Sulle ali del Destino - Problemi tipici affrontati dalla Consulenza

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Sulle ali del Destino - Problemi tipici affrontati dalla Consulenza
Filosofando…
a cura di Lisa De Luca
Sulle ali del Destino
Il Destino. Che tema è mai questo da affrontare parlando della morte?
Cosa c'entra? Oh, se c'entra! La morte non è forse la fine della vita, o, forse, solo la fine di
“questa vita”? E come si fa a parlare di morte se non si parla anche di vita?
E se si vuol parlare di vita, si deve necessariamente parlare di destino perchè, che ne
siamo consapevoli o meno, tutti noi viviamo avendo una certa idea di cosa sia il
destino...anche se forse non ci siamo mai fermati a riflettere su questo.
Vediamo di sviluppare questo concetto.
Le persone, tutte le persone, affrontano la vita fondamentalmente in due modi: o pensano
di poter decidere cosa fare, come e quando farlo oppure pensano che ci sia una certa
“predestinazione”, e quindi che, in realtà – la vita di ognuno sia già “scritta” e definita.
In questo secondo caso, poi, c’è chi crede che esista una “predestinazione intelligente”,
cioè che esista un “disegno” che ha un senso e/o un fine sensato (che risiede nella realtà
oppure che proviene dall’”esterno”) e chi crede, invece, che si tratti di un “tutto deciso”, ma
assolutamente casuale e “senza senso”.
Queste posizioni, molto semplificate, prevedono anche delle “posizioni intermedie” e una
ampia gamma di sfumature.
Chiaramente abbiamo estremizzato un po’ i concetti, ma questo non ci deve fermare, anzi:
radicalizzare le proprie teorie e le proprie idee serve proprio per vedere se hanno tenuta o
meno, se, quanto, come e dove possono o meno essere applicate.
Ma quali sono le “conseguenze” e i problemi che si aprono quando si sposa una idea
piuttosto che un’altra?
Si può forse pensare a questo punto che i più “fortunati” siano coloro che hanno la fede,
perchè queste tematiche sono in essa tutte affrontate e anche tutte risolte?
Siamo sicuri che anch’essi non provino un “brivido” quando si tratta di conciliare in
armonica danza il “libero arbitrio” con il “sia fatta la Tua volontà”?
Forse questa dicotomia è solo apparente, ma siamo sicuri che sia sempre così semplice
da capire e da accogliere?
Proviamo ora a riflettere in maniera nuova – anche se vedremo che, in realtà, nuova non è
per niente, ma piuttosto è una via che è stata “dimenticata”, ma che permea nel profondo
tutta la nostra cultura, pur se nel tempo ha seguito vie sotterranee.
E partiamo da un fatto – incontrovertibile – ovvero dal fatto che noi “ci siamo”, “esistiamo”.
Non è banale, anzi, è l’origine di tutto il discorso successivo.
Indipendentemente dalla nostra cultura, dalla nostra fede religiosa, dal nostro carattere e
dalle nostre idee, più o meno esplicite e consapevoli sul destino, dobbiamo constatare che
il fatto di essere qui, in questa vita, non dipende da noi.
Questo non significa necessariamente che dobbiamo credere di essere stati creati da un
essere superiore, né che dobbiamo per forza tirare in ballo Dio e/o gli dei, ma il fatto resta:
noi siamo qui, e non l’abbiamo – in nessun modo – “deciso” noi.
Heidegger, grande filosofo del ‘900, direbbe che ci troviamo “gettati nell’essere”.
Ora, anche coloro i quali non abbiamo mai affrontato esplicitamente tale ardua tematica,
hanno comunque dovuto fare i conti con questo “fatto”, anche se, in parole povere, magari
non se lo sono mai detto.
Ognuno di noi si trova così a dover decidere, per forza, in una situazione di partenza che è
del tutto al di fuori del suo potere di determinazione.
“Ci piaccia o no, essa ha vigore non perché prendiamo interesse a essa, ma, al contrario
(…) non può non interessarci, perché s’impone necessariamente.” (1)
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Filosofando…
a cura di Lisa De Luca
Qui scatta automaticamente una delle grandi domande filosofiche: Perché continuare a
esistere? E, si noti bene, questo non vuol dire necessariamente pensare alla possibilità di
una nostra “soppressione fisica”, ma significa chiedersi cosa vuol dire “esistere”, “essere”,
nel senso più pieno, bello e profondo del termine.
“La scelta non è quindi un fenomeno primario, ma è radicata e resa possibile da un atto
originario di obbedienza, qual è il riconoscimento di una necessità”. (2)
La libertà dell’uomo si gioca solo e tutta dentro questo “spazio”, che non è uno spazio
assoluto, ma per forza di cose “limitato” da questa condizione originaria.
