Untitled - Barz and Hippo

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Untitled - Barz and Hippo
Temi affrontati in modo eccellente ma più tecnico in documentari come Inside Job e Master of the Universe sono
qui oggetto di una sceneggiatura brillante, Oscar al miglior adattamento, alla base di un film capace di mostrare
a tutti con chiarezza e realismo il marcio della finanza americana. E, nonostante tutto questo, capace anche di
emozionare e intrattenere.
scheda tecnica
titolo originale:
durata:
nazionalità:
anno:
regia:
soggetto:
sceneggiatura:
fotografia:
montaggio:
musiche:
scenografia:
distribuzione:
THE BIG SHORT
130 MINUTI
STATI UNITI D'AMERICA
2015
ADAM MCKAY
DAL LIBRO THE BIG SHORT - IL GRANDE SCOPERTO DI MICHAEL LEWIS
ADAM MCKAY, CHARLES RANDOLPH
BARRY ACKROYD
HANK CORWIN
NICHOLAS BRITELL
CLAYTON HARTLEY
UNIVERSAL PICTURES
interpreti:
CHRISTIAN BALE (Michael Burry), STEVE CARELL (Mark Baum), RYAN GOSLING
(Jared Vennett), BRAD PITT (Ben Rickert), MELISSA LEO (Georgia Hale), FINN WITTROCK (Jamie Shipley), HAMISH
LINKLATER (Porter Collins), JOHN MAGARO (Charlie Geller), RAFE SPALL (Danny Moses), JEREMY STRONG (Vinnie
Daniel), MARISA TOMEI (Cynthia Baum), STANLEY WONG (Ted Jiang), BYRON MANN (Wing Chau), TRACY LETTS
(Lawrence Fields), KAREN GILLAN (Evie), MAX GREENFIELD (broker di mutui), BILLY MAGNUSSEN (broker di
mutui), ADEPERO ODUYE (Kathy Tao), RUDY EISENZOPF (Lewis Ranieri), RAJEEY JACOB (Deeb Winston), TONY
BENTLEY (Bruce Miller), SELENA GOMEZ (se stessa), MARGOT ROBBIE (se stessa), ANTHONY BOURDAIN (se
stesso), RICHARD THALER (se stesso)
premi e nomination:
2016, premio Oscar per la miglior sceneggiatura non originale e quattro
candidature per la miglior regia, per il mig lior attore non protagonista a Christian Bale e per il miglior montaggio;
2016, quattro candidature al Golden Globe per il miglior film commedia, per il miglior attore a Christian Bale e
Steve Carell e per la mig liore sceneggiatura; 2016, premio BAFTA per la migliore sceneggiatura non originale
Adam McKay
Nato a Filadefia nel 1968, Adam McKay approda ala regia cinematografica dopo aver conosciuto il mondo dello
spettacolo in molte delle sue infinite sfaccettature. Il primo passo lo porterà sul palcoscenico: dopo anni di
gavetta al teatro ImprovOlympic di Chicago, McKay interpreta varie pièces teatrali e cofonda l'Upright Citizens
Brigade, gruppo teatrale comico. Successivamente sarà il turno del piccolo schermo: debutta trionfale come
sceneggiatore e successivamente regista della serie tv cult Saturday Night Live, inondandola di irresistibili sketchs
dal 1995 al 2001. Il salto come sceneggiatore sul grande schermo risale al film ad episodi Anchorman, del 2004,
che vede tra i protagonisti Will Ferrell, con il quale collaborerà spesso non solo nelle vesti di attore, ma anche
come regista. Nel 2012 Adam McKay dirigerà infatti proprio Ferrel, affiancato da Christine Applegate, Steve Carell
e Paul Rudd, nel suo primo lungometraggio Anchorman - La storia di Ron Burgundy. Seguiranno poi altre
commedie con i protagonisti del cinema americano della risata: tra gli altri Fratellastri a 40 anni (2008) in cui gli
imbranati 'fratelli coltelli' sono Ferrell e John C. Reilly; Ricky Bobby - La storia di un uomo che sapeva contare fino
a uno (2006) con gli stessi due protagonisti e Sacha Baron Cohen. Nella carriera di McKay non mancano le
incursioni nel mondo del video e del cortometraggio, sia come regista che come produttore: Good cop, Baby cop
(2007), The Procedure e The landlord, Paris Hilton responds to McCain ad (2008), Ron Howard's call to action
(2008), Presidential reunion (2008) e molti altri, tutti connotati da uno spirito comico dissacrante.
