L`editoriale I luoghi della storia

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L`editoriale I luoghi della storia
l’antifascista
periodico degli antifascisti di ieri e di oggi
Fondato nel 1954 da Sandro Pertini e Umberto Terracini • anno LIX - n° 10, 11, 12 Ottobre-Novembre-Dicembre 2012
L’editoriale
di Guido Albertelli
Oggi cosa possono fare coloro che
hanno avuto per eredità il dovere
della trasmissione delle storie, delle tradizioni, delle vite e delle morti. Hanno vissuto la loro esistenza
nell’impegno di mantenere vive le
memorie dell’Antifascismo e della
Resistenza e di trasmetterle a chi non
sa o non ricorda.
Ora sono un po’ stanchi e piuttosto soli.
Non c’è più l’atmosfera attenta e rispettosa che è necessaria ai racconti
importanti. Non ci sono più le orecchie disposte a sentire queste vecchie
storie, sono ormai adulti i bambini che
ascoltavano con gli occhioni aperti e
sono pochi coloro che conoscono bene
queste memorie ed hanno ancora voglia di ripeterle. Se lacrime commosse
vengono versate appartengono soltanto a chi racconta.
Un tempo vivevano le dittature e
chi lottava per distruggerle. Un tempo avvenivano le guerre civili e chi
le combatteva dalla parte giusta. Un
tempo si verificavano rappresaglie
ma chi le ha fatte non riconosce oggi
il diritto delle vittime. Un giorno
venne la vittoria ma i partigiani sfilavano con il lutto per gli amici caduti.
Un tempo non tutte le donne stavano
a casa ma c’erano quelle che uscivano
a rischiar la pelle non per il proprio
uomo ma per la libertà. Non era il
tempo delle mele ma quello dell’odio
e del perdono. dell’ingiustizia e del
coraggio, del sogno di democrazia.
Democrazia che fu di tutti e che è
sempre tra noi anche se indebolita e
contestata.
Alziamo la testa vecchi combattenti
perché non siamo soltanto cantastorie del bel tempo che fu. Ricordiamo
quanto fu più difficile la vita da perseguitato e da partigiano e lottiamo
per non vedere affievolirsi i valori
che ci fecero liberi. Diamo inizio a
questo Congresso tra bandiere che
non saranno mai ammainate.
L’anima democristiana di Monti
Nel nuovo Centro nostalgia del passato e sguardo sul futuro
di Giovanni Russo
L
a notizia che Mario Monti avrebbe partecipato in prima persona alla
campagna elettorale è la vera novità della situazione politica. Tra le varie
reazioni, significativa è stata quella di Eugenio Scalfari su Repubblica del
30 dicembre 2012: «Per favore Professore non rifaccia la Dc». Gli ha fatto eco Pier
Luigi Battista nel fondo I rischi della nuova coalizione. Quel sapore di antico, sul
Corriere, in cui afferma che la coalizione che si ispira all’agenda di Mario Monti,
che ha caratterizzato oltre un anno di governo tecnico, può essere il punto di riferimento di una borghesia moderna, o al contrario annacquarne la novità «facendo
il verso ai fasti di ciò che fu la Democrazia cristiana». Questi “timori” sono determinati dal fatto che la coalizione di Monti è apertamente appoggiata dai vertici
del Vaticano e si rivolge ai cosiddetti moderati rappresentati dal ministro Andrea
… segue a pagina 2
Pierferdinando Casini e Mario Monti si salutano alla Camera dei Deputati
I luoghi della storia
Matera. Il monumento
alla Resistenza
di Mario Tempesta
Attualità
Antisemitismo e web
a pagina 3
Esteri
Rama Sall
Il turista che oggi visita la famosa città dei Sassi, rimane
particolarmente colpito dalla singolarità dell’ambiente naturale in cui essa sorge. Matera, infatti, si presenta agli occhi
del visitatore divisa nettamente in 2 parti dal volto del tutto
diverso: a occidente, la città più moderna con i rioni che si
estendono su di un pianoro; a oriente, la parte antica - molto
suggestiva – situata sul ciglio e sul fianco accidentato di una
profonda e stretta gravina – così sono chiamati i burroni molto
profondi - con case in gran parte scavate nel tufo calcareo; un
complesso “urbano” unico, costituito da due solchi, il Sasso
Barisano e il Sasso Caveoso, separati dallo sperone e aperti
verso la gravina.
a pagina 7
Cultura
Maurizio Valenzi
a pagina 13
Memorie
L’ enigma Feltrinelli
a pagina 17
Noi
Relazione Congresso
a pagina 8
Poste Italiane s.p.a. - spedizione in abbonamento D.L. 353/2003 (conv.in. L. 46 del 27.02.2004) - Art.1, comma 2, DCB - Roma
a pagina 21
2
Attualità
L’editoriale
(Premessa alla lettura della Relazione
al XVII Congresso dell’ANPPIA)
Riccardi, fondatore della comunità di
Sant’Egidio, e da Luca Cordero di
Montezemolo. Quest’ultimo in un
primo tempo sembrava volersi presentare alle elezioni, ma ha poi rinunciato,
tanto che Il Foglio si domanda:
«Perché Montezemolo ha fatto tanto
per costruire la sua non candidatura?
Dieci anni di soldi e lavoro per curare
un profilo e un progetto da riserva
della Repubblica. Poi nulla». Con l’ingresso nella campagna elettorale,
Monti ha deciso di non essere più un
tecnico al di sopra delle parti, ma
protagonista della lotta politica. Significativi i termini da lui usati: anziché
“entrare in politica”, ha scelto “salire
in politica”, sottolineando così come
per lui rappresentasse un’ascesa verso
una superiore realtà.
Nella sua agenda, ha indicato i temi
che intende affrontare per cambiare
la “logica antiquata” della politica
italiana. Benché abbia respinto l’accusa
di voler rifare la Dc, le somiglianze
con quello che fu il ruolo della Democrazia cristiana nel dopoguerra sono
evidenti. La fine del regime fascista e
la sconfitta militare avevano creato un
vuoto che la Democrazia Cristiana,
con il sostegno della Chiesa, fu pronta
a riempire, accogliendo nelle sue fila
il ceto medio disorientato e spaurito e
ottenendo un consenso popolare che
le permise di creare una diga all’avanzare delle sinistre. Essa raccolse così
non solo il consenso della borghesia
conservatrice e di coloro che avevano
aderito al fascismo non per ragioni
ideologiche ma di opportunità, ma
anche quello delle associazioni e del
sindacato di ispirazione cattolica.
Mario Monti, pur godendo dell’appoggio esplicito del Vaticano e dei
poteri economici e finanziari, soprattutto europei, non è però riuscito a
ottenere finora quel consenso popolare
che sembrò arridergli alla sua nomina
a Presidente del consiglio. La politica
del governo tecnico ispirata a un rigore
economico convertito in sacrifici, per
via delle tasse e i tagli alla sanità e
all’università, gli ha alienato le simpatie della classe media e dei ceti popolari
che lo considerano il responsabile delle
difficili
condizioni di vita nelle
quali
versano.
