L`editoriale I luoghi della storia
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L`editoriale I luoghi della storia
l’antifascista periodico degli antifascisti di ieri e di oggi Fondato nel 1954 da Sandro Pertini e Umberto Terracini • anno LIX - n° 10, 11, 12 Ottobre-Novembre-Dicembre 2012 L’editoriale di Guido Albertelli Oggi cosa possono fare coloro che hanno avuto per eredità il dovere della trasmissione delle storie, delle tradizioni, delle vite e delle morti. Hanno vissuto la loro esistenza nell’impegno di mantenere vive le memorie dell’Antifascismo e della Resistenza e di trasmetterle a chi non sa o non ricorda. Ora sono un po’ stanchi e piuttosto soli. Non c’è più l’atmosfera attenta e rispettosa che è necessaria ai racconti importanti. Non ci sono più le orecchie disposte a sentire queste vecchie storie, sono ormai adulti i bambini che ascoltavano con gli occhioni aperti e sono pochi coloro che conoscono bene queste memorie ed hanno ancora voglia di ripeterle. Se lacrime commosse vengono versate appartengono soltanto a chi racconta. Un tempo vivevano le dittature e chi lottava per distruggerle. Un tempo avvenivano le guerre civili e chi le combatteva dalla parte giusta. Un tempo si verificavano rappresaglie ma chi le ha fatte non riconosce oggi il diritto delle vittime. Un giorno venne la vittoria ma i partigiani sfilavano con il lutto per gli amici caduti. Un tempo non tutte le donne stavano a casa ma c’erano quelle che uscivano a rischiar la pelle non per il proprio uomo ma per la libertà. Non era il tempo delle mele ma quello dell’odio e del perdono. dell’ingiustizia e del coraggio, del sogno di democrazia. Democrazia che fu di tutti e che è sempre tra noi anche se indebolita e contestata. Alziamo la testa vecchi combattenti perché non siamo soltanto cantastorie del bel tempo che fu. Ricordiamo quanto fu più difficile la vita da perseguitato e da partigiano e lottiamo per non vedere affievolirsi i valori che ci fecero liberi. Diamo inizio a questo Congresso tra bandiere che non saranno mai ammainate. L’anima democristiana di Monti Nel nuovo Centro nostalgia del passato e sguardo sul futuro di Giovanni Russo L a notizia che Mario Monti avrebbe partecipato in prima persona alla campagna elettorale è la vera novità della situazione politica. Tra le varie reazioni, significativa è stata quella di Eugenio Scalfari su Repubblica del 30 dicembre 2012: «Per favore Professore non rifaccia la Dc». Gli ha fatto eco Pier Luigi Battista nel fondo I rischi della nuova coalizione. Quel sapore di antico, sul Corriere, in cui afferma che la coalizione che si ispira all’agenda di Mario Monti, che ha caratterizzato oltre un anno di governo tecnico, può essere il punto di riferimento di una borghesia moderna, o al contrario annacquarne la novità «facendo il verso ai fasti di ciò che fu la Democrazia cristiana». Questi “timori” sono determinati dal fatto che la coalizione di Monti è apertamente appoggiata dai vertici del Vaticano e si rivolge ai cosiddetti moderati rappresentati dal ministro Andrea … segue a pagina 2 Pierferdinando Casini e Mario Monti si salutano alla Camera dei Deputati I luoghi della storia Matera. Il monumento alla Resistenza di Mario Tempesta Attualità Antisemitismo e web a pagina 3 Esteri Rama Sall Il turista che oggi visita la famosa città dei Sassi, rimane particolarmente colpito dalla singolarità dell’ambiente naturale in cui essa sorge. Matera, infatti, si presenta agli occhi del visitatore divisa nettamente in 2 parti dal volto del tutto diverso: a occidente, la città più moderna con i rioni che si estendono su di un pianoro; a oriente, la parte antica - molto suggestiva – situata sul ciglio e sul fianco accidentato di una profonda e stretta gravina – così sono chiamati i burroni molto profondi - con case in gran parte scavate nel tufo calcareo; un complesso “urbano” unico, costituito da due solchi, il Sasso Barisano e il Sasso Caveoso, separati dallo sperone e aperti verso la gravina. a pagina 7 Cultura Maurizio Valenzi a pagina 13 Memorie L’ enigma Feltrinelli a pagina 17 Noi Relazione Congresso a pagina 8 Poste Italiane s.p.a. - spedizione in abbonamento D.L. 353/2003 (conv.in. L. 46 del 27.02.2004) - Art.1, comma 2, DCB - Roma a pagina 21 2 Attualità L’editoriale (Premessa alla lettura della Relazione al XVII Congresso dell’ANPPIA) Riccardi, fondatore della comunità di Sant’Egidio, e da Luca Cordero di Montezemolo. Quest’ultimo in un primo tempo sembrava volersi presentare alle elezioni, ma ha poi rinunciato, tanto che Il Foglio si domanda: «Perché Montezemolo ha fatto tanto per costruire la sua non candidatura? Dieci anni di soldi e lavoro per curare un profilo e un progetto da riserva della Repubblica. Poi nulla». Con l’ingresso nella campagna elettorale, Monti ha deciso di non essere più un tecnico al di sopra delle parti, ma protagonista della lotta politica. Significativi i termini da lui usati: anziché “entrare in politica”, ha scelto “salire in politica”, sottolineando così come per lui rappresentasse un’ascesa verso una superiore realtà. Nella sua agenda, ha indicato i temi che intende affrontare per cambiare la “logica antiquata” della politica italiana. Benché abbia respinto l’accusa di voler rifare la Dc, le somiglianze con quello che fu il ruolo della Democrazia cristiana nel dopoguerra sono evidenti. La fine del regime fascista e la sconfitta militare avevano creato un vuoto che la Democrazia Cristiana, con il sostegno della Chiesa, fu pronta a riempire, accogliendo nelle sue fila il ceto medio disorientato e spaurito e ottenendo un consenso popolare che le permise di creare una diga all’avanzare delle sinistre. Essa raccolse così non solo il consenso della borghesia conservatrice e di coloro che avevano aderito al fascismo non per ragioni ideologiche ma di opportunità, ma anche quello delle associazioni e del sindacato di ispirazione cattolica. Mario Monti, pur godendo dell’appoggio esplicito del Vaticano e dei poteri economici e finanziari, soprattutto europei, non è però riuscito a ottenere finora quel consenso popolare che sembrò arridergli alla sua nomina a Presidente del consiglio. La politica del governo tecnico ispirata a un rigore economico convertito in sacrifici, per via delle tasse e i tagli alla sanità e all’università, gli ha alienato le simpatie della classe media e dei ceti popolari che lo considerano il responsabile delle difficili condizioni di vita nelle quali versano. Il fatto che sia stato annullato l’invito a partecipare ad un incontro a Roma con le sette organizzazioni del mondo del lavoro cattolico (Acli, Cisl, Coldiretti, Confcooperative, Confartigianato, Mariano Rumor e i dorotei (Foto d’Archivio) Mcl, Compagnia delle Opere) e con i movimenti in una regione chiave per la religiosi (dai Neocatecumenali al maggioranza a Palazzo Madama. Rinnovamento dello Spirito, dai FocoC’è da augurarsi che Monti non larini all’Azione cattolica, il Forum pretenda di essere il demiurgo di delle famiglie e Scienza e Vita) in una nuova prospettiva politica, ma si grado di portare molti voti, come apra alla collaborazione con il Partito avveniva ai tempi della Democra- democratico su un programma che zia cristiana, dimostra che nella indichi la strada per sconfiggere le galassia cattolica ci sono perples- vecchie politiche clientelari, confermi sità e reticenze nei suoi confronti. la fedeltà all’Europa, e contribuisca a Pur essendoci analogie con il ruolo far a riacquistare la fiducia di quanti che svolse la Dc nella drammatica per protesta si rifugiano in una perisituazione del dopoguerra, non ci sono colosa posizione di astensione dal più le premesse che ad essa permi- voto e di sfiducia nella democrazia. sero di conquistare il 18 aprile del 1948 quella maggioranza su cui De Gasperi e i suoi successori poterono contare per tanti anni. Le prime battute della campagna politica di Monti lo dimostrano. Può anche essere che riesca a sollecitare quell’anima democristiana che continua a esistere nella borghesia italiana, si tratta però di Comunicazione: capire se questa non sia trasmigrata nel Pd di Bersani, che con il suo buon Verrà inviato, prossimamente, ai parsenso emiliano e le battute bonatecipanti al Congresso Nazionale rie, che non suscitano ma sopiscono dell’ANPPIA, e al Consiglio le polemiche, sembra interpretare il Nazionale, tenutosi a Roma il desiderio di normalità degli italiani. 9/10/11 novembre del 2012, un fascicoE’ innegabile che Monti abbia creato lo con il resoconto di quelle giornate, un punto di riferimento per l’eletda distribuire nelle varie federazioni e torato deluso dal berlusconismo e sezioni ai nostri soci. nello stesso tempo abbia offerto una In questo numero de “l’ antifascista” prospettiva a quei moderati del Pd che troverete la relazione del Presidente al non amano Vendola, minacciando in Congresso a pagina 21. tal modo quella che era considerata la facile e sicura vittoria dei democratici. Questo potrebbe provocare l’ingovernabilità del Paese: rischio avvertito da Bersani, il quale ha invitato il Professore a fare una scelta di campo, soprattutto per quanto riguarda le elezioni regionali in Lombardia: l’appoggio ad Albertini, candidato anche al Senato, di fatto favorirebbe il Pdl sottraendo voti al partito democratico Attualità L’antisemitismo galoppa sul web Inchiesta su un fenomeno che mette paura: negazionisti, xenofobi, razzisti lanciano proclami di odio da siti Internet di Antonella Amendola F inalmente sono finiti in manette in quattro, quattro seminatori di odio antisemita, quattro propagandisti della tristemente famosa supremazia della razza bianca. È la prima volta che succede nel nostro paese: la Procura di Roma, dopo accurate indagini della polizia postale e del pool antiterrorismo, ha assicurato alla giustizia i quattro organizzatori del forum Stormfront.org, costola italiana di quel sito Internet americano che i maggiori opinionisti degli Usa hanno definito «il più grande sito d’odio mai apparso su Internet». Stormfront è una sigla che debutta per la prima volta negli anni’90 e dal ‘95 è diventata un punto di riferimento per gli affiliati al Ku Klux Klan: in cima alla piramide dell’abiezione vi è Don Black, già membro del Partito nazionalista americano, un predicatore della peggior specie, abituato a diffondere grossolani falsi storici, un campione del negazionismo e del pregiudizio. Emuli di Don Black in terra nostra un ventiquattrenne di Milano, Daniele Scarpino, Mirko Viola, di Cantù, militante di Forza Nuova Lario, partito della destra radicale fondato da Roberto Fiore, Gianluca Cianfaglia, teramano di 23 anni, e Diego Masi, un trentenne di Frosinone. La polizia li ha colti con le mani nel sacco, intenti a propalare i loro veleni per via telematica e 17 perquisizioni in altrettanti appartamenti hanno rivelato la squallida cornice del loro delirio: croci uncinate, materiali neonazi, coltelli, librettistica senza alcun valore scientifico. «Come siamo riusciti a mettere un freno alla pedopornografia riusciremo anche a smascherare e zittire questi predicatori di razzismo, xenofobia, antisemitismo», dice Dome- Gruppo di Neonazisti italiani nico Vulpiani, direttore dell’Ufficio centrale ispettivo del Dipartimento di Pubblica sicurezza, eccellente e lungimirante uomo delle istituzioni il cui nome compare assiduamente, insieme a quello di Andrea Riccardi della Comunità di Sant’Egidio, nella lista nera di ebrei e amici degli ebrei che Stormfront diramava per evidente fine intimidatorio (Vulpiani si occupò del negazionista Irving). Il sito è stato oscurato, come si dice in gergo, ovvero non è più attivo. L’Italia finalmente si è decisa a operare con determinazione per contrastare la nuova criminalità via web: insieme agli adescatori di minorenni, ai venditori fraudolenti di beni solo virtuali, agli scommettitori d’azzardo, anche gli istigatori all’odio ideologico hanno scoperto quanto Internet faciliti il contatto con i più sprovveduti, ai quali si arriva con nomi in codice fasulli. Internet per l’investigatore è la landa dell’anonimato e dell’impunità? No di certo, incastrare i cervelloni dai quali dipendono i siti della predicazione aberrante si può: anche se il server, ovvero la centrale operativa, di Stormfront è in Florida, si può sempre procedere con una rogatoria internazionale. In ogni caso la costola italiana non nuoce più. Ci sono leggi e paletti, ma occorrono investigatori sempre più specializzati che collaborino a livello internazionale. «La Convenzione di Budapest del 2008 pone paletti alla criminalità che usa la rete informatica», spiega l’avvocato Joseph Di Porto, consigliere della Comunità ebraica di Roma, «e offre norme per la protezione dai reati legati al web. C’è poi il protocollo aggiuntivo di Budapest, che fa un passo ancora in avanti e stabilisce che il negazionismo, ovvero il volere negare o minimizzare la Shoah, è un crimine. L’Italia non ha ancora fatto suo il protocollo aggiuntivo di Budapest perché ferve la discussione tra i giuristi: secondo alcuni criminalizzare il negazionismo sarebbe una limitazione della libertà di pensiero». «Ma il negazionismo si può intendere come diffamazione collettiva di un intero popolo», osserva il giurista Giuseppe Corasaniti, sostituto procuratore generale presso la Corte di Cassazione. «Chi nega la Shoah lede l’identità di un gruppo e la dolorosa prova storica attraverso la quale l’identità di quel gruppo permane anche a futura memoria». Sia la 3 4 Attualità Costituzione italiana che la legge Mancino (1975) sostengono il diritto di ogni gruppo a vivere in sicurezza, senza discriminazione di religione, sesso, etnia, credo politico. Considerare oggi il negazionismo della Shoah (ma anche di ogni altro genocidio) un crimine perseguibile sarebbe logico corollario della nostra avanzata sensibilità di italiani, passati attraverso la dolorosa prova della lotta al nazifascismo per arrivare a una convivenza democratica. Ma quanti sono oggi i siti antisemiti? Tanti, troppi. In Francia, dopo la strage di Tolosa, si è appurato che l’attentatore aveva creato una rete di jihadisti e poi si era filmato. Anche a Firenze, dopo il raid di sangue contro i senegalesi, si è scoperto un collegamento via Internet tra facinorosi deliranti. La Rete è potenzialmente pericolosa: veicola l’aspirazione alla libertà nei punti caldi del mondo, ma anche contenuti tendenziosi che vengono considerati dai