Nel 2016 esce sul grande schermo La grande scommessa, in cui i toni si fanno decisamente più seri, senza però
dimenticare la vena ironica dei lavori precedenti.
La parola ai protagonisti
Intervista al regista Adam McKey e a Ryan Gosling
Mr. McKay, prima di tutto, come mai ha deciso di raccontare questa storia?
A.M.: Avevo letto il libro di Michael Lewis quando uscì nel 2010 e anche non essendo un esperto di finanza o di
economia mi aveva appassionato. Ho fatto molta politica attiva nella mia vita, quindi era certamente un
argomento che mi interessava e in più la scrittura di Lewis è avvincente, non riuscivo a staccarmi, l’ho letto tutto
d’un fiato in una notte. In quel periodo ero impegnato su altri progetti, quindi non ho pensato che potevo farne
un film. Poi un paio d’anni fa il mio agente mi ha detto che ero in un momento in cui potevo decidere di fare
qualunque cosa volessi e il mio primo pensiero è stato di recuperare quell’idea. Fortunatamente i diritti erano
disponibili, li ho acquisiti e ho iniziato a scrivere la sceneggiatura.
Il suo film spiega magnificamente quello che è successo prima della catastrofe, così come Margin Call (film di J.C.
Chandor del 2012 n.d.r.) ne racconta l’ultimo atto. In pratica lei racconta come mai a un certo la festa è finita.
A.M.: Esatto, e devo dire che mi ha sempre fatto arrabbiare l’idea che nessuno avesse sotto gli occhi una cosa
così ovvia che sarebbe dovuta accadere prima o poi. È stato questo il motore che mi ha spinto ad andare avanti.
Non sono molti i film che hanno raccontato la crisi. Nonostante sia un film incredibilmente tecnico, lei è riuscito a
far capire al pubblico com’è crollato il castello.
A.M.: Oltre a Margin Call ci sono due documentari fantastici, Inside Job e Master of the Universe, ma in entrambi
i casi è difficile far arrivare il messaggio al grande pubblico, me compreso. Quando ho iniziato a lavorare al film ne
sapevo e anche adesso posso considerarmi al massimo un pessimo studente del secondo anno di economia.
A proposito di documentari, anche il suo film ha uno stile molto realistico.
A.M.: I film che parlano di finanza ed economia hanno tutti delle atmosfere molto austere, e per quanto siano
fatti molto bene, non rendono realmente l’idea di quello che succede in quelle stanze. Invece volevo stare
addosso ai miei personaggi, sentire la loro adrenalina quando sono attaccati al telefono e quando scoprono la
truffa che si sta perpetrando ai danni dell’America.
In questo senso, gli intermezzi di Margot Robbie e Selena Gomez sono a dir poco geniali.
A.M.: Perché c’era bisogno di dare una visione pop della situazione, che tutti potessero cogliere, e far spiegare
argomenti così complessi a personaggi con la testa che funziona, e che quindi potessero essere convincenti, mi
sembrava una buona idea. E posso dirti che Margot e Selena non sono solo due belle ragazze di talento, ma sono
anche due donne incredibilmente intelligenti.
La presenza di grandi star come protagonisti del film ha sicuramente aiutato.
A.M.: Assolutamente, soprattutto spero che questo film venga visto soprattutto nell’America più profonda, dal
Midwest alle zone più colpite dalla crisi, dove veramente intere città sono state spazzate via. È una situazione in
cui vincono tutti, gli spettatori e anche io, che ho avuto a disposizione un cast davvero straordinario.
I suoi personaggi sono degli eroi o degli approfittatori?