Il fatto che sia
stato annullato
l’invito a partecipare ad un
incontro a Roma
con le sette organizzazioni
del
mondo del lavoro
cattolico
(Acli,
Cisl, Coldiretti,
Confcooperative,
Confartigianato,
Mariano Rumor e i dorotei (Foto d’Archivio)
Mcl,
Compagnia delle Opere) e con i movimenti in una regione chiave per la
religiosi (dai Neocatecumenali al maggioranza a Palazzo Madama.
Rinnovamento dello Spirito, dai FocoC’è da augurarsi che Monti non
larini all’Azione cattolica, il Forum pretenda di essere il demiurgo di
delle famiglie e Scienza e Vita) in una nuova prospettiva politica, ma si
grado di portare molti voti, come apra alla collaborazione con il Partito
avveniva ai tempi della Democra- democratico su un programma che
zia cristiana, dimostra che nella indichi la strada per sconfiggere le
galassia cattolica ci sono perples- vecchie politiche clientelari, confermi
sità e reticenze nei suoi confronti. la fedeltà all’Europa, e contribuisca a
Pur essendoci analogie con il ruolo far a riacquistare la fiducia di quanti
che svolse la Dc nella drammatica per protesta si rifugiano in una perisituazione del dopoguerra, non ci sono colosa posizione di astensione dal
più le premesse che ad essa permi- voto e di sfiducia nella democrazia.
sero di conquistare il 18 aprile del 1948
quella maggioranza su cui De Gasperi
e i suoi successori poterono contare
per tanti anni. Le prime battute della
campagna politica di Monti lo dimostrano. Può anche essere che riesca
a sollecitare quell’anima democristiana che continua a esistere nella
borghesia italiana, si tratta però di
Comunicazione:
capire se questa non sia trasmigrata
nel Pd di Bersani, che con il suo buon
Verrà inviato, prossimamente, ai parsenso emiliano e le battute bonatecipanti al Congresso Nazionale
rie, che non suscitano ma sopiscono
dell’ANPPIA, e al Consiglio
le polemiche, sembra interpretare il
Nazionale, tenutosi a Roma il
desiderio di normalità degli italiani.
9/10/11 novembre del 2012, un fascicoE’ innegabile che Monti abbia creato
lo con il resoconto di quelle giornate,
un punto di riferimento per l’eletda distribuire nelle varie federazioni e
torato deluso dal berlusconismo e
sezioni ai nostri soci.
nello stesso tempo abbia offerto una
In questo numero de “l’ antifascista”
prospettiva a quei moderati del Pd che
troverete la relazione del Presidente al
non amano Vendola, minacciando in
Congresso a pagina 21.
tal modo quella che era considerata la
facile e sicura vittoria dei democratici.
Questo potrebbe provocare l’ingovernabilità del Paese: rischio avvertito
da Bersani, il quale ha invitato il
Professore a fare una scelta di campo,
soprattutto per quanto riguarda le
elezioni regionali in Lombardia: l’appoggio ad Albertini, candidato anche
al Senato, di fatto favorirebbe il Pdl
sottraendo voti al partito democratico
Attualità
L’antisemitismo galoppa sul web
Inchiesta su un fenomeno che mette paura: negazionisti, xenofobi, razzisti lanciano proclami di odio da siti Internet
di Antonella Amendola
F
inalmente sono finiti in manette in quattro, quattro seminatori di odio antisemita, quattro propagandisti della
tristemente famosa supremazia della razza bianca. È la prima volta che succede nel nostro paese: la Procura di
Roma, dopo accurate indagini della polizia postale e del pool antiterrorismo, ha assicurato alla giustizia i quattro
organizzatori del forum Stormfront.org, costola italiana di quel sito Internet americano che i maggiori opinionisti degli
Usa hanno definito «il più grande sito d’odio mai apparso su Internet». Stormfront è una sigla che debutta per la prima
volta negli anni’90 e dal ‘95 è diventata un punto di riferimento per gli affiliati al Ku Klux Klan: in cima alla piramide
dell’abiezione vi è Don Black, già membro del Partito nazionalista americano, un predicatore della peggior specie,
abituato a diffondere grossolani falsi storici, un campione del negazionismo e del pregiudizio. Emuli di Don Black in
terra nostra un ventiquattrenne di Milano, Daniele Scarpino, Mirko Viola, di Cantù, militante di Forza Nuova Lario,
partito della destra radicale fondato da Roberto Fiore, Gianluca Cianfaglia, teramano di 23 anni, e Diego Masi, un trentenne di Frosinone. La polizia li ha colti con le mani nel sacco, intenti a propalare i loro veleni per via telematica e 17
perquisizioni in altrettanti appartamenti hanno rivelato la squallida cornice del loro delirio: croci uncinate, materiali
neonazi, coltelli, librettistica senza alcun valore scientifico. «Come siamo riusciti a mettere un freno alla pedopornografia riusciremo anche a smascherare e zittire questi predicatori di razzismo, xenofobia, antisemitismo», dice Dome-
Gruppo di Neonazisti italiani
nico Vulpiani, direttore dell’Ufficio centrale ispettivo del Dipartimento di Pubblica sicurezza, eccellente e lungimirante
uomo delle istituzioni il cui nome compare assiduamente, insieme a quello di Andrea Riccardi della Comunità di
Sant’Egidio, nella lista nera di ebrei e amici degli ebrei che Stormfront diramava per evidente fine intimidatorio
(Vulpiani si occupò del negazionista Irving).
Il sito è stato oscurato, come si dice in gergo, ovvero non è più attivo. L’Italia finalmente si è decisa a operare con determinazione per contrastare la nuova criminalità via web: insieme agli adescatori di minorenni, ai venditori fraudolenti di
beni solo virtuali, agli scommettitori d’azzardo, anche gli istigatori all’odio ideologico hanno scoperto quanto Internet
faciliti il contatto con i più sprovveduti, ai quali si arriva con nomi in codice fasulli. Internet per l’investigatore è la landa
dell’anonimato e dell’impunità? No di certo, incastrare i cervelloni dai quali dipendono i siti della predicazione aberrante
si può: anche se il server, ovvero la centrale operativa, di Stormfront è in Florida, si può sempre procedere con una rogatoria internazionale. In ogni caso la costola italiana non nuoce più. Ci sono leggi e paletti, ma occorrono investigatori
sempre più specializzati che collaborino a livello internazionale.
«La Convenzione di Budapest del 2008 pone paletti alla criminalità che usa la rete informatica», spiega l’avvocato
Joseph Di Porto, consigliere della Comunità ebraica di Roma, «e offre norme per la protezione dai reati legati al web.
C’è poi il protocollo aggiuntivo di Budapest, che fa un passo ancora in avanti e stabilisce che il negazionismo, ovvero il
volere negare o minimizzare la Shoah, è un crimine. L’Italia non ha ancora fatto suo il protocollo aggiuntivo di Budapest
perché ferve la discussione tra i giuristi: secondo alcuni criminalizzare il negazionismo sarebbe una limitazione della
libertà di pensiero».
«Ma il negazionismo si può intendere come diffamazione collettiva di un intero popolo», osserva il giurista Giuseppe
Corasaniti, sostituto procuratore generale presso la Corte di Cassazione. «Chi nega la Shoah lede l’identità di un
gruppo e la dolorosa prova storica attraverso la quale l’identità di quel gruppo permane anche a futura memoria». Sia la
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Attualità
Costituzione italiana che la legge Mancino (1975) sostengono il diritto di ogni gruppo a vivere in sicurezza, senza discriminazione di religione, sesso, etnia, credo politico. Considerare oggi il negazionismo della Shoah (ma anche di ogni altro
genocidio) un crimine perseguibile sarebbe logico corollario della nostra avanzata sensibilità di italiani, passati attraverso la dolorosa prova della lotta al nazifascismo per arrivare a una convivenza democratica.