E non è affatto semplice riconoscere e accettare questo “qualcosa” che esiste
indipendentemente da me e che io posso solo accettare o meno, ma non posso cambiare
in alcun modo.
“(…) l’atto con cui mi risolvo ad assumere come un tutto la mia esistenza è ciò in virtù di
cui, per la prima volta, nasco per me a partire da me stesso”. (3)
Riflettere su questo, oppure non riflettere ma fare questo, è come nascere una seconda
volta…e questa volta sì per mia decisione!
In questo atto altissimo di cui è capace ogni essere umano si ha la perfetta unità di
ricevere e offrirsi a ciò che si è ricevuto: paradossalmente, il nostro primo atto veramente
libero, è un “sacrificio”. Ricevo la vita e il mio legarmi ad essa significa da un lato, dire “sì”
alla necessità originaria (che non dipende da me) e dall’altro dire “no” alla semplice
sopravvivenza legata solo agli istinti e ai bisogni, tipica del mondo animale o del nostro
stadio istintuale.
L’epoca moderna, soprattutto, si è dimenticata in maniera drammatica di questo “sacrificio
originario e indispensabile”, perché ha creduto di poter esercitare una libertà assoluta, ma
forse questo è solo un sogno “(…) sogno di diventare felici rinunciando al peso del destino.
Per non portare pesi, mi libero dell’essere. Come se la beatitudine coincidesse con la
vacuità.” (4)
Prospettiva terribile?
(…) Cos’è allora questo riconoscimento del limite, questo esporsi a ciò che trascende e
da noi non dipende, questa accettazione piena e consapevole di vita ma anche di pensiero,
del nostro situarci in un orizzonte? E’ Amor fati. Amare la realtà per quel che è, amare
l’avvenire per quel che sarà, come si accoglie il passato da cui discendiamo (…). Lasciar
essere le cose, gli altri, la vita, il cosmo; riconoscere il mondo, e accettare la destinazione.”
(5)
A questo punto del ragionamento, probabilmente abbiamo le idee ancora più
ingarbugliate…quindi cerchiamo di seguire quella che potremo definire la” terza via”
rispetto alle due posizioni estreme sopracitate che vedono, da un lato, l’uomo come
“libertà assoluta” in grado di decidere tutto per sé e per la propria vita e, dall’altro, l’uomo
in totale balia di una vita già tutta decisa e predeterminata da “qualcosa” o “qualcun altro”.
La “terza via”, come si diceva, non è per niente nuova, anzi, è antichissima solo che si è
un po’ “persa”: in parte è stata dimenticata, in parte è stata tramandata in modo diverso,
così da rendere difficile riconoscerne l’origine e il significato vero e profondo.
Ci aiutano, ancora una volta, gli antichi Greci, e ci permettono di recuperare alcune idee
che – seppur apparentemente lontane nello spazio e nel tempo – sono attualissime e,
anche ripensate in chiave moderna, possono offrirci interessanti spunti di riflessione.
Vediamo allora cosa pensavano i Greci del Destino e a cosa può “servire”, a noi, saperlo.
I Greci, che amavano spiegare le cose della vita, grandi e piccole, attraverso i miti,
raccontano che, nell’aldilà, le anime singole – prima di essere “gettate” in questo mondo –
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hanno la possibilità di scegliere il loro destino tra una vasta gamma di “vite disponibili” che
esse hanno modo di poter “visionare” (Tralasciamo i dettagli di come ciò avvenga e
tralasciamo, anche, il fatto che una parte della cultura greca credesse alla reincarnazione:
questi argomenti ci porterebbero troppo lontani dal nostro ragionamento e ci farebbero
entrare in territori che meriterebbero ben più ampio approfondimento. Tuttavia, possiamo
seguire ugualmente il ragionamento, nei suoi tratti fondamentali, anche senza
approfondire questi due aspetti e anche senza “credere” alla reincarnazione).
