Untitled - Barz and Hippo
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Untitled - Barz and Hippo
La tradizionale miscela umoristico-malinconica di ironia e di leggerezza che caratterizza molte commedie di Woody Allen trova qui spazio per spiccare un volo fantastico nel passato. La miscela funziona al punto che con questo film il regista americano ha raggiunto uno dei suoi massimi successi di tutti i tempi al botteghino. scheda tecnica durata: 94 MINUTI nazionalità: SPAGNA/USA anno: 2011 regia: WOODY ALLEN sceneggiatura: WOODY ALLEN fotografia: DARIUS KHONDJI, JOHANNE DEBAS montaggio: ALISA LEPSELTER colonna sonora: STEPHANE WREMBEL scenografia: HÉLÈNE DUBREUIL distribuzione: MEDUSA interpreti: OWEN WILSON (Gil), RACHEL MCADAMS (Inez), MICHAEL SHEEN (Paul), NINA ARIANDA (Carol), KURT FULLER (John), MIMI KENNEDY (Helen), CARLA BRUNI (La guida turistica), LÉA SEYDOUX (Gabrielle), TOM HIDDLESTON (Francis Scott Fitzgerald), ALISON PILL (Zelda Fitzgerald), YVES BACK (Cole Porter), COREY STOLL (Ernest Hemingway), SONIA ROLLAND (Joséphine Baker), ADRIEN BRODY (Salvador Dalì), MARION COTILLARD (Adriana), KATHY BATES (Gertrude Stein), MARCIAL DI FONZO BO (Pablo Picasso). Woody Allen Considerato il più europeo dei registi americani, anche per via del successo da sempre incontrato nel vecchio continente, Allan Stewart Konigsberg nasce il 1° dicembre 1935 a New York ed è uno dei più noti e prolifici registi americani. I suoi genitori erano ebrei americani originari dell'Europa dell'est. Una tranquilla adolescenza è accompagnata dai rapporti piuttosto litigiosi tra i genitori e da una carriera scolastica non proprio esemplare: odia la scuola, mentre si distingue in vari sport e si fa notare tra gli studenti per il suo straordinario talento nei giochi di carte e nei trucchi di magia, A quindici anni comincia a scrivere gag per rubriche di alcuni quotidiani. Nel 1952 assume lo pseudonimo di Woody Allen, in onore del celebre clarinettista jazz Woody Herman. Nel 1954, viene assunto dalla rete televisiva nazionale ABC, della quale diventa l'autore di punta, scrivendo per noti programmi. Nel 1955 inizia a frequentare Harlene Rosen, studentessa di filosofia; i due si incontrano casualmente per formare un trio jazz insieme all'amico di Allen Elliot Mills. Nel 1955 passa alla rete televisiva NBC e si trasferisce a Hollywood. Nel 1956 Woody sposa Harlene, allora diciassettenne, e insieme tornano a New York per andare a vivere a Manhattan. Dopo una breve parentesi di studi universitari, inizia a lavorare anche per il teatro, come autore e regista, quindi prende la decisione di iniziare una propria carriera come cabarettista e comico nei night club, dove riscuote grande successo. Nel 1959, afflitto da attacchi di malinconia, decide di consultare uno psicoanalista. Da allora, e per più di trent'anni, la terapia diventa un appuntamento fisso e la psicanalisi comincia a entrare nei suoi film. Woody e Harlene divorziano bellicosamente nel 1962. Inizia a scrivere storie brevi per alcune riviste ed opere teatrali e a lavorare per il cinema come sceneggiatore e attore di commedie (Ciao Pussycat, 1965). Nel 1966 si risposa con l'attrice e comica Louise Lasser. Louise presta la voce per il primo film di cui Woody dirige alcune scene, Che fai, rubi? (1966), e interpreta un ruolo minore nel suo vero esordio alla regia, Prendi i soldi e scappa (1969); è poi co-protagonista in Il dittatore dello stato libero di Bananas (1971) e Tutto quello che avreste voluto sapere sul sesso (ma non avete mai osato chiedere) (1972), ma già nel 1969 i due divorziano. Nel 1975 dirige Amore e guerra, mentre nel 1977 abbandona temporaneamente il registro della comicità scatenante per un film più pensoso e disincantato, Io e Annie, che riceve quattro Oscar: miglior film, regia, sceneggiatura e miglior attrice protagonista a Diane Keaton, la sua compagna nel film e nella vita (ma ancora per poco). Negli anni Ottanta, dopo il successo di Manhattan (1979), considerato da molti il suo capolavoro, il flusso di coscienza autobiografico di Stardust memories (1980), ispirato al cinema europeo ed in particolare a Fellini e Bergman, e il mockumentary Zelig (1983) inizia ad affidare il ruolo di protagonista a diversi alter ego che spalleggiano Mia Farrow, con la quale ora ha una relazione. Dopo Broadway Danny Rose (1984) e La rosa purpurea del Cairo (1985) riceve il secondo Oscar per il campione d'incassi Hannah e le sue sorelle (1986), una commedia seria, che mostra l'influenza di Bergman nell'attenzione per i temi della morte e della religione, che tornano