Ma quanti sono oggi i siti antisemiti? Tanti, troppi. In Francia, dopo la strage di Tolosa, si è appurato che l’attentatore aveva creato una rete di jihadisti e poi si era filmato. Anche a Firenze, dopo il raid di sangue contro i senegalesi,
si è scoperto un collegamento via Internet tra facinorosi deliranti. La Rete è potenzialmente pericolosa: veicola l’aspirazione alla libertà nei punti caldi del mondo, ma anche contenuti tendenziosi che vengono considerati dai giovani
alla stregua di oro colato. «Nel 2011 abbiamo avuto in tutto il mondo 400 episodi di antisemitismo», spiega Stefano
Gatti, ricercatore presso il portale Osservatorio antisemitismo del Centro di documentazione ebraica contemporanea. «In genere i picchi si hanno quando in Medio Oriente cresce la tensione tra israeliani e palestinesi». Secondo
Gatti in Italia si verificano ogni anno una cinquantina di episodi di antisemitismo: nel 2012 sono aumentati del 40 per
cento. «L’antisemitismo galoppa nel cyber spazio», aggiunge il ricercatore. «Se agli inizi degli anni ‘90 i siti antisemiti
erano 3 o 4 adesso sono almeno 100. E poi bisogna considerare i social network come Facebook, usato, per esempio, per
diffondere teorie negazioniste da parte di Palladini, professore di filosofia di Torino, che è poi stato sospeso dall’insegnamento. Per dirne una, in un profilo Facebook sono apparse di recente terribili barzellette antisemite».
Già, Facebook, il social network della condivisione: evidentemente non si può oscurare ed è molto impegnativo cancellare, previa richiesta ai dirigenti, contenuti antisemiti su questo tipo di web (2.0) sul quale gli utenti possono caricare
loro contributi. Fronteggiare eventuali sbandamenti dei social network presenta difficoltà operative per il legislatore e
l’inquirente, mentre è più facile oscurare il web di prima generazione (1.0 che funziona come una pagina di giornale.
Dunque un centinaio di siti antisemiti, dei quali una trentina negazionisti. Se si computano anche i siti razzisti, sicuramente più di 100, e quelli xenofobi, numerosissimi, ci si rende conto di quanto il cyber spazio sia un trappolone per
ragazzotti incolti e creduloni ai quali vengono propinati menzogne e libelli come Cristo, i cristiani, il Talmud, un testo del
primo Novecento carico di odio, o i Protocolli dei savi di Sion, un clamoroso falso documentale che nel tempo ha nutrito
tante fantasie. Secondo Gatti ci sono quattro tipologie di siti antisemiti. Prima tipologia i siti neonazisti e cattointegralisti, che raccolgono il maggior numero di adepti. Vanno per la maggiore Holywar, Terrasantalibera (gestito da un
catanese aderente a Forza nuova), Ilcinghialecorazzato, che fa riferimento a scissionisti della Padania, Illombardista.
Seconda tipologia i siti antisionisti, che fingendo di attaccare la politica dello Stato di Israele propalano slogan antisemiti. Terza tipologia i siti complottistici, echeggiati anche in blog molto diffusi: si sostiene che dietro alla crisi mondiale
ci sarebbe la finanza ebraica. Quarta tipologia i siti negazionisti veri e propri.
«Mi sono documentato sulla propaganda che si faceva in Germania prima della Notte dei Cristalli», dice Giuseppe
Corasaniti. «Ebbene cose simili le ho viste su Youtube. C’è un attacco generalizzato alla legge, alla Costituzione, che nel
suo articolo 2 garantisce la sicurezza di persone e gruppi. La recente aggressione al tifoso del Tottenham, avvenuta a
Roma, deve far riflettere. Hanno cominciato a colpire le persone. Se la sono presa con un giornalista di Repubblica e tre
magistrati di Palermo». Evidentemente è necessario un passo avanti nella legislazione. Colpire gli ebrei vuol dire colpire
la diversità, perché nei campi di sterminio sono finiti omosessuali, zingari, oppositori politici, minoranze religiose. Bisogna impedire la circolazione via Internet di pubblicazioni tipo Come diventare nazisti, un testo che istiga alla violenza.
«Ricordiamo che la polizia postale ha un Osservatorio per la sicurezza contro gli atti discriminatori (Oscad)», conclude
Vulpiani. «È possibile fare segnalazioni. La collaborazione dei cittadini ci ha permesso di arrivare all’arresto di 52
persone e alla denuncia di 129. Siamo in piena controffensiva».
Attualità
La questione fascista nell’Italia di oggi
di Andrea Barbetti
Tra i numerosi e a volte inappropriati commenti al criminale e vergognoso attacco
squadrista avvenuto in un pub romano a Campo de’ Fiori contro un gruppo di inglesi è stato faticoso trovare un’analisi davvero centrata sul reale problema che esso
pone. Nel nostro paese purtroppo si dà colpevolmente un trascurabile peso politico,
culturale, mediatico alla questione fascista dilagante. Non sono altro, infatti, che
apologeti del fascismo quelli che negli ultimi anni, specie nella capitale, picchiano
omosessuali, pestano stranieri, approfittano di un incontro di calcio preferibilmente
internazionale per attaccare, malmenare e accoltellare persone di altra nazione.
Sarebbe dunque bene chiamare tali figuri col loro vero appellativo: fascisti. Non
tifosi, fascisti.
Non a caso assaltano in gruppo ridotto singole persone o in branco numeroso alIl Pub devastato a Campo dei Fiori
cune comitive, esattamente come nel recente episodio. Fascisti, non altro. Squadristi,
non altro. Dunque inevitabilmente vigliacchi. Vigliacchi, al punto tale da sfruttare quel brodo socio-culturale che da sempre
è genuina espressione dell’avvenimento sportivo, il tifo, in primis quello calcistico, il più popolare sport nostrano. Si nascondono dietro le insegne di una squadra di football (in qualche caso è rimasta coinvolta anche la nostra stessa nazionale) ben
sapendo dell’automatico risalto mediatico e anche, paradossalmente, dell’assente o sciatta analisi politica che il fenomeno
susciterà presso la maggioranza degli organi d’informazione. Molti tra i media etichettano, classificano tali violenti apologeti
del fascismo in primis nella categoria dei tifosi. Sicuramente lo sono di Mussolini e delle leggi razziali, del braccio teso e del
Mein Kampf, ma della squadra di calcio chissà se veramente. Bisognerebbe invece precisare come tali apologeti del fascismo
utilizzino il calcio, in particolare quella terra spesso franca della curva romana, del tifo la sua anima popolare (anche per via
di prezzi più accessibili alle esangui tasche del cittadino italiano) per rilanciare, amplificare ideali aberranti la cui manifestazione peraltro in Italia risulta reato; anzi risulterebbe, vista l’assoluta impunità con cui ciò invece avviene.
