Mi chiamo Angelina Felix, sono una giornalista molto

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Mi chiamo Angelina Felix, sono una giornalista molto
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Mi chiamo Angelina Felix, sono una giornalista
molto incavolata, ho avuto una giornata pessima.
A prevenire eventuali sorrisini ironici dei lettori, sia
chiaro che “Angelina” non è il diminutivo di Angela, scelto per imitare la superstar Jolie, come accade
a certe fan che, in delirio da replicanti, non danno
segno di grande intelligenza con le loro esternazioni
maniacali.
E fra queste anche le madri che hanno la debolezza
di dare ai figli i nomi dei divi del momento, specie
quelli delle fiction tv, o sceneggiati e serial come li
definivano un tempo, da “Dallas” e “Beautiful” in
poi. No, Angelina è il nome autentico, i miei genitori
lo hanno deciso in omaggio a una zia, dolce e molto bella, sempre sorridente, che si chiamava proprio
così. Purtroppo scomparsa giovanissima.
Ma anch’io sono incline a sorridere alla gente. Ad
essere disponibile. Troppo, diceva mia madre. Meglio
pensare sempre che gli altri tendono a fregarti. Forse
è vero, forse non del tutto, perché il giorno in cui
ti metti al tavolino onde rendere pan per focaccia,
applicando il motto “la furbizia vince le battaglie, ma
è l’intelligenza a vincere la guerra”, beh, allora sono
cavoli amari per chi ti riteneva una mite, ingenua e
troppo generosa.
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Al liceo ho avuto un fidanzatino piuttosto romantico che mi aveva dedicato un doppio vezzeggiativo,
Bluette Fiordaliso. Bontà sua, diceva che lo avevano
ispirato i miei occhi, perchè in certi momenti sono
blu elettrico come i fiordalisi, e in altri, specie quando mi girano le scatole, diventano blu zaffiro cupo,
come il mare unico dell’isola di Stromboli. A causa della pietra lavica che sta sul fondo. Più originale
dell’inflazionato verde-turchese del mar di Sardegna,
cala di Volpe e dintorni. Aggiungeva che il contrasto
con i miei capelli, nerissimi, li faceva somigliare a pietre preziose sul velluto nero.
Non prendetemi sul serio, sto scherzando, non giudicatemi una narcisa, è vero soltanto che sono una
bruna un po’ singolare nel contrasto di colori, e lo
sappiamo bene che gli uomini sono propensi a dire
qualsiasi scemenza pur di acchiappare quella cosa lì.
Fino al momento in cui se ne dimenticano perché
nella loro testa è entrata un’altra. E dai a ricamare
nuovi complimenti, ma sempre mirati allo sbarco a
due nel lettone. Infatti subito dopo di me il ragazzino
innamorato aveva cominciato a corteggiare una qualsiasi bionda platino.
Il cognome Felix invece è un “nome de plume” ispirato alla nonna materna, sempre gentile e disponibile
con tutti, fin troppo, una signora che aveva l’abitudine
di augurare “felice sera”, quando incrociava qualcuno
a fine giornata, anziché il diffuso buonasera. Io ho scelto la versione latina di questa antica usanza romantica.
Reminescenze da liceo classico. E poi, anche se non
c’entra niente, mi piace perché un po’ evoca l’Arabia
Felix, con tutte le sue leggende da mille e una notte.
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Tornando al discorso iniziale, mi guardo allo specchio e mi sento uno schifo. Sono una persona che
rivela molto delle emozioni, niente faccia di marmo,
come sanno impostare e mantenere la maggior parte
dei miei colleghi.
