alle logiche funzionali del sistema.
Di fronte al dilagare della banalizzazione il giusto è colui che è capace di sollevare
l’interrogazione in merito alla legittimità di un istituzione, di una legge, di una pratica sociale, di un
imperativo tecnologico. E lo fa a partire da un ethos, acquisito per educazione e per scelta
personale, caratterizzato dalla riflessività, vale a dire dalla capacità di guardare al mondo da un
punto di vista soggettivo (quindi “abitato” dalle esigenze ed evidenze di senso tipiche della
Lebenswelt) allenato dalla condivisione di punti di vista altrui e soprattutto dal “corpo a corpo” con
un’istanza, interiore e allo stesso tempo assoluta, che costituisce un principio di alterità radicale
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immanente alla soggettività stessa. Un principio comune a tutti gli esseri umani, ma che può
produrre effetti solo allorquando l’individuo si cura della propria anima.
Il giusto richiama così l’Europa a riscoprire il suo proprio segreto, quello di una
responsabilità personale che poggia sul riconoscimento di una verità che abita l’animo umano ―
una verità inesauribile sul piano della conoscenza ma che sostiene il soggetto che non ne censura la
presenza nella sua inesauribile ricerca intorno al senso, vale a dire in quell’attività che lo rende
propriamente umano.
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