giovani alla stregua di oro colato. «Nel 2011 abbiamo avuto in tutto il mondo 400 episodi di antisemitismo», spiega Stefano Gatti, ricercatore presso il portale Osservatorio antisemitismo del Centro di documentazione ebraica contemporanea. «In genere i picchi si hanno quando in Medio Oriente cresce la tensione tra israeliani e palestinesi». Secondo Gatti in Italia si verificano ogni anno una cinquantina di episodi di antisemitismo: nel 2012 sono aumentati del 40 per cento. «L’antisemitismo galoppa nel cyber spazio», aggiunge il ricercatore. «Se agli inizi degli anni ‘90 i siti antisemiti erano 3 o 4 adesso sono almeno 100. E poi bisogna considerare i social network come Facebook, usato, per esempio, per diffondere teorie negazioniste da parte di Palladini, professore di filosofia di Torino, che è poi stato sospeso dall’insegnamento. Per dirne una, in un profilo Facebook sono apparse di recente terribili barzellette antisemite». Già, Facebook, il social network della condivisione: evidentemente non si può oscurare ed è molto impegnativo cancellare, previa richiesta ai dirigenti, contenuti antisemiti su questo tipo di web (2.0) sul quale gli utenti possono caricare loro contributi. Fronteggiare eventuali sbandamenti dei social network presenta difficoltà operative per il legislatore e l’inquirente, mentre è più facile oscurare il web di prima generazione (1.0 che funziona come una pagina di giornale. Dunque un centinaio di siti antisemiti, dei quali una trentina negazionisti. Se si computano anche i siti razzisti, sicuramente più di 100, e quelli xenofobi, numerosissimi, ci si rende conto di quanto il cyber spazio sia un trappolone per ragazzotti incolti e creduloni ai quali vengono propinati menzogne e libelli come Cristo, i cristiani, il Talmud, un testo del primo Novecento carico di odio, o i Protocolli dei savi di Sion, un clamoroso falso documentale che nel tempo ha nutrito tante fantasie. Secondo Gatti ci sono quattro tipologie di siti antisemiti. Prima tipologia i siti neonazisti e cattointegralisti, che raccolgono il maggior numero di adepti. Vanno per la maggiore Holywar, Terrasantalibera (gestito da un catanese aderente a Forza nuova), Ilcinghialecorazzato, che fa riferimento a scissionisti della Padania, Illombardista. Seconda tipologia i siti antisionisti, che fingendo di attaccare la politica dello Stato di Israele propalano slogan antisemiti. Terza tipologia i siti complottistici, echeggiati anche in blog molto diffusi: si sostiene che dietro alla crisi mondiale ci sarebbe la finanza ebraica. Quarta tipologia i siti negazionisti veri e propri. «Mi sono documentato sulla propaganda che si faceva in Germania prima della Notte dei Cristalli», dice Giuseppe Corasaniti. «Ebbene cose simili le ho viste su Youtube. C’è un attacco generalizzato alla legge, alla Costituzione, che nel suo articolo 2 garantisce la sicurezza di persone e gruppi. La recente aggressione al tifoso del Tottenham, avvenuta a Roma, deve far riflettere. Hanno cominciato a colpire le persone. Se la sono presa con un giornalista di Repubblica e tre magistrati di Palermo». Evidentemente è necessario un passo avanti nella legislazione. Colpire gli ebrei vuol dire colpire la diversità, perché nei campi di sterminio sono finiti omosessuali, zingari, oppositori politici, minoranze religiose. Bisogna impedire la circolazione via Internet di pubblicazioni tipo Come diventare nazisti, un testo che istiga alla violenza. «Ricordiamo che la polizia postale ha un Osservatorio per la sicurezza contro gli atti discriminatori (Oscad)», conclude Vulpiani. «È possibile fare segnalazioni. La collaborazione dei cittadini ci ha permesso di arrivare all’arresto di 52 persone e alla denuncia di 129. Siamo in piena controffensiva». Attualità La questione fascista nell’Italia di oggi di Andrea Barbetti Tra i numerosi e a volte inappropriati commenti al criminale e vergognoso attacco squadrista avvenuto in un pub romano a Campo de’ Fiori contro un gruppo di inglesi è stato faticoso trovare un’analisi davvero centrata sul reale problema che esso pone. Nel nostro paese purtroppo si dà colpevolmente un trascurabile peso politico, culturale, mediatico alla questione fascista dilagante. Non sono altro, infatti, che apologeti del fascismo quelli che negli ultimi anni, specie nella capitale, picchiano omosessuali, pestano stranieri, approfittano di un incontro di calcio preferibilmente internazionale per attaccare, malmenare e accoltellare persone di altra nazione. Sarebbe dunque bene chiamare tali figuri col loro vero appellativo: fascisti. Non tifosi, fascisti. Non a caso assaltano in gruppo ridotto singole persone o in branco numeroso alIl Pub devastato a Campo dei Fiori cune comitive, esattamente come nel recente episodio. Fascisti, non altro. Squadristi, non altro. Dunque inevitabilmente vigliacchi. Vigliacchi, al punto tale da sfruttare quel brodo socio-culturale che da sempre è genuina espressione dell’avvenimento sportivo, il tifo, in primis quello calcistico, il più popolare sport nostrano. Si nascondono dietro le insegne di una squadra di football (in qualche caso è rimasta coinvolta anche la nostra stessa nazionale) ben sapendo dell’automatico risalto mediatico e anche, paradossalmente, dell’assente o sciatta analisi politica che il fenomeno susciterà presso la maggioranza degli organi d’informazione. Molti tra i media etichettano, classificano tali violenti apologeti del fascismo in primis nella categoria dei tifosi. Sicuramente lo sono di Mussolini e delle leggi razziali, del braccio teso e del Mein Kampf, ma della squadra di calcio chissà se veramente. Bisognerebbe invece precisare come tali apologeti del fascismo utilizzino il calcio, in particolare quella terra spesso franca della curva romana, del tifo la sua anima popolare (anche per via di prezzi più accessibili alle esangui tasche del cittadino italiano) per rilanciare, amplificare ideali aberranti la cui manifestazione peraltro in Italia risulta reato; anzi risulterebbe, vista l’assoluta impunità con cui ciò invece avviene. L’attualità della visione di adriano olivetti di Stefano Volante* È stato definito come l’industriale più eretico e geniale del dopoguerra. Fatturati record, 36.000 operai felici, prodotti d’avanguardia in diversi settori dello scibile umano. Un pensiero poliedrico che approfondiva interessi in campo industriale, politico, estetico, associativo e ancora urbanistico, sociologico, letterario, filosofico aziendale, letterario, editoriale. Tutte le attività erano armonizzate secondo un unico disegno che Adriano Olivetti seguiva sempre in prima persona sino al raggiungimento del risultato positivo. Per i capitani d’industria che invece puntavano sull’industria pesante – auto e chimica – l’eretico di Ivrea era un “bubbone da estirpare”. E così fu: come molti grandi italiani, Adriano Olivetti fu incompreso, isolato e dimenticato. L’attuale debolezza della politica, espressa dai partiti sradicati dalla Società e dal territorio, riporta alla mente quanto quest’uomo disse illuminando per quasi mezzo secolo il palcoscenico mondiale: “Uno dei fatti più salienti nella storia degli ultimi decenni è certamente il decadere degli istituti parlamentari in tutti gli stati. La causa (..) deve ricercarsi nel progressivo evolvere della natura dei problemi sottoposti all’esame dei degli organi legislativi, che da un contenuto essenzialmente politico hanno assunto un prevalente contenuto economico e sociale”. Infatti “le procedure parlamentari (…) sono atte ad affrontare i problemi di carattere generale, mentre si prestano assai meno allo studio dei problemi la cui tecnicità esige la consultazione di organismi specializzati”. In questo modo, sin dagli anni ’50 Olivetti mette all’indice il problema della funzionalità e dell’immobilismo del Parlamento, approfondendo il fenomeno della partitocrazia (coniato da Maranini ) ed analizzando già allora le conseguenze degenerative sul livello di competenza, sull’autonomia e sulla rappresentatività reale del Parlamento, con l’effetto più grave della confusione dei poteri e della stasi dell’esecutivo. Come vediamo, Olivetti era in anticipo di diversi decenni sulla politica e sul pensiero dominante nel suo tempo. Sin dall’inizio tutta l’attività di Adriano fu tesa alla ricerca della partecipazione, del coinvolgimento e della crescita sociale dei Adriano Olivetti (Foto di Archivio) 5 6 Attualità lavoratori: il lavoratore è innanzitutto un essere umano, e va messo al centro di questo Rinascimento che stava investendo la fabbrica di Ivrea. Per oltre 30 anni Ivrea fu un fiorire di eventi culturali, mostre e proiezioni di film, vera fucina di idee che andò oltre il provincialismo e che lasciò gli operai finalmente fieri del proprio ruolo, segnando la nascita di una sorta di socialismo aziendale e reclutando i migliori intellettuali del tempo, tanto da diventare un cenacolo di primaria grandezza: scienziati, artisti, psicologi, filosofi, architetti vennero chiamati per cambiare le regole del gioco, migliorare la qualità della vita e salvaguardare il simbolo dell’innovazione, nel tentativo di valorizzare il lavoro, ricercare fiducia nei giovani, perseguire responsabilità sociale, costruire cultura e attenzione per l’ambiente per poter testimoniare come l’Olivetti sia stata per anni il simbolo in un’Italia nuova. Ma nella forma mentis di quest’uomo del Rinascimento impresa, cultura e politica rappresentavano un unicum plasmato da un’etica formidabile, che metteva al centro del suo mondo il benessere dell’uomo in tutte le sue forme. Secondo Olivetti, la nostra società, al di là del socialismo e del capitalismo, crede nei valori spirituali, della scienza e dell’arte, ma soprattutto, ritiene che gli ideali della giustizia non possano essere estraniati dalle contese tra capitale e lavoro, tanto da affermare che la sua impresa potesse essere un mezzo di elevazione e riscatto per l’uomo, e non solo un mezzo per raggiungere il profitto fine a se stesso ed alla crescita a tutti i costi. A chi pensava esclusivamente all’arricchimento facile, Adriano Olivetti contrapponeva una filosofia lontana dai soliti cliché di un’Italia capace solo d’arrangiarsi ma non di crescere e svilupparsi, visto che per lui la ricchezza era la crescita della società nel suo complesso, tutelando anche il territorio e difendendo le risorse ambientali. Contrapponendo il senso della Comunità ai particolarismi, il valore della società ai miopi interessi, la ricchezza che può derivare dallo sviluppo sostenibile alla povertà dello sfruttamento delle risorse, si può arrivare a comprendere una parte dello sconfinato lavoro umano di Adriano. Sognatore? Utopista? Molti lo hanno bollato in questo modo, non arrivando a comprendere la complessità del suo pensiero e delle sue ricerche che lo portavano oltre i ristretti confini aziendali, spinto da un’etica umana che lo portava a raggiungere altissimi risultati nei campi più disparati: per esempio quando negli anni trenta, da grande urbanista, elaborò una riflessione originale ed anticipatrice componendo il Piano Regolatore della Valle d’Aosta, frutto anche di soggiorni negli Stati Uniti e nell’Unione Sovietica. Con questo spirito, bisognerà raccogliere le parti migliori della Società, a prescindere dal proprio orientamento, per costruire un governo più efficiente, onesto ed innovatore, e ridare credibilità al Paese. Nel solco della missione etica e riformatrice di Adriano Olivetti. Fondamentale, oggi e sempre. È certo comunque che Adriano Olivetti unì delle indubbie capacità manageriali che portarono la Olivetti ad essere la prima azienda del mondo nel settore dei prodotti per l’ufficio con un’instancabile sete di ricerca e di sperimentazione su come si potesse armonizzare con l’affermazione dei diritti umani e con la democrazia partecipativa, dentro e fuori la fabbrica *Presidente di Communitas 2002- Cittadini per l’Etica nella politica Fabbrica dell’Olivetti ad Ivrea negli anni Settanta Ma è “Storia”? di Piera Tacchino Il 26 novembre la Rai ha trasmesso un servizio definito di “Storia” in cui venivano ampiamente illustrati i lavori di restauro di Palazzo Tittoni a Roma, danneggiato il 23 marzo 1944 dall’attentato partigiano di Via Rasella contro le truppe di occupazione tedesche. L’attuale proprietario, erede della famiglia che lo possedeva allora e ne aveva affittato il primo piano a Benito Mussolini nei primi anni del suo soggiorno romano, indicava i danni prodotti dall’attentato. Nel servizio della Rai non si faceva cenno ai motivi dell’attentato (le persecuzioni e la quotidiana intimidazione dei tedeschi) né alla conseguente rappresaglia nazista delle Fosse Ardeatine; molto tempo era invece dedicato al racconto della vita di Mussolini in quella residenza. Il Duce passava le serate a suonare il violino e il pianoforte, in compagnia di un cucciolo di leone, accudito dalla devota governante Cesira di cui egli sosterrà il mantenimento e le cure per tutta la vita. Le fotografie ritraevano Benito Mussolini magro, con i capelli, gli occhi un po’ svagati, il volto appoggiato al suo strumento preferito. Da anni riscuotono successo gli “aneddoti del passato”, senz’altro meno faticosi per il telespettatore-tipo della comprensione di un periodo storico e della realtà sociale e internazionale in cui gli avvenimenti si sono verificati; sono come una soap e quindi premianti sotto il profilo commerciale. Un servizio pubblico non dovrebbe spacciare questo genere di informazioni come “Storia”. Mi chiedo poi, specie in un momento in cui vi è alle volte del sostegno ai movimenti di estrema destra giovanili se il delineare un ritratto un po’ bohèmien di Mussolini non sia una vera e propria azione di propaganda rivolta ai giovani, specie se essi non sono in possesso di una seria e articolata cultura storica, ma confusi dal revisionismo che è presente nei libri scolastici, nelle università e ovviamente in rete. 7 Attualità ESTERI Fare i conti con la memoria storica Il Partito socialista francese si interroga su due temi cardine della storia recente del Paese: l’ antifascismo e il colonialismo. Ce ne parla qui Rama Sall, la combattiva dirigente che è alla guida del Movimento giovanile socialista francese di Giuseppe Pullara P arigi. “Dans cet immeuble le 19 Aout 1944 le Bureau du Conseil national de la Résistence et le Bureau du Comité parisien de la Libération redigèrent et lancèrent l’appel