in vari film, benché con il filtro dell'ironia. Nel 1987 dirige Radio Days, un omaggio autobiografico al jazz. Si volge quindi a rinnovare la sua vena con alcuni film che escono dall'autobiografia, o la riecheggiano più liberamente, come Crimini e misfatti (1989), riflessione divertente ma non banale sulle colpe che non vengono punite. Nel 1992 interrompe la relazione con Mia Farrow, dopo che quest'ultima scopre in casa di Woody alcune foto della propria figlia Soon-Yi, adottata con il precedente marito André Previn (i due si sposeranno a Venezia nel 1997). Dopo l'espressionistico Ombre e nebbia (1992) Woody torna ad atmosfere più serene con Mariti e mogli (1992), Misterioso omicidio a Manhattan (1993), per il quale richiama Diane Keaton, e l'esilarante Pallottole su Broadway (1994), sulla perdita dell'ispirazione poetica. Dopo La dea dell'amore (1995, per il quale Mira Sorvino vince l'Oscar), omaggio al teatro greco, il musical Tutti dicono I love you (1996), Harry a pezzi (1997) e qualche altro film, Woody torna a buoni incassi con Criminali da strapazzo (2000), che prende spunto da I soliti ignoti di Monicelli. Dopo La maledizione dello scorpione di Giada (2001) che omaggia il cinema degli anni '40 e Hollywood Ending (2002), chiama Jason Biggs e Christina Ricci per Anything Else, storia d'amore impossibile tra un aspirante scrittore e una giovane dallo spirito libertino e indecisa su tutto. Con Melinda e Melinda (2004) ritorna ad affiancare tragedia e commedia. Una tragedia ispirata a Delitto e castigo è Match Point, il film del quale va più orgoglioso, dove si confronta con la casualità della vita in una visione amara dei rapporti sentimentali. Nel film recita Scarlett Johansson, richiamata per Scoop (2006), commedia leggera e tinta di giallo, come il precedente girata a Londr ae interpretata anche dallo stesso Allen nei panni di un mago-prestigiatore. Sempre in cerca di nuovi set interessanti e più economici di New York, sbarca in Spagna con Vicky Cristina Barcelona (2008), con la Johansson al fianco di Penelope Cruz e Javier Bardem, in un gioco di gelosie. Nel 2007 torna al dramma con Sogni e delitti, thriller con Ewan McGregor e Colin Farrell, mentre si rivolge nuovamente a un umorismo leggero ma colmo di ironia con il newyorkese Whatever Works - Basta che funzioni (2009), interpretato da Larry David ed Evan Rachel Wood. Di nuovo in Gran Bretagna, gira Incontrerai l'uomo dei tuoi sogni (2010), un'altra commedia sull'illusione d'amore. Nel 2011 gira Midnight in Paris a Parigi, che riscuote il massimo incasso mai raggiunto da un suo film e Nero Fiddled a Roma, dove torna anche a recitare, accanto, tra gli altri, al Benigni. la parola ai protagonisti Woody Allen Ci parli di Midnight in Paris Matisse diceva di voler far sentire il pubblico dei suoi quadri seduto in maniera confortevole su una poltrona. Mi piace pensare che la stessa cosa accada agli spettatori dei miei film: desidero che chi li guarda possa godere della fotografia e della luce. Con Midnight in Paris tutto questo è stato possibile. Com'è nata la storia? Qualche tempo fa mi trovavo a Parigi e guardavo fuori dalla finestra del mio albergo sulla Place Vendôme, quando a un certo punto ho visto arrivare un taxi da cui è scesa una donna bellissima. Ha pagato il conducente ed è entrata nell’Hotel Ritz dove l’aspettava un uomo. Era mezzanotte, ero a Parigi e così ho pensato: Mezzanotte a Parigi! Era perfetto, un titolo pieno di passione. In quel momento ero felice, anche se non avevo ancora capito su cosa avrei incentrato questa storia. Cosa sarebbe successo a mezzanotte a Parigi? Non ne avevo la minima idea! Sono stato fortunato a trovare una storia, altrimenti avrei rinunciato al titolo. Una situazione insolita È vero. La domanda cui ho provato a rispondere quella notte è ‘dove andranno insieme quell’uomo e quella donna?’ Ho immaginato che avrebbero avuto una relazione e che, alla fine, qualcosa sarebbe accaduto a una festa ambientata non nella nostra epoca, ma nel passato. Come è arrivato a questa scelta? Tutto è stato molto spontaneo. Del resto quando da giovane ho iniziato a scrivere per la televisione ero abituato a guardare un muro e a pensare a una storia. Se hai delle scadenze e un testo da consegnare non puoi certo metterti in attesa di una Musa che arrivi a ispirarti. Il film, però, non è nostalgico, sebbene il protagonista lo sia Non considero la nostalgia un sentimento sano. Alle volte penso al mio passato e non appena ho dei momenti di particolare nostalgia, ecco che mi fermo. Preferisco pensare al presente o al futuro. Il