No, non riesco davvero più a lavorare con questo
direttore stregone, che curiosamente sembra anche un
po’ una donna dal naso a becco. Una stranezza della
natura. L’ho battezzato “il Puffo Malefico”. O forse
dovrei dire la Puffa, considerando quel certo nonsoche di femmineo? Non riesco più a resistere, in questo settimanale milanese, “Persone”, che lui ha contribuito ad affondare, incolpando però, da abilissimo
stronzo, termine gergale molto usato nell’ambiente, il
precedente direttore, responsabile di aver impostato
uno stile “nazionalpopolare” che faceva rivoltare i palati fini degli intellettualoidi, ma di certo incrementava la vendita di centinaia di migliaia di copie.
Mi ha precluso davvero ogni possibilità di carriera.
Per quale motivo? Molto probabilmente perché non
ho mai avuto grande inclinazione per i pensieri di sinistra. Figurarsi, una così a gestire il settore cinema,
un “giro” nel quale tutti sono di quella tipologia lì.
Eppure l’ho fatto con buon senso e successo, visto
l’interesse con il quale mi gratificano i lettori, bontà
loro. Vorrei spiegare: io non sono mai stata di sinistra
nel senso che detesto il radicalismo chic, certi snobismi per cui ogni forma di espressione creativa (intellettualoide?) dev’essere a forza collocata in quell’area.
Per cui i migliori sarebbero da quella parte e i cattivi
dall’altra. Stronzate noiose. Ma se si tratta di voler
bene alla gente, di rispettare le persone, e di concre-
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tizzare la generosità, allora la mia coscienza vira al
rosso cardiaco. Del resto è il colore di Babbo Natale.
Detesto quelli che predicano bene e razzolano
male. Certi ricconi “orientati”, o i politici stessi, che
sbandierano l’uguaglianza, la fratellanza, e tutto ciò
che di sacrosanto esiste al mondo nel senso dei diritti
umani, per poi sfruttare fino all’osso la colf extracomunitaria. O certe autrici, registe o scrittrici che siano, abilissime nel trattare racconti di esistenze disagiate, miserie umane come purtroppo effettivamente
ricorrono nella vita di molti, ma pretendono hotel
a cinque stelle quando vanno in giro a presentare i
libri. So di una tipa, vincitrice di premi tra i più alti a
livello nazionale, che ha fatto telefonare dalla segretaria per una richiesta precisa: trovare lenzuola di lino
nel suo letto d’albergo.
Invece la generosità più autentica la puoi trovare
in chiunque, a caso. Unita all’assenza di spocchia, al
rispetto vero degli altri, senza dover sbandierare ad
ogni costo la connotazione politica. Conosco un’anziana edicolante milanese, tanto fragile nell’aspetto,
che vive sola, e oltre al lavoro faticoso di una giornata che non finisce mai, dedica le poche forze che le
restano all’assistenza di altre persone senza nessuno
vicino e agli animali abbandonati. Ebbene, il cuore
di questa esile persona batte da tutt’altra parte che
a sinistra, e dice che Gesù secondo i Vangeli siede
alla destra di Dio, non a sinistra. E questo secondo
lei rappresenta qualcosa di certo anche per l’umanità.
Nella sua ingenua buonafede, non ha dubbi.
Che mese di novembre schifoso, vedo tutto grigio inclusa la mia faccia, e mi sento una strega, sono
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proprio in tema con certe maschere di Hollywood,
anche se tutti si ostinano a dire che sono sempre una
bella ragazza, perché non dimostro la mia età. Ho
quarantatre anni e in effetti nei momenti migliori
non me li sento, fatico a ricordare che non sono più
una ventenne.
Ma del resto è una sensazione che va di pari passo
con i tempi, ormai nessuno dice più che la vita comincia a quarant’anni, la fanno iniziare perlomeno
un decennio dopo. Oggi sono quarantenni gran parte
delle donne in carriera quando decidono di diventare
mamme. E vanno pure di moda le tardone cinquantenni e oltre, a volte aspiranti madri anche loro, vedi
il caso di Gianna Nannini. Per non parlare di Jane
Fonda ex Barbarella che si atteggia a strafiga nella
pubblicità dei cosmetici, e di anni ne ha più di settanta. Anzi, ci sono persino i bei ragazzi che corteggiano
queste tipe con insistenza, vedi Demi Moore che lasciò Bruce Willis per sposarsi con quel giovanotto un
po’ bietolone di nome Ashton Kutcher, che al tempo
delle nozze aveva venticinque anni.