à l’insurretion national pour la libération du territoire”. Ai bordi del Quartiere Latino, rue de Bellechasse n.41 incrociando rue de Grenelle (VII Arrondissement), lo stabile progettato nel 1913 da Louis Plousey, sobrio ma elegante, fa da caposaldo ad ogni discussione su ciò che dell’ultima guerra contro i tedeschi deve essere ricordato in Francia. In questa casa, come ricorda la targa sulla strada, la Resistenza lanciò la sua grande offensiva contro i nazisti e gli stessi francesi che non si opposero al nemico. La memoria della nazione ha due facce: il cedimento alla Germania, la collaborazione. Ma anche il riscatto di chi volle scegliere un’altra strada, quella di resistere e combattere. Non è certo nuovo il tema della Memoria della seconda Guerra mondiale, per i francesi come per gli altri popoli europei. Ma ora, con il ritorno della gauche al governo, l’argomento sembra dover assumere una più fresca attualità. Rama Sall, 26 anni, origini senegalesi, è la parigina che da un anno guida il Movimento dei giovani socialisti (MJS), “autonomi ma non indipendenti” dal partito che ha mandato (52%) Francois Hollande all’Eliseo. Non si sottrae al delicato tema della “doppia memoria”, quella della Francia antinazista e quella della Francia collusa con l’occupante. Rama sviluppa volentieri le sue riflessioni sulla sensibilità dei francesi di oggi, giovani e non, di sinistra ma anche di destra, a proposito di ciò che accadde in Francia nei cinque anni di guerra. “La trasmissione della Memoria nei francesi –chiarisce subito- è un tema complesso. Il partito socialista vuole consolidare l’idea che alcune scelte fatte allora potevano essere diverse, che si poteva non arrivare al regime di Vichy. Tant’è che non pochi preferirono scegliere la Resistenza”. Una certa mentalità della gente comune, spiega la leader dei giovani socialisti, favorì l’avvento di Pétain. Oggi questo stesso atteggiamento si rispecchia genericamente nelle posizioni di Marine Le Pen che nelle ultime politiche ha raggiunto il 17% dei voti. “Ora più che mai, vedendo il pericolo di un’avanzata generalizzata della destra in Europa, il PS, tornato al governo della Francia, ritiene necessario che si torni a parlare di un periodo critico in cui il nostro Paese si era diviso tra chi si lasciò prendere da uno spirito collaborazionista e chi invece seguì il richiamo della Resistenza. Oggi noi socialisti vogliamo ricordare ai francesi che come accadde settant’anni fa ad una scelta “pétainiana” c’è la possibilità e il dovere di opporre una strada diversa: l’impegno per un’alternativa. Si, a sinistra”. Da studiatissime ricerche post-elettorali risulta che nel Nord-Est i francesi che votano per l’estrema destra sembrano riflettere i gravi problemi della disoccupazione, al Sud (Tolone, Avignone) agisce una diffusa propensione vicina al razzismo. L’Ovest del Paese, più moderato, ha ampie tradizioni socialiste che prosciugano la palude destrorsa. Nell’opinione diffusa tra i francesi del 2012 c’è poco spazio per il giustificazionismo, per comprendere le ragioni che condussero a Pétain e alla sua Francia “libera”. Anche a destra, sostiene Rama Sall, si critica quella che fu l’azione di sostegno al Maresciallo. “Il PS è sempre impegnato a ricordare a tutti che una minoranza fece allora la scelta giusta di opposizione: tra le tante conseguenze positive, nel dopoguerra, sono derivate anche le grandi opzioni di politica sociale che caratterizzano tutt’oggi il Paese, un aspetto della realtà francese apprezzato dall’insieme dei suoi cittadini”. Perfino dalla Le Pen che se da un lato approva il sistema di sanità pubblica, dall’altro dice che il programma di difesa della salute dovrebbe riguardare solo i francesi escludendo l’immigrazione. La Francia oggi “socialista” deve e vuole affrontare anche un altro tema scottante, che concerne la sua storia più recente: il colonialismo. Il caso Algeria, il rapporto con l’Africa. Ma non era stato già chiarito tutto con Mitterrand? Ogni cosa non è stata messa al suo posto? “La gauche è Rama Sall al congresso del Partito Socialista francese ancora impegnata a studiare a fondo un argomento come questo, in tutta la sua criticità. Del resto, ogni partito ha a che fare con quelle che furono le proprie scelte, per esempio, sull’Algeria. A quel tempo i socialisti erano per il mantenimento della colonia. Questo ci fa essere molto, ma molto critici sulle decisioni che il partito prese allora, anche se oggi il PS propende per la “storicizzazione” delle posizioni socialiste del tempo”. Un analogo atteggiamento che richiama il contesto delle condizioni politico-culturali di quegli anni sembra essere la via d’uscita dei francesi della stagione-Hollande dal tempo della vergogna, del collaborazionismo. I responsabili della formula Petain no, quelli sono duramente condannati. Ma per la gente comune viene applicata un po’ da tutti i partiti la franchigia storica. “La gauche è a posto: fece la scelta giusta e la fece subito per la Resistenza. Se siamo deboli sulla colonizzazione siamo forti sul periodo della guerra. La Memoria sta dalla nostra parte”. Eppure nell’ inconscio collettivo, resta il tema della “doppia Memoria” che riguarda il quinquennio bellico. La giovane dirigente socialista sottolinea che “si sente ancora il bisogno di parlarne nelle scuole, nelle università, se ne fanno film. Si scrive ancora molto su questo argomento difficile: vogliamo toglierci ogni dubbio. Anche per evitare che le ombre del passato si proiettino nel futuro”. E resta, chiara, la distinzione tra destra e sinistra, almeno in questo: “C’è chi vuole dimenticare tutto e chi, invece, vuole ricordare, capire fino in fondo perché la Storia non si ripeta”. I luoghi della storia 8 IL MONUMENTO ALLA RESISTENZA A MATERA di Mario Tempesta … segue da pagina 1 Case-grotta con strade tortuose molto strette e in pendenza, luoghi singolari, dove in un totale degrado delle forme di vita sociale, efficacemente descritte da Carlo Levi nel noto libro Cristo si è fermato a Eboli, vivevano fino agli anni Sessanta quasi quindicimila persone, trasferite poi in due moderni villaggi progettati in modo che permettessero - il più possibile - il mantenimento delle tradizionali esigenze di vita e di convivenza di quegli abitanti. Dopo il risanamento igienico-sanitario, questi luoghi, nel 1993, sono stati dichiarati dall’Unesco Patrimonio dell’Umanità. Ebbene, in questa singolare struttura urbanistica, in questa città, ora moderna ed internazionale, candidata per il 2019 a Capitale Europea della Cultura, il 21 settembre del 1943 è stato un giorno speciale, un giorno che ha coinvolto donne, uomini, bambini e anziani della città. Quel giorno i materani insorsero contro i nazisti pagando la rivolta con un notevole tributo di vite umane. Pastori, contadini, artigiani, commercianti, avvocati, impiegati, studenti, soldati, semplici cittadini offrirono la loro vita per liberare la Panoramica dei “Sassi” di Matera città dalla prepotenza del nazifascismo. Matera è stata la prima città del Mezzogiorno d’Italia ad insorgere contro il nazifascismo ed è stata insignita di medaglia d’argento al valor militare, come Bari, Barletta, Monumento alla Resistenza, Matera Bitetto, premiate con medaglie d’oro per la Resistenza o al merito civile. Ai materani va riconosciuta la decisa volontà di difendere i valori della democrazia e della libertà, come era già avvenuto nei primi 80 anni di storia unitaria. Ma quali furono gli avvenimenti del ’43? Dopo l’Armistizio dell’8 settembre, il Palazzo della Milizia Volontaria per la Sicurezza Nazionale, abbandonato dai fascisti, fu contemporaneamente occupato dai soldati tedeschi appartenenti al 1° Battaglione 1° Divisione Paracadutisti, comandati dal “tristo” maggiore Wolf Werner Graf von der Schulenburg. Durante la permanenza dei tedeschi di militari italiani, i cui fucili requisiti furono portati presso il campo sportivo. La situazione precipitò quando un soldato tedesco tentò di rapinare una gioielleria, dove ebbe la peggio. I materani testimoni dell’episodio uccisero l’aggressore e cercarono di nasconderne il cadavere. Subito dopo un altro militare tedesco che si trovava in una sala da barba fu accoltellato da un cittadino materano, che, appena compiuto il gesto, corse per le strade incitando i concittadini alle armi. I soldati tedeschi in formazioni motorizzate girarono per le strade della città sparando contro chiunque capitasse a tiro. Seguirono ore di vio- in città, la situazione si fece sempre più drammatica e a partire dalla metà del mese cominciarono gli arresti di civili e militari che i tedeschi rinchiudevano nel Palazzo della Milizia. Fermarono, circondarono e disarmarono anche un battaglione lenta guerriglia; il tenente Francesco Nitti, comandante del presidio militare italiano, per proteggere la cittadinanza, decise di armare sia i militari che i civili dislocandoli in varie zone strategiche della città, tra cui la Prefettura che i tedeschi cercarono I luoghi della storia 9 di assaltare. Ma dal campanile della chiesetta della Mater Domini un cittadino con fucili e bombe a mano fece fuoco sui nemici impedendo loro di avvicinarvisi. Altri lunghi momenti di guerriglia vi furono nei pressi della caserma della Guardia di Finanza, con i finanzieri accorsi in aiuto degli abitanti di Matera. Nei diversi conflitti a fuoco persero la vita altri materani e numerosi soldati tedeschi. Tra i civili cadde un farmacista, che aveva preso parte alla guerriglia sparando dalla finestra della sua abitazione, sita nei pressi della caserma della Guardia di Finanza, colpito dalle raffiche di mitragliatrice dei tedeschi; rimase ucciso anche il finanziere Vincenzo Rutigliano al quale è dedicata l’attuale Caserma cittadina. Per lasciare la città al buio i militari tedeschi assediarono anche il Palazzo dell’Elettricità e nelle operazioni di occupazione uccisero altri civili. Ma l’atto più tragico fu quello compiuto poco prima di abbandonare la città: fecero saltare in aria il Palazzo della Milizia, trasformato in una prigione, con al suo interno 14 persone, 8 soldati e 6 civili. Nell’esplosione morirono tutti coloro che vi si trovavano eccetto un soldato estratto vivo ma gravemente ustio- città ed evitò anche il suo bombardamento da parte degli alleati, che giunsero dopo quella tragica giornata. Per non dimenticarla nei luoghi ove si consumarono gli eccidi, Matera ha onorato la memoria dei suoi 24 caduti con un cippo in marmo nei pressi del Palazzo della Milizia, una lapide sulla facciata laterale della caserma della Guardia di Finanza, una lapide dove era il Palazzo della Società Elettrica ed, infine, una lapide sulla facciata laterale del Palazzo del Governo. Quest’ultima reca la scritta: “Nel tragico giorno del 21 –IX1943 mentre i tedeschi devastatori compivano orrenda strage di ostaggi innocenti il popolo materano sorto in armi cacciava il feroce nemico e col sacrificio dei suoi animosi figli si ridonava la libertà. Monito agli oppressori. Incitamento agli oppressi”. La lapide, che ricorda che la città è stata insignita della Medaglia d’argento al Valor Militare, ha la seguente iscrizione: “Matera prima città del Mezzogiorno insorta in armi contro il nazifascismo addita l’epico sacrificio del 21 settembre 1943 alle generazioni presenti e future perché ricordino e sappiano con pari dignità e fermezza difendere la libertà e la dignità delle coscienze contro tutte le prevaricazioni e le offese”. Per ri- della quotidiana azione per la pace e il rispetto dei diritti umani, è composta da 6 figure in bronzo, donate alla città dal suo autore, lo scultore, pittore e incisore veneziano, Vittorio Basaglia, artista di livello internazionale, che ha dedicato tutta la sua vita ad una continua ricerca sull’uomo, alla storia fatta di eventi drammatici individuali e collettivi. Diverse sue opere dal chiaro contenuto sociale sono esposte in alcune piazze italiane. Questa, dalle forme plastiche e simboliche in volumi rapidi e violenti, ricorda gli epiloghi avuti durante la Resistenza materana: la dissoluzione dell’uomo, un cavallo con il corpo di un uomo morto, le caratteristiche del popolo contadino lucano. Ammonimento ai rigurgiti nazifascisti che di nuovo attraversano il nostro Paese: ad essi occorre reagire con la stessa determinazione umana e politica in un quadro di salvaguardia del dettato costituzionale, di coesione sociale e solidarietà; ad essi occorre reagire continuando a ricordare, specialmente in questo momento così delicato sul piano politico, sociale ed istituzionale, le storie terribili di vita nazionale dove il pericolo era la morte e non le polemiche, dove la violenza non era verbale nato. Nella sua deposizione, questi affermò che nell’edificio c’erano 16 persone sebbene i cadaveri ritrovati fossero 13, di cui solo 10 identificati. L’insurrezione del popolo materano impedì ai tedeschi in ritirata di radere al suolo molti palazzi della cordare quella tragica giornata anche il campo sportivo cittadino è stato intitolato “Stadio XXI settembre”. Infine davanti al Palazzo Comunale è stato apposto il “Monumento alla Resistenza”. La scultura, lì collocata affinché sia simbolica testimone ma uccideva gli innocenti; ad essi occorre reagire alzando la bandiera della dignità degli uomini coraggiosi che si opposero alle offese e ai delitti. Esempi su cui riflettere in un mondo oggi così poco nobile e così egoista. 