L’attualità della visione di adriano olivetti
di Stefano Volante*
È
stato definito come l’industriale più eretico e geniale del dopoguerra. Fatturati record, 36.000 operai felici,
prodotti d’avanguardia in diversi settori dello scibile umano. Un pensiero poliedrico che approfondiva interessi in
campo industriale, politico, estetico, associativo e ancora urbanistico, sociologico, letterario, filosofico aziendale,
letterario, editoriale. Tutte le attività erano armonizzate secondo un unico disegno che Adriano Olivetti seguiva
sempre in prima persona sino al raggiungimento del risultato positivo. Per i capitani d’industria che invece puntavano
sull’industria pesante – auto e chimica – l’eretico di Ivrea era un “bubbone da estirpare”.
E così fu: come molti grandi italiani, Adriano Olivetti fu incompreso, isolato e dimenticato.
L’attuale debolezza della politica, espressa dai partiti sradicati dalla Società e dal territorio, riporta alla mente quanto
quest’uomo disse illuminando per quasi mezzo secolo il palcoscenico mondiale: “Uno dei fatti più salienti nella storia
degli ultimi decenni è certamente il decadere degli istituti parlamentari in tutti gli stati. La causa (..) deve ricercarsi
nel progressivo evolvere della natura dei problemi sottoposti all’esame dei degli organi legislativi, che da un contenuto
essenzialmente politico hanno assunto un prevalente contenuto economico e sociale”.
Infatti “le procedure parlamentari (…) sono atte ad affrontare i problemi di carattere generale, mentre si prestano assai
meno allo studio dei problemi la cui tecnicità esige la consultazione di organismi specializzati”.
In questo modo, sin dagli anni ’50 Olivetti
mette all’indice il problema della funzionalità
e dell’immobilismo del Parlamento, approfondendo il fenomeno della partitocrazia (coniato
da Maranini ) ed analizzando già allora le
conseguenze degenerative sul livello di competenza, sull’autonomia e sulla rappresentatività
reale del Parlamento, con l’effetto più grave
della confusione dei poteri e della stasi dell’esecutivo.
Come vediamo, Olivetti era in anticipo di
diversi decenni sulla politica e sul pensiero
dominante nel suo tempo.
Sin dall’inizio tutta l’attività di Adriano
fu tesa alla ricerca della partecipazione, del
coinvolgimento e della crescita sociale dei
Adriano Olivetti (Foto di Archivio)
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Attualità
lavoratori: il lavoratore è innanzitutto un essere umano, e va messo al centro di
questo Rinascimento che stava investendo la fabbrica di Ivrea.
Per oltre 30 anni Ivrea fu un fiorire di eventi culturali, mostre e proiezioni di
film, vera fucina di idee che andò oltre il provincialismo e che lasciò gli operai
finalmente fieri del proprio ruolo, segnando la nascita di una sorta di socialismo
aziendale e reclutando i migliori intellettuali del tempo, tanto da diventare un
cenacolo di primaria grandezza: scienziati, artisti, psicologi, filosofi, architetti
vennero chiamati per cambiare le regole del gioco, migliorare la qualità della vita
e salvaguardare il simbolo dell’innovazione, nel tentativo di valorizzare il lavoro,
ricercare fiducia nei giovani, perseguire responsabilità sociale, costruire cultura
e attenzione per l’ambiente per poter testimoniare come l’Olivetti sia stata per
anni il simbolo in un’Italia nuova. Ma nella forma mentis di quest’uomo del Rinascimento impresa, cultura e politica rappresentavano un unicum plasmato da
un’etica formidabile, che metteva al centro del suo mondo il benessere dell’uomo
in tutte le sue forme. Secondo Olivetti, la nostra società, al di là del socialismo
e del capitalismo, crede nei valori spirituali, della scienza e dell’arte, ma soprattutto, ritiene che gli ideali della giustizia non possano essere estraniati dalle
contese tra capitale e lavoro, tanto da affermare che la sua impresa potesse essere
un mezzo di elevazione e riscatto per l’uomo, e non solo un mezzo per raggiungere il profitto fine a se stesso ed alla crescita a tutti i costi. A chi pensava
esclusivamente all’arricchimento facile, Adriano Olivetti contrapponeva una
filosofia lontana dai soliti cliché di un’Italia capace solo d’arrangiarsi ma non di
crescere e svilupparsi, visto che per lui la ricchezza era la crescita della società
nel suo complesso, tutelando anche il territorio e difendendo le risorse ambientali.
Contrapponendo il senso della Comunità ai particolarismi, il valore della
società ai miopi interessi, la ricchezza che può derivare dallo sviluppo sostenibile
alla povertà dello sfruttamento delle risorse, si può arrivare a comprendere una
parte dello sconfinato lavoro umano di Adriano.
Sognatore? Utopista? Molti lo hanno bollato in questo modo, non arrivando a
comprendere la complessità del suo pensiero e delle sue ricerche che lo portavano oltre i ristretti confini aziendali, spinto da un’etica umana che lo portava
a raggiungere altissimi risultati nei campi più disparati: per esempio quando
negli anni trenta, da grande urbanista, elaborò una riflessione originale ed anticipatrice componendo il Piano Regolatore della Valle d’Aosta, frutto anche di
soggiorni negli Stati Uniti e nell’Unione Sovietica. Con questo spirito, bisognerà
raccogliere le parti migliori della Società, a prescindere dal proprio orientamento,
per costruire un governo più efficiente, onesto ed innovatore, e ridare credibilità al Paese. Nel solco della missione etica e riformatrice di Adriano Olivetti.
Fondamentale, oggi e sempre. È certo comunque che Adriano Olivetti unì
delle indubbie capacità manageriali che portarono la Olivetti ad essere la prima
azienda del mondo nel settore dei prodotti per l’ufficio con un’instancabile sete di
ricerca e di sperimentazione su come si potesse armonizzare con l’affermazione
dei diritti umani e con la democrazia partecipativa, dentro e fuori la fabbrica
*Presidente di Communitas 2002- Cittadini per l’Etica nella politica
Fabbrica dell’Olivetti ad Ivrea negli anni Settanta
Ma è “Storia”?
di Piera Tacchino
Il 26 novembre la Rai ha trasmesso un servizio definito di
“Storia” in cui venivano ampiamente illustrati i lavori di restauro
di Palazzo Tittoni a Roma, danneggiato il 23 marzo 1944 dall’attentato
partigiano di Via Rasella contro le
truppe di occupazione tedesche.
L’attuale proprietario, erede della
famiglia che lo possedeva allora e
ne aveva affittato il primo piano a
Benito Mussolini nei primi anni del
suo soggiorno romano, indicava i
danni prodotti dall’attentato.
Nel servizio della Rai non si faceva cenno ai motivi dell’attentato
(le persecuzioni e la quotidiana
intimidazione dei tedeschi) né alla
conseguente rappresaglia nazista
delle Fosse Ardeatine; molto tempo
era invece dedicato al racconto
della vita di Mussolini in quella residenza. Il Duce passava le serate a
suonare il violino e il pianoforte, in
compagnia di un cucciolo di leone,
accudito dalla devota governante
Cesira di cui egli sosterrà il mantenimento e le cure per tutta la vita.