Vabbè che prima o poi finiscono per essere piantate, ma pare che i ragazzi si innamorino davvero di
alcune tardone, a prescindere dal fatto che siano famose o meno! Sarà anche piacevole. Sarà. Ma io non
ne sono convinta. Tanto più che, come dicevo, prima o poi ti mollano. Non mi seduce, l’immagine di
questi tipi di coppia. Il mio primo marito, un industriale, aveva trent’anni più di me. Prima del nostro
matrimonio era l’ultimo irriducibile dei playboy,
come si diceva in un’era jurassica. Impazzì d’amore
per i miei vent’anni, e morì d’infarto, a trenta mi
sono ritrovata vedova. Senza figli perché non ne ave-
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va voluti, desiderava mantenere in esclusiva il mio
corpo intatto per il suo piacere, considerava i bambini intrusi rompiballe. Un po’ ero d’accordo anch’io,
se, a parte lui, ho finito per non farne neppure con
altri. Molti credono che non possa averne. La vera
motivazione? Ebbene, sembra una balla, lo riconosco, ma ho avuto paura di amarli troppo. E quindi
di lasciarli soli quando vengo travolta dagli impegni
professionali. Non sono riuscita a condividere del
tutto la teoria odierna per cui le donne possono dividersi senza problemi fra il lavoro e i figli, conosco
i bambini, li amo, i figli delle mie amiche da piccoli
mi consideravano una specie di fata, e ricordo ancora con sofferenza la sensazione di buio doloroso
che provavo a due, tre anni quando mi sentivo sola,
anche per poche ore, e temevo che la mamma non
sarebbe più tornata quando usciva per le compere.
Ipotizzavo quindi che, madre travolta dal lavoro, sarei stata lacerata dai sensi di colpa, e così, temendo
un egoismo che forse non sarebbe stato, vivendo in
una sorta di rigore morale, ho finito per sacrificare il
mio desiderio di maternità.
Esageratamente responsabile, a costo di mortificarmi negando a me stessa un diritto che hanno tutte le
donne.
Il secondo marito era un giornalista, di specchiate
tendenze marxiste, come del resto la maggior parte
degli uomini di penna nel nostro paese, ma ormai
dovremmo dire di computer, a parte i dinosauri che
proprio non sono riusciti a staccarsi dal ticchettio
della lettera 22, nel terrore di affrontare lo schermo
virtuale, oppure per semplice presunzione e conseguente rifiuto di applicarsi, con altezzosa pigrizia.
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Più giovane rispetto al primo, lui aveva “soltanto”
quindici anni più di me. Abbiamo divorziato.
E se scorrete l’albo d’oro cercando il Gotha dei
professionisti, scoprirete che quasi tutti i direttori,
i vice, comunque i capi, hanno fatto il ’68 e dintorni. Tornando ai fatti miei, oggi immagino accanto a me quale compagno ideale un uomo secondo
la tradizione. Cioè più o meno coetaneo, diciamo
dai quaranta ai cinquanta, ma si sa che gli uomini
di quell’età preferiscono le ragazze. E anche se ero
piuttosto corteggiata, io non sono mai stata di manica larga. Non l’ho mai data facilmente, neppure
per fare carriera, nonostante il metodo sia diffuso,
e conduca spesso a soddisfacenti risultati, a prescindere dai meriti reali. Ho preferito restare single,
anziché sbraitare secondo lo stile femminista. C’è
chi dice che probabilmente sono lesbica, a forza di
vedermi sempre sola, rare volte con qualche amica.
Non sono lesbica, anzi la categoria ha il potere di
infastidirmi.