10 Cultura Belle come farfalle le sorelle uccise dal dittatore Mentre infuriano le violenze contro le donne ricordiamo le sorelle Mirabal, coraggiose protagoniste della lotta per la democrazia in America Latina di Giulietta Rovera R partono per fare loro visita. Il SIM intercetta l’auto, blocca il epubblica Dominicana, 25 novembre 1960. In fondo a veicolo, le tre donne vengono trascinate in una piantagione di un burrone, non lontano dalla città di Puerto Plata, canna da zucchero, massacrate di botte, violentate, pugnalate. viene rinvenuta un’auto: per i quattro passeggeri a bordo - Rufino de la Cruz, di professione autista, Patria, Minerva e Maria Teresa Mirabal – non c’è più nulla da fare. Le autorità liquidano sbrigativamente il fatto come infortunio, ma alla tesi dell’incidente non crede nessuno. Le sorelle Mirabal, infatti, sono leggendarie non solo per la bellezza, ma per la lotta senza quartiere che stanno conducendo contro uno dei più spietati dittatori della storia dell’America Latina, Rafael Trujillo. Erano nate alla fine degli anni Venti, poco prima che Trujillo salisse al potere. In un paese impoverito da una gestione personalistica della cosa pubblica, dove il tasso di analfabetismo è altissimo e il rispetto per i diritti delle donne inesistente, le sorelle Mirabal, appartenenti a una florida famiglia di commercianti e proprietari terrieri espropriata da un dittatore che non esita a trasferire i beni altrui nel proprio personale patrimonio, studiano. Patria, la maggiore (1924), sceglie arte e dattilografia; Dedé (1925) ottenuta la licenza alle superiori, aiuta il padre negli affari; Minerva (1926) si laurea in legge, ma avendo rifiutato le avances di Trujillo, le viene negato il diritto di praticare l’avvocatura; Maria Teresa (1936) si diploma in agrimensura. Ė Minerva la più impegnata, Manifesto della Giornata contro la violenza sulle donne lei che trascina le sorelle nella lotta per la Poi, per nascondere l’assassinio, viene simulato l’incidente. libertà e la democrazia e che osa sfidare il dittatore, sostenendo “Ho solo due problemi, la Chiesa cattolica e le sorelle Mirabal”, apertamente le proprie idee politiche. Per fermarle, il governo sosteneva Trujillo: mettendole a morte, crede di averne elimidà il via a una serie di rappresaglie, la polizia segreta le imprinato uno. Sbaglia. L’ondata di indignazione popolare risveglia giona, le tortura. Ma ogni volta che vengono rilasciate riprenle coscienze intorpidite dalla paura, dilaga, si ingigantisce. Il dono la lotta. Nel gennaio del ‘60 creano il movimento clande30 maggio 1961, la Chevrolet Bel Air blu a bordo della quale stino 14 Giugno - nome in codice Las Mariposas, le farfalle siede Rafael Trujillo viene mitragliata mentre si trova in una - che si oppone al regime di Trujillo, responsabile di atrocità e zona poco lontana dalla capitale. Con l’eliminazione del dittamassacri: si parla di 50.000 morti in un paese che contava potore la repubblica dominicana dà finalmente inizio al lungo, chi milioni di abitanti. Il SIM (Servico de Inteligencia Militar) non facile, faticoso cammino verso la democrazia. In onore di ne individua i membri, li perseguita, li incarcera nel penitenPatria, Minerva e Maria Teresa Mirabal il 17 dicembre 1999 ziario La Victoria a Santo Domingo: tra questi Minerva e l’Assemblea Generale delle Nazioni Unite approva con voto Maria Teresa con i rispettivi mariti. Carcere, nella Repubblica unanime la risoluzione 54/134, con cui sceglie il 25 novembre Dominicana, è divenuto ormai sinonimo di morte: nessun poquale “Giornata Internazionale per l’eliminazione della tere è infatti tanto spietato come quando sente che sta volgendo Violenza contro le Donne”. Dedé è l’unica sopravvissuta verso la fine. Quanto accade nell’isola caraibica è però un fatto delle sorelle: ha dedicato tutta la sua vita a far sì che il ricordo noto anche all’estero, in particolare negli Stati Uniti, che, se delle loro appasionate lotte non venisse appannato dal tempo e nel passato hanno protetto il dittatore, ora non vedono l’ora di i loro ideali fossero realizzati. liberarsene. Cedendo alle pressioni internazionali, Minerva a Maria Teresa sono rilasciate, mentre i loro mariti vengono trasferiti nel carcere di Puerto Plata. Il 25 novembre 1960, Patria, Minerva e Maria Teresa 11 Cultura Per l’amica umiliata e offesa Un ricordo di Laura Conti, umanista e scienziata di valore, vittima di stupro da parte degli aguzzini fascisti di Domenico Tarizzo P arlare di Laura Conti vuol dire anche scegliere una parte del nostro passato che continua a ferirci, talvolta, con la sua estraneità, ma anche a rivelarci qualcosa di dimenticato, rimosso, modificato. Mi vengono in mente tre date: nel 1963 Laura pubblicò con Einaudi il suo primo romanzo, Cecilia e le streghe, che io trovai bellissimo, misterioso e diverso. Nel 1964 io pubblicai con Rizzoli La pelle del verme. Lei, l’anno successivo, il suo secondo romanzo con Mondadori, La condizione sperimentale, basato sulla sua esperienza del campo di concentramento nazista. Non mi piacque come il primo, lo trovai buio, angosciante, e non poteva essere altrimenti, e la scrittura burocratica, perfettamente adeguata alla struttura del Lager, una continua fonte di incubo. Nella città dove abitavamo, Milano, il denaro era, legato al potere allora come oggi, il dominus di tutte le azioni, a ogni livello sociale. Persone di buona volontà reagivano organizzando lezioni sulla storia dell’antifascismo, si mobilitarono gli insegnanti della scuola pubblica, si fecero parlare i testimoni. Io scrissi e pubblicai una storia dei campi di sterminio nazifascisti, «invenzioni della propaganda» esclamò un giovane fascista dopo un dibattito, tirandomi, per spiegarsi meglio, un calcio all’inguine e una piccola coltellata: schivai entrambi, la solita fortuna. Il mio libro sui Lager uscì nel ‘64: l’anno dopo Laura pubblicò, sullo stesso tema, La condizione sperimentale. In un Lager di transito, nell’inverno del ‘44, un ufficiale delle SS tenta un esperimento di vita meno disumana, e fallisce. Laura anche in quei frangenti non dimenticava di essere uno scienziato: «Un campo di concentramento è una condizione sperimentale un Laura Conti laboratorio in cui viene preparato un terreno sterile, spoglio di circostanze accessorie e incidentali via i batteri, via i sentimenti, solo la struttura SS e l’internato. La pietra di paragone è sempre uguale e assoluta, è la morte». Parlava di cose che conosceva bene. Durante la Resistenza era una bella ragazza di circa vent’anni (era nata a Udine nel 1921), aveva un incarico difficile e rischioso: accostare i giovani alpini della Monterosa, indurli a disertare dall’esercito di Mussolini e passare coi partigiani. Un giorno, a Genova, venne arrestata. Passò per il solito calvario, botte, torture, e per lei che era una bella ragazza i torturatori fascisti aggiunsero lo stupro. Per me non era stato difficile diventare antifascista. Lo era mio padre, che era andato volontario sul Piave nella prima guerra mondiale a 18 anni. E poi con D’Annunzio a Fiume. Figlio di emigranti era un patriota, non un nazionalista. Seguace di Giacomo Matteotti odiava e disprezzava tutto ciò che era fascismo. Certo, avevo anche due zii amici di Mussolini, uno addiritttura nell’Ovra, l’altro nella diplomazia. Quando scoppiò la seconda guerra mondiale avevo 10 anni. Ho vissuto tutto l’orrore del fascismo di Salò. Ricordo le parole di un amico giornalista, Giancarlo Fusco, a proposito di Laura: «Entrò a Marassi una bella ragazza di vent’anni e ne uscì una povera vecchia irriconoscibile». Comunque, Laura si riprese; divenne, dopo la Liberazione, se non una bella ragazza una signora, come usa dire, molto interessante. Non portava rancore a nessuno; al massimo dei suoi avversari diceva, quasi in un mormorio: «Sono rimasti stalinisti». Lavorò come medico e consigliere al Comune di Milano. Visitava gli ospedali, i ricoverati. Si era specializzata in traumatologia e per lei essere medico ed essere comunista voleva dire dare una mano a chi soffre. La sua Cecilia è una contadina toscana, malata terminale, che sale a Milano in cerca di salvezza. Laura era una donna silenziosa, molto intelligente, semplice nei modi, ma non populista: nel romanzo l’io narrante, un medico, vorrebbe che Cecilia capisse che non può più farle le ricette di morfina, che la ucciderebbe. La malata è colta nella sua umanità fidente, ma anche nella sua arretratezza che cerca salvezze tipo Lourdes. Alla fine il dialogo tra le due donne diventa impossibile. Scriveva l’autrice: «Volevo togliere l’ammalato dalla concezione comune, una persona senza più possibilità di vivere storia, di fare storia, ma solo di morire». Ccilia non può più fare storia, non ne ha gli strumenti, la diseguaglianza insegue gli esseri viventi fin dentro l’ultima speranza. Il compito dell’intellettuale che si vuole comunista resta quello di non mentire, soprattutto di fronte all’ultimo, definitivo scandalo della morte. Anche delle misere dosi di morfina una Milano periferica, miserabile, riesce a fare denaro. Passando su tutto come i grandi trafficanti, calpestando tutto, illudendo i più sprovveduti, e in certe circostanze siamo tutti molto sprovveduti. Eppure ancora non costretti ad arrenderci. Progettammo di scrivere assieme un libro sulle classi sociali nella Resistenza. Lo scrivemmo, invece, separatamente. Nella Pelle del verme io parlavo della nuova Milano anglofona e volgare del dominio publicitario, Laura della violenza quotidiana che si esercita a San Babila e fuori. La ammiravo molto. Era stata in gioventù particolarmente amica di Lelio Basso, ma non uscì mai dal Pci, almeno nell’anima, e ricordo che un giorno, parlavamo della stampa del ‘68 e lei definì «quella rivistaccia!» i Quaderni piacentini. Era fedele nel cuore e nei pensieri, minimizzava i suoi meriti e fu soltanto quando il governo di destra della neonata seconda repubblica regalò una vile assoluzione ai fascisti e al fascismo che Laura reagì dichiarando, sobriamente ma interamente, il trattamento subito dai torturatori di Salò. 12 Cultura Fino a quel momento, infatti, non lo aveva mai ammesso. Anzi, parlava di un comportamento «corretto» dei suoi torturatori. Insisteva sulla «fortuna» di essere scampata, con altri, alle torture. Si aprono in queste latitudini psichiche misteri dell’animo umano in cui non è agevole né, forse, lecito incamminarsi. Il pudore avvolgeva i rapporti, un pudore così diverso dalle esibizioni attuali. E poiché la prassi della tortura è particolarmente odiosa quando umilia una donna, mai avremmo pensato che continuasse, in luoghi appositi, ai danni di giovani scriteriati e sventurati che per un arresto della razionalità avevano orecchiato la rivoluzione al tempo delle brigate rosse. Anche allora c’erano tormentatori specializzati, e soddisfatti, se a nulla valsero interrogazioni parlamentari, interventi dell’Europa e di Amnesty International perché venisse fatta luce sulle «ville tristi», non di Salò, ma della repubblica italiana democratica. Com’è facile umiliare una donna, in qualsiasi regime. Lo pensavo guardando, quasi senza farmi accorgere, il bel volto sereno di Laura Conti. Ma quante giovani donne subirono - subiscono? - la sua sorte, invece di essere accompagnate con l’affetto anche critico che si deve, che la democrazia deve, ai più inermi, ai più ingenui, ai più sprovveduti? Certo, questo è un discorso utopico, forse mai realizzabile. Ma come può essere coeso un corpo nazionale senza questo rispetto istituzionale? E perché nessuno, o troppo esiguo gruppo, ne parla? Laura Conti non è solo la ragazza friulana offesa, è una ferita dell’Italia antifascista che non si rimargina. Nessuno è soltanto se stesso, se appena la sua sorte varca i confini beati del quieto vivere. Laura Conti nel dopoguerra aveva sempre abitato in periferia. Non sopportava gli stupidi e i volgari della nuova Milano e conservava degli anni giovanili una curiosità intatta per gli aspetti meno prevedibili della vita. Cercava di non fare del male a nessuno, semmai il contrario. Diceva: «Ci pensa già la vita a fare del male alle persone». La vecchiaia fu dura con lei. Si appesantì e si muoveva a fatica. Nella sua ultima dimora viveva con 17 gatti, sempre pronta a mobilitarsi per una causa che riteneva giusta. Così ritornò in politica, e a Roma, a Montecitorio, eletta, se ricordo bene, in una lista ecologista. Il ‘68 ci aveva fatti perdere di vista: a lei piacque molto meno che a me. Ma poi riconcordammo. Ora giace in una tomba spoglia al Cimitero Maggiore di Milano, non nel Famedio, ove pure sostano non pochi imbelli. Ma lei non si sarebbe lamentata dell’oblio. D’altronde, la sua è la sorte che questa città riserba alle donne intelligenti, inconsuete, capaci di ignorare il cogente, cosiddetto fascino del denaro. L’ODORE SELVAGGIO DELLA NOTTE di Maria Scarfì Cirone Narra la storia vera di un anarchico spezzino, Dante Carnesecchi, che ha operato ai primi del novecento ad Arcola. L’autenticità dei fatti, riportati con accuratezza attraverso documenti e testimonianze d’epoca, conduce alla conoscenza di eventi che infiammano il protagonista di questa storia ed i suoi amici in un contrasto violento con coloro che rappresentavano lo Stato e le Istituzioni. È un percorso impervio, a volte spietato, in bilico fra speranza e disperazione. Solo apparentemente lontane appaiono le immagini di due donne, la madre del carabiniere ucciso e la madre dell’anarchico trucidato. Unite dal destino dei loro figli conoscono lo stesso strazio, lo stesso amore. «Dante Carnesecchi è una delle più belle figure dell’individualismo anarchico. Alto, vigoroso, pallido e bruno. Occhi taglienti e penetranti di ribelle e di dominatore. Ha l’agilità di un acrobata ed è dotato di una forza erculea. Ha ventotto anni. È un solitario ed ha pochissimi amici. L’indipendenza è il suo carattere. La volontà è la sua anima. Nelle conversazioni è un vulcano impetuoso di critica corrodente. È sarcastico, ironico, sprezzante [ ]. È un anarchico veramente individualista». ( R e n z o Novatore articolo del 7 ottobre 1920, da Il Libertario) «Tra quella nidiata d’aquilotti libertari che dai colli arcolani, dominanti a mezzogiorno la conca azzurra del golfo di Spezia e a tramontana la vallata del Magra, spiccavano il volo verso tanti quotidiani ardimenti, si distingueva sopra tutti Dante Carnesecchi. Alto, atletico, volto energico, parco di parole, rapido nel gesto, tagliente lo sguardo una giovinezza creata per l’azione, e nell’azione interamente spesa Non aveva amici, non ne ricercava: non affetti, mollezze, piaceri. In seno alla stessa famiglia viveva senza vincoli. Verso la madre, come verso le sorelle che lo adoravano, si comportava con la freddezza di un estraneo Nessuno poteva esercitare un qualsiasi ascendente su di lui. ». (Auro d’Arcola, da L’adunata dei refrattari. I nostri caduti: Dante Carnesecchi dell’11 maggio 1929) MARIA SCARFÌ, autrice di ventisei opere edite. Il volume è stato presentato l’8 novembre presso presso il Centro Sociale E. Bassano di Arcola (Sp) da Emiliana Orlani, Assessore alla cultura del Comune di Arcola, Paola Baldini, Assessore alla Cultura del Comune di Vezzano Ligure e Giorgio Neri, storico. 