Le fotografie ritraevano Benito
Mussolini magro, con i capelli, gli
occhi un po’ svagati, il volto appoggiato al suo strumento preferito. Da
anni riscuotono successo gli “aneddoti del passato”, senz’altro meno
faticosi per il telespettatore-tipo
della comprensione di un periodo
storico e della realtà sociale e internazionale in cui gli avvenimenti
si sono verificati; sono come una
soap e quindi premianti sotto il
profilo commerciale. Un servizio
pubblico non dovrebbe spacciare
questo genere di informazioni
come “Storia”. Mi chiedo poi, specie in un momento in cui vi è alle
volte del sostegno ai movimenti di
estrema destra giovanili se il delineare un ritratto un po’ bohèmien
di Mussolini non sia una vera e propria azione di propaganda rivolta
ai giovani, specie se essi non sono
in possesso di una seria e articolata
cultura storica, ma confusi dal revisionismo che è presente nei libri
scolastici, nelle università e ovviamente in rete.
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Attualità
ESTERI
Fare i conti con la memoria storica
Il Partito socialista francese si interroga su due temi cardine della storia recente del Paese: l’ antifascismo e il colonialismo. Ce
ne parla qui Rama Sall, la combattiva dirigente che è alla guida del Movimento giovanile socialista francese
di Giuseppe Pullara
P
arigi. “Dans cet immeuble le 19
Aout 1944 le Bureau du Conseil
national de la Résistence et
le Bureau du Comité parisien de la
Libération redigèrent et lancèrent
l’appel à l’insurretion national pour la
libération du territoire”. Ai bordi del
Quartiere Latino, rue de Bellechasse
n.41 incrociando rue de Grenelle (VII
Arrondissement), lo stabile progettato
nel 1913 da Louis Plousey, sobrio
ma elegante, fa da caposaldo ad ogni
discussione su ciò che dell’ultima
guerra contro i tedeschi deve essere
ricordato in Francia.
In questa casa, come ricorda la targa
sulla strada, la Resistenza lanciò la sua
grande offensiva contro i nazisti e gli
stessi francesi che non si opposero al
nemico. La memoria della nazione ha
due facce: il cedimento alla Germania,
la collaborazione. Ma anche il riscatto
di chi volle scegliere un’altra strada,
quella di resistere e combattere. Non
è certo nuovo il tema della Memoria
della seconda Guerra mondiale, per i
francesi come per gli altri popoli europei. Ma ora, con il ritorno della gauche
al governo, l’argomento sembra dover
assumere una più fresca attualità.
Rama Sall, 26 anni, origini senegalesi, è la parigina che da un anno guida
il Movimento dei giovani socialisti
(MJS), “autonomi ma non indipendenti” dal partito che ha mandato (52%)
Francois Hollande all’Eliseo. Non si
sottrae al delicato tema della “doppia
memoria”, quella della Francia antinazista e quella della Francia collusa con
l’occupante. Rama sviluppa volentieri le
sue riflessioni sulla sensibilità dei francesi di oggi, giovani e non, di sinistra
ma anche di destra, a proposito di ciò
che accadde in Francia nei cinque anni
di guerra.
“La trasmissione della Memoria nei
francesi –chiarisce subito- è un tema
complesso. Il partito socialista vuole
consolidare l’idea che alcune scelte
fatte allora potevano essere diverse,
che si poteva non arrivare al regime di
Vichy. Tant’è che non pochi preferirono scegliere la Resistenza”.
Una certa mentalità della gente
comune, spiega la leader dei giovani socialisti, favorì l’avvento di Pétain. Oggi questo
stesso atteggiamento si rispecchia genericamente nelle posizioni di Marine Le Pen
che nelle ultime politiche ha raggiunto il
17% dei voti. “Ora più che mai, vedendo
il pericolo di un’avanzata generalizzata
della destra in Europa, il PS, tornato al
governo della Francia, ritiene necessario
che si torni a parlare di un periodo critico
in cui il nostro Paese si era diviso tra chi
si lasciò prendere da uno spirito collaborazionista e chi invece seguì il richiamo della
Resistenza. Oggi noi socialisti vogliamo
ricordare ai francesi che come accadde
settant’anni fa ad una scelta “pétainiana”
c’è la possibilità e il dovere di opporre una
strada diversa: l’impegno per un’alternativa. Si, a sinistra”.
Da studiatissime ricerche post-elettorali
risulta che nel Nord-Est i francesi che
votano per l’estrema destra sembrano
riflettere i gravi problemi della disoccupazione, al Sud (Tolone, Avignone) agisce una
diffusa propensione vicina al razzismo.
L’Ovest del Paese, più moderato, ha ampie
tradizioni socialiste che prosciugano la
palude destrorsa. Nell’opinione diffusa
tra i francesi del 2012 c’è poco spazio per
il giustificazionismo, per comprendere le
ragioni che condussero a Pétain e alla sua
Francia “libera”. Anche a destra, sostiene
Rama Sall, si critica quella che fu l’azione di sostegno al Maresciallo. “Il PS è
sempre impegnato a ricordare a tutti che
una minoranza fece allora la scelta giusta
di opposizione: tra le tante conseguenze
positive, nel dopoguerra, sono derivate
anche le grandi opzioni di politica sociale
che caratterizzano tutt’oggi il Paese, un
aspetto della realtà francese apprezzato
dall’insieme dei suoi cittadini”. Perfino
dalla Le Pen che se da un lato approva il
sistema di sanità pubblica, dall’altro dice
che il programma di difesa della salute
dovrebbe riguardare solo i francesi escludendo l’immigrazione.
La Francia oggi “socialista” deve e vuole
affrontare anche un altro tema scottante,
che concerne la sua storia più recente: il
colonialismo. Il caso Algeria, il rapporto
con l’Africa. Ma non era stato già chiarito
tutto con Mitterrand? Ogni cosa non è
stata messa al suo posto? “La gauche è
Rama Sall al congresso del Partito Socialista francese
ancora impegnata a studiare a fondo un
argomento come questo, in tutta la sua criticità. Del resto, ogni partito ha a che fare
con quelle che furono le proprie scelte, per
esempio, sull’Algeria. A quel tempo i socialisti erano per il mantenimento della colonia. Questo ci fa essere molto, ma molto
critici sulle decisioni che il partito prese
allora, anche se oggi il PS propende per la
“storicizzazione” delle posizioni socialiste
del tempo”.
Un analogo atteggiamento che richiama
il contesto delle condizioni politico-culturali di quegli anni sembra essere la via d’uscita dei francesi della stagione-Hollande
dal tempo della vergogna, del collaborazionismo. I responsabili della formula Petain
no, quelli sono duramente condannati. Ma
per la gente comune viene applicata un po’
da tutti i partiti la franchigia storica. “La
gauche è a posto: fece la scelta giusta e
la fece subito per la Resistenza. Se siamo
deboli sulla colonizzazione siamo forti
sul periodo della guerra. La Memoria sta
dalla nostra parte”. Eppure nell’ inconscio collettivo, resta il tema della “doppia
Memoria” che riguarda il quinquennio
bellico. La giovane dirigente socialista
sottolinea che “si sente ancora il bisogno
di parlarne nelle scuole, nelle università,
se ne fanno film. Si scrive ancora molto
su questo argomento difficile: vogliamo
toglierci ogni dubbio. Anche per evitare
che le ombre del passato si proiettino nel
futuro”. E resta, chiara, la distinzione tra
destra e sinistra, almeno in questo: “C’è chi
vuole dimenticare tutto e chi, invece, vuole
ricordare, capire fino in fondo perché la
Storia non si ripeta”.