A.M.: Nessuna delle due cose, e comunque non sono gli unici che all’epoca si accorsero di quello che stava
succedendo, c’erano una sessantina di persone nel mercato che hanno speculato e guadagnato. Era quello che
volevano anche loro all’ inizio, salvo poi rendersi conto che c’era in corso una truffa ai danni degli Americani. E
questo li ha fatti arrabbiare e stare male. Il dottor Burry, il personaggio di Christian Bale, ha sofferto dolori di
stomaco lancinanti per mesi che sono scomparsi nel momento esatto in cui ha venduto la sua posizione.
Passiamo ora proprio a uno dei protagonisti del film, Ryan Goslin. Perché ha scelto di interpretare Jared Vennett?
R.G.: Sognavo da sempre di lavorare con Adam, sono un suo grande fan. Il tema dei mutui subprime, inoltre, è
attualissimo e di grande interesse: non parla alla nicchia, si rivolge a tutti noi. Jared Vennett è vagamente ispirato
a Greg Lippmann, l’ex trader di Deutsche Bank raccontato da Michael Lewis nel suo libro. Ci siamo presi parecchie
libertà: nel film io sono molto più di un narratore, divento una sorta di guida turistica del sistema. Il conduttore di
un “talk show”. Non a caso, proprio come la star della sitcom Bayside School, Zack Morris, mi permetto di parlare
faccia a faccia con lo spettatore in sala.
Con un cast così gonfio di celebrità, c’è stato qualche problema gestionale?
R.G.: Sono certo che Adam possa assicurare che siamo tutti molto gestibili! Sono soprattutto grato a Steve Carell
- con il quale avevo già lavorato in Crazy, Stupid, Love - per il lavoro di gruppo, per la sua capacità di cogliere og ni
sfumatura senza cadere nel manierismo. Nessun atteggiamento da “divo” sul set, insomma.
Come ci si prepara a La Grande Scommessa? Ha incontrato di persona qualche manager?
R.G.: Ho incontrato il trader che ha ispirato il mio ruolo. E’ stato molto utile, mi ha permesso di entrare nella testa
di un investitore. E nella sua.
Che cosa ha visto in quella testa?
R.G.: Senza studi approfonditi sulla finanza sarebbe stato impensabile entrarci. Abbiamo tutti letto pile e pile di
testi, come all’università, sotto esame.
Le sono serviti i manuali sui fondi d'investimento?
R.G.: Adam ha messo subito in chiaro che gli sarebbe piaciuto vedere la “gang ” di operatori finanziari
improvvisare sul set. Dovevamo per forza conoscere la terminolog ia specifica e sapere in quale momento usarla
nei buchi del copione. La produzione ci ha messo in contatto con i più influenti advisor, esperti e analisti
finanziari d’America.
Che idea si è fatto?
R.G.: Quello che vedo al cinema è una specie di Wall Street-monolite, un’entità solitaria senza corpo né volto,
così impenetrabile… Ma se guardi meglio, dentro quella capsula grigia, c’è gente comune che lavora, mangia,
guarda le partite, ha figli. Non è una realtà impersonale. E’ un mega joystick che in un solo click prende iniziative
sul mondo, basandosi sulle informazioni e i trend che gli arrivano.
Ma tutti quei termini tecnici non l’hanno un po’ spaventata?
L’incomprensibile vocabolario di un trader è un modo furbo per alienarti, per farti sentire un outsider. Così non
dai fastidio, non poni domande, e Wall Street può continuare a fare tutto ciò che desidera coi tuoi soldi.
Non c'è rischio di rendere glamour quel mondo?
R.G.: Uno degli obiettivo del regista era proprio quello di non farci sembrare sexy. Abbiamo umanizzato i rapporti,
li abbiamo resi imperfetti, ed io sfoggio una bella abbronzatura che, in teoria, dovrebbe sembrare oltraggiosa, ai
limiti del finto. Così come gli abiti che indosso: non sembrano quelli del gala per gli Oscar, ma qualcosa che mi
sono in qualche modo cercato o fatto cucire, secondo uno stile personale.
Come descriverebbe La Grande Scommessa?
R.G.: Emozionante, doloroso e, perché no, educativo.