13 Cultura Che coppia il garibaldino e la femminista Nel libro di Vincenzo Teti Il patriota e la maestra la storia di un amore appassionato che divenne sodalizio politico di Giovanni Russo Vito Teti, che insegna antropologia culturale nella facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università della Calabria, è un accademico che non risente delle caratteristiche attribuite quasi sempre alla categoria. Fondatore del Centro di antropologia e di letteratura del Mediterraneo, unisce allo studio e ai saggi strettamente scientifici l’attenzione per la società meridionale. Accanto a libri come quello intitolato Il pane, la beffa e la festa. Alimentazione e ideologia dell’alimentazione nelle classi subalterne e Il colore del cibo. Geografia, mito e realtà dell’alimentazione mediterranea si è dedicato a realizzare reportage fotografici e documentari etnografici nella regione in cui è nato, la Calabria. Vogliamo citare tra gli altri suoi testi Il senso dei luoghi, memorie e vita dei paesi abbandonati e Storia del peperoncino, ambedue pubblicati per l’editore Donzelli. La sua capacità di fondere la ricerca scientifica con l’interesse per la realtà umana e sociale emerge in questo ultimo libro Il patriota e la maestra (Quodlibet editore). Teti ricostruisce la storia d’amore tra il calabrese Antonio Garcea, che per la sua lotta contro i Borboni fu rinchiuso più volte in carcere, e Giovanna Bertòla, giovane maestra piemontese, fondatrice di un giornale che potremmo definire femminista, intitolato La voce delle donne. Questo libro, come scrive lo storico francese Maurice Aymard nella prefazione, è anche “un grande libro di storia, nel senso più forte della parola”. Vito Teti si è identificato con la vicenda umana dei personaggi. E’ riuscito a darci come in un romanzo la straordinaria storia del rapporto tra i protagonisti che si intreccia alle lotte per il Risorgimento in Calabria. Così scrive Aymard nella prefazione: “Lui, nato nel 1820 in Calabria, a San Nicola di Vallelonga, ha alle spalle sia l’esperienza delle lotte del Risorgimento nel Regno di Napoli, sia quella delle guerre degli anni 1859-1861, combattute nell’esercito sardo e poi accanto a Garibaldi. Lei, nata nel 1843 in Piemonte, a Mondovì, lo sposa a diciotto anni. Antonio Garcea e Giovanna Bertòla si sono incontrati quasi per caso, hanno fondato una famiglia e proseguito insieme le loro carriere personali dal Nord al Sud dell’Italia, da Empoli a Parma, da Messina a Vasto a Velletri, fino ad arrivare a Reggio Calabria e Catanzaro, le due città dove lui, già ufficiale dell’esercito italiano, poi impiegato nelle ferrovie, e lei, pedagoga, fondatrice e responsabile di scuole femminili, vengono destinati senza mai poter tornare a lungo nelle loro piccole patrie familiari”. Vito Teti comincia il libro con un ricordo della sua infanzia: vide nella casa comunale del suo paese, San Nicola da Crissa, una teca che conteneva un pezzo della aorta di Carlo Poerio, uno dei principali protagonisti del Risorgimento, cui Benedetto Croce ha dedicato uno dei saggi più importanti. Questa reliquia è stata conservata dai discendenti di Antonio Garcea, che fu compagno di lotta del 14 Cultura Poerio. Come osserva Teti, la memorialistica risorgimentale diffonde il culto dei nuovi martiri: coloro che sacrificarono la vita in nome della religione della patria, che morirono per l’indipendenza e l’unità dell’Italia, hanno preso il posto dei santi. In polemica con il revisionismo di alcuni storici come Giordano Bruno Guerri, autore del libro Il sangue del Sud, Teti sottolinea che il sangue del Sud non è solo quello dei briganti, ma anche quello delle loro vittime e ancora prima dei giacobini e dei patrioti antiborbonici. Poi sarà il sangue degli emigranti. Infine, nel Novecento, quello dei contadini uccisi mentre chiedevano terra e libertà, a Portella della Ginestra e Melissa. L’autore descrive l’insurrezione e gli avvenimenti del ’48, di cui sono protagonisti nobili e borghesi che contrastano l’antica aristocrazia parassitaria e che vogliono un profondo mutamento sociale. Per narrare la lotta di Antonio Garcea contro i Borboni, Teti attinge alla testimonianza di Giovanna Bertòla, che ha raccolto in un libro i racconti del marito. Per ottenere dal Borbone la Costituzione, Garcea aiuta i cospiratori nella lotta antiborbonica che si sviluppa tra Roccella e Reggio, con particolare intensità nel distretto di Gerace. Il generale Ferdinando Nunziante arriva con le truppe borboniche che compiono una dura repressione soprattutto a Gerace, dove il principale avversario è proprio Garcea. Scrive Teti: “A Reggio la Commissione militare aveva condannato a morte quattro rivoltosi. A Gerace, il 1˚ ottobre, destino analogo per i giovani capi della sommossa del distretto, Michele Bello, Rocco Verduci, Gaetano Ruffo, Domenico Salvadori, Pietro Mazzoni. Tutti formatisi a Napoli, dove studiavano giurisprudenza, saranno fucilati il giorno successivo e i loro corpi, in segno di disprezzo, gettati nella lupa, la fossa comune”. L’importanza del libro sta nel fatto che ci fornisce il quadro di un Mezzogiorno che non fu passivo. Anzi. Il ’48 a Napoli e in Calabria vide un movimento al quale parteciparono i ceti popolari, come dimostrano i morti negli scontri del 15 maggio del ’48 a Napoli, dove Francesco De Sanctis combatte e dove muore sulle barricate il giovane studente lucano Luigi La Vista. Lo scontro con le truppe borboniche, che hanno la meglio, è durissimo e si conclude con oltre cento morti e cinquecento feriti. Antonio Garcea viene catturato e, insieme ad altri prigionieri, incatenato e portato a Napoli dove saranno tutti imbarcati e tradotti nel carcere di Procida. L’idea che i meridionali non hanno saputo lottare per il Risorgimento è stata ed è ancora ampiamente condivisa. A questo proposito mi si scuserà se faccio un riferimento personale: nel mio libro E’ tornato Garibaldi, proprio a proposito della spedizione dei Mille, scrivevo che molti meridionali avevano partecipato al Risorgimento nel Sud. Indro Montanelli, recensendolo, sostenne che invece essi non vi avevano affatto preso parte. Se si pensa al numero dei morti, dei feriti e degli imprigionati durante e dopo il ’48 si capisce quanto fu alto il prezzo pagato dai patrioti meridionali che si opponevano ai Borboni. A proposito della prigionia inflitta a Garcea e Carlo Poerio, Teti ricorda come nacque il pamphlet del conservatore inglese Gladstone, che denunziava la violazione dei diritti degli imputati e dei prigionieri e descriveva il regno delle Due Sicilie come la negazione di Dio e la sovversione di ogni idea morale e sociale. Il pamphlet fu alla base di uno scandalo internazionale. I Borboni pensarono di chiudere il caso trasferendo in Argentina i prigionieri, tra cui Antonio Garcea. Essi vennero imbarcati su una nave americana diretta in Argentina: è molto interessante il racconto che Antonio Garcea fa alla moglie Giovanna su come essi riuscirono a far cambiare rotta alla nave e a dirigersi invece verso l’Irlanda, cosicché i prigionieri sbarcano a Queenstown dove vengono liberati. Antonio Garcea lascia l’Irlanda e raggiunge Torino, dove ottiene di far parte dell’esercito piemontese. Siamo nell’agosto del 1859. Nel 1860 c’è la spedizione dei Mille. Garcea dal Piemonte raggiunge la Calabria e lancia un messaggio che invita i calabresi a partecipare all’insurrezione contro i Borboni. Si unisce così al gruppo dei volontari calabresi che faranno parte della spedizione dei Mille nei reparti comandati da Bixio. Protagonista della seconda parte del libro di Teti è la moglie di Garcea, Giovanna Bertòla, che raccoglie le memorie del marito e le sue vicende sotto i Borboni in un libro pubblicato a Torino. Dopo la guerra la coppia si trasferisce a Parma, dove Giovanna fonda una rivista intitolata La voce delle donne. Il giornale, che ha come programma quello di parlare dei diritti e dei doveri delle donne, è una novità assoluta in quel momento e in quegli anni. Sostiene infatti le idee rivoluzionarie di uguaglianza tra maschi e femmine e il diritto delle donne all’istruzione e al voto. La rivista, in un primo momento, riceve una buona accoglienza anche da parte della stampa moderata. Quando però affronta il tema degli effetti negativi sulle donne dell’educazione religiosa viene condannata dal Vescovo di Parma e quindi boicottata sia dai cattolici, sia dai giornali progressisti e liberali. Giovanna Bertòla si trova quindi isolata e in difficoltà economiche: dopo due anni è costretta a chiudere il giornale. Decide allora di dedicare tutte le sue forze alla battaglia per l’istruzione femminile e si impegna nella fondazione di scuole per le donne. Questo saggio ha il merito di smentire molti luoghi comuni che ancora sopravvivono sulla società e sui problemi del Mezzogiorno. Ci illumina su aspetti della storia del Risorgimento del Sud trascurati dalla storiografia ufficiale e chiarisce le motivazioni di fenomeni quali quelli del brigantaggio, che storici revisionisti vorrebbero presentare come una ribellione caratterizzata da ideali politici. Ed è un contributo fondamentale alla comprensione delle vicende storiche e politiche che caratterizzarono il Mezzogiorno durante il Risorgimento e successivamente nella costruzione dello Stato unitario. Cultura 15 Un politico ad arte In mostra opere di Maurizio Valenzi, l’antifascista torturato con l’elettricità che ammirava Picasso e Modigliani di Antonella Amendola Panoramica di Napoli dipinta da Maurizio Valenzi M olto spesso, nel corso di una riunione politica, o mentre sedeva al suo scranno di parlamentare, tirava fuori dalla tasca della giacca piccoli album di carta porosa e via con la matita a tracciare in segni rapidi, incisivi, ma non beffardi o caricaturali, le fisionomie dei suoi interlocutori. Maurizio Valenzi è stato un disegnatore eccellente: sapeva, anche con pochi tratti, evocare la tensione psicologica dei volti che abbozzava, quasi a futura memoria, per dipinti di là da venire (che magari non hanno mai visto la luce) o come il registro diaristico di quella composizione sonora, fatta di tanti contrappunti, che è la discussione politica. Una bella mostra alla Provincia di Roma (dal 7 al 28 novembre), curata per conto della Fondazione Valenzi dallo storico dell’arte Claudio Strinati, ha sottolineato l’intima coerenza del percorso di un artista che abbracciò la politica nella sua accezione più alta di impegno in nome di una compiuta visione umanistica della storia e dei destini umani. Valenzi, come ha ricordato anche il suo vecchio e caro amico Giorgio Napolitano, che ha inaugurato la mostra, «era un impasto singolare, aveva una visione non meschina e non settaria della politica che trovava respiro in altre fonti, come la cultura e l’arte». Chi era quel signore dalla conversazione affascinante e così amabile da conquistare la regina Elisabetta in visita a Napoli durante il suo mandato di primo cittadino? Cominciamo col dire che Maurizio si chiamava Valensi: il cognome fu storpiato in Valenzi nel ‘44 da un impiegato dell’anagrafe del capoluogo partenopeo, come lui stesso ha raccontato nel libro C’era Togliatti, acuta ricostruzione della svolta di Salerno nella quale l’aneddotica ha quasi il gusto di pennellate. L’artista e uomo pubblico proveniva da una famiglia ebraica di origine livornese che da diverse generazioni si era stabilita in Tunisia. Lì, nel Nord Africa, a Tunisi, Maurizio vide la luce il 16 novembre 1909 (morì quasi centenario ad Acerra il 23 giugno 2009). Iniziò presto a dipingere e si formò all’Accademia di Belle Arti di Tunisi, diretta dal professor Vergeaud. La sua capacità di osservare, della quale l’inclinazione al disegno è felice conseguenza, la sua voglia di sperimentare, nutrita da curiosità onnivora e trasversale alle discipline umanistiche, lo portano nel solco delle correnti di avanguardia. Mentore del suo percorso è il pittore Moses Levy, compagno di strada Antonio Corpora con il quale tra il ‘30 e il ‘31 tenne aperto uno studio a Roma dove transitavano gli amici pittori Carlo Levi, Fausto Pirandello e Adriana Pincherle, sorella di Alberto Moravia. Espone al Salon Tunisien, a Roma, a Parigi, ma solo quando torna in patria nel ‘32 e si iscrive al Partito Comunista Italiano la sua iconografia pittorica si delinea più libera rispetto ai modelli, più personale e seduttiva. In quel Eduardo De Filippo e il “teatro” napoletano in un dipinto di Maurizio Valenzi 16 Cultura periodo, infatti, mentre fa attività politica tra i braccianti di Sfax e di Djerba e promuove nella zona di Chiffar la ribellione contro i grandi agrari europei, racconta magicamente in una serie di dipinti e di disegni quel mondo esotico e al tempo stesso sofferente. Purtroppo molti di quei lavori sono andati perduti, ma bastano i disegni dedicati alla vita dei beduini della tribù Zlass per rimanere incantati: politica e arte a braccetto, un segno sintetico che non si fa mai bozzetto di genere perché prevale l’afflato umanistico, la voglia di testimoniare per cambiare, ecco il carattere distintivo di Valenzi artista. Nel periodo successivo della sua vita, a Parigi, nel ‘37, dove collabora alla Voce degli italiani, diretta da Giuseppe Di Vittorio, Maurizio si confronta con i protagonisti della nuova cultura francese, Tristan Tzara, Paul Eluard, Aragon, studia l’opera degli impressionisti, ma anche di maestri come Modigliani e Picasso dei quali apprezza, in particolare, l’approccio rivoluzionario al ritratto, non più banalmente naturalista, ma complesso, emozionale, introspettivo, nutrito di segmenti che hanno quasi un loro autonomo piglio architettonico. Il ritratto della moglie Litza Cittanova, esposto alla mostra romana, rimane un caposaldo del lavoro di Valenzi. Non meno bella la tempera dedicata a Loris Gallico, con i suoi particolari eleganti, sofisticati, Ritratto della moglie Litza, opera di Maurizio Valenzi che richiamano figure letterarie di Paul Bowles. Tuttavia il sacro fuoco si coglie proprio nello spezzone più doloroso dell’avventura esistenziale di Maurizio Valenzi. Quando viene incarcerato a Lambèse in Algeria e condannato ai lavori forzati, dopo essere stato torturato con l’elettricità dagli aguzzini del regime di Vichy, dedica ai compagni di prigionia disegni bellissimi: si coglie nelle posture allungate dei detenuti, costretti, in poco spazio, a un simulacro di vita sociale, quasi una condivisione della tenda beduina; è l’ora del patimento anche per i bianchi, la resitenza ai carnefici, espressione della classe coloniale sfruttatrice, accomuna tutti, braccianti e