passato mi piace, ma non ho nessun sentimento di affetto particolare. Mettiamola così, tutti vogliono scappare dalla durezza della vita, e quando si pensa al passato lo intendiamo spesso come un’epoca di totale fascino ed è lì che liberiamo la nostra fantasia. Per quanto mi riguarda, invece, se mi proietto nelle epoche passate, immagino di andare dal dentista… dove non esiste ancora l’aria condizionata e non posso beneficiare della novocaina… non ci riuscirei, non c’è altra epoca in cui vorrei vivere che questa! Preferisco non essere nostalgico perché potrebbe essere troppo doloroso. La vita è in generale difficile, ecco perché ci si illude che altrove, magari in un'altra epoca, le cose andassero meglio. Non è così. La vita non è mai meglio. Questo film è anche una dichiarazione d’amore ai suoi eroi letterari Sì, anche se devo ammettere che ho iniziato a leggere in maniera costante molto tardi nella mia vita. Fino ai diciott' anni andavo soltanto al cinema e il mio immaginario era certamente cinematografico e non letterario. Anche adesso posso dire di essere più vicino allo show business e al cinema che alla letteratura. E poi ci sono gli artisti, di cui sono sempre stato un grande estimatore: quindi è stato facile per me parlare di loro, non ho fatto tanta ricerca, ho soltanto immaginato il loro lato comico. Qual è il suo legame con l'Europa? Sono sempre stato influenzato dal cinema europeo. Gli autori francesi mi hanno ispirato particolarmente, credo anzi che abbiano ispirato tutti noi americani che volevamo diventare registi. Io mi considero un filmmaker fortunato, tutt’altro che un artista. Se considerate veri artisti come Kurosawa e Bunuel, capirete che non ho niente a che fare con loro. Londra, Parigi, Barcellona, e adesso Roma: cosa l’attrae della possibilità di fare film in Europa? È meraviglioso poter fare del cinema in tutte queste straordinarie città, dove qualcuno è riuscito a mettere insieme per me budget produttivi adeguati. Sarei felice di tornare a fare film anche negli Stati Uniti, ma lì perderei la mia libertà di raccontare le storie che mi interessano e di fare il cinema che amo. "Midnight in Paris” è una storia d’amore e di seduzione: si considera un esperto? Non credo di saperne davvero nulla. Amore e seduzione confondono tutti, perché non hanno niente a che vedere con il cervello, ma con il cuore. Non li potrai mai davvero capire: le persone più intelligenti sono capaci di fare le cose più irrazionali quando si tratta di passione: tutti sono capaci di coprirsi di ridicolo in situazioni che hanno a che fare con l’amore. Un tema ricorrente nel suo cinema? Un tema ricorrente nell’umanità dagli antichi Greci a Tolstoj fino ad arrivare ai giorni nostri: è un tema portante nel mio lavoro anche se, di tanto in tanto, al centro della storia si trova un omicidio. E poi c’è lo humour. Paradossalmente, è molto più difficile spiegare da dove nasca qualcosa che fa ridere. È un processo inconscio: magari stai scrivendo di un uomo e una donna e qualcosa di molto buffo emerge dalla situazione in cui si trovano. I suoi figli la aiutano ad ancorarsi alla realtà? Essere genitori è una cosa molto concreta fatta di scuole, lezioni di musica, sport. In più voglio che i miei figli vivano una vita normale. Non hanno visto ancora i miei film e perfino mia moglie ne avrà visti una ventina rispetto agli oltre quaranta che ho fatto. I ragazzi vengono sul set, ma poi tornano a casa. Non mi interessa che abbiano un’idea di me come regista. In Nero Fiddled lei torna a recitare dopo qualche anno di assenza dallo schermo e dai suoi film. Come ha convinto Woody Allen a tornare a recitare al cinema? Beh, diciamo che mi sono offerto un’ottima parte che non avrei mai potuto rifiutare... Recensioni Silvia Nugara, Cultframe Dopo Tutti dicono I love you (1996), il grand tour di Woody Allen nel vecchio continente torna a Parigi dove il regista decide di giocare scopertamente con le varie declinazioni dell’ideale di pariginità nell’immaginario del turista upper class americano. Il film si apre con una serie di immagini da cartolina, prima molto assolate, quasi dorate, e infine piovose, ponendoci di fronte al contrasto attorno a cui si gioca la storia dei protagonisti, Gil (Own Wilson) e Inez (Rachel McAdams): a lui piace la pioggia di Parigi, a lei il sole di Malibu; lui sogna una vita da bohème, lei è molto chic; lui è liberal, lei viene da una famiglia che simpatizza coi Tea Party; lei è proiettata verso il futuro mentre lui è un tipo vintage, che sogna il passato, soprattutto la Parigi degli anni Venti, quando “la