L`editoriale 2 Fernando Patrizi La tubercolosi latente 3 Augusto

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L`editoriale 2 Fernando Patrizi La tubercolosi latente 3 Augusto
Periodico della bios s.p.A. fondata da Maria Grazia Tambroni Patrizi
L’editoriale
Fernando Patrizi
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La tubercolosi latente
Augusto Vellucci
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Direttore Responsabile
Fernando Patrizi
Direzione scientifica
Giuseppe Luzi
segreteria di Redazione
Gloria Maimone
Coordinamento Editoriale
Licia Marti
Mixing
Alessandro Ciammaichella
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Con la “precision medicine” una rivoluzione già iniziata
Giuseppe Luzi
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A tutto campo
Un amico insidioso non per colpa sua. Allergia al gatto
Giuseppe Luzi
il Punto
Contenere il rischio di ipertensione arteriosa
Alessandra Fabretto
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Comitato scientifico
Armando Calzolari
Carla Candia
Vincenzo Di Lella
Francesco Leone
Giuseppe Luzi
Gilnardo Novellli
Giovanni Peruzzi
Augusto Vellucci
Anneo Violante
Hanno collaborato a questo numero:
Alessandro Ciammaichella, Alessandra Fabretto,
Silvana Francipane, Beatrice Luzi, Giuseppe Luzi,
Fernando Patrizi, Alessandro Vellucci, Giuditta
Valorani, Lelio R. Zorzin.
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negli articoli è dei singoli autori.
1
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La Pro-calcitonina: suo impiego per la diagnosi e come ausilio-guida per la terapia
Augusto Vellucci
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selectio
Regimen sanitatis salernitanum
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imparare dalla clinica
Morbo di Paget osseo e artrite reumatoide a esordio tardivo
Lelio R. Zorzin, Silvana Francipane
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Un punto di forza per la vostra salute
From bench to bedside
Giuditta Valorani
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EDitoRiALE
Fernando Patrizi
sAnità PUbbLiCA E PRivAtA: L’intEGRAzionE non PUò Più
AttEnDERE, nELL’intEREssE Di tUtti
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L’EDitoRiALE
L’
inizio del 2012, “battezzato” con un ulteriore taglio del 3% del sempre più esiguo
budget assegnato ai poliambulatori privati per i
servizi accreditati con il SSR, dopo un 2011 di
certo non diverso e migliore degli anni precedenti per quanto riguarda le difficili condizioni nelle
quali opera la sanità privata, mette ancora di più in
evidenza come sia complesso gestire il rischio imprenditoriale in questo settore della vita sociale.
Più in generale è comunque indubbio che a
causa dell’accentuarsi dei tagli progressivi anche
nella sanità pubblica, sono emersi in modo ancora più evidente i mali del sistema che si traducono in continui disservizi per gli assistiti. È bene sottolineare che se in una prima fase dei tagli
“storicamente” imposti dalle condizioni economiche disastrose della Regione Lazio si poteva
forse giustificare, da parte dei responsabili politici, la difficoltà a comprendere ed operare i più
opportuni distinguo nell’ambito delle situazioni
gestionali che contraddistinguono i servizi sanitari pubblici e privati accreditati, oggi è davvero
deprimente dover continuare ad assistere alla
prosecuzione indiscriminata della politica dei tagli direi ormai solo su base aritmetica.
Non ci stancheremo mai di ripetere che mentre i costi di gestione dei servizi nel privato convenzionato sono certi perché predeterminati, quelli nel pubblico invece non lo sono e in molti casi
risultano superiori ai costi del privato e quindi tagliando i secondi aumentano i primi. Prendiamo,
tra i tanti possibili, un esempio pratico: quando il
cittadino deve fare le analisi prescritte dal suo medico nel mese di ottobre e verosimilmente il suo
laboratorio di fiducia ha superato il budget predeterminato, se decide di ricevere l’assistenza deve
andare in una struttura pubblica, dove effettivamente non pagherà o pagherà il solo ticket, ma alla resa dei conti per lo Stato/Regione non si sarà
risparmiato nulla e, al contrario, dati i maggiori
costi per assicurare il servizio pubblico rispetto a
quelli privati, quelle analisi alla fine costeranno di
più alla collettività...
Siamo ben consapevoli che alcune prestazioni e terapie, per i costi, per la complessità degli
interventi, per il tipo di gestione che alcune apparecchiature richiedono, non possono che essere fornite in ambito pubblico. Ma questa visione
può indurre un falso aspetto interpretativo della
realtà. Infatti la gestione della salute va intesa a
360 gradi, non solo nell’ambito di configurazioni di estrema urgenza o di particolare complessità. Oggi, giustamente, si parla di governance in
ambiente sanitario, di appropriatezza delle prestazioni, della gestione del rischio. Ma piuttosto
che intervenire su ritardi e dispersioni organizzative, talora con aspetti punitivi per l’utenza,
non è meglio “giocare d’anticipo” fornendo prestazioni economicamente accessibili in tempo
reale? Questo è particolarmente vero quando si
tratta di delineare profili diagnostici adeguati, tenendo ben separato il ruolo delle strutture a piena configurazione pubblica da quelle private.
Il cittadino/utente deve essere garantito, grazie alla politica di welfare, in un assetto gestionale che non rappresenti una scelta occasionale o
provvisoria. Per esempio l’attesa di un’ecografia prolungata per settimane, al di là di situazioni ovvie per urgenza e rischio implicito nella sintomatologia, non rappresenta già di per sé un default di qualità assistenziale? Se esiste una coerenza tra sospetto diagnostico e necessità di verifica questa deve essere dimostrata sul campo,
in tempo reale o, se si vuole, realisticamente accettabile! Prova ne sia se consideriamo l’utilità
dei check up mirati, con i quali, in soggetti privi
di ogni sintomatologia e in pieno benessere, si
evidenziano patologie insospettate/insospettabili (dalla calcolosi renale, alle linfoadenopatie da
verificare, dal diabete alla presenza di sangue occulto nelle feci e così via).
Nessun cittadino italiano ignora la crisi economico-finanziaria che anche la nostra nazione
sta attraversando. Proprio per questa consapevolezza la diminuita capacità di spesa delle istituzioni e dei singoli cittadini impone una riqualificazione sistemica nella gestione della salute pubblica: un’ottimale integrazione tra sanità privata
e servizio pubblico non è un auspicio ma una necessità.
LA tUbERCoLosi LAtEntE
Augusto Vellucci
Specialista in Malattie Infettive e Clinica Medica
Foto: Flickr - sanofi-Pasteur
D
opo la scoperta della streptomicina, prima molecola attiva sul “bacillo di Koch”
meglio denominato micobatterio della tubercolosi, effettuata nel 1944 nel suo laboratorio
del New Jersey, il prof. Selman Waksman, poi
premio Nobel, scrisse: “la vecchia nemica dell’umanità, la tisi, sta per essere ridotta a un problema irrilevante per l’uomo; la completa eradicazione di questa malattia è ormai all’orizzonte!” Mai previsione fu così errata!
Annualmente oltre 8 milioni di persone si
ammalano di Tubercolosi (TB), e oltre 2 milioni muoiono a causa della malattia. Nel 2009 i
casi accertati di TB nel mondo sono stati circa
9.4 milioni; pure nel 2010 circa 9 milioni di persone sono risultate affette, con oltre 5 milioni
di nuovi casi.
Anche se da qualche anno si assiste a una riduzione della TB, specie nei Paesi industrializzati, questa rimane una delle maggiori cause di
morte nel mondo; senza cure il 70 % dei malati
muore entro 10 anni.
Effettuando invece una diagnosi precoce e un
trattamento adeguato la mortalità si riduce notevolmente, con percentuali di guarigione fino al
90% dei casi ben trattati.
L’inFEzionE tUbERCoLARE
È ovvio che per curare un soggetto affetto da
TB è anzitutto fondamentale diagnosticare la
malattia. E qui nasce la necessità di conoscere le
caratteristiche del tutto particolari di come, in un
soggetto che si infetta, evolve la malattia tubercolare.
Quando una persona inala goccioline (“droplet nuclei”) di espettorato contenenti il micobatterio, emesse da un paziente malato (un solo colpo di tosse può contenere fino a 3.000 nuclei contaminati e un singolo starnuto può rilasciarne fino a 40.000; e ognuna di queste gocce può trasmettere la malattia, poiché la dose
infettante della tubercolosi è molto piccola), la
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maggior parte dei microbi inalati viene bloccata ed eliminata dalle difese delle vie respiratorie alte; ma una parte può comunque raggiungere gli alveoli. Qui i germi vengono fagocitati dalla cellule difensive presenti, i cosiddetti
macrofagi alveolari che li distruggono, inviando in circolo, nel contempo, segnali citochinici (TNF, IL-1, ecc.) che mettono in moto l’intera risposta infiammatoria (febbre, perdita di
peso, ecc.).
Talora però i germi prendono il sopravvento
e si moltiplicano tumultuosamente nello stesso
ambiente intracellulare, distruggendo sia i macrofagi che li hanno inglobati sia gli altri che, accorsi dal settore monocitario ematico, avevano
fagocitato a loro volta i bacilli rilasciati dalle cellule distrutte.
E così l’infezione tubercolare si espande: i
microbi raggiungono, per via linfatica, i linfonodi regionali e poi, per via ematica, i tessuti e gli
organi più distanti, dove lesioni secondarie si
possono sviluppare e far insorgere la malattia tubercolare clinicamente evidente.
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Fortunatamente però solo in una piccola percentuale dei casi (vedi schema seguente) l’infezione dà origine alla cosiddetta tubercolosi primaria, con la nota sintomatologia generale (febbre, anoressia, perdita di peso, sudorazione notturna, ecc.) e locale (a seconda degli organi interessati: tosse, emottisi, pleurite, linfadenomegalie, meningiti, lesioni articolari, genito-urinarie,
ecc.).
Ma, nella maggior parte dei casi, per l’effetto di una valida reazione immunitaria, si instaura la cosiddetta “tubercolosi latente” (latent tubercular infection: LTBI): il soggetto cioè resta
infetto, ma non malato, del tutto asintomatico e
non idoneo a trasmettere la TB. Egli è insomma
un portatore nel suo organismo di micobatteri tubercolari, definiti “dormienti”, ma sempre pronti, se le difese immunitarie si indeboliscono, a risvegliarsi e a dare origine alla tubercolosi postprimaria.
La tubercolosi latente è clinicamente muta, e
può essere evidenziata solamente con due indagini: il Test tst e le analisi iGRAs (vedi poi).
TUBERCOLOSI: EVOLUZIONE
NON INFEZIONE (70%)
adeguate
ESPOSIZIONE
DIFESE ASPECIFICHE
inadeguate
MALATTIA PRECOCE (5%)
TB PRIMARIA
inadeguate
INFEZIONE (30%)
DIFESE SPECIFICHE
adeguate
NON MALATTIA (95%)
TB LATENTE
MALATTIA SUCC. (5%)
TB POST-PRIMARIA
inadeguate
DIFESE SPECIFICHE
adeguate
NON MALATTIA (95%)
Quindi, ricapitolando, il fatto di maggior rilievo è che i soggetti infettati dal Mycobacterium
tuberculosis possono rimanere tali a lungo, diventando portatori di una tb latente del tutto
asintomatica, che può evolvere in tubercolosi clinicamente attiva nel 2-20% dei casi, anche diversi anni dopo l’istaurarsi dell’infezione.
Il rischio di riattivazione aumenta in tutti i casi di immunodepressione, come Aids, assunzione di droghe, corticosteroidi e anticorpi anticitochine, malattie ematologiche e reticoloendoteliali, ecc.
Insomma l’evoluzione della tubercolosi latente è modulata dalla continua competizione tra
il micobatterio e la capacità difensiva del sistema
immunitario del soggetto infetto.
È quindi fondamentale conoscere quali siano
le difese che si attivano in corso di infezione tubercolare. Quasi contemporaneamente all’imponente attività fagocitante dei macrofagi alveolari e di tutti i fagociti richiamati per opporsi al micobatterio inalato, viene messa in moto la risposta immunitaria cosiddetta cellulo-mediata, in
quanto i macrofagi alveolari, mentre continuano
a lottare contro l’invasore microbico, mandano
segnali che attivano gli specifici linfociti, chiamati CD4.
Questi linfociti svolgono due principali funzioni (che rimangono attive finché persiste l’infezione tubercolare, anche se latente):
• producono molte citochine (tra le quali l’“interferon gamma”), specifiche proprio per i
macrofagi che le hanno stimolate, che vanno
a potenziare la loro attività antimicrobica
(“macrophage-activating response”);
• danno origine ai linfociti T CD8 citotossici,
cellule che si uniscono ai macrofagi nella risposta difensiva; tutti insieme agiscono per il
killing dei micobatteri e per la formazione dei
granulomi, i cosiddetti tubercoli (che hanno
dato il nome alla malattia), nei quali i bacilli
di Koch vengono bloccati e “murati vivi”.
Quest’ultima tuttavia è una vera risposta
tissutale dannosa (“tissue damaging response”) rivolta, attraverso una reazione di ipersensibilità ritardata (“DTH – Delayed Type Hy-
Fagocitosi di batteri tubercolari
Foto: A.J. Cann
persensitivity”), verso diversi antigeni del bacillo di Koch; tale azione determina la distruzione dei macrofagi ricchi di bacilli ancora virulenti ma anche una flogosi talora necrotizzante dei tessuti che possano albergare antigeni tubercolari.
E allora se, come abbiamo detto, i soggetti
infetti dal Mycobacterium tuberculosis possono essere portatori di una TB latente del tutto
asintomatica e in essi esiste sempre il pericolo
che possa svilupparsi una Tubercolosi clinicamente evidente anche diversi anni dopo l’istaurarsi dell’infezione, sorgono due domande fondamentali:
A) come facciamo a sapere se un soggetto esposto al contagio tubercolare ha sviluppato una
TB latente?
b) in tal caso, come possiamo operare per evitare che l’infezione latente possa riaccendersi e
dare origine alla malattia tubercolare postprimaria?