I luoghi della storia
8
IL MONUMENTO ALLA RESISTENZA A MATERA
di Mario Tempesta
… … segue da pagina 1
…Case-grotta con strade tortuose
molto strette e in pendenza, luoghi
singolari, dove in un totale degrado
delle forme di vita sociale, efficacemente descritte da Carlo Levi nel
noto libro Cristo si è fermato a Eboli,
vivevano fino agli anni Sessanta quasi quindicimila persone, trasferite
poi in due moderni villaggi progettati in modo che permettessero - il
più possibile - il mantenimento delle
tradizionali esigenze di vita e di convivenza di quegli abitanti. Dopo il risanamento igienico-sanitario, questi
luoghi, nel 1993, sono stati dichiarati
dall’Unesco Patrimonio dell’Umanità.
Ebbene, in questa singolare struttura
urbanistica, in questa città, ora moderna ed internazionale, candidata
per il 2019 a Capitale Europea della
Cultura, il 21 settembre del 1943 è
stato un giorno speciale, un giorno
che ha coinvolto donne, uomini,
bambini e anziani della città.
Quel giorno i materani insorsero
contro i nazisti pagando la rivolta con un notevole tributo di vite
umane. Pastori, contadini, artigiani,
commercianti, avvocati, impiegati,
studenti, soldati, semplici cittadini
offrirono la loro vita per liberare la
Panoramica dei “Sassi” di Matera
città dalla prepotenza del nazifascismo. Matera è stata la prima città
del Mezzogiorno d’Italia ad insorgere contro il nazifascismo ed è stata insignita di medaglia d’argento al
valor militare, come Bari, Barletta,
Monumento alla Resistenza, Matera
Bitetto, premiate con medaglie d’oro
per la Resistenza o al merito civile.
Ai materani va riconosciuta la decisa
volontà di difendere i valori della democrazia e della libertà, come era già
avvenuto nei primi 80 anni di storia
unitaria. Ma quali furono gli avvenimenti del
’43? Dopo l’Armistizio dell’8 settembre, il Palazzo della Milizia Volontaria
per la Sicurezza Nazionale, abbandonato dai fascisti, fu contemporaneamente occupato dai soldati tedeschi appartenenti al 1° Battaglione 1°
Divisione Paracadutisti, comandati
dal “tristo” maggiore Wolf Werner
Graf von der Schulenburg.
Durante la permanenza dei tedeschi
di militari italiani, i cui fucili requisiti furono portati presso il campo
sportivo.
La situazione precipitò quando un
soldato tedesco tentò di rapinare
una gioielleria, dove ebbe la peggio.
I materani testimoni dell’episodio
uccisero l’aggressore e cercarono
di nasconderne il cadavere. Subito
dopo un altro militare tedesco che si
trovava in una sala da barba fu accoltellato da un cittadino materano, che,
appena compiuto il gesto, corse per
le strade incitando i concittadini alle
armi. I soldati tedeschi in formazioni
motorizzate girarono per le strade
della città sparando contro chiunque
capitasse a tiro. Seguirono ore di vio-
in città, la situazione si fece sempre più drammatica e a partire dalla metà del mese cominciarono gli
arresti di civili e militari che i tedeschi rinchiudevano nel Palazzo della
Milizia. Fermarono, circondarono e
disarmarono anche un battaglione
lenta guerriglia; il tenente Francesco
Nitti, comandante del presidio militare italiano, per proteggere la cittadinanza, decise di armare sia i militari che i civili dislocandoli in varie
zone strategiche della città, tra cui la
Prefettura che i tedeschi cercarono I luoghi della storia
9
di assaltare. Ma dal campanile della chiesetta della Mater Domini un
cittadino con fucili e bombe a mano
fece fuoco sui nemici impedendo
loro di avvicinarvisi. Altri lunghi
momenti di guerriglia vi furono nei
pressi della caserma della Guardia
di Finanza, con i finanzieri accorsi in
aiuto degli abitanti di Matera. Nei diversi conflitti a fuoco persero la vita
altri materani e numerosi soldati tedeschi.
Tra i civili cadde un farmacista, che
aveva preso parte alla guerriglia sparando dalla finestra della sua abitazione, sita nei pressi della caserma
della Guardia di Finanza, colpito
dalle raffiche di mitragliatrice dei tedeschi; rimase ucciso anche il finanziere Vincenzo Rutigliano al quale è
dedicata l’attuale Caserma cittadina.
Per lasciare la città al buio i militari tedeschi assediarono anche il
Palazzo dell’Elettricità e nelle operazioni di occupazione uccisero altri
civili. Ma l’atto più tragico fu quello
compiuto poco prima di abbandonare la città: fecero saltare in aria il
Palazzo della Milizia, trasformato
in una prigione, con al suo interno 14 persone, 8 soldati e 6 civili.
Nell’esplosione morirono tutti coloro
che vi si trovavano eccetto un soldato estratto vivo ma gravemente ustio-
città ed evitò anche il suo bombardamento da parte degli alleati, che giunsero dopo quella tragica giornata. Per
non dimenticarla nei luoghi ove si
consumarono gli eccidi, Matera ha onorato la memoria dei suoi 24 caduti con un cippo in marmo nei pressi
del Palazzo della Milizia, una lapide
sulla facciata laterale della caserma
della Guardia di Finanza, una lapide dove era il Palazzo della Società
Elettrica ed, infine, una lapide sulla facciata laterale del Palazzo del
Governo. Quest’ultima reca la scritta: “Nel tragico giorno del 21 –IX1943 mentre i tedeschi devastatori
compivano orrenda strage di ostaggi
innocenti il popolo materano sorto
in armi cacciava il feroce nemico e
col sacrificio dei suoi animosi figli si
ridonava la libertà. Monito agli oppressori. Incitamento agli oppressi”.
La lapide, che ricorda che la città è
stata insignita della Medaglia d’argento al Valor Militare, ha la seguente iscrizione: “Matera prima città del
Mezzogiorno insorta in armi contro
il nazifascismo addita l’epico sacrificio del 21 settembre 1943 alle generazioni presenti e future perché
ricordino e sappiano con pari dignità
e fermezza difendere la libertà e la
dignità delle coscienze contro tutte
le prevaricazioni e le offese”. Per ri-
della quotidiana azione per la pace
e il rispetto dei diritti umani, è composta da 6 figure in bronzo, donate
alla città dal suo autore, lo scultore,
pittore e incisore veneziano, Vittorio
Basaglia, artista di livello internazionale, che ha dedicato tutta la sua vita
ad una continua ricerca sull’uomo,
alla storia fatta di eventi drammatici
individuali e collettivi. Diverse sue
opere dal chiaro contenuto sociale
sono esposte in alcune piazze italiane.