pioggia non era acida”. Nei panni di Gil, Owen Wilson è un “allen andersonizzato”, uno sceneggiatore hollywoodiano insoddisfatto e stralunato, che nelle discussioni parte sempre per la tangente e si perde nei suoi sogni, alla ricerca di una vita creativa più autentica, di un’esistenza più romantica. Grazie alla magia di Parigi, Gil vive l’incantesimo di un viaggio nel tempo e, traghettato da un’auto d’epoca, approda ogni notte agli anni ’20, dove incontra tutti i suoi miti creativi della “generazione perduta”: Francis Scott e Zelda Fitzgerald, Cole Porter, T.S. Eliot, Ernest Hemingway e con loro vive l’atmosfera della “festa mobile”. Riceve consigli letterari da Gertrude Stein, beve un cicchetto con Dalì, Buñuel e Man Ray, incontra Picasso e la sua modella Adriana e di quest’ultima si innamora. Grazie a questo amore inter-epocale, Gil ritrova se stesso, la gioia di vivere e di scegliere coraggiosamente la propria strada. Allen chiama a raccolta un cast speciale ma affida alla maggior parte dei suoi membri delle piccole particine: non è il caso solo della première dame Carla Bruni, ma anche, per esempio, di Adrien Brody, un efficace e spassosissimo Salvador Dalì in fissa coi rinoceronti o di Kathy Bates nei panni di Gertrude Stein. Midnight in Paris è una favola surreale sulla ricerca dell’età dell’oro, sull’idealizzazione dei luoghi e delle epoche, sulla tentazione di rifugiarsi nel passato in tempi di vorticoso cambiamento o di cupa stagnazione in cui operare una scelta di vita appare impossibile perché il futuro si presenta incontrollabile, oscuro e minaccioso. Valerio Caprara. Il Mattino Maneggiatelo con cura, parlatene con garbo, consigliatelo con moderatezza. Nonostante abbia sbancato contro tutte le previsioni il box-office americano, Midnight in Paris è un film sottile, delicato, divertito e divertente a cui non s’addice un surplus d’aggettivi encomiastici: a settantasei anni d’età e con quarantacinque titoli in filmografia Woody Allen si è concesso, infatti, un “divertissement”, come direbbero i cittadini della metropoli omaggiata, che caratterizza il tratto col quale sa rendere acuti, piacevoli e incoraggianti i suoi pensieri più semplici e le sue più istintive preferenze. Il piccolo grande newyorkese gioca ancora una volta con l’autobiografia, ma come sempre rifugge dalle pesantezze recriminatorie e/o didascaliche e disegna una galleria di fragili quanto eleganti silhouette in grado di attivare tanti piccoli cortocircuiti tra realtà e surrealtà, gioia e disperazione, avidità dell’attimo fuggente e rassegnata coesistenza coi fantasmi. Per condurre in porto un film che in qualche modo ricorda il meccanismo d’entrata e uscita dai sogni di “La rosa purpurea del Cairo”, gli è non a caso è indispensabile la colonna sonora jazz che ha il doppio compito di rievocare un’epoca e cadenzare le espressioni, i gesti e le (re)azioni emotive dell’alter ego protagonista. Owen Wilson, chiaramente un giovane Woody, preciso dal modo di parlare alle giacche informali e le camicie a quadretti, sbarca nella Parigi d’oggi al seguito dell’avvenente promessa sposa e dei futuri suoceri conservatori e altoborghesi. Siccome, proprio come New York, la Ville Lumière fa sì che lo straniero si ritrovi personaggio e interprete della sua leggenda, lo sceneggiatore insoddisfatto e romanziere inespresso nel corso di una magica notte è risucchiato come se nulla fosse nello spumeggiante milieu intellettuale anni Venti. Coinvolto dalle creative sregolatezze di Scott Fitzgerald e la sua Zelda, strattonato dalla rodomontesca intelligenza di “papà” Hemingway, guidato dalla sbrigativa autorevolezza di Gertrude Stein, eccitato dalla Baker, innamorato della modella-amante di Picasso, spiazzato dall’eccentricità di Dalì, Man Ray o Bunuel, si renderà conto di come sia difficile svincolarsi dalle umane contraddizioni anche quando ci si è lasciati trasportare laddove s’immagina che risieda la Vita Perfetta. Eppure, in un inedito moto di distacco dal pessimismo radicale che in qualche modo lo protegge, il regista meno grillo parlante che esista consente nel momento clou al biondo Wilson uno scarto romantico e una scelta anticonformista. Le Parigi d’ogni epoca che idealizziamo per esorcizzare la paura del presente non sono Shangri-la melense, ma luoghi concreti raggiungibili con un volo low cost e vivibili senza dovere essere per forza dei geni. Fabio Ferzetti. Il Messaggero Un sogno, una fantasticheria, un viaggio tra i fantasmi del Novecento, una visita tutta da ridere (ma non senza emozione) a quegli «antenati» con cui non smettiamo di