Ritengo che ognuno abbia libertà di scelta sessuale, ci mancherebbe altro, ma non dovrebbe acquisire
potere continuando a sbandierare la propria emarginazione, proclamandosi martire e addossando
agli altri ogni forma e colpa di ottusità. Oggi i veri
emarginati sono gli eterosessuali: per spiegare meglio, a me non sarebbe permesso dichiarare di essere
infastidita dalle attenzioni di qualche lesbica. Ne ho
subito alcuni, di insistenti corteggiamenti saffici, a
cominciare da una compagna di scuola delle medie
che mentre studiavamo insieme mi baciò a sorpresa
sulla bocca. Un disagio che ricordo ancora, ma non
lo posso dire, le “donne solidali” applaudono solo
se racconti che è stato un uomo a infastidirti.
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Dimenticando, tanto per parità, che a volte anche
le donne ammazzano i mariti. Nelle maniere più
subdole. O fanno di peggio, novelle Medee.
A proposito di queste signore, così carine fra di
loro, vorrei vederne una, tra quelle famose nel nostro
paese, che, per dignità totale, sappia davvero scegliere
la solitudine e non si tenga alle spalle un marito traditore per sentirsi comunque rassicurata, quando circumnavigare le difficoltà della vita diventa frustrante
per ragioni di sovraccarico.
Oppure mi piacerebbe incontrarne una che, se il
marito non ce l’ha, e anche se non si lamenta, resista comunque alla tentazione di andare alla ricerca disperata di un uomo. Conosco una tipa rimasta
vedova di un marito intelligente e affascinante, che
adorava, ricambiata, ma ha impiegato pochissimo a
rimpiazzarlo: piuttosto di restare sola, terrorizzata
dai commenti fintopietosi della gente, è arrivata a
sposarsi una specie di gigolò nullatenente che probabilmente la spellerà viva, nel senso di ogni suo avere.
E almeno fosse un uomo piacevole come il primo
marito, costui è un volgare, brutto buzzurro che non
sa neppure dire buongiorno in modo decente.
Lo ripeto, provatela davvero, la solitudine, magari
in nome della dignità, come ho fatto io, senza ricorrere a trappole umilianti pur di acchiappare un marito (da parte delle più meschine come la signora di
cui sopra), e neppure ai femminismi che vanno di
moda e fanno tanto comodo (da parte di quelle che
si ritengono più intelligenti). Del tipo “dai addosso
agli uomini, ma non dimenticare mai di sfruttarli
sino all’osso prima di affibbiar loro il calcio in culo
definitivo”.
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Non ridete, quando sono in crisi inizio a parlare
a me stessa come fossi un’altra persona. Per autoincitarmi: Angelina, dai, forza, comincia a valutare la
situazione. Non lasciarti influenzare dalle brume
autunnali. Agisci, fai qualcosa, nella vita sei sempre
stata una decisionista. Forse, tanto per cominciare,
gioverebbe un salto dal parrucchiere per un taglio un
po’ più movimentato, che vivacizzi.
Non ti abbattere, pensa che molte tue coetanee già
ingrigiscono, e tu come per miracolo non hai ancora
neppure un capello bianco. A volte mi sento demente, con questa inclinazione a parlar da sola. Ma non
lo faccio allo scopo di ascoltare comunque una voce.
È anche un modo per tenermi compagnia e spingermi a fare le cose migliori. Altrimenti mi arrendo ai
tanti cretini che circolano per il mondo. C’è il rischio
che loro vadano avanti e io resti al palo. Sai che rabbia ti fanno, i deficienti in carriera. A volte credo che
siano davvero decine i geni incompresi che hanno
capolavori rimasti nel cassetto.