Ebbene, una volta che ogni anima ha scelto la sua vita e che – attraverso una particolare
operazione – essa viene privata della facoltà di ricordare, una volta quaggiù, sia la vita
scelta che il motivo per cui l’ha scelta, interviene Ananke, la dea Necessità, che la
tradizione rappresenta come colei che ruota il fuso sul quale è avvolto il filo della nostra
vita. Ananke (Necessità) siede su un trono e vicino a lei stanno le Moire, sue figlie,
compagne e aiutanti. Con il termine Moira i Greci designavano il Fato. Ebbene, quando è
giunto il momento che l’anima lasci l’aldilà per venire al mondo, Ananke recide di netto il
filo di quella vita particolare, che stava filando, dando inizio all’esistenza terrena e
rendendo quella vita “necessaria”. Solo che, una volta qui, come abbiamo detto, nessuno
può “ricordare” quanto avvenuto e quindi si trova a “brancolare nel buio”, anzi, “si
troverebbe a brancolare nel buio”, se ad ognuno di noi non venisse affidato un daimon
personale (o se ognuno di noi non fosse affidato a un daimon…) che ha il compito di
“prendersi cura di noi” e, anche, di “manifestarsi”, a tratti, per farci ricordare il “motivo” per
cui siamo qui.
Una precisazione va fatta sulla figura del daimon: innanzitutto non si tratta di un “demonio”,
come verrebbe d’istinto pensare. In secondo luogo, daimon è un termine di genere neutro,
quindi né maschile né femminile, e quindi non rimanda a una “entità personale”, ma
quanto piuttosto a un “fatto”, un “evento”. Tale “fatto”, “evento” o fenomeno è sicuramente
di origine soprannaturale o divina. Non è semplice per noi afferrare questo concetto in
maniera completa perché diversissima è la nostra cultura e anche il nostro approccio
“religioso” rispetto a quello greco. “Accontentiamoci” quindi di sapere che ognuno di noi ha
il suo daimon, il quale “in qualche modo” si fa “sentire” e ci fa “accorgere” della sua
“presenza”, ma non sempre, solo “qualche volta”. Possiamo azzardare a dire che al
daimon greco sono stati dati anche altri nomi nel corso del tempo…quali, ad esempio,
“vocazione”, “carattere”, “anima”, “angelo (custode)”. Questi concetti non sono
perfettamente sinonimi, ma la realtà alla quale rimandano è la stessa. (6)
Ecco, succede quindi che ci sia un “disegno intelligente” della nostra vita, e che questo sia
un disegno “necessario”, nel senso che siamo qui con un “compito”, per “fare qualcosa” e
la “necessità” sta nel fatto che lo “dobbiamo” proprio fare.
Attenzione che il “compito” non deve essere inteso come un “compito eccezionale”:
qualsiasi e ogni vita ha il “suo” compito, e non è meno importante il compito di un uomo
“qualunque” rispetto al compito di un uomo “eccezionale”.
Questo “compito” non ci viene “imposto” dall’”esterno” da qualche dio e/o divinità, “buona”
o “cattiva”, ma “in qualche modo”, l’abbiamo “scelto” e “condiviso” e, anzi, in ogni momento
dobbiamo “ri-scegliere” e “ri-condividere”. Il “problema” sta nel fatto che noi non
“ricordiamo” niente di tutto ciò…ma potremmo anche dire che abbiamo “perso il
collegamento” con la nostra parte più “profonda” e “divina”.
Il nostro daimon personale “serve” da “monito”, da “campanellino” per farcela ricordare,
almeno ogni tanto.
Estremizzando – e forse anche un po’ semplificando troppo – potremmo, al limite, dire che,
se ci fosse perfettamente chiaro il “motivo” per cui stiamo vivendo la nostra vita, non
saremmo così angosciati di fronte alle scelte e al futuro, anche se queste scelte dipendono
sempre da noi, pur situandosi in un “orizzonte” più ampio.
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Ma la condizione umana non è evidentemente questa, potremmo però provare a riflettere
sul perchè…
Potremmo chiederci perché, di fronte alle scelte della vita, spesso ci sentiamo come
“smarriti”…
Potremmo anche chiederci quali “facoltà” entrano in gioco di fronte agli eventi grandi e
piccoli della nostra esistenza: la ragione? il cuore? l’istinto? un mix di queste? o di altre?
NOTE
1. FRANCO CHIEREGHIN, Possibilità e limiti dell’agire umano, Genova, Marietti, 1990, pag. 121.
2. Ivi.
3. Ivi, pag. 123.
4. MARCELLO VENEZIANI, Amor fati, Milano, Mondadori, 2010, pag. 9.
5. Ivi, pagg. 14-15.
6. GIOVANNI REALE, Storia della filosofia antica, Vol. I, Milano, Vita e pensiero, 1975-1980, pagg.
346-352 e JAMES HILLMAN, Il codice dell’anima, Milano, Adelphi, 1997, pag. 259.
“ACCADONO COSE CHE SONO COME DOMANDE. PASSA UN MINUTO,
OPPURE ANNI, E POI LA VITA TI RISPONDE”
(Alessandro Baricco)
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