fare i conti. Perché come dice il protagonista con Faulkner, «il passato non è affatto morto, anzi non è nemmeno passato». Dunque passeggiando per Parigi ci si può ritrovare nella «Festa mobile» di Hemingway, si può cenare a casa di Jean Cocteau con Zelda e Francis Scott Fitzgerald, si può discutere del rapporto tra sesso e arte con Picasso e Gertrude Stein, o di vita e letteratura con lo stesso Hemingway. Che considera la pagina un campo di battaglia e usa solo virilissime immagini belliche per parlare di faccende impalpabili come scrittura, introspezione, racconto... Ci voleva Woody Allen per fare dell’intramontabile viaggio nel tempo una metafora che mette in caricatura uno degli snodi decisivi della cultura di massa. Stretta fra la necessità di conoscere, frequentare, conservare il passato, e quella di liberarsi dall’eccesso di memoria e dai miti più imbalsamati. Se possibile, qui sta il punto, non prima di averli metabolizzati a dovere. Naturalmente Woody Allen ha affrontato molte altre volte queste figure riverite e ingombranti. In uno dei memorabili pastiches letterari pubblicati in gioventù, «Memorie degli anni Venti», faceva già il verso alle colte ovvietà di Gertrude Stein, alla passione di Hemingway per la boxe (tormentone: «poi Ernest si infilò i guantoni e mi ruppe il naso»), o alla pittura cubista («Juan Gris si chiuse nello studio con una modella e cominciò a scomporla in forme sempre più elementari, finché non intervenne la polizia», citiamo sempre a memoria). Qui però al divertimento delle citazioni apocrife si accompagna la malinconia dei suoi ultimi film, perché il Gil di Midnight in Paris (un soave Clive Owen) fa lo sceneggiatore a Hollywood, ma sogna la Cultura con la C maiuscola, ha il suo bravo romanzo nel cassetto e passa il tempo a fantasticare sulla Parigi del tempo che fu. Finché, dopo infiniti litigi e malintesi con la fidanzata e con i suoi futuri suoceri, repubblicani e pro-Tea Party, non si ritrova davvero nella Parigi anni Venti (irresistibile l’incontro con la santa trinità del surrealismo, Buñuel, Man Ray e l’invasato Dalì). Per scoprire, dopo aver salvato dal suicidio Zelda Fitzgerald con un Valium, ed essersi innamorato della modella Marion Cotillard, che la nostalgia non è un’esclusiva del nostro tempo. Anche nei ruggenti anni Venti c’erano fior di personaggi convinti che si stava meglio prima. Forse dietro il rimpianto per l’inconoscibile c’è la paura di vivere il presente. Ma pure questo in fondo è un cliché, che Allen usa e smonta al tempo stesso. Anche perché come ben sapeva un certo Marcel Proust, dopo una certa età il rapporto con ciò che è stato prima di noi, e non abbiamo mai conosciuto, diventa la chiave del rapporto con ciò che siamo stati, e non siamo più. Ma questo Allen lo suggerisce appena, senza mai smettere i panni del commediante. Con tutta la sorridente profondità dei suoi film migliori. Paola Casella. Europa Ci sono due momenti di Midnight in Paris, il nuovo film scritto e diretto da Woody Allen, in cui l’autore enuncia la sua verità attraverso il protagonista, lo scrittore Gil Pender (Owen Wilson), ma Allen e il suo alter ego meno nevrotico e più wasp scelgono di «buttare via» quei momenti con una leggerezza e una grazia che sono le cifre stilistiche dell’intera commedia: una riflessione esistenziale che, invece di concentrarsi sul lato dark della natura umana (come Match point) o di buttarla in caciara (come molte delle commedie dirette da Allen negli ultimi vent’anni), accetta con sincera empatia il destino dell’uomo. La prima frase è «Credo di essermi perso», e descrive con efficace semplicità il punto del cammin della sua vita in cui Gil-Allen si trova, forse da sempre: un uomo, e un artista, disorientato dalla complessità della natura umana e dalla desolante prevedibilità delle passioni che ci agitano e ci confondono. La seconda frase è «Siamo solo temporaneamente di passaggio» e si riferisce alla situazione centrale del film, ma anche alla consapevolezza con cui Allen guarda alla nostra permanenza sulla faccia della terra. Midnight in Paris narra la storia di un potenziale artista che ha venduto il suo talento a Hollywood firmando sceneggiature commerciali, ma che sogna di riscattarsi scrivendo il Grande romanzo americano. Gil si trova per caso a Parigi dove accompagna la futura moglie Inez (Rachel McAdams) e i futuri suoceri conservatori e provinciali (Tom Hiddleston e Mimi Kennedy). Intrappolato in una situazione potenzialmente disastrosa, Gil vede in Parigi, la città che ha sempre idealizzato, la sua via di fuga. E Parigi lo