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A tEst DiAGnostiCi PER RivELARE
LA tb LAtEntE
se una persona è infettata dal micobatterio della
tubercolosi.
Per rispondere al primo quesito, si utilizzano proprio le conoscenze sulle modalità di reazione immunitaria già brevemente descritte.
Abbiamo detto che, quando il micobatterio
tubercolare viene captato dai macrofagi alveolari, questi attivano la risposta immunitaria dei
linfociti T-CD4, i quali operano su due direttive:
1) mettono in moto una specifica reazione cellulo-mediata di tipo citotossico e di immunità
ritardata, che viene utilizzata nella reazione
cutanea alla tubercolina (tst: tuberculin
skin test);
2) secernono un interferon gamma (IFN-) specifico per gli antigeni tubercolari, la cui presenza viene ricercata con le prove denominate iGRAs (Interferon Gamma Release Assays ), il noto QuantiFERon-tb.
La TUBERCOLINA: Koch scoprì che le reazioni osservate dopo l’iniezione di bacilli nella
cavia tubercolotica comparivano anche se venivano inoculati bacilli morti. In particolare, si osservavano con estratti glicerinati di colture di vari ceppi di Mycobacterium tuberculosis, preparati a caldo e sterilizzati, da cui si otteneva un liquido vischioso e di colore bruno a cui Koch diede il nome di “tubercolina” (oggi nota come OT
“old tuberculin”). È stata utilizzata, nella diagnostica tubercolare, fin dal 1906 con la cosiddetta «cutireazione di von Pirquet», che consisteva nell’applicare una goccia di OT su di una
scarificazione praticata sulla cute.
Attorno agli anni sessanta del XX secolo
venne preparata la tubercolina PPD (Purified
Protein Derivative), ottenuta per frazionamento
chimico della tubercolina vecchia. La PPD si ottiene da frazioni solubili in acqua, preparate scaldando al vapore libero e successivamente filtrando le colture del bacillo di Koch che si sono
1. tuberculin skin test (tst) o test di Mantoux
Rappresenta il metodo standard per determinare
Robert Koch nel suo laboratorio nel 1896
sviluppate in un substrato liquido sintetico. La
frazione attiva del filtrato, proteica, viene isolata per precipitazione, lavata e nuovamente diluita e addizionata con varie sostanze antimicrobiche, come il fenolo.
Come abbiamo accennato il tst è basato
sulla reazione di ipersensibilità ritardata (Delayed-Type Hypersensitivity – DTH) indotta dall’infezione TB, che lascia nel soggetto infetto
una memoria immunitaria cellulo-mediata anticorpo-indipendente (cell-mediated immune memory response, antibody-independent) nei riguardi di sostanze derivate dal bacillo; si impiega appunto la Tubercolina PPD.
Il test consiste nell’iniezione intradermica,
sulla faccia palmare dell’avambraccio, di una
quantità nota di tubercolina, in 0.1 ml di liquido;
in genere la somministrazione produce una piccola elevazione della cute di 6-10 mm di diametro.
Risulta positivo quando il tessuto iniettato
sviluppa in 48-72 ore un rigonfiamento piuttosto
duro di alcuni mm di diametro (vedi successivamente). La reazione va letta misurando le dimensioni della zona indurita (palpabile perché di
poco sollevata sulla cute circostante), ma non
dell’arrossamento eventualmente presente. Il
diametro della tumefazione deve essere misurato secondo la perpendicolare all’asse lungo dell’avambraccio.
Una positività al test è indice dell’avvenuto
contatto del paziente con il batterio della tubercolosi o con la tossina iniettata, ma non prova lo
stato della malattia. Per questo motivo, soggetti
positivi al test Mantoux vengono sottoposti ad
ulteriori ricerche diagnostiche, discriminanti la
presenza o meno della tubercolosi.
Gli immunizzati alla TB mediante il vaccino BCG (che contiene antigeni in comune con
la PPD) possono mostrare al test cutaneo una
ipersensibilità ritardata identica a coloro che
hanno l’infezione attiva; quindi il test deve essere utilizzato con cautela, specialmente sulle
persone provenienti da paesi dove l’immunizzazione alla TB è diffusa. È anche possibile rilevare un test falsamente positivo, per la pre-
test di Mantoux
senza di infezioni sostenute da micobatteri non
tubercolari.
Va infine considerata la possibilità di osservare reazioni falsamente negative, sia per errata
esecuzione della prova e sia per varie cause
(anergia cutanea, recenti vaccinazioni con virus
attenuati, malattie infettive in atto, ecc.); frequente la falsa negatività nei bambini di età inferiore ai 6 mesi.
Comunque i criteri per considerare la positività della reazione debbono essere valutati in relazione alle caratteristiche del soggetto in esame.
Secondo il CDC USA (Centers for Disease
Control – Atlanta) si dovrebbero valutare come
segue:
Un indurimento di 5 o più mm è considerato positivo in:
• persone HIV infette;
• recente contatto con una persona affetta da
malattia TB;
• pazienti organo-trapiantati;
• pazienti immuno-depressi per altre patologie
o trattamenti farmacologici (cortisonici, TNF
antagonisti, ecc.);
• pazienti con segni fibrotici al torace da pregressa TB.
Un indurimento di 10 o più mm è considerato positivo in:
• immigranti recenti (da meno di 5 anni) da regioni ad alta prevalenza tubercolare ;
• soggetti che si iniettano droghe;
• personale di laboratori micobatteriologici;
• bambini di età fino a 4 anni;
• bambini e adolescenti esposti ad adulti appartenenti a categorie ad alto rischio.
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Un indurimento di 15 o più mm è considerato positivo in:
• ogni persona, anche se senza alcun particolare fattore di rischio (comunque il test abitualmente non va effettuato in tali soggetti).
Ricordiamo infine che in alcuni portatori di
infezione tubercolare la capacità di reagire positivamente alla tubercolina può affievolirsi, fino a
scomparire; ciò può essere causa di una falsa negatività. Ma il test effettuato, anche se negativo,
può essere fonte di stimolo al sistema immunitario per il cosiddetto effetto “booster”, tale da
rendere positiva una successiva intradermoreazione (2-step TST screening). Può essere utile
effettuare tale prova, che accerterebbe l’esistenza di una infezione latente anche in coloro che
risultano negativi alla prima TST. Questo test ripetuto due volte va consigliato soprattutto nei
soggetti che periodicamente vanno ritestati (infermieri, assistenti all’infanzia, ecc.) o nei viaggiatori che si recano in regioni ad alta incidenza
tubercolare; ciò aiuta a non classificare come recenti le conversioni TST che potrebbero comparire nei successivi controlli.
2. iGRAs (interferon Gamma Release Assays): QuantiFERon-tb
Fino al 2001 l’intradermoreazione alla tubercolina era l’unico test disponibile per l’accertamento di una infezione tubercolare. Dopo il riconoscimento che la sintesi di interferon gamma
da parte dei linfociti T-CD4 specificamente attivati nella infezione TB svolge un ruolo critico
nel processo, sono state preparate le indagini in
vitro denominate appunto IGRAs (Interferon
Gamma Release Assays): i linfociti del soggetto
infettato dal Micobatterio tubercolare rilasceranno interferon gamma in risposta al contatto con
antigeni tubercolari.
La prima IGRA, preparata nel 2001 e denominata QuantiFERon-tb test (QFt), si basava sulla quantificazione, mediante metodica
ELISA, dell’interferon gamma rilasciato dai
linfociti (sensibilizzati dall’infezione) nel sangue intero incubato per una notte con PPD, con-
frontando il tutto con opportuni antigeni di controllo.
Dopo qualche anno il QFT è stato abbandonato, perché si è dimostrato privo della specificità necessaria. Si è tentato allora di preparare
metodiche più specifiche. Come stimolo per la
produzione dell’interferon da parte dei linfociti testati, invece del PPD, sono stati preparati
peptidi sintetici che rappresentano proteine presenti in tutti i micobatteri tubercolari, come l’ESAT-6 (Early Secretory Antigenic Target-6) e il
CFP-10 (Culture Filtrate Protein-10); queste sostanze sono assenti dal vaccino BCG (una pregressa vaccinazione non interferisce quindi con
la prova) e da molti micobatteri non tubercolari (anche se presenti in alcuni, come i M. szulgai, kansasii e marinum). In questo test, dato
che i peptidi impiegati stimolano una minore
produzione di interferon gamma, è necessaria
una metodica ELISA più sensibile di quella usata nel QFT.
Il nuovo test è stato disponibile nel 2005 con
il nome di QuantiFERon-tb Gold test (QFtG): separate aliquote di sangue fresco intero sono incubate con due diverse misture di peptidi,
una con ESAT-6 e una con CFP-10 e si calcola la
differenza tra la concentrazione di INF-gamma
nei campioni di sangue stimolati con gli antigeni (la più alta quantità osservata con uno dei due)
e quella del controllo di sangue cui è stata aggiunta solo soluzione fisiologica. È importante
poter disporre di un campione di sangue fresco,
prelevato di recente; effettuare la prova ore dopo
la sua raccolta potrebbe interferire con la vitalità
dei linfociti e quindi alterare l’esame.
È stata allora approntata, nel 2007, una terza
tecnica IGRA, denominata QuantiFERon-tb
Gold in-tube test (QFt-Git). Il materiale di
controllo e gli antigeni sono contenuti in speciali tubi nei quali si raccoglie il sangue fresco da testare. In uno è presente una miscela di 14 peptidi che rappresentano tutte le sequenze di aminoacidi ESAT-6 e CFP-10 e una parte della sequenza del TB7.7; altri due tubi servono per i
controlli. Il sangue del soggetto in esame si introduce nei tre tubi e viene incubato per 16-24
ore; poi si determina nel plasma la concentrazione di INF-gamma con la metodica ELISA usata
nel QFT-G, raffrontando quella del tubo contenente gli antigeni con quella dei controlli.
Nel 2008 si è resa disponibile una quarta metodica IGRA, denominata t-spot-tb-test, nella
quale vengono incubate cellule ematiche mononucleate con due miscele dei soliti peptidi (l’intera sequenza amino-acidica di ESAT-6 e CFP10) e la lettura si effettua con il test ELI-spot
(enzyme-linked immunospot assay) che evidenzia l’incremento delle cellule che secernono
l’INF-gamma dopo stimolazione.
Comparati alla Mantoux, i risultati del QuantiFERON sono meno soggetti a errori, soprattutto nella esecuzione della prova e nella lettura. Il
QTF richiede una puntura venosa (con l’impiego
del campione entro 12 ore dalla raccolta), viene
effettuato dopo un solo incontro col paziente (il
TST ne richiede almeno due), permette di studiare la risposta linfocitaria ad antigeni multipli
simultaneamente, non induce risposta anamnestica “boosted” in un test ripetuto successivamente, e può dare la risposta entro 24 ore dal prelievo.
Risulta difficile riconoscere, per le metodiche IGRAs, la precisa specificità (proporzione
dei veri negativi che hanno il test negativo) e
sensibilità (proporzione dei veri positivi che hanno il test positivo). Ad esempio, per il QFT-GIT
la specificità raggiunge anche il 99% (nello stesso studio la TST aveva una specificità dell’85%)
e la sensibilità si attesta intorno all’81%.
Comunque, la TST e il QuantiFERON non
misurano le stesse componenti della risposta immunologica al micobatterio e, anche se rivolte
alla stessa finalità, non sono intercambiabili, anche perché non impiegano gli stessi antigeni e gli
stessi criteri di interpretazione. Insomma i diversi test possono dare differenti risultati.
La concordanza tra le due indagini è anche
influenzata, come abbiamo detto, da una precedente vaccinazione con BCG (che impiega un
ceppo attenuato di Micobatterio bovis), dalla
reattività immune a Micobatteri non tubercolari e dalla risposta positiva a precedenti TST. È
stata calcolata una discordanza del 15% tra i
due test, spesso con TST positivo e IGRA negativo.
In generale non è indicato effettuare ambedue le prove, ma, se si decide di farle entrambe,
si consiglia di fare prima il TST e poi l’IGRA dato che è meno frequente osservare TST negativo
e poi IGRA positivo. Però, in talune osservazioni (Diel R. et al. Am J Respir Crit Care Med
2008; 177: 1164-1170), viene riferito che, in soggetti immunocompetenti recentemente esposti a
contatti stretti con casi di tubercolosi attiva, la
progressione verso la comparsa della malattia negli individui QFT positivi, non trattati, era significativamente più grande rispetto a quelli, non
trattati, TST positivi (14.6% verso 2.3%); i contatti che hanno sviluppato la malattia erano tutti
QTF positivi, ma solo l’83% erano TST positivi.
Secondo le ultime linee-guida CDC USA del
giugno 2010, i test IGRAs per l’accertamento
della tubercolosi latente sono particolarmente indicati nei soggetti già vaccinati con il BCG e per
coloro che non possono tornare una seconda volta per la lettura del TST.
Un problema particolare è quello dell’impiego degli IGRAs nei bambini, specie in quelli di
età inferiore ai 5 anni. Gli studi al riguardo sono
pochi e non permettono valutazioni conclusive.
In queste età, la frequenza della progressione dalla TB latente alla TB conclamata (con malattia
disseminata, meningite, ecc., fino al decesso) è
decisamente più alta che nei soggetti con maggiore età; il bambino ha un rischio maggiore di
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sviluppare malattia tubercolare severa, in particolare se di età inferiore ai 5 anni. E poi il 40%
dei bambini di età inferiore a un anno con infezione tubercolare latente sviluppa malattia disseminata rispetto all’1 % degli adulti immunocompetenti.
Pertanto è difficile valutare gli IGRAs in
bambini con meno di 5 anni e soprattutto nei
neonati nei primi sei mesi di vita. Una interpretazione della minore validità degli IGRAs in queste età (non da tutti condivisa) è quella della minore produzione, da parte dei linfociti dei piccoli bambini, dell’Interferon gamma in risposta agli
antigeni micobatterici.