Recensioni
Marianna Cappi. Mymovies
(…) Il film racconta la scoperta più o meno contemporanea da parte di alcuni uomini della gigantesca "bolla"
cresciuta in seno al mercato immobiliare e destinata a scoppiare un paio d'anni dopo con effetti disastrosi. Com'è
possibile conciliare lo spettacolo cinematografico, e il tasso fisso d'intrattenimento che deve assicurare, con il
racconto di un crack finanziario, dove i protagonisti hanno nomi quali CDO e AAA e la cosa si fa appassionante
man mano che si complica? Beh, The Big Short (letteralmente: "il grande scoperto") dimostra che è possibile;
scommette contro le regole date per marmoree del racconto filmico mainstream e vince. Anzi, dati il paradosso a
monte e la sorpresa a valle, si può affermare che il film di Adam McKay stravinca, lasciando lo spettatore
piacevolmente preso in contropiede.
Questo gioco al ribaltamento sulle aspettative di un pubblico ignaro e impreparato, che funziona bene ad una
prima visione, non esaurisce però i meriti del film, che poggia invece su un'architettura narrativa solidissima,
ispirata dal libro di Michael Lewis che sta alla base del copione, e su un potente e stratificato ritratto dei
personaggi, dove la dimensione della star platealmente travestita e trasformata si assomma al personaggio
socialmente eccentrico (ma, in fondo, più vero e all'opposto dello stereotipo) e ad un'avvisaglia di back-story,
tutt'altro che leggera, nei casi di Christian Bale e Steve Carell, che li conferma protagonisti assoluti. Verboso e
nevrotico, il film di McKay è anche punteggiato di alcune riuscite trovate autoironiche, quali la scelta di lasciare le
spiegazioni più tecniche a Margot Robbie o Selena Gomez, riprese in contesti vergognosamente deputati al lusso
e al piacere, e interpellate col loro nome, "bucando" così la parete della mezza finzione per sconfinare comunque
in un altro artificio.
Giona A. Nazzaro. Il Manifesto
Adam McKay è uno dei registi americani più interessanti in circolazione. Amico e collaboratore fidato di Will
Ferrell, probabilmente l’attore comico più creativo e intelligente in attività, si è fatto le ossa lavorando per il
Saturday Night Live. Regista, sceneggiatore e produttore dotato di un fiuto per i tempi comici infallibile, sia
quando si tratta dilatarli sino allo stremo della gag, sia quando la scena necessita di una notazione fulminea a
margine, si è rivelato la spalla ideale per la comicità fisica e intellettuale di Will Ferrell. Un colpo di genio come
Anchorman – La leggenda di Ron Burgundy dimostra come regista e attore abbiano una profonda consapevolezza
politica della dismisura della gag e del valore documentario della sproporzione fra parola e oggetto. (…) se è vero
che La grande scommessa rappresenta un enorme balzo in avanti per McKay è altrettanto vero che si meraviglia
oggi probabilmente s’è perso qualcosa ieri. Portare sullo schermo il libro di Michael Lewis The Big Short – Il
grande scoperto, non deve essere stato facile. Averne adattato la struttura saggistica e specialistica, fatta in larga
parte di gergo bancario, trasformandolo così in un thriller ibrido le cui risate si spengono prima ancora di
affiorare alle labbra, è davvero un’operazione di straordinario acume registico.
Il libro di Lewis è il resoconto saggistico di come degli operatori di Wall Street e alcuni liberi battitori, intuendo
con larga anticipo la piega che avrebbero preso le cose, hanno letteralmente scommesso contro la più grande
piazza d’affari del mondo, prevedendone il crollo. La corsa al mutuo facile, vendibile e rivendibile, intrecciata al
mercato immobiliare, ritenuto saldo quanto i mutui stessi, sembravano essere i bastioni in grado di garantire
speculazioni all’infinito.