Del resto che cosa dovrei fare di diverso? Diventare
come certe mie colleghe single, la maggior parte della
quali si dichiara femminista, e agisce secondo le modalità che dicevo prima? E sono tante, perennemente
a caccia di uomini refrattari, anzi in fuga, fintocompiacenti e in falsa estasi di fronte alle nuove donne
emancipate. Sempre in nome della parità, dicono di
ammirare le donne che hanno il coraggio di mostrare
le rughe, ma poi si fanno istericamente di botulino,
acido glicolico, acido jaluronico, filler e quant’altro,
e frequentano palestre sino ad ammazzarsi di fatica,
per essere toniche al punto giusto, sperando che l’uomo concupito al momento si decida a sbatterle sul
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primo letto che capita. Ignorando, le tapine, che il
prescelto finisce per essere terrorizzato all’idea di doverle scopare ad ogni costo, e si aggiungono problemi
di erezione, anche se non li ha mai avuti prima, insicurezze procurate proprio dai loro comportamenti
smaniosi ed esigenti.
Caricature di Bridget Jones, ecco che cosa sono. E
pure peggio del quartetto maniacale di “Sex and the
city”. Ma perché perdo tempo pensando a quelle lì,
che più si dichiarano intelligenti più appaiono oche?
No, ingiusto chiamare in causa le oche, da animalista
qual sono devo riconoscere che quei bipedi candidi
sono dotati di un egregio cervello. Salvarono Roma,
con il loro starnazzare… qua qua qua.
Chiaro che ci sono le eccezioni: le donne valide
che conosco saranno un centinaio. Meravigliose, intelligenti e sensibili. Scintillanti punte di diamante
che confermano la regola negativa descritta prima.
Quanto a me, devo dire che del sesso in questo
periodo francamente me ne infischio. Devo pensare
ai miei problemi di lavoro. E un’idea mi è venuta.
Mentre rigiravo un invito tra le mani. L’occasione è
al Four Seasons, via del Gesù, a Milano. C’è un dibattito, alle sei, che ruota intorno al libro di una nota
scrittrice di amenità del piffero. Si chiama Maria Giovanna Otaria, è specializzata in quei piccoli saggi di
grande successo che dovrebbero insegnare come acchiappare i fidanzati, come farsi sposare, come mollarli acchiappando di conseguenza un sacco di soldi
di “liquidazione” , e via di questo passo. Scemenze
che “fanno trend” e per questo vendono.
Fra i relatori ci sono due o tre personaggi sulla cre-
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sta dell’onda, tv e carta stampata, incluso un nome
che è una stella nel firmamento giornalistico: Luca
Falco, direttore del “Corriere del Nord”, quotidiano
controcorrente in senso politico che in quanto a diffusione sta facendo le scarpe a tutti.
Un bell’uomo, capelli castano chiaro dai riflessi dorati, un po’ alla Grande Gatsby, fisico sottile ma atletico, si intuisce qualche ora di palestra alla settimana.
Naturalmente elegante, sguardo di colore indefinibile, dove il fuoco si alterna al ghiaccio, occhi che non
ti mollano, ma già da principio presumono di sapere
tutto di te.
Perché lui è convinto di non sbagliare mai. Iniziando dal giudicare le persone. Tipo Napoleone che si era
autoincoronato, strappando l’attrezzo imperiale dalle
mani del papa. Due divinità in terra, sia il Napo che
Luca Falco. Dicono che le donne vadano pazze per
lui, non ho capito bene quante mogli abbia avuto e
quali amanti gli vengano attribuite in questo periodo.
Oltre un anno fa ne aveva parlato in redazione anche quel befano del Puffo Malefico, con l’aria perenne di supremo disprezzo che esterna nei confronti di
qualsiasi mortale, figurarsi un collega all’opposto di
lui in chiave politica. «Ma quante mogli ha Luca Falco?», si chiedeva. «L’altra sera a una cena fra direttori
è arrivato con Bianca Martini, sì, quella che ha il padre potente, un boss nell’editoria. Convivono more
uxorio. Innamorata pazza di lui. Lei è un cesso, ciò
non toglie che a lui sia molto servita nella sua escalation di potere. È da quando ha frequentato la Bianca
che la sua carriera ha messo le ali. Ma a quanto pare
resta solidamente ancorata al suo ruolo anche la mo-
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glie legale. Non si schioda. Chissà cosa ci trovano
tutte quante in lui. Sì, è un uomo elegante, spiritoso,
ma a volte anche rude e solitario».