accontenta, regalandogli una serie di spassosi e improbabili incontri con alcuni dei suoi miti del passato. Non vi diciamo altro sulla trama, ma si parlerà, in chiave ironica e molto più esplicitamente che nelle frasi cui abbiamo accennato all’inizio, della paura della morte e della brutalità degli uomini sempre pronti a «perdere la patina di civiltà per rivelare la loro natura bestiale», dell’incapacità umana di vivere nel presente e della tendenza di molti di noi a sognare un’epoca dorata in cui saremmo stati più felici. La serena accettazione di Allen, altrove cinico fino al nichilismo, del proprio destino di creatura fragile in balia di forze al di fuori del proprio controllo e la sua volontà di aderire alla vita senza cercarne un senso definitivo o una giustificazione morale permanente rendono Midnight in Paris una commedia delicata e vibrante, invece che un ennesimo atto di necrofilia cinematografica alleniana. In questo benvenuto cambiamento di rotta il regista è aiutato da Owen Wilson, la cui vulnerabilità era stata finora mal sfruttata dal cinema che ha privilegiato il suo personaggio di amabile cialtrone e il suo look da bramino yankee (con la notevole eccezione de Il treno per Darjeeling). Wilson incarna perfettamente l’animo romantico e inquieto di Woody Allen, qua e là imitandone la cadenza e la postura senza mai scivolare nella macchietta (come faceva ad esempio Kenneth Branagh in Celebrity) e interpretando con grande consapevolezza artistica lo smarrimento esistenziale di un giovane uomo perbene che, davanti alla proterva arroganza dei futuri suoceri e della fidanzata arpia, osserva semplicemente: «Non si trattano gli altri in questo modo». Oltre che un atto d’amore verso la vita, Midnight in Paris è una dichiarazione alla Ville Lumiére, ritratta nel prologo come una città cartolina ma anche come un luogo in cui presente e passato coesistono (vedi l’inquadratura del Moulin Rouge che verrà poi mostrato all’interno, e in un’altra epoca, in una scena successiva), alla musica (bellissima la colonna sonora), alla pittura, alla fotografia, alla danza, al cinema. Soprattutto è un’ode alla contaminazione secondo le regole del gusto personale come quella sognata da Paolo Conte per il suo Razamatz, un musical che doveva rendere omaggio proprio al mito della Parigi anni Venti accostato alle sensibilità americane successive. E poiché Midnight in Paris ammette un debito di gratitudine verso decine di artisti, ci piace pensare che Allen abbia avuto notizia del progetto mai realizzato da Conte e se ne sia innamorato al punto di ricordarsene per il suo delizioso film. Curzio Maltese. La Repubblica In attesa di vederlo sul set italiano, gli ammiratori di Woody Allen non possono perdersi lo strepitoso Midnight in Paris. Un Allen d'annata dà vita nella sua seconda patria cittadina alla più esilarante commedia degli ultimi anni. Per ridere tanto bisogna tornare nei tempi recenti almeno a Scoop, ma forse addirittura a Pallottole su Broadway o agli esordi di comicità pura alla Prendi i soldi e scappa e alla sceneggiatura di Ciao Pussycat, il film durante il quale Woody si è innamorato di Parigi. Midnight in Paris gioca a scacchi con l'intelligenza e lo humour dello spettatore, spiazzandolo con un crescendo di mosse geniali e inattese, situazioni irresistibili e improvvisi cambi di prospettiva. Naturalmente si tratta di un gioco. Ma nulla, si sa, è più serio, complicato e difficile di un gioco. Il plot è meno di un pretesto, com'è negli ultimi Allen. È appena un luogo comune, il rimpianto per un passato idealizzato. Ma allargato a dismisura, fino a diventare un paradosso surreale. Gil (Owen Wilson) è uno sceneggiatore della Hollywood più industriale, con aspirazioni da vero scrittore sepolte fra la piscina e il campo da golf. Si trova in viaggio a Parigi con la fidanzata Inez (Rachel McAdams), al seguito di futuri suoceri molesti. In particolare John (Kurt Fuller), il padre della futura sposa, uomo d'affari reazionario, ossessivo sostenitore dei repubblicani dei Tea Party e quindi gravido di sospetti sulla vena artistoide del promesso genero. Annoiato dalla compagnia e dal supplemento di pena di un amico di lei, pedante professorino universitario (Michael Sheen), Gil comincia a vagare solo per la città magica, ad annusare suggestioni del passato e inseguire tracce dei propri miti letterari fra una brasserie e un café. Fino a quando per uno dei tanti corto circuiti spazio temporali di moda nel cinema, stavolta in chiave grottesca, non si trova proiettato nella leggendaria Parigi degli anni 20. Come nella Rosa purpurea