Resta il convincimento dell’American Academy of Pediatrics che il TST sia preferibile per
testare bambini con età inferiore ai 5 anni; ma alcuni esperti consigliano, data l’incertezza di queste indagini in tale età, di impiegare sia il TST
sia un IGRA per aumentare la sensibilità diagnostica.
Riteniamo utile ricordare alcune raccomandazioni sull’infezione tubercolare latente.
Ministero del Lavoro della salute e delle Politiche sociali (italia, 2009)
❋ Come test di riferimento per la diagnosi di infezione tubercolare nei contatti va considerato attualmente il test tubercolinico con il metodo Mantoux (TST).
❋ Negli individui vaccinati con BCG, l’uso di
test basati sul rilascio di interferone gamma
(IGRA) è raccomandato come test di conferma nei pazienti risultati positivi alla intradermoreazione.
❋ Nei bambini di età inferiore o uguale a 5 anni e nei soggetti gravemente immunodepressi è consigliata una valutazione clinica
completa compresa la radiografia del torace, anche in presenza di un TST e/o IGRA
negativo.
Raccomandazioni dell’American Academy of
Pediatrics (2009)
❋ Per il bambino immunocompetente di età ≥
5 anni gli IGRA devono essere usati al posto
❋
❋
❋
❋
❋
del test cutaneo per confermare la diagnosi
di tubercolosi latente e probabilmente sono
meno gravati da falsi positivi.
I bambini con IGRA positivo devono essere
considerati infetti da M.tuberculosis complex.
Un IGRA negativo non può sempre essere interpretato come assenza di infezione.
Per la maggiore specificità e la mancanza di
reazione crociata con BCG, gli IGRA sono
utili nel bambino vaccinato con BCG.
Per il bambino di età < 5 anni e il bambino
immunocompromesso di qualsiasi età gli
IGRA non sono raccomandati di routine perché mancano dati sulla loro utilità in questi
casi.
L’uso dei risultati del QuantiFERON piuttosto che del test di Mantoux per decidere il
trattamento di profilassi nel contesto dello
screening per TBL ridurrebbe significativamente (30%) il numero dei bambini trattati.
Tuttavia sono molto scarsi i dati di incidenza
di tubercolosi attiva nel bambino con IGRA
neg. che in seguito a contatto con soggetto
smear-positivo non sia stato trattato.
Non possiamo chiudere questi rilievi sulla
tubercolosi latente senza ricordare ciò che è accaduto in un grande Ospedale romano, il Policlinico “A. Gemelli”, nei primi mesi del 2011,
dopo che una infermiera addetta al reparto pediatrico era stata riscontrata affetta da una infezione tubercolare clinicamente attiva. Allo scopo di individuare neonati che, dopo il probabile contagio, avessero sviluppato una TB latente, è stata allora effettuata un’ampia indagine su
tutti i bambini nati nel reparto nei mesi da gennaio a luglio, studiandone la reattività al QuantiFERON. Sono risultati positivi alla prova
IGRA 122 neonati, nei quali, oltre alla radiografia del torace (risultata sempre normale), si
è poi proceduto anche a effettuare la intradermoreazione alla tubercolina. Ma stranamente
in tutti i casi IGRA-positivi, la intradermoreazione ha dato esito negativo.
Le risposte, veramente atipiche, sono tutt’ora soggette a contrastate interpretazioni.
b tb LAtEntE (Ltbi):
PRovvEDiMEnti tERAPEUtiCi
Una diagnosi di LTBI richiede che una tubercolosi attiva venga esclusa; si deve effettuare una precisa valutazione medica, con adeguata
indagine anamnestica e clinica per accertare
eventuali segni e sintomi di malattia, una radiografia del torace e, quando indicati, l’esame dell’espettorato e di altro materiale organico per la
ricerca del micobatterio tubercolare. Ricordiamo
che né l’IGRA né il TST possono distinguere la
LTBI dalla tubercolosi attiva!
I soggetti con LTBI vanno trattati con farmaci per evitare in loro la progressione verso la malattia tubercolare. Il trattamento consigliato, definito “chemioterapia preventiva” o “chemioprofilassi”, è quello di somministrare ISONIAZIDE
alla dose giornaliera di 5 mg/kg (fino a 300 mg)
per 9 mesi; è possibile anche la somministrazione, per lo stesso periodo, di 15 mg/kg (fino a 900
mg) al dì, solo due volte la settimana. Per evitare
l’instaurarsi di una carenza relativa di vitamina
B6 (i soggetti dotati di isoforme meno attive dell’enzima acetiltransferasi vanno incontro a una
tale carenza, che dipende dalla formazione di
complessi isoniazide-vitamina) è utile associare
PIRIDOXINA (25-50 mg/die). Un trattamento alternativo può essere effettuato, soprattutto per i
soggetti che per patologie epatiche non possono
assumere l’isoniazide, con la RIFAMPICINA alla dose di 600 mg/dì (10 mg/kg) per 4 mesi.
Recentemente sono stati pubblicati (MMWR,
december 9, 2011; Vol 60; N° 48) i risultati di alcuni studi controllati e randomizzati di un nuovo
regime terapeutico costituito da ISONIAZIDE
(15 mg/kg, dose media 100 mg, fino a un massimo di 900 mg) e RIFAPENTINA (dosi variabili
con il peso corporeo, da 300 a 900 mg), somministrati una volta la settimana per 12 settimane.
L’effetto terapeutico, controllato con la DOT
(Directly Observed Therapy), è stato uguale a
quello degli altri regimi su ricordati.
il CDC UsA dà le seguenti raccomandazioni
al riguardo:
❋ Dodici settimane di somministrazione settimanale controllata (DOT) costituisce una valida alternativa ai 9 mesi dell’auto-assunzione giornaliera di isoniazide.
❋ Questo regime terapeutico è idoneo per soggetti al di sopra dei 12 anni, ad alto rischio
per sviluppare la TB attiva, e senza altre patologie, salvo se affetti da HIV ma non in terapia antiretrovirale.
❋ La somministrazione giornaliera di isoniazide è il regime preferenziale per ragazzi tra 2
e 11 anni.
❋ Questo trattamento combinato non è raccomandato per bambini fino a 2 anni, per soggetti affetti da HIV in terapia antiretrovirale
(non sono note le interazioni farmacologiche), per donne gravide o che pensano di rimanere incinta durante la terapia.
Il prof. Augusto Vellucci, specialista in Malattie Infettive, già primario
infettivologo, svolge attività di consulenza presso la BIOS S.p.A. di Roma
in via Domenico Chelini 39.
info cup 06 809641
11
12
MixinG
tC sPiRALE
Si differenzia da quella tradizionale in quanto l’apparecchio che emette le radiazioni si muove in modo circolare, anziché a strati: più precisa, più breve esposizione.
La profilassi con il malarone compresse deve iniziare 1 o 2 giorni prima di entrare nell’area
con malaria endemica, mentre la 1° dose di La-
vACCino Anti-inFLUEnzALE?
Poiché l’influenza può causare problemi
quando si complica con una sovrapposizione
batterica, per questa prevenzione è più utile un
vaccino antibatterico. Si noti poi che l’anziano
diabetico risponde meno bene alle vaccinaziorian compresse va assunta una settimana prima
della partenza per la zona endemica.
stEnosi AoRtiCA sEvERA E
DiUREtiCi
ni.
Paziente ricoverata per dispnea ed edemi declivi, che si sono poi aggravati fino all’anasarca
con versamenti pleurici ed addominale. Cautela
con i diuretici che possono accentuare la preesistente bassa portata (osserv. pers.).
GLi AntiMALARiCi, oGGi
GRAtitUDinE
sponibile in Italia, e l’Eltrombopag, per os: sono
agonisti del recettore per la trombopoietina,
l’ormone che stimola il midollo osseo a produrre i megacariociti.
Quando un Primario dei suoi 10 Collaboratori ne promuove uno crea 9 scontenti e un ingrato.
sEnso Di FREDDo DoPo i PAsti
CARnE E tUMoRi
Ridurla quando non si è più giovani fa bene
per parecchi motivi. In Asia il basso consumo di
proteine si accompagna a bassa incidenza del
cancro della prostata.
Per l’iperaffiusso di sangue all’apparato digerente, esso viene in parte sottratto agli altri distretti, fra i quali la cute: i termocettori cutanei
avvertono l’evento.
13
sinCoPE nEURoMEDiAtA
Colpisce i giovani per iperreattività neurovegetativa e gli anziani per precaria omeostasi
cardiovascolare. Si distinguono 3 forme: vasovagale o neurocardiogena, visceroriflessa, senocarotidea.
PiAstRinoPEniE: 2 nUovi FARMACi
Sono il Romiplastine, sottocute, tra poco di-
ACiDo iALURoniCo
È efficace per varie affezioni delle diverse
componenti delle articolazioni, ad esempio nelle lesioni della cuffia dei rotatori della spalla: 2
ml intrarticolari una volta a settimana, proseguire poi a giudizio dell’ortopedico.
cura diFRontALE
A. Ciammaichella
sinDRoME DEL aLobo
Con LA “PRECision MEDiCinE”
UnA RivoLUzionE Già iniziAtA
Giuseppe Luzi
Professore associato (f.r.) di Medicina Interna
14
C
onsultando il vocabolario inglese-italiano
la parola precision significa, tradotta in
lingua italiana, “di precisione”, se usata come
aggettivo. In un recente articolo su New England Journal of Medicine (26 gennaio 2012) è
apparso l’editoriale dal titolo “Preparing for
Precision Medicine” (letteralmente “prepariamoci per una medicina di precisione”). Qualche volta il rendimento concettuale di una traduzione da una lingua all’altra non può essere
facilmente calcolato. Cosa vuol dire “di precisione”, che forse in passato e anche ai nostri
giorni la medicina è stata o è “imprecisa”? Le
cose non stanno letteralmente così, e bisogna riflettere su questo termine alla luce delle forti
implicazioni che può avere nell’immediato futuro. L’esempio che ci aiuta a capire il problema sta proprio nell’apertura dell’articolo: è descritto il caso di una donna di 35 anni alla quale viene diagnosticato un cancro del polmone
(non-small-cell lung cancer). Gli autori dicono:
se questa signora avesse ricevuto la diagnosi nel
2004 e non nel 2011 la situazione sarebbe stata
ben diversa.
Cosa è cambiato? Nel 2004 la proposta terapeutica avrebbe offerto un’opportunità con risultati terapeutici favorevoli solo nel 10% dei
soggetti affetti da quel tipo di tumore.
Cosa è accaduto nel 2011: attraverso lo studio della biopsia è stato possibile indagare su
varianti genetiche che consentono di predire
con buona approssimazione se il tumore potrà
essere favorevolmente controllato da uno specifico approccio terapeutico. Nell’articolo si descrive come questo tumore abbia avuto risposta
positiva a un trattamento selettivo, con remissione di almeno un anno e un solo accettabile
effetto collaterale.
Scrivono gli autori: “This scenario illustrates the fundamental idea behind personalized
medicine: coupling established clinical-pathological indexes with state-of-the-art molecular
profiling to create diagnostic, prognostic, and
therapeutic strategies precisely tailored to each
patient’s requirements – hence the term precision medicine“. Quindi la medicina di precisione forse è qualche cosa di più della medicina
personalizzata comunemente intesa, ma in ogni
caso, al di là delle etichette che contagiano le
definizioni in campo medico, esprime bene quel
futuro ormai prossimo nel quale cambieranno
molte cose.
Il punto chiave consiste nelle ricadute progettuali, di investimento scientifico e di strategia
aziendale, per puntare a una ricerca diversa nel
campo delle tecnologie farmaceutiche. Sappiamo che tra la progettazione di un nuovo farmaco,
la sperimentazione necessaria e le procedure di
sperimentazione in trial opportunamente significativi per una coerente interpretazione del dato
statistico, e l’applicazione nella clinica medica,
possono trascorrere anni. E talora lo studio di parametri ampi (anche su grandi numeri), ma non
selezionati, non esime dall’intrinseco rischio di
indagare su popolazioni di malati eterogenei e
con caratteristiche genetiche che sono in grado
di alterare inevitabilmente la risposta terapeutica
se globalmente considerata. E lo stesso dicasi per
le stesse alterazioni anatomico/funzionali (istologia dei tumori, infezioni caratterizzate da virus
con genotipo diverso e così via) presenti o riscontrabili nella storia naturale dei diversi processi biologici.
Il primo passo, dunque, è quello di cogliere
l’area di rischio nella quale si possa giocare
realmente una partita vincente.
Il salto di qualità attraverso un più rigoroso
approfondimento della comprensione per i diversi processi patologici è fornito dalla biologia molecolare e dalla genetica. Questo significa che nell’informazione usata per descrivere
una patologia di qualsivoglia natura le informazioni sull’assetto molecolare devono diventare parte integrante del processo descrittivo
e/o definitorio, in sostanza: bisogna riclassificare le malattie (“…To that end, the World
Health Organizations’s century-old International Classification of Diseases must be modernized to take into account the expanding molecular data on health and diseases”). La finalità
è assai condivisibile e gli elementi che caratterizzano un quadro morboso debbono includere,
quando è possibile, una classificazione riveduta e corretta basata su quella che viene definita
la intrinsec biology che si associa ai tradizionali segni e sintomi della “semeiotica medica”
classica, rivalutandone e rinforzandone il potenziale informativo.
Questo eccitante momento storico ha in sé
un grave rischio. Verrebbe voglia di scherzare
un poco sul titolo di un libro di successo (La solitudine dei numeri primi), potendo proporre un
altro racconto dal titolo “la solitudine dei medici ultimi” (e intendo qui tutti i medici, qualificati accademicamente, operatori nella pratica
clinica, specialisti). La massa di dati a disposizione è enorme. Ad oggi, ma si tratta di cifre in
espansione, si calcolano non meno di 2.000 test genetici disponibili per definite condizioni
patologiche, e il numero dei test è in crescita
velocissima. Sono in corso investimenti per milioni di dollari in progetti per migliorare l’estensione e l’uso di record elettronici ai quali
accedere (EHRs, Electronic Health Records).