Sì, penso io, un po’ con quell’aria da Robert Redford in “L’uomo che sussurrava ai cavalli”. La differenza con l’attore americano sta nel fatto che Luca
non è politicamente corretto, non va a cavallo, proprio non ama i possenti quadrupedi, ma preferisce
giocare a tennis e tirar di sciabola. Ah, il fascino dei
samurai. Infatti fare a pezzi le persone, sia pur con
le parole, è la sua specialità.
A dire il vero, nel corso della vita io non avevo
mai fatto molto caso al noto fascino di Luca Falco,
anche se avevo avuto più volte occasione di incontrarlo. Per essere precisa l’avevo anche intervistato,
quando dovevo fare un’inchiestina sul fascino dei
giornalisti, perché Sharon Stone, diventata famosa
per aver recitato senza mutande, scena madre con
gambe accavallate in “Basic Instinct”, aveva sposato il direttore del “San Francisco Examiner”. Poi si
sarebbero separati, ma allora sembrava grande passione.
Senza fare una piega nel senso dell’espressione
facciale (in quel momento io avevo pensato che
evocava un po’ Peter O’ Toole ne “La notte dei generali”), Luca aveva comunque sottolineato che il
panorama giornalistico italiano, sul fronte maschile,
non gli sembrava particolarmente dotato di fascino.
«Te l’immagini?», aveva commentato il modestino,
sfottendo, conscio del suo potere seduttivo. «I nostri più famosi direttori che indossano lo stetson,
il capello da cowboy alla texana? Sai che figura di
merda. Non c’è uno che regga nell’aspetto fisico».
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Già, sarà fascinoso solo lui, avevo pensato, ma
non glielo potevo dire.
Era trascorso qualche anno prima che lo rivedessi.
Accadde quando mi venne in mente di chiedergli di
collaborare con il nuovo quotidiano che era andato a
dirigere, risollevandolo da una triste infamia di basse
vendite.
A quel punto Luca Falco era ormai entrato nella
leggenda, qualsiasi foglio lui “toccasse” diventava
oro, un re Mida del giornalismo. Andai a trovarlo
indossando un rigoroso tailleur pantalone blu, camicia di seta bianca, taglio maschile, appena aperta sul
seno. Mi aveva ricevuto nel suo ufficio facendomi
un sacco di complimenti, e invitandomi a scrivere
senza problemi tutti gli articoli di costume che avevo
in mente, i miei pezzi erano proprio quelli che gli
servivano per il suo giornale. Molto spiritosi, brillanti
come il mio carattere, concluse riaccompagnandomi
personalmente all’ascensore.
Non feci particolare caso a quella sequenza di
complimenti. Il Puffo Malefico mi aveva dato il permesso di collaborare con Falco, sia pur storcendo il
naso non aveva osato dire di no. Tutti più o meno
sanno che è meglio non diventare un suo nemico.
Ma io scrissi soltanto due o tre pezzi. Troppo presa
dal lavoro quotidiano e dalle diatribe con il secondo
marito, in procinto di diventare ex. Mollai la collaborazione con Falco senza neppure avvisarlo prima.
Il che non fu molto carino, oggi ne convengo. Mi
sono ricordata che forse ero stata maleducata soltanto nel momento in cui avevo deciso di rivederlo.
Perché mi ero rotta per sempre col Puffo Malefico e
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a quel punto mi interessava il “Corriere del Nord”.