I protagonisti del film, interpretati da Christian Bale, Ryan Gosling, Brad Pitt e Steve Carell, intuiscono il buco nero
nel meccanismo apparentemente perfetto e ciascuno a modo suo tenta di giocare contro il sistema. (…) Come ha
dimostrato l’eccellente documentario didattico Inside Job di Charles Ferguson, se qualcuno le spiega le cose, si
capiscono. Adam McKay, pur lavorando su un registro completamente diverso, e in regime di finzione, procede
allo stesso modo. Spiega le cose. Dimostra come funzionano i mutui, i prestiti, i guadagni e lo fa utilizzando dei
siparietti addirittura brechtiani: basti pensare a Margot Robbie (rimando ironico ma non troppo a The Wolf of
Wall Street) nella vasca da bag no che spiega alcuni passaggi cruciali del film mentre si fa versare champagne.
Come dire: ci presti attenzione ora o preferisci guardare lei nella vasca ed essere fregato dopo? Un autentico
colpo di genio che rappresenta il rovescio esatto delle strategie di marketing delle banche. Adam McKay con La
grande scommessa salda le strategie politiche del cinema cosiddetto demenziale sorto dal Saturday Night Live
alla grande stagione della Nuova Hollywood dei Pollack e dei Pakula: a Wall Street non c’è mai stato un crack ma
un colpo perfetto sigillato dal bail out (ossia lo stato salva le banche che hanno giocato sulla pelle dei
risparmiatori). Il montaggio di Hank Corwin (The Tree of Life) che unisce le quattro vicende parallele del film
mette in scena il mondo rizomatico del denaro dove tutto è connesso come in circuito chiuso.
Immaginate in Italia un film sullo scandalo della Banca Etruria. E che a farlo sia un regista… comico. Il solo
pensiero fa rabbrividire. La grande scommessa, invece, rilancia la scommessa di un cinema civile impegnato
giocando con piena consapevolezza politica la carta della forma.
Anna Maria Pasetti. Il Fatto Quotidiano
Un comico a dirigere la più grande tragedia finanziaria dal secondo dopoguerra. I paradossi d’altra parte hanno
fatto la Storia, e poco dobbiamo stupirci se Adam McKay, il braccio destro di Will Ferrell, si sia messo alla regia (e
coscrittura) de La Grande Scommessa, in originale The Big Short, cine-oggetto macabro sulla vigilia della crisi
finanziaria americana (cioè mondiale) tra il 2007 e il 2008.
La vena ironica che invade forma e contenuto, e che parte da uno sguardo assai acuto, distingue questo
importante film – candidato a ben quattro massimi Golden Globes – dalle opere simili per tema come gli stranoti
Wall Street (1987) e il suo sequel Wall Street – Il denaro non dorme mai (2010) entrambi di Oliver Stone, il
rigoroso Margin Call (2011) di J. C. Chandor fino al sublime The Wolf of Wall Street (2013) di Scorsese e al
pertinente 99 Homes (2014) di Ramin Bahrani. Per quanto basato su fatti realmente accaduti e ispirato al
bestseller omonimo del giornalista finanziario Michael Lewis, il film sembra orientato a compiere esattamente il
contrario di quanto si attenda da un testo sul mondo della finanza, cioè spiegare i motivi di quella bolla che fece
crollare il valore dei rendimenti finanziari del mercato immobiliare americano sostanzialmente derivato dai mutui
subprime. The Big Short – che letteralmente si traduce con la grande vendita allo scoperto – compie il non facile
miracolo narrativo di farci capire che certi meccanismi finanziari sono per certi aspetti “inspiegabili” e non lo fa
agendo sulla ragione bensì assumendo il punto di vista dello spettatore che gode e/o s’incazza nel non
comprendere. L’apparente “caos” identifica l’ordine disfunzionale con cui alcuni draghi della finanza mondiale
che – in luoghi e modi diversi – intuiscono e profetizzano il sicuro default del mercato immobiliare, quello su cui
nessuno fino al 2005 nutriva il minimo dubbio di rischio.
Federico Gironi. Comingsoon.it
Immaginate che Michael Mann si metta in testa di voler raccontare in un film la crisi finanziaria del 2008: quella
legata ai mutui subprime, che ha portato al fallimento di banche d’affari ritenute inscalfibili, ha creato milioni di
disoccupati e una depressione di cui sentiamo le conseguenze ancora oggi. E che ha svelato il volto oscuro del
capitalismo finanziario. Immaginate, però, che prima di mettersi al lavoro sul film, Mann abbia battuto la testa,
abbandonato la tradizionale serietà (magari spettacolare ma pur sempre sobrio), per diventare un buontempone
che, magari, non disdegna un consumo massiccio d’erba.