Come possiamo immaginare uno scenario,
sommariamente delineato, nel nuovo rapporto
tra medico e malato o malato potenziale? Il clinico può disporre di un set esteso di opzioni
elettroniche e partire dall’insieme semeiotica
classica-EHR per utilizzare test dei quali viene
fornito il vero valore informativo/discriminante (sensibilità e specificità), il valore predittivo
15
16
noto (fino a quel momento) e le linee di lavoro
o flusso di lavoro (workflow) che utilizzando
opportuni algoritmi sono in grado di facilitare le
decisioni sulla base del pacchetto di informazioni acquisito.
Ben si può immaginare come l’utenza abbia necessità di superare un certo livello critico di incertezza e come di conseguenza sia prevedibile un allargamento della forbice nel rapporto di fiducia tra medico-clinico e utente-malato. Questo significa che nuovi paradigmi dovranno essere presi in esame nella formazione
universitaria e post-universitaria dei nuovi medici che potranno avvicinarsi alle procedure
diagnostiche integrando i livelli di preparazione “classica” e l’insieme dei modelli di medicina molecolare emergenti dal progresso quotidiano in questo settore. La realtà è difficile,
ma meno pessimistica di quanto si pensi. Già la
rete offre uno spazio di accesso a problematiche selettive partendo da lemmi di linkage che
aiutano il clinico nella diagnosi. Diciamo che si
tratta di paradigmi ancora artigianali (consultare pubblicazioni, case report, qualche data
base), ma questa è la via. Ogni individuo potrà
essere trattato …at the right dose, at the right
time, with minimum ill consequences and maximum efficacy.
I check-up personalizzati sono ai nostri
giorni, con la dovuta prudenza e nella piena
consapevolezza del loro importante ma limitato valore predittivo, uno strumento ancora valido per costruire una conoscenza “approssimativa” del rischio. Se in un tempo ragionevole potremo consolidare questo approccio con la medicina di precisione non avremo soltanto utilizzato nella vita reale i contributi derivati dalla ricerca di base, ma con ogni probabilità avremo
cambiato la medicina stessa, la gestione economica della sanità e, in qualche modo, anche il
concetto di salute.
Una breve, semplice considerazione finale.
Nell’esperienza personale di docente universitario una delle domande con le quali, provocatoriamente fatte agli studenti, si suscita sempre
una reazione di disagio è: voi come definite lo
stato di “malattia”, e, al contrario, cosa significa “stare in salute”? E allora, forse, la malattia
implica sempre una definizione necessaria ma
non sufficiente a comprenderne il suo significato olistico, di sistema. D’altra parte in qualche modo dobbiamo regolarci con il linguaggio
che abbiamo a disposizione, ma almeno, grazie
alla (futura?) medicina di precisione ci stiamo
avviando all’uso meno ideologico delle etichette con le quali si fanno le diagnosi.
Ricordiamoci, tanto per concludere, che
l’ulcera peptica esisteva anche prima del ruolo
patogenetico attribuito poi all’Helicobacter pylori. Andiamo a leggere qualche testo prima degli anni Ottanta del XX secolo. Quante sciocchezze troveremo? Il problema non è dire sciocchezze, capita in tutte le discipline, il problema
è non confondere uno stato incompleto di conoscenze con la necessità di superarlo comunque “idiopaticamente” senza chiara cognizione
di causa. Forse le idee nate con la medicina di
precisione ci aiuteranno a superare questo inquietante, ma intellettualmente stimolante, stato di incertezza.
PossibiLi LinEE Di AzionE
PER iL sUCCEsso DELLA MEDiCinA
Di PRECisionE
(stakeholder e progetti)
Governi
Identificazione di aree di priorità dalle quali ottenere i vantaggi più probabili nell’ambito della medicina di precisione.
Health Records) per un approccio clinico integrato e decisionale.
Comunità biomedica
Migliori conoscenze dei meccanismi molecolari alla base dei processi patologici, con nuove
forme di training educativo/formativo per il
personale sanitario con revisione/aggiornamento della classificazione delle malattie.
industria farmaceutica
Identificazione di nuovi target applicativi e trial
“dedicati”.
Gruppi di azione dei malati
Utilizzo e partecipazione a nuovi strumenti
informativi (eventuali focus group).
Sistemi di garanzia e controllo
Elaborazione di strumenti atti a garantire la sicurezza dei pazienti non limitando l’approccio
al solo miglioramento della conoscenza e del
progresso scientifico.
(Schema semplificato e rielaborato dall’autore derivandolo dall’articolo Preparing for Precision Medicine di R.
Ricerca industriale
Rendere disponibili sistemi di EHR (Electronic
Mirnezami, J. Nicholson, A. Darzi, N Engl J Med downloaded from njem.org on January 26, 2012).
Il prof. Giuseppe Luzi, specialista in Allergologia e Immunologia Clinica,
docente nella Facoltà di Medicina e Psicologia dell’Università degli Studi
di Roma “La Sapienza”, svolge attività di consulenza presso la BIOS
S.p.A. di Roma in via Domenico Chelini 39.
info cup 06 809641
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Un AMiCo insiDioso non PER CoLPA sUA.
ALLERGiA AL GAtto
18
A tUtto CAMPo
Giuseppe Luzi
Professore associato (f.r.) di Medicina Interna
S
ono animali preziosi, variamente collocati
nella letteratura e nella leggenda, il loro
corpo è agile, flessibile. Camminano in modo
silenzioso e possono spiccare grandi salti. Sono vicini all’uomo e ne condividono in vario
modo la vita: i gatti. I bambini ci giocano e anche gli adulti traggono vantaggio psicologico
dalla loro presenza. Non tutti li amano, ma
spesso non ne comprendono la personalità libera. Tuttavia c’è un problema, purtroppo alcuni di coloro che li amano con grande passione, sono “allergici” al gatto.
L’allergia al gatto è una forma particolarmente seria di allergia che può colpire anche se
non si è in contatto diretto con l’animale. Ma
quando si dice, nel linguaggio comune, “sono
allergico al gatto” di cosa in realtà si sta parlando? Quale componente del corpo felino è responsabile del problema? Gli allergeni (le so-
stanze che inducono allergia) del gatto sono
presenti nella saliva e nelle ghiandole sebacee
e veicolati dal pelo durante l’operazione di pulizia (si tratta di cellule della pelle che contengono sebo, prodotto dalle ghiandole sebacee
del gatto per mantenere il suo pelo lucido e in
buona salute). Quando il pelo viene perduto
l’allergene tende a disperdersi facilmente nell’ambiente e va depositarsi un po’ dappertutto:
finisce sui mobili, sugli abiti, in diversi oggetti manipolati. Viene quindi trasportato verso altri ambienti, in stanza da gioco, nella scuola, in
ufficio, di casa in casa. Le componenti chimiche strutturali dell’allergene consentono la sua
persistenza ambientale per lungo tempo, anche
quando le pulizie effettuate sono accurate e
profonde, anche quando l’animale viene allontanato dall’ambiente con grande dolore di chi
deve privarsi della sua compagnia.
In termini più dettagliati e, al contrario del-
l’opinione “popolare”, la vera causa di allergia
non è in senso stretto il pelo del gatto, ma la proteina (Fel d1) prodotta da ghiandole salivari e sebacee (e sembra anche da cellule epiteliali squamose basali, in misura molto minore) che finisce
nel pelo del gatto. Questo allergene, disperso nell’ambiente circostante viene respirato da persone allergiche. Come si verifica per i pollini o per
la polvere, alcuni individui acquisiscono ipersensibilità nei confronti dell’allergene e quando
vengono a contatto con il medesimo cominciano
i sintomi (prurito ad occhi, naso e gola, comparsa di starnuti a raffica e intasamento mucoso del
naso, congiuntivite, fino a serie manifestazioni
asmatiche). Si ritiene che circa l’80% delle allergie al gatto siano indotte dall’allergene Fel d1
ed è questo il motivo per cui i gatti sono probabilmente responsabili di due terzi di tutte le allergie causate dagli animali domestici. In realtà il
gatto produce diverse glicoproteine ma la Fel d1
risulta essere quella più significativa dal punto
di vista della sensibilizzazione allergenica. In
parte è regolata dal testosterone perché nei maschi sottoposti a castrazione la sua sintesi diminuisce sensibilmente. Tuttavia la castrazione non
riduce la capacità di sensibilizzare soggetti predisposti.
La struttura chimica primaria di Fel d1 è
stata determinata: si tratta di una glicoproteina
con due eterodimeri connessi mediante legami
disolfuro. Il motivo per il quale alcune persone
diventano allergiche al Fel d1 (o ad altri allergeni) è piuttosto complesso e ancora non del
tutto chiarito. In sostanza Fel d1 induce nel nostro organismo (come per altre allergie) la produzione di una immunoglobulina nota come
IgE. Le IgE hanno un ruolo difensivo in natu-
ra e servono, per esempio, per contrastare alcune parassitosi. Ma per determinate persone
poco fortunate le IgE finiscono con il costituire un rischio. Quando il soggetto allergico si
sensibilizza a Fel d1, l’incontro tra IgE e Fel
d1 innesca la liberazione di istamina. L’istamina, come è noto, è un mediatore chimico di varie reazioni allergiche. Alcune di queste – fastidiose e insidiose, ma non gravi – possono essere gestite abbastanza bene ma in un significativo numero di casi compaiono manifestazioni asmatiche e l’evento, non raro, può avere diversi livelli di gravità.
Del tutto recentemente una ricerca italiana
ha dimostrato che il rischio di sviluppare un’allergia al gatto è maggiore quando l’animale viene adottato da adulti rispetto a quanto accade se
la consuetudine con l’animale si instaura da
bambini. Sembra cruciale in questo studio il non
tenere il gatto in camera da letto. L’indagine è
stata pubblicata su J. Allergy Clin immunol del
9 dicembre 2011 (“Risk factors for new-onset
cat sensitization among adults: A population-based international cohort study”. Indoor Working
Group of the European Community Respiratory
Health Survey II. Unit of Occupational Medicine, University Hospital of Verona, Verona,
Italy). I risultati sono derivati da una indagine
sulla salute respiratoria nella Comunità europea.
In particolare, gli autori hanno preso in considerazione i livelli di immunoglobulina E, l’anticorpo specifico rilasciato dall’organismo in risposta al contatto con pelo di gatto. Lo studio ha
dimostrato che il possedere un gatto fin dall’infanzia è un fattore protettivo nei confronti di
possibili sensibilizzazioni agli antigeni dell’animale e che un’anamnesi con precedenti altre
Il prof. Giuseppe Luzi, specialista in Allergologia e Immunologia Clinica,
docente nella Facoltà di Medicina e Psicologia dell’Università degli Studi
di Roma “La Sapienza”, svolge attività di consulenza presso la BIOS
S.p.A. di Roma in via Domenico Chelini 39.
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ContEnERE iL RisCHio
Di iPERtEnsionE ARtERiosA
20
iL PUnto
Alessandra Fabretto
Cardiologa
L
e malattie cardiovascolari (cv) sono la più
frequente causa di invalidità e di morte nei
paesi industrializzati. Non è nota la causa scatenante di infarto o ictus, le maggiori patologie cv,
ma conosciamo i loro fattori di rischio: una serie
di patologie che spesso si presentano nello stesso paziente, sono correlate fra loro e riconoscono frequentemente cause comuni. Al rischio concorrono vari fattori come la familiarità per malattie cv, l’obesità, la vita sedentaria, il fumo, lo
stress, il diabete, i livelli di colesterolo e trigliceridi nel sangue.
L’ipertensione arteriosa (IA) dunque è la
maggiore causa del rischio cv globale. La normalizzazione della pressione comporta quindi
la riduzione del rischio cv, la possibilità cioè
che ha un individuo di andare incontro a eventi cv maggiori nei 10 anni successivi alla valutazione.
La pressione arteriosa in un uomo sano deve
mantenersi intorno a valori di 120/80 mmHg, solitamente più bassi nei giovani o nelle donne in
età fertile, con variazioni in relazione all’attività
fisica, allo stato generale dell’organismo, ma
sempre entro limiti ben definiti.
Al mantenimento di un buon equilibrio pressorio collaborano in ogni istante molti fattori, sia
all’interno dell’apparato cardiovascolare, sia
esterni ad esso: neurologici, ormonali, fattori che
regolano altre funzioni metaboliche. Ma se que-
sti fattori si alterano per cause note, per malattie
intercorrenti o per fattori sconosciuti, osserviamo il progressivo aumento della pressione arteriosa in modo inappropriato, sottoponendo cuore e vasi a un lavoro molto maggiore di quello
fisiologico normale. Ne consegue, con il tempo,
il deterioramento dei cosiddetti organi bersaglio:
reni, cervello, ecc., sia per quel che riguarda la
funzione sia l’anatomia. L’IA è l’aumento della
pressione oltre i 135/85 mmHg, fino a valori anche molto più elevati.
Si hanno vari livelli di ipertensione: da ipertensione borderline, a lieve, moderata, severa, fino all’ipertensione maligna. Nell’IA esiste una
predisposizione genetica, ma al suo sviluppo
possono concorrere numerosi fattori fisici e ambientali. Significa che se uno o entrambi i genitori sono ipertesi i figli hanno alte probabilità di
sviluppare l’ipertensione. E maggiore e più precoce può essere lo sviluppo della malattia e le
sue complicanze quanti più fattori di rischio ha il
paziente. In questo caso è indispensabile conservare entro i limiti della norma gli altri fattori di
rischio noti e controllabili.
L’incidenza dell’IA è statisticamente in continuo aumento negli ultimi 20 anni nel mondo
occidentale, come a loro volta sono in aumento
le sue complicanze: infarto e ictus. La comunità
scientifica, intesa come ricerca medica e come
aziende farmaceutiche, è intensamente attiva nella ricerca delle cause dell’IA e nell’individuazione di terapie sempre più precise e con minori
effetti collaterali.