intellettuali. Valenzi non abbandonò mai la pittura, anche quando era molto preso dall’impegno politico: fu eletto senatore del Pci per tre legislature, dal 1953 al 1968, si occupò di esteri, di Vigilanza Rai. Tuttavia la sua ispirazione si rinnova proprio dopo il fatidico ‘68 che lo porta a riconsiderare le spinte propulsive e convulse dei moti rivoluzionari. Nel corpus del suo lavoro troviamo due temi, la Rivoluzione francese e la Rivoluzione partenopea, declinati con composizioni dalle tecniche miste fitte di protagonisti, di tocchi di colore, di profili ora arguti, ora imperiosi e arroganti che nulla di buono lasciano presagire. Cappelli, costumi, pennacchi, concitazione: sembra che la congestione di sentimenti eccessivi si spinga fino a lambire i margini delle opere; una rivoluzione non è un pranzo di gala, come diceva Mao, ma assomiglia parecchio a una messinscena teatrale dove i primi attoi sgomitano per avere le battute migliori. Che contrasto tra un certo imprevedibile caos di luminarie e quell’aristocratica solitudine dei prigionieri distesi sulle brande del carcere algerino! Come sono densi e complessi i percorsi della politica. Quante cose sapeva Maurizio Valenzi, maestro d’arte e di democrazia. Memorie L’enigma della morte di Giangiacomo Feltrinelli di Ferdinando Imposimato N el mio libro La repubblica delle stragi impunite (Newton Compton editori), parlo anche di lui. Indagando su Giangiacomo Feltrinelli, ho scoperto una verità molto diversa da quella ufficiale, secondo la quale l’editore morì mentre tentava di collocare una bomba su un traliccio di Segrate. Quando per la prima volta vidi in Pretura, a Milano, il rampollo di una delle dinastie industriali più importanti d’Italia mi apparve un uomo fisicamente fragile, timido e vulnerabile, non sprezzante e superbo. Era rispettoso delle istituzioni, un utopista della rivoluzione, che riteneva strumento di difesa contro l’attacco neofascista del quale egli stesso era diventato bersaglio. Venne denunziato per l’attentato del 12 dicembre e ancor prima per quelli della primavera-estate dello stesso anno, ma era totalmente estraneo a quei lugrubri fatti. Con la certezza ossessiva, dell’imminenza del colpo di Stato di marca neofascista e della necessità di preparare la resistenza armata, ispirandosi al modello della Resistenza, creò i gap, Gruppi di Azione Partigiani. Ebbe contatti anche con le br, ma la conclusione di Curcio e Franceschini era stata che «accordi con Osvaldo-Feltrinelli erano impossibili».. Per le sue idee rivoluzionarie, Feltrinelli venne messo fin dal 1948 sotto controllo dai servizi segreti militari (sifar e sid) e civili (Ufficio Affari Riservati). All’indomani della strage di Piazza Fontana entrò nel mirino di D’Amato: perquisirono il suo studio. Ma a quella data lui era già in Austria. Sarebbe rientrato da lì – penso su probabile invito di Marco Pisetta, collaboratore degli apparati di sicurezza, – il giorno della sua morte, il 14 marzo 1972. Feltrinelli morì alla vigilia delle elezioni politiche del 7 maggio 1972, in coincidenza non casuale con un periodo cruciale delle indagini dei magistrati di Milano e Treviso. Il 23 febbraio 1972 era iniziato il processo contro Pietro Valpreda a Roma. I fautori della pista rossa speravano che tutto filasse liscio contro il ballerino e i suoi compagni anarchici. Ma il 6 marzo, la Corte di Assise di Roma si dichiarò incompetente per territorio e il caso passò in mano ai giudici meneghini. Gli giunsero a Milano il 10 marzo 1972: il corpo dell’editore venne trovato, vestito da guerrigliero, la mattina del 15 marzo 1972 ai piedi di un traliccio dell’alta tensione a Segrate. Indosso a Feltrinelli erano state rinvenute la foto della moglie e del figlio, una carta d’identità, intestata a Vincenzo Maggioni, e “allettanti mazzi di chiavi” che portavano a tre basi eversive a Milano, in via Subiaco, via Delfico e via Boiardo. Era una quantità impressionante e sospetta di indizi compromettenti, improbabili per una persona dotata di normale prudenza e sottoposta ad assidua sorveglianza della polizia. Vicino al cadavere venne trovato un pulmino Volkswagen, la cui assicurazione era intestata a Carlo Fioroni di Potere Operaio, poi divenuto collaboratore di giustizia. C’era inoltre sul veicolo una mappa geografica con alcune annotazioni di luoghi cruciali. Secondo la versione ufficiale, la morte era stata causata dall’esplosione di un ordigno che Feltrinelli stava manipolando, allo scopo di provocare, con l’abbattimento del traliccio, l’interruzione dell’elettricità che avrebbe dovuto oscurare il xiii congresso del pci in corso al Palalido, che si concluse con l’elezione di Enrico Berlinguer. Ma quello stesso 14 marzo Giangiacomo era rientrato dall’Austria, ed era quantomeno anomalo che avesse eseguito l’attentato la stessa sera del suo arrivo con la febbre a 40. L’inchiesta del pubblico ministero Guido Viola concluse per un incidente dovuto all’imprudenza e imperizia dell’editore, ma Scalfari e la Cederna, parlarono subito di omicidio. A rafforzare i dubbi sulla dinamica ufficiale dei fatti fu Marco Nozza, giornalista del Giorno. Nel suo libro Il pistarolo riferì un episodio inedito. Il questore di Milano Attilio Bonanno, il 2 maggio 1972, un mese e mezzo dopo Segrate, invitò i giornalisti in via Boiardo 33 per farli assistere in diretta alla scoperta di una prigione del popolo delle Brigate Rosse, allora agli esordi. Si rammenti che proprio a via Boiardo, ove fu tenuto prigioniero delle br Idalgo Macchiarini, portava una delle chiavi trovate indosso a Feltrinelli. L’invito venne raccolto subito da una folta schiera di cronisti, tra cui lo stesso Nozza. A un certo punto, mentre i giornalisti erano in attesa del questore, arrivò «un tizio, spalle grosse» che estrasse dalla tasca un mazzo di chiavi e ne infilò una nella toppa alla porta d’ingresso del civico 33. Solo allora venne fermato dal maresciallo della polizia Panessa, che gli chiese chi fosse. L’uomo rispose: «Sono Marco Pisetta, sono qui a sistemare l’impianto elettrico. Ho avuto le chiavi da Luigi Russo». Una breve indagine portò alla scoperta che Luigi Russo altri non era che Giorgio Semeria, uno dei fondatori delle Brigate Rosse, di cui mi sarei occupato per molti anni. Nel frattempo, era sopraggiunto il questore Bonanno, seguito dal pm Guido Viola. A un certo punto in via Boiardo, a cinquanta metri dalla prigione, giunse un giovane con una Fiat 500, che si fermò e, alla vista della polizia, cercò di ripartire. Ma la macchina era bloccata e fuggì a piedi. Si seppe poi che si trattava di Mario Moretti, il capo delle Brigate Rosse. Pisetta intanto era stato fermato e portato in questura, dove verrà rilasciato la stessa sera del 2 maggio 1972, senza una spiegazione. Logico sospettare che ci fosse accordo tra lui e la questura per la sceneggiata. I dubbi sulla dinamica della morte erano ancora tanti. Quale vantaggio avrebbero avuto le br, che non approvavano la strategia dell’editore, a consegnargli le chiavi di una base così importante quale quella di via Boiardo, gestita da Semeria, frequentata da Moretti e usata per custodire 17 18 Memorie un ostaggio? E che senso aveva per Feltrinelli-Osvaldo, ammesso che avesse avuto le chiavi del covo br, portarle appresso mentre era impegnato in un attentato così importante, che era pur sempre gravido di rischi? all’esplosione non fossero intervenute altre violenze, traumatiche o di altra natura». In altre parole, Feltrinelli avrebbe prima subìto un’aggressione fisica e poi sarebbe stato investito da una violenta esplosione. Infatti «la ferita lacero-contusa in sede occipito-parietale sinistra, ferita di forma stellare, a tre punte, con braccia della lunghezza ciascuna di mm. 7 circa, con bordi finemente laceri» fu attribuita a uno strumento ad azione contusiva. Infine le mani dell’editore erano intatte, nonostante l’esplosione. Eppure se lo scoppio fosse avvenuto per imperizia di Feltrinelli, avrebbe dovuto investirle mentre egli maneggiava l’esplosivo. Ciò dimostrava, che le mani di Feltrinelli erano legate dietro la schiena e che non erano venute a contatto con la bomba. Feltrinelli vittima dei servizi? Nella foto al centro Giangiacomo Feltrinelli E perché avrebbe dovuto portare con sé non solo la chiave del covo dei gap, in via Subiaco, ma anche quelle di altri due covi importanti? E ancora, perché avrebbe dovuto esporsi al pericolo di morire per l’esplosione dell’ordigno La scoperta di Ferruccio Pinotti A sostegno della tesi dell’omicidio, il giornalista Ferruccio Pinotti – in un articolo del 12 marzo 2012 apparso su Sette, – ha fatto un’importante scoperta: ha trovato, tra gli atti inediti del processo, un documento completamente trascurato dal pm Viola e dalle forze dell’ordine. Si tratta della “relazione di consulenza medicolegale”, redatta dal professor Gilberto Marrubini e dal professor Antonio Fornari. Questo documento sconvolgente – mai pubblicato e corredato da foto impressionanti – contestava la tesi dell’incidente sostenuta dai periti d’ufficio. I due consulenti accreditarono la successione cronologica delle varie lesioni, che non sarebbero state causate tutte dall’esplosione, ma sarebbero state provocate da mezzi diversi e in tempi diversi. Pertanto i due professori osservarono: «Viene fatto di domandarci se antecedentemente All’indomani dell’attentato, si sapeva solo che intorno alle tre di pomeriggio, il corpo di uno sconosciuto – tale Vincenzo Maggioni – era stato trovato dilaniato ai piedi di un traliccio di Segrate. Il generale dei carabinieri Francesco Delfino, incriminato e poi assolto dalle accuse di reati connessi alla strage di Brescia, disse che il cadavere di Feltrinelli si trovava a trecento metri da uno dei covi di Carlo Fumagalli, partigiano bianco che guidava il mar, Movimento di Azione Rivoluzionaria, legato ai servizi segreti occidentali italiani e americani. Fumagalli conosceva bene Feltrinelli e addirittura avrebbe tentato di rapirlo assieme a Mario Capanna, come disse il pentito di Ordine Nuovo Martino Siciliano al giudice Salvini. Secondo il pentito Gaetano Orlando, ex braccio destro nel movimento mar, «Fumagalli aveva contatti diretti con i massimi livelli della divisione carabinieri Pastrengo». Da ricordare che Fumagalli era stato collaboratore dell’oss e poi della cia, e in seguito del sid: era notorio, per notizie di stampa, che i mar avevano eseguito in Valtellina, tra il 1970 e il 1974, attentati a tralicci dell’alta tensione. Questi episodi, che vanno tutti nella direzione di costruire prove false contro Feltrinelli per incolparlo della partecipazione alla strage di Piazza Fontana e alle altre stragi, ci aiutano a inquadrare meglio la vicenda della morte di Giangiacomo Feltrinelli. Appare possibile che Fumagalli fosse coinvolto nella vicenda di Segrate, come alcuni apparati dello Stato. A rafforzare i già consistenti dubbi sul ruolo dei servizi nella morte dell’editore, fu l’utilizzo di un particolare pulmino per compiere l’attentato: perché Feltrinelli avrebbe dovuto andare a Segrate con un veicolo la cui assicurazione automobilistica era intestata a Carlo Fioroni, uno dei militanti di Potere Operaio? Ma che c’entrava quest’ultimo con l’indagine per l’esplosione di Segrate? Fioroni venne ovviamente sentito come teste dal pm Antonio Bevere: intanto era stato già portato in Questura in via Fatebenefratelli, dove aveva subìto un interrogatorio insolitamente tranquillo, per poi essere rilasciato per decisione del Commissario Antonino Allegra, capo dell’Ufficio politico della Questura di Milano. La sola spiegazione possibile a questo trattamento di favore era che Fioroni non fosse ritenuto un terrorista, ma un collaboratore. Un’ipotesi collegata anche ad un altro episodio mai chiarito del tutto. L’8 febbraio 1980, sulla prima pagina di Lotta continua, venne pubblicata la copia di un fonogramma che lo riguardava. L’articolo era a firma di Andrea Marcenaro e Franco Travaglini. Il fonogramma dell’aprile 1974 era stato trasmesso a organismi svizzeri dalla polizia federale degli stranieri di Berna, a firma del direttore Guido Solari. Il documento provava «i rapporti stretti intercorsi tra Carlo Fioroni e i due servizi italiano e svizzero». Fioroni, letta la notizia, reagì sostenendo che il documento di Berna fosse una volgare montatura, tuttavia decise di non querelare. Al di là del singolo caso Fioroni, comunque, le indagini compiute negli anni successivi hanno dimostrato che il sid e l’Ufficio Affari Riservati si sono serviti non solo di personaggi di destra estrema, ma anche della sinistra radicale. Il 19 novembre 2012 mi recai presso l’Archivio storico del Senato per continuare le ricerche sulla morte di Feltrinelli circa 1700 documenti erano riservati e non consultabili. Ho deciso allora di impugnare davanti al TAR, come illegittima decisione, la secretazione. Memorie Un capopolo di nome Allicu L’avventurosa vita di Raffaele Cois sindaco antifascista di Quartu Sant’Elena di Maurizio Orrù L o chiamavano Allicu e con quel fiero nome di lotta ha segnato il territorio di Quartu Sant’Elena. Difficile però ricostruire l’appassionata biografia di Raffele Cois, sindaco antifascista della cittadina sarda. «Le racconto tutto io», suggerisce, il nipote Alessandro Meloni. «Qualche cenno biografico può essere d’aiuto per capire?», domanda il mio interlocutore. Sì, cominciamo con le radici. «La famiglia Cois era originaria di Selargius, in provincia di Cagliari», racconta Meloni. «Raffaele, nato nel 1902, in gioventù era vicino al socialismo libertario. Per motivi di lavoro emigrava in Francia dove ebbe modo di venire a contatto con numerosi suoi connazionali fuoriusciti antifascisti, come i fratelli Rosselli, con i quali strinse rapporti di amicizia, e Pietro Nenni, il futuro dirigente nazionale del Partito socialista italiano». In famiglia com’era considerato zio Raffaele? «La sua figura costituiva un modello e un nobile esempio di coraggio, rettitudine e coMurales ad Orgosolo erenza, a difesa delle cause di libertà e uguaglianza. Per i suoi ideali, insieme alla moglie e ai figli, aveva affrontato sacrifici e pene. Ricordo che quando faceva visita a noi nipoti (siamo cinque fratelli) coglievamo l’importanza di un evento che ci riempiva di orgoglio» Zio Raffaele veniva spesso in Sardegna? «Si faceva vivo. Veniva incaricato, com’era prassi tra i gruppi dei fuoriusciti antifascisti, di introdurre