Ecco, in quel caso il risultato del lavoro del regista sarebbe forse simile a quello che è riuscito ad Adam McKay:
uno che viene dal Saturday Night Live e da mille collaborazioni con Will Ferrell, che ha co-sceneggiato Ant-Man, e
che questa volta ha cambiato genere centrando un equilibrio difficilissimo tra momenti comici, bizzarrie,
drammaticità, e ricostruzione cronachistica e dettagliata degli avvenimenti e dei meccanismi finanziari, dalla
verbosità quasi sorkiniana. Basato su un libro del giornalista finanziario Michael Lewis (...), La grande scommessa
è un film a suo modo sovversivo: perché racconta nel dettaglio, e con un linguaggio cinematografico
hollywoodiano comprensibile a chiunque, le profonde e perverse storture di un sistema capitalistico andato fuori
controllo; e perché lo fa con un linguaggio cinematografico che se ne infischia delle regole tradizionali e risente
dell’evoluzione recente dei linguaggi audiovisivi.
La storia, che segue le vicende parallele e incrociate di diversi investitori e gestori di fondi che scommisero sul
crollo delle obbligazioni bancarie sui mutui immobiliari, intuendo prima di tutti l’imminenza di una crisi che andò
poi ben oltre le loro previsioni, è infatti raccontata attraverso la voce di uno di loro, interpretato da Ryan Gosling.
Che però si fa narratore onniscente solo saltuariamente, e non si fa alcun problema ad abbattere la quarta parete
esattamente come fa Frank Underwood in House of Cards, ma con maggiore ironia.
Nei punti in cui i tecnicismi finanziari rischiano di mandare in bambola lo spettatore, ecco che McKay tira poi
fuori dal cilindro dei siparietti esplicativi, il primo dei quali vede protagonista una Margot Robbie che sorseggia
champagne in vasca da bagno - tanto per dare l’idea del tono.
Inaspettatamente, però, gli anarchismi formali di McKay e le leggerezze del film (che ha qualche momento di
pura comicità) non sviliscono i suoi contenuti e la loro serietà; perfino la loro drammaticità: al contrario li aiutano
e li supportano. Rendono il film meno pamphlet a tema e a scopo indignazione, regandogli un profilo
entertainment-oriented che fa penetrare la lama più in profondità: faccio finta d’intrattenerti mentre
t’indottrino.
La fusione dei registri de La grande scommessa si concretizza soprattutto nel personaggio (e nell’interpretazione)
di Steve Carell, gestore di un fondo di Wall Street reso a tratti esilarante da un cattivo carattere al limite del
patologico, dotato di spessore psicologico grazie a un trauma familiare e rappresentante lo sguardo più
sconcertato e critico di fronte alla stupidità e alla fraudolenza delle grandi banche(…). Ancora più che nel
precedente Foxcatcher, l’attore divenuto celebre per i ruoli comici conferma la stoffa che gli permette di
affrontare senza patemi anche quelli drammatici, rivaleggiando alla pari con un Christian Bale che siamo più
avvezzi vedere in parti impegnate. Ma mentre nel personaggio di Bale, assieme allo sgomento di fronte alla
profondità dell’abisso prevale il disincanto, in quello di Carell - che in partenza viene descritto come un
pessimista già consapevole del marcio del mondo in cui lavora - si esprimono la rabbia, la frustrazione,
l’incredulità e l’impotenza degli uomini comuni, di chi il film lo guarda e anche la Crisi l’ha vissuta da spettatore.
“Non me l’aspettavo così.” “E cosa pensavi di trovare?” “Non so, degli adulti.” Così si dicono altre due figure di
primo piano del film - due ragazzi del Colorado che sognavano di scalare Wall Street, rimasti coinvolti anche loro
nel grande gioco che ha portato la Crisi allo scoperto - quando entrano nella sede newyorchese di Lehman
Brothers, dopo il fallimento e il licenziamento dei dipendenti.