Nell’ultimo congresso italiano sull’IA è
emerso un dato nuovo di estrema importanza
sia scientifica sia pratica: alla base di tutta la
terapia antiipertensiva c’è la sana igiene di vita. Questa dovrebbe essere in realtà la base di
tutta la moderna medicina per tutte le malattie:
la prescrizione di qualunque terapia farmacologica deve essere preceduta e affiancata dalla
correzione degli errori nelle norme igieniche
di vita.
Nella società moderna occidentale c’è la tendenza alla vita sedentaria, all’alimentazione abbondante con conseguente aumento del peso corporeo, all’assunzione di sale in eccesso (sopratutto nei cibi preconfezionati), al consumo di
caffè, a uno stress cronico che induce una produzione abbondante di adrenalina.
PoCHE REGoLE MA FonDAMEntALi
sono necessarie per uno stile di vita più sano.
Regole che assumono maggiore importanza
se l’IA si associa, come sempre più spesso si
rileva, con altre patologie come diabete, colesterolo e trigliceridi elevati, obesità ecc.:
•
il mantenimento di un corretto peso
corporeo con una dieta ipocalorica: le popolazioni che non hanno obesità hanno
una scarsissima incidenza di malattie cardiovascolari;
•
una dieta iposodica: lo studio MINISALSIIA ha evidenziato che il consumo medio degli italiani di sale è di 9 gr. al giorno, contro i 5 gr. raccomandati dell’OMS;
•
la pratica dello sport in modo regolare,
di tipo aerobico, leggero e continuato per
almeno 1 ora di seguito equilibra il metabolismo stimolando il consumo di sostanze nocive, e la dilatazione dei piccoli vasi;
•
lo scarso consumo di alcool: in piccole
dosi può essere benefico; in quantità maggiori è un tossico importante;
•
il consumo di caffè: 1 tazzina al giorno
può stimolare il metabolismo; di più è deleterio per il sistema nervoso, per il fegato, per il metabolismo lipidico;
•
l’uso di nutraceutici: sono una nuova
classe di farmaci, che farmaci non vogliono essere, ma che lavorano in modo leg-
21
nUtRACEUtiCi
La parola deriva dalla abreviazione di Nutrimento e Farmaceutico. Indicano sostanze derivate dagli alimenti, che hanno precise azioni di aiuto in determinate patologie. Non sono integratori alimentari o vitamine ma parti di cibi o singole sostanze che vengono concentrate in pillole e hanno
un effetto terapeutico: la più famosa è omega-3. Questo ha effetti benefici sui vasi, sui trigliceridi e sul colesterolo “cattivo”, mantenendo in generale un buon effetto antiaterogeno.
22
Il raggiungimento di questi obiettivi equivale alla somministrazione di un farmaco antiipertensivo: come se il pz assumesse già una terapia.
Equivale a dire che in un pz borderline o affetto da ipertensione di grado lieve il raggiungimento di questi obiettivi può far scendere la pressione tanto da permettere la sospensione, almeno temporanea, della terapia, mentre in un pz in
politerapia può significare la riduzione della
quantità di pillole.
Alcuni pz sono spaventati dal luogo comune
che una volta iniziata l’assunzione della terapia
antiipertensiva, questa dovrà essere continuata per
tutta la vita: non è così. Se messe in azione queste
norme igieniche possono ridurre la pressione arteriosa e controllare eventuali patologie associate
fino alla possibile riduzione del rischio cv e la possibile sospensione della terapia farmacologica.
Le statistiche hanno evidenziato che un soggetto con un fattore di rischio ha scarse probabilità di andare incontro ad eventi cv maggiori, ma
aumentando il numero di fattori, la probabilità di
andare incontro a infarto miocardico o ictus aumenta in modo consistente. (V. anche la “CARTA DEL RISCHIO CARDIOVASCOLARE”
nella pagina a fianco.)
Nel 48% dei casi in Italia i pazienti ipertesi
non raggiungono un sufficiente abbassamento
della pressione arteriosa: non si ottengono cioè
con la terapia i valori pressori raccomandati dalle linee guida della società europea dell’ipertensione, fino a una vera riduzione del rischio CV.
Questo può accadere per molti motivi: scarsa
aderenza alla terapia da parte del pz, dimenti-
canze nell’assunzione dei farmaci, rari controlli
medici, ecc.
Sia nell’uomo che nella donna la percentuale di insufficiente controllo risulta sovrapponibile e questo dato, anche se analizzato per tutte le
regioni italiane, cresce ulteriormente nel resto
della popolazione europea.
noRME iGiEniCHE Di vitA
(poche, chiare e fondamentali)
■ CALo PonDERALE
La riduzione di peso comporta la riduzione della quantità di tessuto adiposo, che contrariamente a quanto si credeva in passato, non è un
tessuto inerte, ma è pari a un organo, metabolicamente attivo, sede di deposito e di scambi di
sostanze che nella fattispecie hanno profonde
implicazioni nella regolazione della pressione
arteriosa. Inoltre il lavoro a cui viene sottoposto
il cuore per l’irrorazione di una massa corporea
maggiore è più elevato di quello fisiologico
normale. A questo aggiungiamo che negli obesi il tessuto adiposo
non è solo sottocutaneo e non si riduce ad un fatto
estetico: depositi adiposi si ritrovano in tutto il
corpo, compreso
intorno al cuore.
CARtA DEL RisCHio CARDiovAsCoLARE
La carta del rischio cardiovascolare serve a stimare la
probabilità di andare incontro a un primo evento cardiovascolare maggiore (infarto del miocardio o ictus)
nei 10 anni successivi, conoscendo il valore di sei fattori di rischio: sesso, diabete, abitudine al fumo, età,
pressione arteriosa sistolica e colesterolemia.
La carta del rischio:
• deve essere usata dal medico;
• è valida se i fattori di rischio vengono misurati seguendo la metodologia standardizzata;
• è utilizzabile su donne e uomini di età compresa
fra 40 e 69 anni che non hanno avuto precedenti
eventi cardiovascolari;
• non è utilizzabile nelle donne in gravidanza;
• non può essere applicata per valori estremi dei fattori di rischio: pressione arteriosa sistolica superiore a 200 mmHg o inferiore a 90 mmHg e colesterolemia totale superiore a 320 mg/dl o inferiore a 130 mg/dl.
Al fine della valutazione del rischio cardiovascolare, i valori degli esami clinici di glicemia e colesterolemia sono utilizzabili se eseguiti da non più di
tre mesi.
Si consiglia di eseguire la valutazione del rischio cardiovascolare attraverso la carta almeno:
• ogni sei mesi per persone a elevato rischio cardiovascolare (rischio superiore o uguale al 20%);
• ogni anno per persone a rischio da tenere sotto
controllo attraverso l'adozione di uno stile di vita sano (rischio superiore o uguale al 5% e inferiore al 20%);
• ogni 5 anni per persone a basso rischio cardiovascolare (rischio inferiore al 5%).
Come utilizzare la carta?
Identificare la carta corrispondente al genere e allo
stato di diabete: uomo diabetico, uomo non diabetico, donna diabetica, donna non diabetica. Per ognuna di queste quattro categorie le carte sono suddivise per fumatori e non fumatori.
Identificare quindi il decennio di età e posizionarsi
nella casella in cui ricadono i valore di colesterolemia
e pressione arteriosa.
Il rischio cardiovascolare è espresso in sei categorie
di rischio MCV (da I a VI): la categoria di rischio
MCV indica quante persone su 100 con quelle stesse caratteristiche sono attese ammalarsi nei 10 anni
successivi.
Le categorie di rischio sono espresse in:
Livello di rischio a 10 anni
Rischio MCV
VI
> 30%
Rischio MCV
V
20%-30%
Rischio MCV
IV
15%-20%
Rischio MCV
III
10%-15%
Rischio MCV
II
5%-10%
Rischio MCV
I
< 5%
i fattori di rischio considerati sono:
1) genere espresso in due categorie, uomini e donne;
2) diabete espresso in due categorie, diabetico e non
diabetico; viene definita diabetica la persona che
presenta, in almeno 2 misurazioni successive nell’arco di una settimana, la glicemia a digiuno
uguale o superiore a 126 mg/dl oppure è sottoposta a trattamento con ipoglicemizzanti orali o insulina oppure presenta storia clinica personale di
diabete;
3) età espressa in anni e considerata in decenni, 4049, 50-59, 60-69;
4) abitudine al fumo di sigaretta espressa in due categorie, fumatori e non fumatori; si definisce fumatore chi fuma regolarmente ogni giorno (anche
una sola sigaretta) oppure ha smesso da meno di
12 mesi. Si considera non fumatore chi non ha
mai fumato o ha smesso da più di 12 mesi;
5) pressione arteriosa sistolica espressa in mmHg;
rappresenta la pressione sistolica come media di
due misurazioni consecutive eseguite secondo la
metodologia standardizzata. È suddivisa in quattro categorie:
• ≥ a 90 mmHg e < a 130 mmHg;
• ≥ a 130 mmHg e < a 150 mmHg;
• ≥ a 150 mmHg e < a 170 mmHg;
• ≥ a 170 mmHg e ≤ a 200 mmHg.
Per persone che hanno il valore della pressione arteriosa sistolica superiore a 200 mmHg o inferiore a 90 mmHg non è possibile utilizzare la carta
per la valutazione del rischio.
6) colesterolemia espressa in mg/dl; è suddivisa in
cinque intervalli:
• ≥ a 130 mg/dl e < a 174 mg/dl;
• ≥ a 174 mg/dl e < a 213 mg/dl;
• ≥ a 213 mg/dl e < a 252 mg/dl;
• ≥ a 252 mg/dl e < a 291 mg/dl;
• ≥ a 291 mg/dl e ≤ a 320 mg/dl.
Per persone che hanno il valore della colesterolemia
totale superiore a 320 mg/dl o inferiore a 130 mg/dl
non è possibile utilizzare la carta per la valutazione
del rischio.
Contenuto dal sito dell’Istituto Superiore della Sanità: www.cuore.iss.it/valutazione/carte.asp
23
■ sPoRt
Lo sport non fa perdere peso ma aiuta a mantenere una corretta igiene alimentare. L’attività
muscolare comporta l’attivazione di vie metaboliche diverse da quelle adottate in una vita sedentaria con la mobilizzazione e la produzione
di sostanze che dilatano i piccoli vasi, stimolano
l’attività cardiaca e la produzione di nuovi vasi
coronarici, bruciano il colesterolo in eccesso nel
sangue. Inoltre aiuta la propriocezione e motiva
a mantenere una dieta più equilibrata. Questo comporta oltre che un minor rischio cv
in generale, una funzione
cardiaca migliore, la riduzione di adrenalina
disponibile, e altri benefici.
■ RiDURRE L’AssUnzionE Di sALE
24
Il sodio è già contenuto nei cibi freschi. L’aggiunta di sale come cloruro di sodio durante la
preparazione dei cibi o il consumo di alimenti
precotti che ne contengono
molto comporta l’assunzione di un eccesso di
sale. Questo sovraccarica il lavoro dei reni,
dando false informazioni ai sensori che at-
traverso vari meccanismi fanno alzare la pressione. Inoltre l’eccesso di sale nel sangue comporta anche l’eccesso nella saliva con una minor percezione dei sapori e la susseguente aggiunta di ulteriore sale. La progressiva riduzione del consumo e l’eliminazione del suo eccesso nel corpo, nel sangue e nella saliva, porta al
recupero dei sapori originali dei cibi. Per quantificare uno studio recente ha dimostrato che la
riduzione di 1 grammo di sale comporta in media un calo di 7 mmHg di pressione.
■ RiDURRE L’AssUnzionE Di CAFFÈ
Il caffè è un potente stimolatore
del sistema nervoso, non solo centrale, ma anche
delle terminazioni
periferiche. Esso
stimola il metabolismo, il livello di
allerta neurologico e altre funzioni. A livello
cardiaco aumenta la frequenza e la pressione arteriosa. Il decaffeinato visto spesso come un
escamotage, ha gli stessi effetti sul sistema CV;
oltre alla molecola usata per spostare la caffeina, esistono molte altre sostanze attive in una
tazzina di caffè. Un caffè al giorno può essere
benefico; di più può essere un vero tossico.
il valore di un buon assetto della pressione si ritrova in tante altre patologie correlate: una importantissima patologia dell’età moderna è il decadimento mentale, sia per l’aumento dell’età media che per il maggior numero di fattori predisponenti; bene, in questa patologia nell’anziano si
trova una duplice origine:
Malattia vascolare
Degenerazione neuronale
Decadimento mentale
A sua volta la malattia vascolare incrementa la degenerazione neuronale e si rientra in un circolo vizioso. Quindi proteggendo i vasi si ottiene una doppia protezione: sul SNC e sulle funzioni cerebrali.
W LA CioCCoLAtA
Si è osservato che gli stessi fattori che aumentano il rischio CV hanno un ruolo nel decadimento mentale, inteso sia come demenza senile che come M. di Alzheimer.
Partendo dall’osservazione che l’assunzione di flavonoidi del cacao (sostanza contenuta
in alta quantità nella cioccolata) miglioravano
le funzioni mentali, ricercatori di varie università italiane hanno somministrato questa sostanza a pazienti con moderato decadimento
mentale suddividendo la terapia in 3 livelli di
dosaggio. I risultati dopo solo 8 settimane di
trattamento sono stati evidenti, con un miglioramento delle funzioni cognitive nei due gruppi che assumevano alte e medie dosi di flavonoidi del cacao. Inoltre in questi pazienti è sta-
to rilevato un calo della
pressione arteriosa
e un miglioramento del quadro
diabetico nei pazienti affetti da tale patologia. Può essere una potenzialità in più nella terapia
di molte patologie come demenza senile,
ipertensione arteriosa, diabete, ipercolesterolemia.
Una probabilità di godere nel mangiare
cioccolata senza sensi di colpa e con la consapevolezza che fa bene? E no! La quantità
minima di flavonoidi da assumere per un effetto minimo è l’equivalente di circa 100 tavolette di cioccolata al giorno. Troppi effetti
LA DiEtA sAnA iERi E oGGi
Quando le nostre nonne avevano il mal di pancia il medico prescriveva una dieta in bianco per qualche giorno: il risultato era un’alimentazione a base di riso scondito. La prescrizione di una dieta in bianco oggi, nell’era dell’obesità e degli eccessi alimentari viene intesa
velocemente dal paziente come un piatto di pastasciutta, condita con burro e con una abbondante manciata di parmigiano: l’importante è intendersi!