in Italia, clandestinamente, della stampa politica illegale. Custodiva nel doppio fondo della valigia materiale di alto valore politico. Ma, una mattina, appena varcata la frontiera di Ventimiglia, la polizia italiana scopriva il marchingegno e arrestava Raffaele Cois. E’ evidente che nel gruppo vi fossero infiltrati e delatori del regime». Che cosa successe dopo? «Per Allicu iniziava un lungo tragitto tra i vari penitenziari nazionali. Il regime fascista timoroso e preoccupato per possibili azioni antifasciste in occasione di visite di importanti gerarchi in Sardegna rinchiudeva, per qualche giorno, a Buoncammino gli esponenti politici antifascisti». Quali esperienze fece Allicu da perseguitato politico antifascista? “Frequentò, presumo prima in Francia e poi a Ustica, un esponente di primo piano del movimento anarchico, il carrarese Gino Bibbi. Zio Raffaele, per il possesso e detenzione di stampa illegale antifascista, nel 1926, veniva sottoposto a processo e condannato al confino, nell’isola di Ustica. Qui incontrò uno stuolo di militanti antifascisti e comunisti e divenne marxista». Tornato da Ustica continuò a fare lavoro politico clandestino? «Sì, era più che mai convinto che solo con un impegno senza tregua e su vasta scala si potesse abbattere la dittatura Ma la polizia politica del regime lo marcava stretto. Fu una vita difficilissima per lui e per la famiglia. Alla caduta del regime fascista, entrava nel Cln, diventando componente dell’Alto Commissariato all’Epurazione. Allora Allicu si trasferiva a Quartu Sant’Elena e cominciava a lavorare nel Pci e nell’apparato delle società cooperative». Mi racconta un episodio di Allicu dirigente delle cooperative sarde? «Mio padre ricordava di macchine agricole fatte arrivare dall’Unione Sovietica e destinate al nascente mondo cooperativo. Una di queste, un trattore, fu dato alla prima cooperativa agricola e di consumo sorta a Selargius su iniziativa di zio Raffaele. Però il trattore, rimase inutilizzato per mancanza dei pezzi di ricambio. Zio Raffaele nella sua attività di dirigente politico ebbe modo di frequentare varie realtà sociali, come i lavoratori portuali, i lavoratori delle saline e delle miniere del bacino carbonifero del Sulcis-Iglesiente, suscitando ampi consensi umani e politici». Zio Raffaele era un capopopolo? «Zio aveva una notevole vis dialettica, e spesso, svolgeva i comizi in lingua sarda. Era considerato un vero comunista». Che succedeva in campagna elettorale? «Anche nei paesi come Quartu e Selargius nelle competizioni elettorali si usava colpire gli avversari politici con becere insinuazioni. In particolare, zio Raffaele veniva attaccato e sbeffeggiato politicamente, in quanto i genitori anziani continuavano l’attività di commercianti. Si trattava di un commercio minuto, che non volevano abbandonare. Essi si rifornivano di oggetti quali stoviglie, stoffe e li caricavano su un carro trainato da un cavallo e affrontavano la strada bianca per Villasimius. Non esistevano botteghe e si scambiavano gli oggetti con i generi alimentari del luogo, come salumi, formaggi e pollame. L’attività commerciale dei Cois veniva denigrata dagli avversari politici, quasi fosse una vergogna da attribuirsi alla fede comunista del figlio. Zio Raffaele rispondeva rivendicando l’onestà e l’impegno che i suoi genitori mettevano nella loro attività di commercianti e criticava il perbenismo bigotto. Quando Raffaele Cois divenne sindaco di Quartu Sant’Elena si adoperò perché quella strada polverosa che percorrevano i suoi fosse allargata e sistemata». 19 20 Memorie Pasquale Schiano, l’antifascista che denunciò i servizi di Nicola Terracciano P asquale Schiano nacque il 26 aprile 1905 a Bacoli (dove è morto il 30 novembre 1987), cittadina considerata dalla dittatura fascista come l’epicentro dell’antifascismo dell’area flegrea. Indelebile il ricordo della tumultuosa giornata del 16 settembre 1925. «Era sindaco mio padre Ernesto, valente archeologo», ricordava negli anni maturi Schiano. «Contro di lui ci fu una spedizione squadrista. Il Comune fu occupato, fu assalita la nostra casa, difesa da un gruppo di coraggiosi lavoratori». Il giovane dalle solide radici in una famiglia antifascista, che ha pagato con pericoli e sacrifici la sua fedeltà ideale ai valori di libertà e di democrazia, si laureò in giurisprudenza all’Università di Napoli, divenendo avvocato specializzato in diritto marittimo. Nel capoluogo campano fu tra gli organizzatori dei primi gruppi di riscossa antifascista meridionale, nel richiamo anzitutto del grande Martire liberaldemocratico Giovanni Amendola. Fece parte del cenacolo del drammaturgo antifascista Roberto Bracco con Emilio Scaglione, sostenendo a livello locale le battaglie antifasciste de Il Mondo di Amendola, diretto a Roma da Alberto Cianca. Ebbe rapporti con il mondo clandestino italiano di Giustizia e Libertà, che aveva la sua sede centrale a Parigi con Carlo Rosselli. Per questa molteplice attività antifascista conobbe anche il carcere di Poggioreale nel 1942. Pasquale Schiano è stato tra i fondatori e principali animatori del Partito d’Azione Giustizia e Libertà, divenendo la figura più importante dal punto di vista organizzativo nel Mezzogiorno ed uno dei suoi esponenti politici nazionali più importanti a partire dal 1943. Il Partito d’Azione del Sud a lui deve l’incardinamento non solo nelle grandi città, a partire da Napoli e Bari, ma anche nei piccoli comuni, con un livello di adesione che rompe con l’immagine ingiusta e deformata, nel giudizio storiografico e politico, sul Partito d’Azione come il partito degli intellettuali, delle disquisizioni astratte, che non seppe sintonizzarsi con le masse. Lo si capisce bene proprio leggendo due volumetti divulgativi pubblicati nel’45 da Schiano Chi siamo, che cosa vogliamo e Che cos’è la Repubblica. «Nel luglio del 1943 mio padre ebbe modo di dimostrare che non era solo un politico dal forte connotato intellettuale, ma anche Foto di Pasquale Schiano durante un’intervento pubblico un uomo d’azione deciso e coraggioso», ricorda il figlio Brunello Schiano. «Con i vertici degli Alleati preparò piani per colpire le truppe tedesche e prese poi parte attivamente alla guerra di liberazione tra il napoletano e il casertano. Raccontò le sue esperienze in un libro editato nel 1965 La Resistenza nel Napoletano, con prefazione di Ferruccio Parri, un volume che ancora oggi è prezioso per gli studiosi perché la storia della Resistenza nel Napoletano è poco conosciuta e papà dedica pagine bellissime, emozionanti alle Quattro Giornate». Coerente il percorso di Schiano. Designato dal Partito come membro della Consulta Nazionale, che operò come Parlamento in attesa delle elezioni, fu tra i membri dell’ Alta Corte di Giustizia e sottosegretario alla Marina mercantile nel I e II governo De Gasperi. Nel solco della fedeltà al Partito d’Azione, fu tra quelli che nel’47 votarono contro la confluenza nel Psi, allora frontista, e contribuì a fondare i Gruppi di Azione Socialista Giustizia e Libertà con Ernesto Rossi, Tristano Codignola, Aldo Garosci, Paolo Vittorelli. Poi militò nell’Unione socialista italiana per una lista socialista democratica indipendente alle delicate elezioni del 1948 (la formazione guadagnò il 7% e 33 seggi), in seguito nel Partito socialista unitario che si richiamava al socialismo liberale di Rosselli, infine nel Partito socialista democratico Italiano di Saragat, che aveva avuto comunque il coraggio di salvare la tradizione socialista democratica italiana dalla subalternità di Psiup e Pci e allo stalinismo. Fu deputato nella terza legislatura repubblicana (‘58’63), prima nel gruppo del Partito socialista democratico italiano, col quale era stato eletto, poi in quello del Psi, divenuto autonomista. Qui si impegnò sui temi di sua competenza nel campo dei problemi marittimi, ma anche per la costruzione di case per i lavoratori agricoli, contro il laurismo che devastava Napoli, contro i rigurgiti neofascisti. «Nel 1964 ci fu una svolta determinante per mio padre», ricorda Brunello Schiano. «Lui che era tutto d’un pezzo e molto attento a intercettare i bubboni della fragile democrazia italiana fece scoppiare il caso Sifar, così allora si chiamavano i servizi segreti. Con grande determinazione e prove circostanziate alla mano denunciò le pericolose deviazioni dei servizi segreti. Strumento di quella battaglia fu L’ Espresso. Il generale De Lorenzo, comandante generale dell’ Arma dei Carabinieri, fu costretto a dimettersi. Da allora la carriera politica di mio padre subì un contraccolpo: evidentemente si era fatto troppi nemici e perciò non fu rieletto». Presidente dell’Ente Autonomo Volturno, Schiano si batté per la metropolitana collinare di Napoli, per l’aeroporto internazionale di Grazzanise, per la riconversione industriale dell’area dei Campi Flegrei, del litorale domiziano e delle zone del Basso Volturno. Animatore e finanziatore delle associazioni partigiane e antifasciste, fu vicepresidente della Fiap, fondata da Ferruccio Parri. Fu, infine, fondatore e Presidente dell’Istituto campano per la storia della Resistenza, dove depositò il suo prezioso archivio.Ho conosciuto Schiano 21 Noi nelle visite che faceva nelle sezioni del Psi di Caserta e lo ricordo con commozione. Si vantava di essere uno dei pochi politici che, negli anni, aveva visto sensibilmente diminuire il proprio reddito personale. Altri tempi, altro stile morale, civile, politico! Oggi, leggendo il bel libro che Antonio Alosco gli ha dedicato, Pasquale Schiano (Dick Peerson editore, Napoli, 19899) colpisce la grande sintonia, la profonda stima che vi furono tra Schiano e De Martino, accomunati dalla speranza e dalla lotta per un socialismo di tipo nuovo, non avendo retto alla prova della storia quello tradizionale. Il libro di Alosco ricostruisce, attraverso l’impegno poliedrico di Schiano, l’apporto del Partito d’Azione alla crescita della democrazia partenopea con uomini come il sindaco Gennaro Fermariello, il generoso sforzo di quei liberalsocialisti preveggenti che non volevano finire nel calderone del marxismo e dello stalinismo perché consapevoli delle derive totalitarie. Appassionata, intransigente, profetica la posizione di Schiano contro ogni forma di collaborazionismo verso il secondo governo Badoglio, dopo la discussa svolta comunista togliattiana di Salerno del 1944 (Schiano finì in minoranza nel suo stesso partito, che deliberò, con la forza di Omodeo, Tarchiani, Caracciolo, altro comportamento politico, alla luce di ragionevoli riflessioni sulla situazione drammatica di allora e l’esigenza di mettere insieme tutte le forze per abbattere un nazifascismo ancora possente oltre il Garigliano). Ma Schiano aveva intuito che in quel cedimento e in quella collaborazione con forze che erano state pesantemente e direttamente complici col fascismo si annidava un pericolo mortale per la futura democrazia. Quanta preveggenza nei timori di Schiano, quante prove dolorose, quanti drammi si sarebbero evitati se dai gangli delicati dello Stato fossero stati espulsi quegli uomini che dovevano solo rendere conto del male fatto alla nazione durante il fascismo. «Mio padre», conclude Brunello Schiano,« fino all’ultimo ha avuto un profondo senso di responsabilità civile, più che un politico professionista si è sempre sentito un cittadino chiamato a dare il suo contributo per la soluzione dei nodi cruciali della vita nazionale e anzitutto meridionale. Per questo è ricordato con tanto amore». XVII Congresso Nazionale A.N.P.P.IA. Relazione del Presidente Nazionale Roma, 10/11 Novembre 2012 Il XVII Congresso dell’ANPPIA cade in un momento sociale e politico molto delicato. La crisi colpisce principalmente le classi deboli e la politica è appannata da scandali di tutti i tipi. Dopo un ventennio di vuoto programmatico i segni si vedono nei settori più significativi del Paese, i giovani, l’industria e la scuola che soffrono per mancanza di lavoro, di innovazione e di competitività. Ma il segno principale di un declino diffuso è l’affievolirsi dei principi etico morali che sono elementi portanti di una democrazia. Non sono solo i partiti a soffrirne ma è buona parte della società civile che si racchiude in se stessa e pensa alla difesa dei propri interessi o alla perdita di livelli di vita necessari anche per supportare la generazione successiva. La nascita del nuovo governo è stata una scelta patriottica e giusta perché si doveva salvare il Paese. L’attenzione è stata data all’economia intesa come risanamento, con le conseguenze che gli strumenti sono stati quelli inevitabili dell’aumento delle tasse, della diminuzione delle pensioni e della riduzione delle spese sociali. Ma per cogliere gli obbiettivi di ridare equilibrio al bilancio dello Stato non si è pensato, a mio avviso, a creare nel cittadino una spinta morale che legittimasse i sacrifici fatti nell’interesse generale. Si poteva dare al cittadino la garanzia che l’operato del Governo era indispensabile, rigoroso e giusto e che la visione politica (anche i tecnici ce l’hanno un poco) era visibilmente indirizzata ad intervenire in modo equo alla distribuzione delle risorse disponibili. Ma giovani e anziani sono rimasti esclusi. Diamo però atto al Governo di aver fatto molti passi avanti rispetto a quello precedente. È un governo di tecnici professionisti colto, trasparente, disinteressato e dotato nell’operare di uno stile di comportamento lontano anni luce da quello subìto dal Paese negli ultimi tempi. Se ci aspettavamo maggiore equità e maggior coraggio, e questo non è avvenuto che in parte, ciò è dovuto alla maggioranza che sostiene il governo Monti che è disomogenea, diversa negli obbiettivi ed è una maggioranza transitoria. Ecco quindi la necessità di tornare al più presto alla buona politica ossia quella che nasce dalla formazione di gruppi politici eletti 22 Noi in libere elezioni nazionali. Il partito che avrà più voti, anche attraverso una coalizione, esprimerà il leader del governo. Il momento difficile del Paese sarà così affrontato da una maggioranza politica con linee di programma concordate. Non basteranno libere elezioni per avere fiducia e credibilità per i partiti. È necessario riaffermare la democrazia parlamentare nella situazione attuale, iniziativa non facile ma prioritaria e che si deve affrontare con atti credibili anche per adeguarsi all’Europa. Questi atti sono