Di adulto, nel mondo raccontato da Adam McKay, non c’è proprio nulla. Ci sono ragazzini troppo cresciuti che non
conoscono il senso di parole come responsabilità, come morale, come etica. Eterni adolescenti incapaci di
comprendere le conseguenze dei loro gesti, resi ciechi dalla prospettiva del guadagno, della BMW serie 7, di un
aereo privato, di strip club e ville con piscina destinate a rimanere vuote. E più il regista gioca col cinema, col
corrispettivo di quella patina superficiale, più la desolazione di ciò che racconta risulta evidente.
Per giocare, c’è il cinema. La finanza e l’economia, quelle, dovrebbero essere qualcosa di più serio. Al cinema
posso viaggiare nello spazio o perdere il lavoro, e di conseguenze reali non ce ne solo; mentre per ogni gioco di
Wall Street, la vita e i lavori di milioni di persone sono a rischio. Qui c’è Brad Pitt in persona a ricordarlo: e che sia
Hollywood a doverlo ribadire, continua a essere un paradosso.
Film.it
Ci saranno punti de La grande scommessa che non capirete. (...) Ma per tutti questi momenti, ce ne saranno
altrettanti in cui potrete dire con soddisfazione: “Ho capito... quasi”. E questo è senz'altro il maggiore successo
del film di Adam McKay. Il regista, guru della commedia americana con all'attivo titoli come Anchorman e
Fratellastri a 40 anni, cambia totalmente tono e dirige un adattamento del libro non-fiction di Michael Lewis, in
cui si racconta l'esplosione della bolla dei mutui subprime e il conseg uente tracollo del mercato globale del 20072008. La cosa interessante è che, per una volta, non seguiamo gli eventi dal punto di vista delle vittime, né da
quello dei carnefici, ma da quello dei “furbetti” esperti di borsa che, fiutato l'imminente disastro, decisero di
puntare contro la stabilità dei mutui e contro il mercato americano, finendo per arricchirsi a spese del mondo
intero. (…) McKay svolge bene un compito difficile: come si diceva, per quanto ci siano scene in cui lo slang
finanziario impedisce di capire un buon 90% di quello che viene detto, ce ne sono altre in cui, con semplici
stratagemmi e “spiegoni” ben piazzati, il regista riesce a far capire agli spettatori le grandi linee. (…) L'atto finale
si svolge in buona parte a Las Vegas, durante una convention finanziaria, e la metafora, per quanto un po' troppo
gridata, è efficace: stiamo parlando di un'élite che per decenni ha giocato d'azzardo con i risparmi, le vite e le
certezze di una nazione, anzi del mondo intero, e vederli muoversi tra tavoli da gioco e slot machine aggiunge
un'aura sinistra al tutto.
Giovanni De Mauro. Internazionale
Difficile sintetizzare in poche righe The big short, in italiano La grande scommessa. (…) “Si esce arrabbiati,
nauseati e disperati”, ha scritto il New York Times. Perché non c’è lieto fine, come sappiamo, e non c’è nessun
responsabile che paga per quello che è successo (“Daranno la colpa agli immigrati e ai poveri”, dice verso la fine
uno dei protagonisti). The big short non offre neanche possibili soluzioni. Ogni tentativo di regolamentare il
mercato è fallito, la commissione del congresso americano incaricata nel 2009 di esaminare le ragioni della crisi
non è riuscita a introdurre nessun efficace meccanismo correttivo, come invece aveva fatto una commissione
simile negli anni trenta, e oggi, secondo molti, tutto è ricominciato come se niente fosse.
L’economista Paul Krugman ha recensito con entusiasmo il film e lo ha difeso: chi attacca The big short, ha detto
Krugman, ha paura che si sappia la verità. Perché è vero che chi non ricorda il passato è condannato a ripeterlo,
ma alcuni il passato lo vog liono ripetere. E per questo non hanno interesse a farci ricordare cos’è successo.