Ricordavo tutte queste cose mentre Luca si esibiva
con le sue micidiali battute accanto all’esperta di
bon ton. Andai a bere un bicchiere di vino nell’attesa che finisse di dibattere. Accidenti alla golosità che
provo di fronte a ogni tipo di sapore salato. Grana,
champagne, più uva, non sono davvero capace di
resistere.
Finalmente la presentazione era finita, Luca si alzava e veniva incontro a me. No, mi sbagliavo. Si
stava dirigendo verso un gruppo di persone e aveva
ricominciato a discutere. Parlava, parlava, mentre le
persone lo ascoltavano con deferenza. Alcuni erano
addirittura a bocca aperta, come fosse un oracolo.
Certo, Falco era il mito. Mi rassegnai ad aspettare
con pazienza. Finché cominciai ad essere perplessa. E
poi indispettita. A quel punto mi sembrava che lui lo
stesse facendo apposta. Come per umiliarmi. Pensai
che forse non mi aveva perdonata per aver piantato la
collaborazione con lui, anni prima, senza dire nulla,
da un giorno all’altro.
Avevo deciso di andarmene, quando Luca si era
voltato. Il destino, sul filo di un decimo di secondo.
Sarebbe bastato quello, per non parlarci mai più, o
viceversa.
«Ti ricordi di me? Sono Angelina Felix».
«Figurati se non mi ricordo».
Fremevo. Chiaro che ci teneva a farsi corteggiare e
desiderare. Quanto e come lo avrei sperimentato in
seguito. Centellina la condiscendenza. Al punto da
farti venir voglia di prenderlo a schiaffi. Luca non tiene mai conto del fatto che sei una donna, e qualcosa
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potrebbe esserti perdonato in nome della cavalleria:
se non lo omaggi quanto desidera lui “registra” soltanto che viene lesa la sua intangibile maestà. Voleva
verificare se sapevo attendere, e in seguito avrebbe
testato quanto sono capace di battermi contro tutto
e tutti per affermare la mia volontà professionale, le
mie capacità e anche la mia ambizione, che in questo
lavoro va di pari passo con ogni altro requisito. Indispensabile per non lasciarsi andare alla rinuncia nei
momenti di depressione.
«Scusa se ti disturbo…».
«Ma no, anzi». Ogni sua parola, per quanto stringata, trasudava ironia.
«Sai, vorrei parlarti. Mi piacerebbe collaborare con
il tuo giornale».
«Ah sì?».
Forse ero io che vi leggevo un interrogativo. Ma
quello sguardo dubbioso e magnetico aveva tutta
l’aria di chiedersi: “Chissà se vuole ancora prendermi
per il culo”.
Tuttavia, in linea con il suo carattere, aveva risposto con tono mellifluo. Tipico, lo fa anche con il suo
peggior nemico, è capace di affermare “Io avercela
con quello? Ma perché dovrei? Io non ho nemici, ci
sono soltanto persone che a volte critico dal punto
di vista giornalistico. Tutto qui”. E magari si tratta di
uno al quale ha appena segato le gambe senza pietà.
Oppure lo farà subito dopo avergli dichiarato tutto il
suo affetto.
«Certo, perché no? Chiama Ambrogina, la mia segretaria, è una donna proprio d’oro come il premio
che assegnano ai milanesi meritevoli il 7 dicembre,
giorno di Sant’Ambrogio, fatti fissare un appuntamento, dille che hai parlato con me».
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Forse sbagliavo, ma c’era un impercettibile accento
di soddisfazione, nel suo tono di voce. Come dire:
“La stronza è tornata a Canossa”.
Infatti, mi ha fatto aspettare molto. Sarà stato un
caso, ma impiegai quasi un mese ad ottenere l’appuntamento. Infine era arrivata la garrula telefonata
della segretaria. Solita tipa che si crede la depositaria
assoluta delle azioni del boss. Come quasi tutte le
addette ai potenti. “Cara signora, visto? Finalmente
ce l’abbiamo fatta”.
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