degli atti legislativi che devono essere fatti per rendere costituzionale la presenza e l’attività dei partiti e mettere ordine ai diritti e doveri degli stessi. Il Parlamento deve provvedere alla messa a punto del loro riconoscimento giuridico e a disciplinare le spese elettorali come affermava a suo tempo Calamandrei. Oggi per l’ANPPIA si svolge un Congresso importante. Siamo un’Associazione civile apartitica nel cui interno convivono fedi diverse ma tutte accumunate da uno spirito di solidarietà, di uguaglianza sociale e principalmente da una comunanza di ideali nata con l’Antifascimo, la Resistenza e nel dopoguerra con le conquiste sociali. Ricordiamo che tra gli antifascisti che soffrirono nel ventennio erano presenti varie anime. In sintesi quella comunista di Gramsci, quella liberale di Amendola, quella socialista di Matteotti, quella cattolica di Sturzo, quella azionista di Albertelli. Così l’ANPPIA riesce ad essere un’Associazione unitaria che nella società continua a svolgere un compito istituzionale in favore delle famiglie indigenti di perseguitati ebrei e non, a trasmettere le Memorie nobili di migliaia di perseguitati politici, a combattere contro il rinascente fascismo, a diffondere i principi di democrazia nati dalla lotta per la libertà. Molti antifascisti furono protagonisti della nascita della Costituzione nell’Assemblea Costituente, presieduta da Terracini, primo presidente ANPPIA, ed hanno lasciato a noi il dovere di difenderla. La Costituzione è ad un tempo un vessillo di libertà e un baluardo contro il revisionismo. Non sottovalutiamo il fatto che la crisi attuale non è solo economica ma istituzionale. Ecco l’importanza di ricordare che l’impronta antifascista nella Costituzione è indiscutibile e che le successive conquiste democratiche furono realizzate nello spirito della Costituzione. Il nostro Capo dello Stato, impeccabile interprete delle Sue funzioni istituzionali, resta il vero garante di tali irrinunciabili valori. È in atto purtroppo un tentativo di rottamare non solo la trasmissione della storia democratica ma di violarne l’autenticità. L’ignoranza nelle ultime generazioni - anche perché l’insegnamento della storia dopo la prima guerra mondiale è alla fine dei programmi e non viene quasi mai impartito - è molto vasta e facilita negli adolescenti l’insorgere di idealità di destra, considerate come nuove. A questo si aggiunge la preoccupazione che dobbiamo esprimere per la marginalità, assegnata nei programmi di governo, alla cultura e in modo particolare alla Memoria e alle conseguenze di questa assenza. È in atto infatti un’azione di contro antifascismo da parte di gruppi di destra estrema, armati e non, e di atti di revisionismo (basti pensare al mausoleo di Graziani) da parte di forze politiche periferiche di centrodestra che meritano, oltre alla manifestazione dello sdegno di noi Associazioni, una reazione appropriata dei partiti antifascisti e del Governo. A loro l’ANPPIA Da sinistra: Giulio Spallone, Guido Albertelli e Garibaldo Benifei, alla presidenza durante il Congresso rivolge l’appello di non sottovalutare questi tentativi di indebolimento dell’intangibilità della fede antifascista, che rappresenta il valore democratico identificante della Repubblica e che l’ANPPIA e tutti i portatori degli stessi ideali non accetteranno mai possa essere revisionato. Non ci illudiamo. Si può uscire dal profondo declino verso cui ci stiamo indirizzando solo con un superamento della cultura generica, egoistica e superficiale formatasi negli ultimi decenni e presente in buona parte delle nuove generazioni. Per poterlo fare i partiti che hanno tradizioni nelle conquiste dei diritti e nelle lotte per la democrazia devono rilanciare la loro identità nobile e così differenziarsi dagli altri che sono senza storia e senza ideali. Oggi dobbiamo prendere atto che la Memoria storica è offuscata non solo dagli anni trascorsi ma anche dalle forze politiche che hanno lasciato che fosse dimenticata. A questo si aggiunge la disinformazione dell’opinione pubblica alla quale, spesso sulle televisioni, vengono comunicate storie che distorcono la verità, come avveniva nel ventennio fascista. Ma ricordiamo che dopo la guerra di Spagna iniziò in Italia una opposizione clandestina non violenta al regime che ebbe come focolari molte cattedre nei licei e nelle Università dimostrando che gli antifascisti non erano parolai ma uomini di coraggio. Iniziò 23 Noi Delegati di Livorno e Terni al XVII Congresso Nazionale dell’ANPPIA così un cambiamento di coscienza negli studenti adolescenti che iniziarono a distaccarsi dall’ideologia fascista e molti di loro parteciparono in seguito alla Resistenza. Ecco che la storia ci dice che mai tutto è perduto. Anche ora la situazione di crisi del Paese può portare ad un risveglio delle coscienze e a un recupero di parte degli indifferenti o di chi si illudeva di speranze poi risultate tradite. È per questo che per riconquistare il consenso è ora necessario ricreare l’unità dei partiti antifascisti, unire le forze di progresso democratico, abbiamo rappresentanze della società civile, uniformare i programmi sul consolidamento del sistema Paese. Ma il lavoro di recupero nelle masse delle regole democratiche sarà un compito molto duro e molto lungo. Ci attendiamo che le forze politiche sane inizino una lotta senza quartiere alla corruzione dilagante facendo del rispetto dei valori etico morali una bandiera sul terriSOTTOSCRIZIONI torio e un impegno indilazionabile. È indispensabile ripristinare lo Stato dove la sua presenza è appannata e dove la paura condiziona i comportamenti dei cittadini. Mari Gagna (Cuneo) in ricordo La nuova legge elettorale è un elemento decisivo per una svolta democratica e l’idendel padre Antonio e della madre tità dei nuovi eletti in Parlamento può essere determinante. È quindi da approfondire Margherita Zavattero: 50,00 la possibilità che una parte dei parlamentari possa venir eletto con le preferenze. Non può essere dimenticato che oggi la maggioranza dei cittadini le vuole. Un controllo DA REGGIO EMILIA stretto da parte del partito sulla onorabilità e sulle capacità dei candidati è già una buona garanzia. Il popolo seguirà quei leaders che possono raccogliere fiducia anche Anna Bonini (Cadelbosco Sopra) attraverso una sensibilità acuta per il dialogo con i rappresentanti e per un diverso ricorda il marito Raggio Corradini modo di fare politica. Il Movimento 5 Stelle dovrebbe essere visto positivamente sotto nel 31° anniversario della scomparsa l’aspetto della capacità di creare contatti semplici e personali e negativamente per la (21.6.1981): 100,00 pro Antifascista rozzezza del linguaggio e per gli anatemi che lancia sugli avversari. Condannarlo tout court è superficiale. Per fare delle buone liste non c’è bisogno di rottamare nessuno. Nel 5° anniversario della scomparIl patrimonio di esperienze e conoscenze degli anziani non può essere messo da parte sa di Otello Nicolini (Rubiera) i ma valorizzato. Non esiste il fallimento di un’intera classe politica. Dovrà essere figli Ivano e Silvana: 100,00 pro una parte di coloro che hanno avuto tanto nei Partiti e nelle Istituzioni, a rinunciare Antifascista spontaneamente alle candidature e accettare un ruolo di alta consulenza politica che affianchi il vertice. Sarebbe un segnale positivo per l’opinione pubblica. Nel 5° anniversario della scomparsa di Carlo Porta (RE), Lea e Vanna lo Per contribuire a raggiungere questi obbiettivi di interesse generale anche le ricordano: 50,00 pro Antifascista Associazioni della Memoria devono essere messe in condizioni di svolgere il loro dovere istituzionale. È inaccettabile che i contributi statali siano, anno dopo anno ridotti a valori risibili rispetto a impegni nobili non riducibili. È vergognoso che il Ministero della Difesa neghi un aumento annuo di 400.000 euro al complesso delle Associazioni che sono 21. Se si supererà questo blocco economico anche le Associazioni della Memoria possono ritrovare un’unità di intenti verso l’esterno ed un adeguamento organizzativo efficace ed influente imposto dai tempi. L’inizio del cambiamento potrebbe realizzarsi con la costituzione di una Fondazione per la ricerca storica comune, attualmente in progetto avanzato presso l’ANPPIA e l’Associazione Nazionale Vittime Civili di Guerra, con il solo scopo di costruire una struttura tecnica sulla Memoria del primo Novecento che può diventare, ferma l’autonomia di ogni organizzazione che vi aderirà, un centro di iniziativa culturale, Nel 31° anniversario della scomparsa del padre Celso Ghini (dicembre 1981) e dello zio Omero Ghini (gennaio 1982) Nel 6° anniversario della scomparsa della madre Luisa Deskovic (aprile 2006), il figlio e nipote Sergio Ghini: 350,00 24 Noi composto in massima parte da ricercatori, che salvi le memorie in pericolo, che sia obbiettivo verso l’esterno per storici e studenti e rappresentativo elemento di risposta documentata alle affermazioni di revisionismo, meritando così di essere dotato di un fondo specifico da parte dello Stato. L’ANPPIA nel frattempo intensificherà i propri progetti di ricerca storica e relativa pubblicazione, anche se è tra le Associazioni quella che vi impegna ben quattro collaboratori e diffonderà il suo periodico mensile L’Antifascista, migliorato nella grafica e nel contenuto, a tutte le strutture storiche, agli studiosi, ai giornalisti e alle Istituzioni. In questi ultimi mesi si è riscontrata negli incontri nelle scuole e nelle Università, probabilmente anche a causa della crisi politica, la presenza di molti giovani che hanno interesse a conoscere cosa erano realmente fascismo e antifascismo. Il Circolo Giustizia e Libertà di Roma e l’ANPPIA si sono accordati per pubblicare un fumetto sulla Resistenza Romana nel quartiere Prati Trionfale che ha avuto molto successo con gli studenti di terza media ai quali è stato distribuito. Stiamo esaminando la possibilità di estenderlo ad altre zone romane. Il nostro ruolo prioritario è aiutare la scuola a ritrovare se stessa perché è lì dentro il domani. Troviamo il modo di stare vicino ai professori dotandoli di pubblicazioni documentate, collaborando nei convegni, facendo delle Celebrazioni l’occasione di incontri nelle scuole per illustrare senza retorica il valore dell’avvenimento, creiamo negli studenti le ragioni del coraggio di difendere le loro opinioni portandoli non solo sui luoghi dello Sterminio ma anche dove l’Antifascismo ebbe i suoi monumenti e i suoi caduti. Mi sembra doveroso oggi affermare che l’Associazione, che ho l’onore di presiedere, intende collaborare alla rinascit del Paese, insieme a tutti coloro, forze politiche e movimenti, che sentono il dovere, avendo tradizioni democratiche, di battersi per una nuova società sia attraverso libere elezioni sia collaborando ad un programma avanzato e solidale. Questo programma, a parere dell’ ANPPIA, deve avere punti fermi come il legame europeo, un rigore accettabile dalle classi medio piccole, una diminuzione della tassazione sul lavoro, un costo equo della politica, un’attenzione alla Memoria e un contenuto alto di speranza civile. Non è questo il momento peggiore della Nazione. Il principio di disfacimento di partiti politici già alla guida del Paese e responsabili in buona parte del declino economico e morale fa ben sperare sulla fattibilità di un ricambio. I partiti del riformismo possono essere i protagonisti del cambiamento se ristabiliranno rapporti di stretta collaborazione con i rappresentanti della Memoria che sono sì apartitici ma sono testimoni delle tradizioni politiche. Non abbiamo mai creduto che siano le parole a dare valore e credibilità alle nostre strutture di rappresentanza storica, ma i fatti che loro rappresentano si. Fatti che sono le fondamenta della Repubblica, che si trovano scritti nei mille e mille nomi delle piazze, delle strade, delle lapidi, nei luoghi di rappresaglia e in quelli dove dormono le migliaia di vittime innocenti di guerra. Non dobbiamo essere solo noi antifascisti a ricordare ma tutti i democratici. Se torneranno ad essere numerosi quelli che considerano le nostre radici indispensabili alle battaglie per il rinnovamento civile del Paese, Messaggio del Presidente della Repubblica Napolitano per il XVII Congresso Nazionale dell’ANPPIA Il Presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, ha inviato al Presidente dell’Associazione Nazionale Perseguitati Politici Italiani e Antifascisti, Guido Albertelli, il seguente messaggio: “Sono idealmente vicino ai partecipanti al diciassettesimo Congresso nazionale dell’ANPPIA riuniti a Roma per mantenere viva la memoria delle persecuzioni condotte dal fascismo per motivi politici e l’eredità ideale di quanti a quel regime si opposero per restituire libertà e democrazia al nostro Paese. L’attività della vostra Associazione si conferma, oggi come ieri, fattore insostituibile di questo impegno, a tutela di un patrimonio comune a tutti gli italiani. Spetta in particolare alle generazioni più giovani il compito di raccogliere l’esempio di coloro che, con il loro sacrificio, hanno consentito la rinascita del Paese e la fondazione del nostro ordinamento democratico e repubblicano. Nel commosso ricordo delle vittime della violenza nazifascista, rivolgo ai presenti il mio partecipe saluto”. Roma, 10 novembre 2012 riusciremo, con spirito nuovo, a superare le difficoltà davanti a noi, come fu per i nostri padri. Guido Albertelli l’antifascista Mensile dell’ANPPIA Associazione Nazionale Perseguitati Politici Italiani Antifascisti Direttore Responsabile: Antonella Amendola SEDE LEGALE: Corsia Agonale, 10 – 00186 Roma Tel 06 6869415 Fax 06 68806431 www.anppia.it anppia.blogspot.com [email protected] HANNO COLLABORATO A QUESTO NUMERO: Guido Albertelli, Antonella Amendola, Andrea Barbetti, Ferdinando Imposimato, Maurizio Galli, Maurizio Orrù, Giuseppe Pullara, Giulietta Rovera, Giovanni Russo, Maria Scarfi Cirone, Piera Tacchino, Domenico Tarizzo, Mario Tempesta, Nicola Terracciano, Stefano Volante TIPOGRAFIA Cierre Grafica srl Roma - Via del Mandrione 103A PROGETTO GRAFICO Marco Egizi www.3industries.org Prezzo a copia: 2 euro Abbonamento annuo: 15,00 euro Sostenitore: da 20,00 euro Ccp n. 36323004 intestato a “l’antifascista” Chiuso in redazione il: 21 Gennaio 2013 finito di stampare il: 27 Gennaio 2013 Registrazione al Tribunale di Roma n. 3925 del 13.05.1954