La dott. Alessandra Fabretto, specialista in Cardiologia, è la responsabile del Servizio di Prevenzione e Terapia dell’Ipertensione della BIOS
S.p.A. di Roma in via Domenico Chelini 39.
info cup 06 809641
25
LA PRo-CALCitoninA: sUo iMPiEGo PER
LA DiAGnosi DELLE inFEzioni E DELLE
sEPsi bAttERiCHE E CoME AUsiLioGUiDA PER LA tERAPiA AntibiotiCA
Augusto Vellucci
Specialista in Clinica Medica e Malattie Infettive
26
N
onostante i continui miglioramenti nel trattamento terapeutico di pazienti critici con
serie patologie infettive, la sepsi è ancora la causa principale del decesso. Una diagnosi precoce
di sepsi è pertanto fondamentale perché una terapia rapida e appropriata possa essere associata
a un esito favorevole. Necessitano quindi indagini che facilitino questa diagnosi e permettano
di monitorarne il decorso. Diversi biomarker
(cioè molecole biologiche caratteristiche di processi patologici che possano essere facilmente e
obiettivamente misurati) sono stati proposti per
un loro possibile impiego nella diagnosi della sepsi e come guida nei comportamenti terapeutici
e nelle valutazioni prognostiche.
Tra i biomarker più utili a tal fine assumono
particolare rilievo le cosiddette proteine della
fase acuta (PFA) che vengono prodotte dal fegato in notevole quantità quando s’instaura
un’infiammazione.
Tra le PFA un ruolo decisivo spetta sicuramente alla Pro-calcitonina (PCt). Si tratta di
un precursore della calcitonina, ormone normalmente coinvolto nell’omeostasi del calcio e prodotto a livello delle cellule C della tiroide e delle cellule neuroendocrine dei polmoni e dell’intestino. In condizioni fisiologiche il livello di
pro-calcitonina nel flusso sanguigno è molto basso, rimane in genere sotto il limite di rilevabilità
dei test clinici, comunque minore di 0.05 ng/mL;
esso invece si eleva fortemente negli stati infiammatori, soprattutto in quelli indotti da infezioni batteriche.
Ma per comprendere il vero valore e le possibilità di utilizzazione del dosaggio della procalcitonina nella valutazione delle sepsi batteriche e del loro trattamento antibiotico, dobbiamo
prima conoscere quanto segue.
Una malattia infettiva insorge quando microbi patogeni virulenti (virus, batteri, miceti,
protozoi) riescono a penetrare in un organismo
determinando un’infezione, alla quale l’ospite
reagisce attivando una risposta difensiva chiamata infiammazione o flogosi. L’infiammazione consiste in una sequenza dinamica di fenomeni reattivi, che presentano caratteristiche relativamente costanti, nonostante l’infinita varietà di agenti lesivi che li possono provocare,
in quanto sono determinati soprattutto dalla liberazione da parte dell’organismo di sostanze
endogene (citochine) che rappresentano i mediatori chimici della flogosi. Le citochine costituiscono le molecole impiegate per effettuare ogni comunicazione tra le cellule di un organismo, legandosi a specifici recettori sulla
membrana cellulare dei loro target.
I recettori TLR (Toll-like receptors) presenti sulla superficie dei Monociti-Macrofagi (cellule difensive poste nei punti strategici del nostro organismo) segnalano l’invasione dei microbi patogeni e, producendo un elevato numero di citochine (come Interleukina IL-1, IL-6,
IL-8, TNF, ecc.), scatenano l’infiammazione,
che, tra l’altro, permette ai leucociti (soprattutto ai granulociti neutrofili) di giungere nella sede del danno e, quindi, di fagocitare agenti le-
sivi, uccidere batteri e degradare il tessuto necrotico.
Quasi contemporaneamente all’imponente
attività fagocitante dei macrofagi e dei granulociti viene messa in moto la risposta immunitaria
cosiddetta cellulo-mediata, in quanto le cellule
della difesa innata, mentre continuano a lottare
contro l’invasore microbico, mandano segnali
che attivano gli specifici linfociti, chiamati
TCD4 (che poi scateneranno la reazione da parte degli anticorpi e dei linfociti citotossici).
Se le risposte difensive immunitarie riescono a bloccare e far regredire il processo infettivo, si assiste alla guarigione e alla progressiva
restitutio ad integrum dei tessuti lesi. Se, invece, l’infezione persiste e si aggrava, il quadro
può evolvere verso la cosiddetta SIRS (sindrome da risposta infiammatoria sistemica) dovuta alla tempesta citochinica che continua, prendendo il nome di SEPSI, quando causata da infezione. Persistendo la malattia, s’instaura la
cosiddetta MODS (sindrome da disfunzione organica multipla) che, spesso con uno shock settico, porta a morte il paziente.
Lo schema seguente riassume in parte quanto detto.
EVOLUZIONE dELL’INfEZIONE
Citokine
APC
Sirs/Sepsi
Granulocita
Neutrofilo
Fagocitosi
Citokine
Linfocita T-CD4
SIRS: Sindrome da Risposta Infiammatoria Sistemica
MODS: Sindrome da Disfunzione Organica Multipla
Anticorpi e
linfociti T-CD8
citotossici
Citokine
Shock/MODS
Macrofago
Infiammazione
Molecole DAMPs:
(da danno cellulare)
non self
Infezione
Microbi: azione diretta
Tempesta citokinica
PFA
Toll-like receptor
Microbi: tossine
27
28
Avendo ben note queste modalità di infezione da parte dei microbi patogeni e di reazione infiammatoria da parte del nostro sistema immunitario, di fronte a un caso di sospetto processo
infettivo, è necessario determinare, nel modo più
ampio e rapido possibile, la diagnosi clinica della malattia, con un’attenta e ampia indagine epidemiologica e un completo esame obiettivo del
malato.
Posta la diagnosi clinica, è poi necessario,
per poter attuare la terapia etiologica più corretta, individuare quale sia o possa essere l’agente patogeno causale e, nel contempo, valutare la gravità della malattia. In attesa di conoscere l’esito delle indagini colturali sul materiale biologico prelevato dal paziente (emocolture, urinocolture, ecc.), da mettere sempre in
moto prima di iniziare qualsiasi trattamento
chemio-antibiotico, si studiano le più significative ricerche di laboratorio, specie quelle rivolte ad accertare le caratteristiche della risposta
infiammatoria indotta dal processo infettivo,
che possono fornire elementi preziosi anche per
la diagnosi etiologica. Si procede subito alla
conta dei globuli bianchi, che variano spesso in
modo diverso a seconda del gruppo microbico
cui appartiene l’agente infettante (leucocitosi
neutrofila nella maggior parte delle infezioni
batteriche, leucocitopenìa in altre, linfocitosi in
molte virosi, ecc.); sempre utilizzata è la misurazione della VES, velocità di sedimentazione
dei globuli rossi. Se nel sangue la presenza di
globuline o di fibrinogeno è molto alta, come
in corso di una reazione infiammatoria, la VES
aumenta. Ma, poiché sono molti i processi fisiologici e patologici che possono determinare
questo aumento, l’esame deve essere considerato utile ma estremamente aspecifico.
Quando l’infiammazione è particolarmente
intensa si producono poi, come già accennato, le
cosiddette PFA (proteine della fase acuta) prodotte dal fegato sotto l’induzione delle citochine
infiammatorie. Il dosaggio di queste proteine,
pur prive di specificità diagnostica, è molto utile perché esse indicano la presenza, l’intensità e
la durata dei processi infiammatori.
Le due PFA più usate nella diagnostica infettivologica sono la Proteina C Reattiva (PCR) e
la Pro-calcitonina (PCT).
PRotEinA C REAttivA (PCR)
È una delle più tipiche proteine di fase acuta e il primo mediatore della immunità innata a
essere riconosciuto. L’innalzamento della PCR
è conseguenza della sua maggiore sintesi da
parte del fegato sotto lo stimolo della citochina
IL-6 (Interleuchina 6), prodotta principalmente
dai macrofagi. Ma i livelli della PCR aumentano significativamente in risposta ad una grande
varietà di situazioni; tra cui, oltre che nelle infezioni di origine batterica, anche in quelle virali e in corso di infarto miocardico, neoplasie
maligne, ecc. Essa quindi indica che l’organismo è sottoposto ad uno stress infiammatorio
considerevole, ma non fornisce informazioni
sull’origine del processo patologico.
PRo-CALCitoninA (PCt)
Come abbiamo detto, la pro-calcitonina fisiologicamente è un precursore dell’ormone calcitonina, prodotto soprattutto da cellule tiroidee;
il suo livello ematico rimane in genere sotto il limite di rilevabilità dei test clinici.
Ma, in corso di una risposta infiammatoria sistemica, la PCT, prodotta soprattutto da cellule
connesse col sistema immunitario in risposta all’invasione di endotossine batteriche, tramite lo
stimolo sul fegato da parte delle citochine infiammatorie (IL-1β, TNF-a, IL-6), si eleva in
circolo e i suoi valori ematici possono in questo
caso raggiungere concentrazioni anche superiori a 100 ng/mL. In patologia sperimentale, somministrando endotossina batterica, dopo circa 3
ore si assiste all’aumento della PCT con picco
intorno alle 12 ore, ed emivita di 24 ore. La PCT
va quindi considerata la proteina della fase acuta che si eleva soprattutto negli stati infettivi di
origine batterica, specie in quelli con manifesta-
zioni sistemiche (SIRS-Sepsi), ove può raggiungere i valori più elevati. Esiste una correlazione
diretta tra il grado di positività della PCT e la
gravità del processo infettivo; i suoi livelli ematici possono addirittura fornire elementi prognostici sull’evoluzione della malattia. In condizioni settiche, l’aumento dei valori di PCT può essere osservato già dopo 3-6 ore dall’inizio della
infezione, valori che, in presenza di sepsi, sono
generalmente superiori a 0.5-2.0 ng/mL, e spesso fino a 10-100 ng/mL.
Nelle infezioni virali il livello della pro-calcitonina può aumentare, ma leggermente (spesso
non supera 1 ng/mL), anche perché lo stimolo citochinico per la sua produzione risulta attenuato
dalla produzione dell’Interferon (INF-g), citochina prodotta proprio nelle patologie virali.
Come abbiamo già detto, la PCT, come qualsiasi altra PFA, può elevarsi anche in infiammazioni non infettive, ad esempio dopo gravi traumi, ustioni, interventi chirurgici, dopo shock cardiogeno, in soggetti con neoplasia polmonare a
piccole cellule o tiroidea da cellule C e nei neonati nei primi 2-3 giorni di vita.
È per questo che il riscontro della PCT va valutato solo dopo aver diagnosticato nel paziente
la presenza di una malattia infettiva; in tali casi
rilevare alti livelli di pro-calcitonina, specie se
in soggetti con sospetta sepsi, è un elemento importante per confermare l’etiologia batterica, va-
lutare la gravità del processo morboso e decidere il miglior comportamento terapeutico. Le concentrazioni sieriche della PCT continuano a
crescere con l’aggravarsi del quadro settico; comunque la risposta è legata anche alla capacità
di reazione del nostro sistema immunitario e allo stato del paziente. Il medico deve sempre saper valutare i risultati della PCT in associazione
con la valutazione clinica generale e con tutti gli
altri dati di laboratorio (“PCT levels must always
be evaluated in the context of a careful clinical
and microbiological assessment”, Schuetz P. et
al., BMC Medicine 2011, 9:107).
In basso in questa pagina riferiamo un interessante algoritmo, edito dalla Biomerieux, riferito alla possibilità di diagnosi delle sepsi.
Pertanto, la PCT, con lo studio delle variazioni giornaliere dei suoi livelli sierici, si è dimostrata utile per monitorare il decorso e la
prognosi dell’infezione batterica sistemica e per
adeguare in maniera più efficace l’intervento terapeutico. La pro-calcitonina infatti ha un’emivita inferiore a 24 ore; e pertanto i suoi livelli
sierici, man mano che si risolve la sepsi, diminuiscono giornalmente e si dimezzano fino a
tornare ai valori normali (inferiori a 0.5 ng/mL);
viceversa, livelli persistentemente elevati si associano spesso a prognosi sfavorevole e possono essere interpretati come fallimento della terapia.
UtiLizzo DELLA PCt nELLA DiAGnosi Di inFEzionE bAttERiCA sistEMiCA (sEPsi)
PCt < 0,5 ng/ml
infezione sistemica (sepsi) non probabile: è basso il rischio di un’evoluzione a una
infezione sistemica severa (sepsi severa).
Può essere però possibile un’infezione batterica locale, in quanto i valori di PCt
inferiori a 0,5 ng/ml non escludono un’infezione localizzata, senza sintomi sistemici.
Un basso valore PCt inoltre si può ottenere anche nel caso in cui questo parametro
venga misurato troppo precocemente rispetto all’insorgere dell’infezione batterica,
normalmente prima delle 3-6 ore, e pertanto se il clinico ha il sospetto è consigliato
eseguire un nuovo dosaggio di PCt dopo 6-24 ore.
0,5 ng/ml < PCt < 2 ng/ml
infezione sistemica (sepsi) possibile: il rischio di una progressione a un’infezione
sistemica severa (sepsi severa) è moderato. si suggerisce di monitorare attentamente
il paziente per 6-24 ore sia clinicamente sia con un ulteriore dosaggio di PCt.
2 ng/ml < PCt < 10 ng/ml
infezione sistemica (sepsi) possibile: alto rischio di progressione a infezione sistemica
severa (sepsi severa).
PCt ≥ 10 ng/ml
importante risposta infiammatoria sistemica, quasi esclusivamente dovuta a sepsi
severa o shock settico.