Alberto Mazzoni. Ondacinema.it
(…) A raccontarci cosa è successo da un punto di vista limpido e originale ci pensa Adam McKay con questo film,
assieme a una squadra di star da far invidia agli Oceans di Soderbergh e al superbo Hank Corwin, già addetto al
montaggio di Oliver Stone e Terrence Malick, che contribuisce a confezionare un film che è anche una esperienza
esaltante per gli occhi. La grande scommessa è quindi divertente, bello da vedere ed estremamente brechtiano.
McKay ha come priorità la funz ione del film: far comprendere a una fascia più ampia possibile di americani (e
non) cosa è successo veramente nella crisi del 2007/2008 le cui conseguenze si vedono ancora adesso. L'ostacolo
apparentemente insormontabile è che i meccanismi che hanno permesso prima la bolla, poi la sua crisi, poi il far
pagare la crisi alla fascia più debole della popolazione sono complicati e noiosi. E allora ci vuole una storia che
contenga passaggi didascalici ma sia avvincente, e le spiegazioni devono essere fatte dall'attore che ha fatto
Batman (Bale) e da vecchi e nuovi sex symbol (Pitt, Gosling, Robbie, Gomes) con l'intento esplicitamente
dichiarato di fare entrare concetti importanti nella nostra zucca vuota. (...) McKay infatti usa tutti i trucchi di
Hollywood necessari e mentre li usa li dichiara: la voce off che scherza sul suo ruolo, il momento chiave che è
smontato subito dopo (...). Non è il tipo di spettacolo a cui siamo abituati, e nei primi dieci-quindici minuti lo
straniamento brechtiano non può non turbare lo spettatore. (…) Un paragrafo a parte lo meritano i protagonisti e
i loro interpreti. McKay sa che la narrazione ha bisogno di eroi che affrontano e superano una sfida. Ecco quindi
un gruppo di investitori che scommette tutto - sostanzialmente all'insaputa l'uno dell'altro - sul fallimento del
mercato immobiliare perché non crede alle panzane dei media dei politici e delle banche. I singoli individui che
hanno ragione contro il sistema avido che ha torto marcio: gli eroi perfetti. Peccato che McKay, coerentemente
alla sua poetica, chiarisca molto esplicitamente che non sono eroi: Gosling, l'affascinante bastardo, dichiara e
ribadisce di agire solo per soldi, il mattoide Bale non fa che ripetere che lo fa solo per seguire il suo autismo
numerico, i due protetti di Pitt perché vog liono sedere al tavolo dei grandi e l'unico personaggio empatico è
Steve Carrell (che già amammo in Foxcatcher) anche se pure lui alla fine...
Simona Santoni. Panorama
Anno 2005. Quando quattro outsider esperti in finanza si accorgono di ciò che le grandi banche, i media e le
autorità di regolamentazione del governo si rifiutano di vedere - la colossale bolla immobiliare con conseguente
crisi economica globale imminente -, decidono di fare La grande scommessa. È questo il titolo dello sfrenato
nuovo film dello statunitense Adam McKay (...). In sella a un ritmo e a uno stile dirompenti e psichedelici, La
grande scommessa si inoltra negli oscuri meandri della moderna industria bancaria. I quattro speculatori
visionari si spingono in investimenti coraggiosi che li porteranno a mettere in discussione tutto e tutti.
Nel cast Christian Bale, Steve Carell, Ryan Gosling e Brad Pitt, ma ci sono anche le illuminanti e spassose irruzioni
dell'attrice Margot Robbie (la moglie di Leonardo DiCaprio in The Wolf of Wall Street) e dello chef Anthony
Bourdain nei panni di se stessi. Incuriosito dalla miscela di commedia e tragedia alla base del libro best seller di
Michael Lewis, che getta uno sguardo sagace alle circostanze che hanno portato alla crisi economica globale,
McKay ha deciso di farne un film. "Ho iniziato a leggere il libro verso le 10:30 di sera e ho pensato 'mi limiterò a
una quarantina di pagine'", ricorda. "Ma non sono riuscito a posarlo. Sono andato avanti tutta la notte e l'ho
finito alle sei del mattino".