Questa, dalle forme plastiche e simboliche in volumi rapidi e violenti,
ricorda gli epiloghi avuti durante
la Resistenza materana: la dissoluzione dell’uomo, un cavallo con il
corpo di un uomo morto, le caratteristiche del popolo contadino lucano. Ammonimento ai rigurgiti nazifascisti che di nuovo attraversano il
nostro Paese: ad essi occorre reagire
con la stessa determinazione umana
e politica in un quadro di salvaguardia del dettato costituzionale, di coesione sociale e solidarietà; ad essi
occorre reagire continuando a ricordare, specialmente in questo momento così delicato sul piano politico, sociale ed istituzionale, le storie
terribili di vita nazionale dove il pericolo era la morte e non le polemiche, dove la violenza non era verbale
nato. Nella sua deposizione, questi
affermò che nell’edificio c’erano 16
persone sebbene i cadaveri ritrovati
fossero 13, di cui solo 10 identificati.
L’insurrezione del popolo materano impedì ai tedeschi in ritirata di
radere al suolo molti palazzi della
cordare quella tragica giornata anche
il campo sportivo cittadino è stato intitolato “Stadio XXI settembre”.
Infine davanti al Palazzo Comunale
è stato apposto il “Monumento alla
Resistenza”. La scultura, lì collocata affinché sia simbolica testimone
ma uccideva gli innocenti; ad essi
occorre reagire alzando la bandiera
della dignità degli uomini coraggiosi
che si opposero alle offese e ai delitti.
Esempi su cui riflettere in un mondo
oggi così poco nobile e così egoista.
10
Cultura
Belle come farfalle le sorelle uccise dal dittatore
Mentre infuriano le violenze contro le donne ricordiamo le sorelle Mirabal, coraggiose
protagoniste della lotta per la democrazia in America Latina
di Giulietta Rovera
R
partono per fare loro visita. Il SIM intercetta l’auto, blocca il
epubblica Dominicana, 25 novembre 1960. In fondo a
veicolo, le tre donne vengono trascinate in una piantagione di
un burrone, non lontano dalla città di Puerto Plata,
canna da zucchero, massacrate di botte, violentate, pugnalate.
viene rinvenuta un’auto: per i quattro passeggeri
a bordo - Rufino de la Cruz, di professione
autista, Patria, Minerva e Maria Teresa
Mirabal – non c’è più nulla da fare. Le
autorità liquidano sbrigativamente il fatto
come infortunio, ma alla tesi dell’incidente
non crede nessuno. Le sorelle Mirabal,
infatti, sono leggendarie non solo per la
bellezza, ma per la lotta senza quartiere
che stanno conducendo contro uno dei più
spietati dittatori della storia dell’America
Latina, Rafael Trujillo.
Erano nate alla fine degli anni Venti,
poco prima che Trujillo salisse al potere.
In un paese impoverito da una gestione
personalistica della cosa pubblica, dove il
tasso di analfabetismo è altissimo e il rispetto per i diritti delle donne inesistente,
le sorelle Mirabal, appartenenti a una
florida famiglia di commercianti e proprietari terrieri espropriata da un dittatore
che non esita a trasferire i beni altrui nel
proprio personale patrimonio, studiano.
Patria, la maggiore (1924), sceglie arte
e dattilografia; Dedé (1925) ottenuta la
licenza alle superiori, aiuta il padre negli
affari; Minerva (1926) si laurea in legge,
ma avendo rifiutato le avances di Trujillo,
le viene negato il diritto di praticare l’avvocatura; Maria Teresa (1936) si diploma in
agrimensura. Ė Minerva la più impegnata,
Manifesto della Giornata contro la violenza sulle donne
lei che trascina le sorelle nella lotta per la
Poi, per nascondere l’assassinio, viene simulato l’incidente.
libertà e la democrazia e che osa sfidare il dittatore, sostenendo
“Ho solo due problemi, la Chiesa cattolica e le sorelle Mirabal”,
apertamente le proprie idee politiche. Per fermarle, il governo
sosteneva Trujillo: mettendole a morte, crede di averne elimidà il via a una serie di rappresaglie, la polizia segreta le imprinato uno. Sbaglia. L’ondata di indignazione popolare risveglia
giona, le tortura. Ma ogni volta che vengono rilasciate riprenle coscienze intorpidite dalla paura, dilaga, si ingigantisce. Il
dono la lotta. Nel gennaio del ‘60 creano il movimento clande30 maggio 1961, la Chevrolet Bel Air blu a bordo della quale
stino 14 Giugno - nome in codice Las Mariposas, le farfalle
siede Rafael Trujillo viene mitragliata mentre si trova in una
- che si oppone al regime di Trujillo, responsabile di atrocità e
zona poco lontana dalla capitale. Con l’eliminazione del dittamassacri: si parla di 50.000 morti in un paese che contava potore la repubblica dominicana dà finalmente inizio al lungo,
chi milioni di abitanti. Il SIM (Servico de Inteligencia Militar)
non facile, faticoso cammino verso la democrazia. In onore di
ne individua i membri, li perseguita, li incarcera nel penitenPatria, Minerva e Maria Teresa Mirabal il 17 dicembre 1999
ziario La Victoria a Santo Domingo: tra questi Minerva e
l’Assemblea Generale delle Nazioni Unite approva con voto
Maria Teresa con i rispettivi mariti. Carcere, nella Repubblica
unanime la risoluzione 54/134, con cui sceglie il 25 novembre
Dominicana, è divenuto ormai sinonimo di morte: nessun poquale “Giornata Internazionale per l’eliminazione della
tere è infatti tanto spietato come quando sente che sta volgendo
Violenza contro le Donne”. Dedé è l’unica sopravvissuta
verso la fine. Quanto accade nell’isola caraibica è però un fatto
delle sorelle: ha dedicato tutta la sua vita a far sì che il ricordo
noto anche all’estero, in particolare negli Stati Uniti, che, se
delle loro appasionate lotte non venisse appannato dal tempo e
nel passato hanno protetto il dittatore, ora non vedono l’ora di
i loro ideali fossero realizzati.
liberarsene. Cedendo alle pressioni internazionali, Minerva
a Maria Teresa sono rilasciate, mentre i loro mariti vengono
trasferiti nel carcere di Puerto Plata.
Il 25 novembre 1960, Patria, Minerva e Maria Teresa
11
Cultura
Per l’amica umiliata e offesa
Un ricordo di Laura Conti, umanista e scienziata di valore, vittima di stupro da parte degli
aguzzini fascisti
di Domenico Tarizzo
P
arlare di Laura Conti vuol dire anche scegliere una parte del nostro passato
che continua a ferirci, talvolta, con la sua estraneità, ma anche a rivelarci
qualcosa di dimenticato, rimosso, modificato. Mi vengono in mente tre date:
nel 1963 Laura pubblicò con Einaudi il suo primo romanzo, Cecilia e le streghe, che io
trovai bellissimo, misterioso e diverso. Nel 1964 io pubblicai con Rizzoli La pelle del
verme. Lei, l’anno successivo, il suo secondo romanzo con Mondadori, La condizione
sperimentale, basato sulla sua esperienza del campo di concentramento nazista. Non
mi piacque come il primo, lo trovai buio, angosciante, e non poteva essere altrimenti, e
la scrittura burocratica, perfettamente adeguata alla struttura
del Lager, una continua fonte di incubo.
Nella città dove abitavamo, Milano, il denaro era, legato al
potere allora come oggi, il dominus di tutte le azioni, a ogni
livello sociale. Persone di buona volontà reagivano organizzando lezioni sulla storia dell’antifascismo, si mobilitarono gli
insegnanti della scuola pubblica, si fecero parlare i testimoni.