29
Sono stati fatti studi controllati per valutare se il dosaggio della PCT possa risultare utile per la decisione di quando iniziare e di quanti giorni continuare la terapia antibiotica; e ciò
al fine di impiegare questi farmaci nel modo
più corretto possibile, specie in relazione al loro usuale abuso e agli effetti negativi sull’insorgenza delle resistenze batteriche. Si può perfino decidere per un minor tempo di degenza
in reparto, con ulteriore diminuzione dei relativi costi.
Un algoritmo decisionale in tal senso, basato
sul monitoraggio della PCT e sul decorso clinico, è stato utilizzato nelle polmoniti comunitarie
30
permettendo di personalizzare la durata della terapia per ciascun paziente; si è ottenuto un risparmio di antibioticoterapia (sia in senso economico che ai fini della resistenza) e una riduzione delle giornate di degenza (da una media di
12 a una di 6 giorni), con risultati di guarigione
sovrapponibili a quelli osservati nei soggetti trattati per 10-14 giorni.
Riferiamo come esempio un algoritmo suggerito per iniziare o no il trattamento antibiotico
nelle infezioni delle vie respiratorie, tenendo
sempre ben presente che queste vengono usualmente trattate con farmaci antibatterici, pur essendo in gran parte di etiologia virale.
PCt < 0,10 ng/ml
Assenza di infezione batterica: l’uso di antibiotici è fortemente sconsigliato,
anche in caso di indebolimento polmonare da esacerbazione acuta della
patologia polmonare cronica ostruttiva.
0,10 ng/ml < PCt < 0,25 ng/ml
infezione batterica improbabile: l’uso di antibiotici e sconsigliato.
0,25 ng/ml < PCt < 0,50 ng/ml
Possibile infezione batterica: è raccomandato iniziare la terapia antibiotica.
PCt ≥ 0,50 ng/ml
Presenza di infezione batterica: il trattamento antibiotico viene fortemente
raccomandato.
notE ConCLUsivE
La pro-calcitonina mostra livelli sierici che
aumentano circa 3 ore dopo l’inizio dell’infezione batterica e raggiungono i valori più elevati dopo circa 6-12 ore; la sua emivita è inferiore alle 24 ore; per monitorare il paziente si ritiene che occorra una frequenza dei dosaggi della proteina almeno una volta al giorno, senza rapporto con i ritmi circadiani.
La PCT è stabile in vitro; lasciando il campione a temperatura ambiente, si può osservare
un decadimento minimo (non più del 2%) dopo
2 ore e non più del 10 % durante le prime 24
ore.
Durante il monitoraggio del processo infettivo in corso di terapia antibiotica, si può valutare
la PCT nel modo seguente:
- una riduzione giornaliera di circa il 50% della sua concentrazione rispetto a quella del
giorno precedente (specie se confermata per
altri 2 o 3 giorni consecutivi) può essere valutata come il probabile successo dell’intervento terapeutico;
- invece, livelli che si mantengono elevati o che
addirittura aumentano, suggeriscono che il
processo non è stato influenzato dalla terapia,
che ovviamente dovrebbe essere modificata.
Lo studio della PCT può essere utilizzato anche in corso di gravi patologie non infettive
(pazienti politraumatizzati o sottoposti a estesi
interventi chirurgici) per poter rilevare se e quando compaia un processo infettivo; in questi casi
è utile dosare subito la PCT, che può rivelarsi aumentata per la patologia di base, considerare il
risultato come “valore basale” del paziente e poi
verificare la PCT nei giorni successivi:
- se essa si riduce giornalmente di circa il 50%
di questo valore, si può considerare che non
esistono complicanze infettive;
Algoritmo per la somministrazione della terapia antibiotica
Concentrazione
<0,25 mcg/l
Terapia fortemente
sconsigliata
Concentrazione
>0,25 mcg/l e <0,5mcg/l
Terapia
sconsigliata
Concentrazione
>0,5 mcg/l e <1 mcg/l
Terapia
consigliata
Concentrazione
>1 mcg/l
Terapia fortemente
consigliata
Algoritmo per l’interruzione della terapia antibiotica
Concentrazione
<0,25 mcg/l
Interruzione fortemente
consigliata
Concentrazione
>0,25 mcg/l e <0,5mcg/l
Interruzione
consigliata
-
se, invece, il livello della PCT si mantiene
costante o addirittura aumenta nei giorni successivi, si deve prendere in considerazione la
possibilità di complicanze settiche.
Il dosaggio della PCT viene utilizzato quindi
per decidere l’inizio e la sospensione della terapia antibiotica tramite l’utilizzo di algoritmi che
in funzione della concentrazione sierica di PCT,
incoraggiano o meno la somministrazione degli
Concentrazione
>0,5 mcg/l e <1 mcg/l
Interruzione
sconsigliata
Concentrazione
>1 mcg/l
Interruzione fortemente
sconsigliata
antibiotici o viceversa ne suggeriscono l’interruzione, come nello schema riassuntivo qui sopra.
Pertanto, l’impiego della pro-calcitonina che
aiuta a comprendere l’andamento delle infezioni
batteriche e la loro gravità, utilizzato per meglio
coordinare l’impiego della terapia antimicrobica, costituisce sicuramente un valido approccio a
un più razionale uso degli antibiotici (v. Schuetz
P. et al., BMC Medicine 2011, 9:107).
Il test pro-calcitonina, eseguibile su un campione ematico, può essere
effettuato tutti i giorni, anche in emergenza, presso il Laboratorio di Patologia Clinica della Bios S.p.A. di Roma in via Domenico Chelini 39.
info cup 06 809641
31
REGiMEn sAnitAtis sALERnitAnUM
[Flos medicinae scholae Salerni]
[da Strenna UTET 1972 – Medicina Medioevale; traduzione di Pietro Magenta (1834)]
Caput VI
De cibis bene nutrientibus
Ova recentia, vina rubentia, pinguia iura,
cum simila pura, naturae sunt valitura.
32
sELECtio
L’uova fresche, ed i sugosi
brodi, e i vini generosi,
con focaccia schietta e pura
giungon forze alla natura.
Caput XIX
De temporibus anni
Temporibus veris modicum prendere iuberis;
sed calor aestatis dapibus nocer immoderatis.
Autumni fructus caveas, ne sint tibi luctus.
De mensa sume quantum vis tempore brumae.
Quando regna primavera
usa tavola leggera.
Nell’ardor dei giorni estivi
troppi cibi son nocivi.
Nell’autun bada che i frutti
non t’apportin gravi lutti.
Ma nel tempo delle nevi
quanto vuoi manduca e bevi.
Caput XXIII
De lotione manuum
Si fore vis sanus, ablue saepe manus.
Lotio post mensam tibi confert munera bina:
mundificat palmas et lumina reddit acuta.
Se gli umor serbar vuoi sani,
lava spesso le tue mani.
Recar suol dopo le cene
tal lavacro un doppio bene:
alla man toglie l’untume
e degli occhi aguzza il lume.
MoRbo Di PAGEt ossEo E ARtRitE
REUMAtoiDE A EsoRDio tARDivo
I
l morbo di Paget osseo è un’affezione caratterizzata da un rimaneggiamento osseo localizzato, per un’accentuazione del riassorbimento
osseo osteoclastico e secondaria neofarmazione
ossea compensativa. I siti scheletrici colpiti da
questa affezione hanno una struttura ossea disorganizzata, con deformità ossea e facilità alle
fratture patologiche (tab. 1). Sono segnalate come possibili associazioni morbose anche l’artrite reumatoide, la condrocalcinosi, la spondilopatia iperostosante (1). Broggini e coll. (2) hanno
descritto in passato un caso di m.di Paget osseo
associato ad artrite reumatoide sieropositiva, ad
esordio tardivo, e gammapatia monoclonale di
incerto significato (MGUS).
James Paget
(da “La malattia ossea” di Paget, ed. SFK, 1989)
tab. 1
QUADRo sinottiCo DELLE CoMPLiCAnzE PAGEtiCHE
1. Fratture patologiche
2. osteoartrosi secondaria
3. Complicanze neurologiche
Lesione n.cranici
neuropatia centrale da interessamento cranico
sindromi midollari o radicolari
4. Complicazioni cardio-vascolari
Cardiomegalia
Alterazioni Ecg, ischemia miocardica
insuff. cardiaca relativa
ipertensione arteriosa sistolica
Calcificazioni arteriose e valvolari
5. Degenerazione neoplastica
osteosarcoma, fibrosarcoma
istiocitoma fibroso maligno
Condrosarcoma, reticolosarcoma
tumore a cellule giganti
6. Complicazioni metaboliche
7. Calcolosi renale
iperuricemia, gotta, condrocalcinosi, pseudogotta, ipercalcemia,
ipercalciuria
iMPARARE DALLA CLiniCA
Lelio R. Zorzin - Specialista Reumatologo
Silvana Francipane - Medico in formazione Medicina Generale (MG)
33
Fig. 1
34
Fig. 2
Descriviamo in questa sede il caso di un uomo di 63 anni, affetto da m.bo di Paget osseo
sin dall’età di 46 anni. Da circa un anno tumefazione dolorosa e impotenza funzionale a carico dei polsi, articolazioni metacarpofalangee
di entrambe le mani, caviglie, con rigidità mattutina. Il laboratorio conferma la diagnosi di artrite reumatoide. L’indagine radiografica delle
mani e dei polsi (fig. 1, 2) mostra osteoporosi
diffusa delle ossa del carpo e della epifisi distale del radio e ulna bilateralmente, riduzione
della rima radiocarpica, anchilosi di alcune ossa del carpo, osteoporosi “a banda” delle metacarpofalangee, areole di osteolisi a carico
della testa del II e III metacarpo bilateralmente e della base della falange prossimale del II
dito di sinistra.
L’indagine radiografica del bacino (fig. 3)
mostra un rimaneggiamento osseo della branca
ischiopubica di sinistra con compromissione
del tetto dell’acetabolo omolaterale. L’indagine radiografica delle ginocchia (fig. 4 e 5) mostra un rimaneggiamento osseo, con alternanza di zone di addensamento osteosclerotico e
di rarefazione ossea a carico dell’epifisi tibiale destra.
Gli indici biochimici del turnover osseo sono caratterizzati da valori normali di calcemia,
calciuria, fosfatemia, fosfaturia. L’idrossiprolinuria è lievemente aumentata, mentre i valori della fosfatasi alcalina sierica o osteocalcina
sierica sono superiori alla norma. L’indagine
scintigrafica mediante 99mTc metildifosfonato evidenziava una ipercaptazione del tracciante a livello dell’emibacino di sinistra ed
epifisi prossimale della tibia destra.
Si può concludere sottolineando il fatto che
il caso rappresentato, in analogia a quanto descritto da altri autori (2), è affetto da un’artrite
reumatoide a insorgenza tardiva in comorbilità
con un pregresso m.bo di Paget osseo.
Ricorre nella storia del nostro malato la
presenza di urolitiasi, complicanza ampiamente segnalata nel m.bo di Paget (3).
L’associazione dell’artrite reumatoide con
il m.bo di Paget osseo non sembra influenzare
nel nostro caso i valori dei parametri biochimici testati, nel senso dei valori più bassi di
osteocalcina sierica, a causa della sieropositività ad elevato titolo del fattore reumatoide
(reaz. di Waaler Rose 1:2560) e della terapia
cortisonica effettuata, e valori più elevati di
idrossiprolinuria e fosfatasi alcalina sierica, rispettivamente per la collagenolisi e l’osteoporosi sistemica legate all’artrite reumatoide.
Le considerazioni suddette trovano giustificazione nella segnalazione di possibili valori
di fosfatasi alcalina sierica e idrossiprolinuria
elevati in corso di artrite reumatoide e nella
possibilità che l’osteocalcina sierica possa essere influenzata non solo dall’alterato ricambio
minerale, dalla terapia steroidea ma anche da
meccanismi immunologici che caratterizzano
la particolare severità dell’artrite reumatoide
(alterato rapporto dei linfociti CD4/CD8, FR
ad alto titolo, impegno extrarticolare) (4).
Fig. 3
Fig. 4
Fig. 5
35
bibliografia
1. singer F.R.
Metabolic bone diseases. In: Kelley W.N., Harris
E.D., Ruddy S., Sledge C.B., Textbook of
Rheumathology. WB Saunders, 1985.
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Filardi P.G., baratelli E.
Associazione di malattia di Paget, artrite reumatoide e gammapatia monoclonale di incerto significato: osservazione di un caso clinico. Reumatismo, 1989; 41, 2: 143.
3. Cherié Ligniere G., Corradi A., Uliveri F.M.
La malattia ossea di Paget. 23 Ed. SKF, 1989.
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Osteocalcine et anomalies de l’immunitè cellulaire
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55, 8: 577-82.
Il prof. Lelio Zorzin, già docente di Reumatologia della Facoltà di Medicina e Chirurgia dell’Università di Roma “La Sapienza”, svolge attività di
consulenza presso la BIOS S.p.A. di Roma in via Domenico Chelini 39.
info cup 06 809641
36
FRoM bEnCH to bEDsiDE
i bEnEFiCi CLiniCi DELLA RiCERCA:
sELEzionE DALLA LEttERAtURA
sCiEntiFiCA
CELLULE stAMinALi in GRADo Di
RiPARARE iL CUoRE DoPo L’inFARto
bolli R., Chugh A.R., D’Amario D., et al., Cardiac
stem cells in patients with ischaemic cardiomyopathy (SCIPIO): initial results of a randomised
phase 1 trial. the Lancet. 2011 nov 26; 378 (9806):
1847-57.
http://www.sciencedirect.com/science/article/pii/S014
0673611615900
Uno studio condotto da due ricercatori italiani il prof. Roberto Bolli dell’Università di
Louisville e il prof. Piero Anversa della Harvard
Medical School di Boston, pubblicato nell’importante rivista internazionale The Lancet, mostra che una terapia a base di staminali può aiutare un cuore danneggiato da infarto ad autori-
pararsi, migliorandone la funzionalità. Lo studio clinico è stato battezzato “Scipio”, acronimo di Cardiac Stem Cells in Patients with Ischemic Cardiomyopathy e sono state condotte sperimentazioni cliniche su 23 pazienti con insufficienza cardiaca da infarto. Gli scienziati hanno prelevato staminali adulte dal cuore di 16 di
questi pazienti, le hanno purificate nel laboratorio di Anversa a Boston e poi fatte crescere moltiplicandole. Queste cellule sono state poi reiniettate nelle aree danneggiate del cuore dei pazienti, via infusione intracoronarica, attraverso
un catetere, sottoponendo così i pazienti ad un
autotrapianto.