il pendolarismo fra mito e realtà, diventa una macchina surreale di trovate. Gil si trova a rivaleggiare con il machismo estremo di Ernest Hemingway e di Pablo Picasso per conquistare la conturbante Adriana (Marion Cotillard), una "grupie dei geni", si riduce a chiedere consigli sentimentali oltre che letterari a Gertrude Stein in persona, a fronteggiare le crisi isteriche di Zelda Fitzgerald e persino a suggerire la trama dell'Angelo Sterminatore a un Buñuel che non riesce a capirla. Di giorno torna alla vita da mediocre di successo e alla sempre più tediosa pratica turistica in compagnia di fidanzata e ciarliero seguito. Il film è un fuoco d'artificio di battute e di talento sparso a piene mani, a cominciare da quello di attori meravigliosi usati per parti anche secondarie. È un divertimento o un vezzo da sempre per Allen, ma anche questo portato al felice eccesso. Una sventagliata di Oscar costella le scorribande di Gil nella Bohème anglo-franco-americana. Indimenticabili sono Kathy Bates nei panni di una dittatoriale Gertrude Stein e Adrien Brody in quelli di Salvador Dalì, animatore di una travolgente riunione di surrealisti. Lo humour e l'eros sono le forze trainanti di un divertimento assoluto. Tutto talmente scintillante da far quasi dimenticare la discreta presenza di Carla Bruni nella parte di una guida, che per mesi è stato il solo motivo di discussione e gossip intorno al film. Con tutto l'amore anche per le opere più cupe e pessimistiche degli ultimi anni, bisogna ammettere che si sentiva la mancanza dell'Allen più lieve e sfrenato. Se è questo lo stato di grazia del settantacinquenne genio newyorkese, c'è soltanto da chiedersi di che cosa sarà capace al prossimo film, a partire dal Fellini e dal Monicelli di Boccaccio '70 e con accanto Roberto Benigni. Alberto Crespi. L’Unità Vi proponiamo un esercizio di sceneggiatura: vedendo Midnight in Paris memorizzate le due scene in cui compare Carla Bruni, poi collocatele nella trama e immaginate cosa succederebbe se venissero tagliate. Ve lo anticipiamo: nulla. Owen Wilson non potrebbe dire una battuta molto carina su Rodin, che per altro poteva essere «seminata» in altro modo. Il ruolo della guida turistica poteva essere interpretato da chiunque, e forse c'è stata una perfida ironia nell'affidarlo alla «première dame» di Francia. Chissà. Abbiamo voluto rovesciare l'adagio in cauda venenum piazzando nel primo capoverso tutta la nostra disapprovazione per l'unica concessione al Potere che Woody abbia fatto, o subito, per questo e per altri film. Ma è l'unico difetto di Midnight in Paris, film per il resto assolutamente delizioso. Per arrivare a simili vertici qualitativi, bisognerebbe risalire al 2005, l'anno di Match Point; per ricordare una simile ricchezza di risate, forse addirittura al 1994 di Pallottole su Broadway. E comunque Midnight in Paris ha un film «padre», nell'opera di Allen: La rosa purpurea del Cairo, 1985. In quel gioiello, la protagonista Mia Farrow veniva risucchiata dentro un film (succedeva anche a Buster Keaton in Sherlock Jr., nel 1924, ma all'epoca non lo scrissero in molti). Qui, Owen Wilson compie un viaggio nel tempo. Lui e Rachel sono due fidanzati americani in vacanza a Parigi. Lei è ricca, viziata, appassionata di shopping e figlia di genitori filo-Bush. Lui è uno sceneggiatore hollywoodiano disgustato dalle schifezze che è costretto a scrivere. Sogna il grande romanzo, ha il mito della Parigi anni 20, vorrebbe tornare indietro nel tempo e incontrare Hemingway, Fitzgerald, Picasso. Detto e fatto. Durante una passeggiata notturna e solitaria, in una viuzza sotto Montmartre, passa una macchina «d'epoca» e alcune figure lo invitano a salire. Lo portano in un bistrot dove gli presentano due giovani, americani come lui. Si chiamano Francis e Zelda: ma pensa, dice lui, come i Fitzgerald! Loro lo guardano strano: noi siamo i Fitzgerald. Da lì in poi, le trasferte notturne nel tempo - sempre a mezzanotte - coincidono con la ritrovata vitalità del nostro giovane, che negli anni 20 trova anche l'amore. È Marion Cotillard, «musa» di Picasso, di Braque e di tanti altri. E incontra un mentore: Gertrude Stein (la solita, immensa Kathy Bates) che si offre di leggere il suo romanzo. Conosce tanta gente: un Salvador Dalì ossessionato dai rinoceronti (è Adrien Brody, che dopo questo cammeo può anche ritirarsi, non farà mai più nulla di così sublime), un Buñuel al quale suggerisce la trama dell'Angelo sterminatore («ma perché non escono dalla stanza?», chiede lo spagnolo). Film stupendo, lieve, lettera d'amore all'Europa ed esorcismo lieve contro la morte, per una volta sbeffeggiata con ironia. Maurizia Ciotta. Il Manifesto Tour del regista newyorkese attraverso la mitologia di un «americano a Parigi», l'amore dei grandi narratori d'oltre Atlantico, i bohémien che hanno fatto Hollywood, Midnight in Paris, è stato il film d'apertura di Cannes 2011. New York si modella su Parigi e viceversa negli occhi di Woody Allen che incontra al Polidor, bistrò mitico del quartiere latino, Francis Scott Fitzgerald e Zelda, Salvador Dalì (Adrien Brody), Luis Buñuel, Pablo Picasso, Paul Gauguin. Visioni da vecchio fans, anzi da «groupie dell'arte», come il viaggiatore Gil (Owen Wilson), scrittore incompreso, sceneggiatore al guinzaglio degli Studios, in vacanza sotto la tour Eiffel. Lo fiancheggia la musa Adriana (Marion Cotillard), amante in transito tra pittori e scrittori, apparizione notturna che lo guida lontano dai riti borghesi di fidanzata (Rachel McAdams) e futuri suoceri (Kurt Fuller e Mimi Kennedy). È la Parigi di Minnelli (Brama di vivere) e di Huston (Moulin Rouge) che Allen chiama a mostrarsi dietro le cartoline turistiche inanellate con ironia nei titoli di testa. Beatitudine da cinéphile, vortice della bellezza sedimentata nella memoria che Woody resuscita per noi nella sua ricognizione oltraggiosa degli anni Venti. Gil preferisce la Rive Gauche a Malibu e a mezzanotte evade in un'altra dimensione a bordo di una misteriosa auto d'epoca che lo conduce nell'età del jazz. E che gli permetterà di dare in lettura il suo manoscritto respinto da Hollywood a Gertrude Stein (Kathy Bates), un'altra americana a Parigi. Lo introduce nel salotto letterario Alice Toklas, compagna della scrittrice, mentre un certo Matisse cerca acquirenti per i suoi quadri, 500 franchi l'uno. «Ne compro sei», propone Gil preso nel delirio di nomi da capogiro, Degas, T.S. Eliot che gli offre la sua Peugeot vintage, Cocteau, è la sua festa, Buñuel, avanti e indietro negli anni affollati delle notti misteriose di Gil, tra abiti di seta, champagne, creatività a mille... Sulla riva della Senna, Woody Allen vede se stesso in Ciao, Pussycat ('65, esordio di Allen sceneggiatore e attore), in sovrapposizione a Zelda, pronta a tuffarsi nelle acque per i sospetti tradimenti dell'amato. «Mi dia retta signora, io lo so per certo, Francis ama solo lei». E anche Parigi gira su stessa a bordo della macchina del tempo, una visita alla libreria Shakespeare & Co, al mercato delle pulci, ai giardini di Versailles, oppresso da un saccente intellettuale e dalla sempre più irritata Inez . Ed ecco la «prima donna» di Francia, una rigida Carla Bruni nelle vesti di critica d'arte, guida improbabile al Museo Rodin, stretta nel suo tailleur color carta da zucchero, in mezzo ai toni caldi dell'eterno autunno di Woody Allen. Un cameo dell'Eliseo, poche battute per il personaggio che non passerà mai tra le icone del bistrò Polidor. La crudeltà del giorno, sempre a rimorchio degli yankees interessati all'antiquariato europeo, ai mercatini di cianfrusaglie d'epoca, riserva a Gil la sorpresa di un giradischi a tromba, una specie di lampada di Aladino che risveglia le note Cole Porter, «conosciuto» la notte prima, e che lo introduce a una visione del presente, una parigina ammiratrice di Let's Do it. Con lei, anche la città reale sarà avvolta dalla nebbia dei sogni. Su e giù nel tempo, Woody delizia i fans di Al di qua dal paradiso con un vestitino di perfidie confezionato per Ernst Hemingway, il macho cacciatore, arrogante e presuntuoso. Esilarante Ernst tra tigri impagliate e roboanti ricette di seduzione, così insopportabile da mettere in fuga, dopo una breve parentesi africana, la carismatica Musa che gli preferirà la Belle Epoque del poco atletico Toulouse Lautrec. Il passaggio dallo schermo alla platea di La rosa purpurea del Cairo si apre di nuovo in questa mezzanotte parigina e sforna le sue divinità in carne e ossa, amici da bar, compagni di avventure. I fantasmi si dissolvono in una bella giornata di pioggia sulla Ville Lumière, e Woody dirige da maestro la sinfonia spettrale nella sua più libera partitura dedicata alle città europee, Londra, Barcellona, Parigi. Incassi record per il piccolo clarinettista nel vecchio continente, la fermata successiva è stata Roma, dove ha girato Bop Decameron, incursione ancor più temibile tra le pagine di Boccaccio, dietro la storia di quattro turisti e un cast sterminato: Roberto Benigni, Alec Baldwin, Pénelope Cruz, Riccardo Scamarcio, Ornella Muti... e Woody Allen. Come Gil frugheranno sotto le pietre del tempo per trovare la loro age d'or?