Osservando coloro che erano stati sottoposti
al trattamento, e confrontando il loro stato di salute con i sette che non avevano ricevuto la tera-
pia, i ricercatori hanno osservato che nei mesi
successivi la superficie di tessuto necrotico danneggiata dall’infarto si era ridotta e, parallelamente, era diminuita l’insufficienza cardiaca.
La capacità di pompare sangue era migliorata per
tutti i pazienti trattati dell’8,5%, dopo solo 4 mesi e del 12% a 12 mesi dal trattamento.
Il tentativo di usare le staminali per “riparare” il cuore era stato già fatto in passato, ma erano state utilizzate cellule estratte dal midollo
osseo.
I due ricercatori hanno invece avuto l’intuizione di utilizzare le stesse staminali adulte del
cuore, prelevandole dalla zona atriale.
“Questi risultati iniziali nei pazienti sono davvero incoraggianti”, hanno scritto i professori Bolli ed Anversa su The Lancet, “e suggeriscono che
l’infusione di cellule staminali cardiache autologhe (cioè del paziente stesso) è efficace nel migliorare la funzione cardiaca e nel ridurre le dimensioni dell’area cardiaca infartuata”.
sEsso DEL nAsCitURo GRAziE AD Un
EsAME DEL sAnGUE Già nELLE PRiME sEttiMAnE Di GEstAzionE
Lim J.H., Park s.Y., Kim s.Y. et al. Effective detection of fetal sex using circulating fetal DNA in first-
dividuare il sesso del neonato già poche settimane dopo il concepimento, attraverso un semplice
prelievo del sangue della madre senza ricorrere ad
esami invasivi. Gli esami disponibili ad oggi per
identificare il sesso del nascituro, e non solo, sono l’amniocentesi e l’analisi dei villi coriali, entrambe procedure invasive che non possono essere eseguite prima di dieci settimane di gestazione
e che comportano un rischio, seppur basso, di
aborto spontaneo. A questi test si aggiunge la nota ecografia con la quale per vedere il sesso del
bambino occorre attendere oltre il primo trimestre
di gravidanza. Per i genitori, invece, potrebbe essere presto disponibile il test realizzato da ricercatori coreani dell’Università di KwanDong, a
Seoul, analizzando il rapporto tra due particolari
enzimi, denominati DYS14 e GAPDH, nel sangue della futura mamma. La ricerca, che è stata
pubblicata sulla rivista FASEB Journal, oltre alla
comodità per tutti genitori curiosi, potrà avere anche un utile impiego nella ricerca delle malattie
genetiche legate alle anomalie cromosomiche, che
potranno essere individuate molto più velocemente. Nel plasma materno infatti è presente
DNA fetale e a seconda delle quantità di questi 2
enzimi gli studiosi coreani sono stati capaci di prevedere il sesso del nascituro in 203 donne incinte
arruolate nello studio.
trimester maternal plasma. FAsEb J. 2012 Jan; 26
(1): 250-8.
http://www.ncbi.nlm.nih.gov/pubmed?term=DYS14
%2FGAPDH
Un gruppo di ricercatori coreani ha messo a
punto un test, unico nel suo genere, capace di in-
DiAGnosi PRECoCE DELL’ALzHEiMER:
PREsto Un EsAME DEL sAnGUE E/o
LA PossibiLità Di iDEntiFiCARE i
PRiMi sintoMi DELLA MALAttiA AttRAvERso UnA sCAnsionE DELLA
REtinA DELL’oCCHio
http://www.webmd.com/alzheimers/news/20110721/s
tudy-blood-test-detects-early-alzheimers
http://www.alz.org/aaic/sunday_12amCT_news_release_falls.asp
http://www.medscape.com/viewarticle/746489
Grazie ad un semplice test del sangue, messo a punto da alcuni ricercatori australiani del
Commonwealth Scientific and Industrial Research Organization di Perth, sarà possibile fare
37
deficit neurologici, come la perdita della memoria.
sCLERosi MULtiPLA DiAGnostiCAtA
DA UnA sEMPLiCE AnALisi DEL sAnGUE
Menon R., Di Dario M., Cordiglieri C. et al. Gender-based blood transcriptomes and interactomes in
multiple sclerosis: Involvement of SP1 dependent
38
una precoce diagnosi del Morbo di Alzheimer,
una malattia neurodegenerativa per la quale attualmente non esiste una cura e per la quale è
dunque molto importante effettuare una diagnosi precoce, per riuscire a garantire una vita migliore e più lunga a chi ne viene colpito.
Nei test preliminari, guidati dalla dottoressa
Samantha Burnham, lo strumento di screening
sperimentale ha avuto l’85% di efficacia nel determinare la quantità di placche associate all’Alzheimer nel cervello delle persone analizzate.
Se i risultati raggiunti, presentati in occasione della Conferenza dell’Alzheimer’s Association International tenutasi a Parigi nel luglio del
2011, potranno essere replicati su un gran numero di persone, si avrà a disposizione uno strumento di diagnosi poco invasivo ed economico
per capire se un soggetto si trovi nelle fasi iniziali, o corra il rischio di sviluppare l’Alzheimer.
Inoltre, lo stesso gruppo di ricerca ha presentato
i risultati di un ulteriore studio nel quale si è potuto vedere che è possibile identificare i primi
sintomi della malattia attraverso una scansione
della retina dell’occhio.
Gli studiosi hanno condotto i test su 126
soggetti evidenziando come, in quelli colpiti da
Alzheimer, lo spessore dei vasi sanguigni della
retina era totalmente diverso da quello delle
persone sane. Ciò ha portato il team di ricerca a
concludere che significative differenze nella
struttura dell’occhio sarebbero presenti nella fase iniziale della patologia e dunque dalla loro
individuazione sarebbe possibile intraprendere
terapie specifiche, sin dalla comparsa dei primi
gene transcription. J Autoimmun. 2011 nov 24.
http://www.sciencedirect.com/science/article/pii/S089
684111100117X
La sclerosi multipla (SM), chiamata anche
sclerosi a placche, è una malattia autoimmune
cronica demielinizzante, che colpisce il sistema
nervoso centrale. Il futuro, per una diagnosi precoce della malattia, potrebbe essere un semplice
esame del sangue. Un team di ricercatori italiani
dell’Istituto San Raffaele guidati dalla dottoressa Cinthia Farina ha individuato, grazie alla “medicina di genere” alcuni biomarcatori specifici
della malattia.
La ricerca è stata pubblicata su Journal of
Autoimmunity e nello studio sono stati valutati
più di 20.000 geni nel sangue di pazienti con SM
e i profili sono stati paragonati a quelli di donatori sani, tenendo conto anche del sesso (maschile o femminile) del malato. Risultato: la malattia è caratterizzata da cambiamenti significativi sia nella quantità che nel tipo di geni che sono diversamente espressi nel sangue degli uomini e delle donne. Non solo, sono state identificate delle “firme molecolari” associate alla patologia diverse negli uomini e donne con SM.
“È un lavoro di medicina traslazionale molto
innovativo – spiega Cinthia Farina, responsabile
del laboratorio di Immunobiologia delle Malattie
Neurologiche presso l’Istituto di Neurologia
Sperimentale INSpe del San Raffaele – poiché
per la prima volta è stato usato, nell’analisi di genomica funzionale, un approccio di “medicina di
genere”. Questo ci ha consentito di ottenere marcatori in grado di distinguere in maniera molto
precisa i malati dalla popolazione sana.” In altre
parole, “andando avanti nella ricerca sarà possibile, un domani, capire da un prelievo di sangue
se una persona è affetta da SM oppure no”.
stAMinALi PER PRoDURRE sPERMA
Abu Elhija M., Lunenfeld E., schlatt s., Huleihel
M. Differentiation of murine male germ cells to spermatozoa in a soft agar culture system. Asian J Androl. 2011 nov 7.
http://www.nature.com/aja/journal/vaop/ncurrent/pdf/
aja2011112a.pdf
I ricercatori dell’Università tedesca di Muenster sono riusciti a creare in laboratorio spermatozoi, grazie all’utilizzo delle cellule germinali:
le staminali che danno luogo ai gameti femminili e maschili, ovuli e spermatozoi, aprendo così la
strada a una nuova terapia contro l’infertilità maschile.
Come riportato dal quotidiano britannico The
Daily Telegraph, l’esperimento è stato finora
condotto sui topi: alcune staminali estratte dai testicoli e immerse in un speciale agar di coltura
hanno dato luogo a spermatozoi vitali e senza alcun danno dal punto di vista genetico. Se questa
tecnica fosse applicabile anche all’uomo permetterebbe di ricavare sperma anche da persone
non fertili, eliminando quindi la necessità di un
donatore. Al momento tuttavia tentativi in questo
senso non hanno ancora dato esito positivo: “Ab-
biano già applicato gli stessi metodi utilizzando
cellule umane, finora senza successo: tuttavia,
siamo fiduciosi nel fatto che se la tecnica funziona con un mammifero come il topo, può farlo anche nell’uomo” ha spiegato uno dei ricercatori, dr. Mahmoud Huleihel, sottolineando che la
difficoltà principale sta nel trovare la “soluzione
di coltura” adatta nella quale far sviluppare le
cellule germinali.
stAMinALi MEsEnCHiMALi PER tRAsPoRtARE FARMACi
Pessina A., bonomi A., Coccè v. et al. Mesenchymal
stromal cells primed with Paclitaxel provide a new
approach for cancer therapy. PLos one 2011; 6(12):
e28321.
http://www.ncbi.nlm.nih.gov/pmc/articles/PMC32436
89/pdf/pone.0028321.pdf
Uno studio dell’Università Statale di Milano e dell’Istituto Neurologico Carlo Besta, pubblicato sulla rivista PLoS one mette in evidenza che cellule staminali mesenchimali si possono trasformare in “veicoli” per trasportare i farmaci a destinazione. È il futuro della chemioterapia. I ricercatori aprono la strada ad un nuovo
possible utilizzo delle staminali: quella di cellule-farmaco. Lo studio firmato dal dr. Augusto
Pessina, del Dipartimento di Sanità Pubblica,
Microbiologia, Virologia della Statale, in collaborazione con il dr. Giulio Alessandri, del Laboratorio di Neurobiologia del Besta e con l’Università Cattolica del Sacro Cuore ha dimostrato per la prima volta che “cellule mesenchimali umane, isolate dal midollo osseo, possono
essere “caricate in vitro” con farmaci chemioterapici e successivamente utilizzate con efficacia
per il trattamento dei tumori”, spiegano gli autori.
La strategia potrebbe essere alla base di
“nuove forme di chemioterapia”, assicurano gli
esperti. Le cellule staminali verrebbero usate come un inedito dispositivo-farmaco, semplice e a
basso costo, per cure sempre più mirate e in grado di diminuire o eliminare alcuni effetti colla-
39
terali. “Il dispositivo – spiegano gli autori – può
essere preparato mediante semplici e poco costose procedure, che non comportano manipolazioni genetiche e quindi ne evitano tutti i rischi
correlati”.
“Il dispositivo – sostiene Alessandri – mantiene la sua funzionalità terapeutica anche dopo
congelamento in azoto liquido, aprendo così la
strada alla possibilità di conservazione di queste cellule, che potrebbero essere utilizzate, nello stesso paziente donatore, anche tempo dopo
la loro preparazione, per esempio in caso di recidive”.
La possibilità di usare cellule dello stesso paziente (trattamento autologo) ottenute da midollo osseo, tessuto adiposo e altri tessuti, aggiunge
Pessina, “elimina il rischio immunologico e riduce anche il rischio di trasmissione di agenti pa-
togeni. La dimostrazione sperimentale dell’efficacia del metodo è stata eseguita su tumori, ma
l’applicazione potrà riguardare anche altre patologie ove sia richiesto un potenziamento sia della specificità che della attività terapeutica”.
“La caratteristica biologica che permette di
essere caricate con farmaci – continuano gli autori dello studio – sembra essere condivisa anche
da altre popolazioni cellulari, come fibroblasti,
cellule dendritiche, monociti e macrofagi, che
sono presenti nel sangue e quindi facilmente isolabili dai pazienti”. “Che le staminali mesenchimali – commenta il dr. Eugenio Parati, Direttore
del Laboratorio di Neurobiologia del Besta di
Milano – possano rigenerare e riparare tessuti
danneggiati era già stato dimostrato. Con questa
nuova scoperta viene dimostrato che le stesse
cellule possono essere utilizzate come “veicoli”
40
HAnno CoLLAboRAto A QUEsto nUMERo
Prof. Alessandro Ciammaichella
Medico chirurgo, Specialista in Medicina Interna
Già Primario Medico Ospedaliero
Dott. Alessandra Fabretto
Medico chirurgo, Specialista in Cardiologia
Dott. Silvana Francipane
Medico chirurgo
Prof. Giuseppe Luzi
Medico chirurgo, Specialista in Immunologia
Clinica e Allergologia
Professore associato di Medicina Interna (f. r.)
Docente presso “La Sapienza” – Università di Roma
Facoltà di Medicina e Psicologia
Avv. Fernando Patrizi
Direttore Responsabile di Diagnostica BioS
Maria Giuditta Valorani, PhD
Postdoctoral Research Assistant
Blizard Institute
Queen Mary University of London – GB
Prof. Alessandro Vellucci
Medico chirurgo, Specialista in Malattie Infettive
e Clinica Medica
Già Primario di Malattie Infettive
Prof. Lelio R. Zorzin
Medico chirurgo, Specialista in Reumatologia
Prof. associato Reumatologia (f.r.)