Io scrissi e pubblicai una storia dei campi di sterminio nazifascisti, «invenzioni della propaganda» esclamò un giovane
fascista dopo un dibattito, tirandomi, per spiegarsi meglio, un
calcio all’inguine e una piccola coltellata: schivai entrambi, la
solita fortuna.
Il mio libro sui Lager uscì nel ‘64: l’anno dopo Laura pubblicò, sullo stesso tema, La condizione sperimentale. In un Lager
di transito, nell’inverno del ‘44, un ufficiale delle SS tenta un
esperimento di vita meno disumana, e fallisce. Laura anche in
quei frangenti non dimenticava di essere uno scienziato: «Un
campo di concentramento è una condizione sperimentale… un
Laura Conti
laboratorio in cui viene preparato un terreno sterile, spoglio di
circostanze accessorie e incidentali… via i batteri, via i sentimenti, solo la struttura SS
e l’internato. La pietra di paragone è sempre uguale e assoluta, è la morte».
Parlava di cose che conosceva bene. Durante la Resistenza era una bella ragazza di
circa vent’anni (era nata a Udine nel 1921), aveva un incarico difficile e rischioso: accostare i giovani alpini della Monterosa, indurli a disertare dall’esercito di Mussolini
e passare coi partigiani. Un giorno, a Genova, venne arrestata. Passò per il solito
calvario, botte, torture, e per lei che era una bella ragazza i torturatori fascisti aggiunsero lo stupro. Per me non era stato difficile diventare antifascista. Lo era mio padre,
che era andato volontario sul Piave nella prima guerra mondiale a 18 anni. E poi con
D’Annunzio a Fiume. Figlio di emigranti era un patriota, non un nazionalista. Seguace
di Giacomo Matteotti odiava e disprezzava tutto ciò che era fascismo. Certo, avevo
anche due zii amici di Mussolini, uno addiritttura nell’Ovra, l’altro nella diplomazia.
Quando scoppiò la seconda guerra mondiale avevo 10 anni. Ho vissuto tutto l’orrore
del fascismo di Salò.
Ricordo le parole di un amico giornalista, Giancarlo Fusco, a proposito di Laura:
«Entrò a Marassi una bella ragazza di vent’anni e ne uscì una povera vecchia irriconoscibile». Comunque, Laura si riprese; divenne, dopo la Liberazione, se non una bella ragazza una signora, come usa dire, molto interessante. Non portava rancore a nessuno;
al massimo dei suoi avversari diceva, quasi in un mormorio: «Sono rimasti stalinisti».
Lavorò come medico e consigliere al Comune di Milano. Visitava gli ospedali, i ricoverati. Si era specializzata in traumatologia e per lei essere medico ed essere comunista
voleva dire dare una mano a chi soffre. La sua Cecilia è una contadina toscana, malata
terminale, che sale a Milano in cerca di salvezza. Laura era una donna silenziosa,
molto intelligente, semplice nei modi, ma non populista: nel romanzo l’io narrante, un
medico, vorrebbe che Cecilia capisse che non può più farle le ricette di morfina, che
la ucciderebbe. La malata è colta nella sua umanità fidente, ma anche nella sua arretratezza che cerca salvezze tipo Lourdes. Alla fine il dialogo tra le due donne diventa
impossibile. Scriveva l’autrice: «Volevo togliere l’ammalato dalla concezione comune,
una persona senza più possibilità di vivere
storia, di fare storia, ma solo di morire».
Ccilia non può più fare storia, non ne ha gli
strumenti, la diseguaglianza insegue gli
esseri viventi fin dentro l’ultima speranza.
Il compito dell’intellettuale che si vuole
comunista resta quello di non mentire,
soprattutto di fronte all’ultimo, definitivo
scandalo della morte. Anche delle misere
dosi di morfina una Milano periferica,
miserabile, riesce a fare denaro. Passando
su tutto come i grandi trafficanti, calpestando tutto, illudendo i più sprovveduti,
e in certe circostanze siamo tutti molto
sprovveduti. Eppure ancora non costretti
ad arrenderci.
Progettammo di scrivere assieme un
libro sulle classi sociali nella Resistenza.
Lo scrivemmo, invece, separatamente.
Nella Pelle del verme io parlavo della nuova
Milano anglofona e volgare del dominio
publicitario, Laura della violenza quotidiana che si esercita a San Babila e fuori.
La ammiravo molto. Era stata in gioventù
particolarmente amica di Lelio Basso, ma
non uscì mai dal Pci, almeno nell’anima,
e ricordo che un giorno, parlavamo della
stampa del ‘68 e lei definì «quella rivistaccia!» i Quaderni piacentini.
Era fedele nel cuore e nei pensieri, minimizzava i suoi meriti e fu soltanto quando
il governo di destra della neonata seconda
repubblica regalò una vile assoluzione ai
fascisti e al fascismo che Laura reagì dichiarando, sobriamente ma interamente, il
trattamento subito dai torturatori di Salò.
12
Cultura
Fino a quel momento, infatti, non lo
aveva mai ammesso. Anzi, parlava di un
comportamento «corretto» dei suoi torturatori. Insisteva sulla «fortuna» di essere
scampata, con altri, alle torture. Si aprono
in queste latitudini psichiche misteri
dell’animo umano in cui non è agevole né,
forse, lecito incamminarsi. Il pudore avvolgeva i rapporti, un pudore così diverso
dalle esibizioni attuali. E poiché la prassi
della tortura è particolarmente odiosa
quando umilia una donna, mai avremmo
pensato che continuasse, in luoghi appositi, ai danni di giovani scriteriati e sventurati che per un arresto della razionalità
avevano orecchiato la rivoluzione al tempo
delle brigate rosse. Anche allora c’erano
tormentatori specializzati, e soddisfatti,
se a nulla valsero interrogazioni parlamentari, interventi dell’Europa e di Amnesty
International perché venisse fatta luce
sulle «ville tristi», non di Salò, ma della
repubblica italiana democratica.
Com’è facile umiliare una donna, in
qualsiasi regime. Lo pensavo guardando, quasi senza farmi accorgere, il bel volto sereno di Laura Conti. Ma quante giovani donne subirono - subiscono? - la sua sorte,
invece di essere accompagnate con l’affetto anche critico che si deve, che la democrazia deve, ai più inermi, ai più ingenui, ai più sprovveduti? Certo, questo è un discorso
utopico, forse mai realizzabile. Ma come può essere coeso un corpo nazionale senza
questo rispetto istituzionale? E perché nessuno, o troppo esiguo gruppo, ne parla?
Laura Conti non è solo la ragazza friulana offesa, è una ferita dell’Italia antifascista
che non si rimargina. Nessuno è soltanto se stesso, se appena la sua sorte varca i confini beati del quieto vivere.
Laura Conti nel dopoguerra aveva sempre abitato in periferia. Non sopportava gli
stupidi e i volgari della nuova Milano e conservava degli anni giovanili una curiosità
intatta per gli aspetti meno prevedibili della vita. Cercava di non fare del male a nessuno, semmai il contrario. Diceva: «Ci pensa già la vita a fare del male alle persone».
La vecchiaia fu dura con lei. Si appesantì e si muoveva a fatica. Nella sua ultima dimora
viveva con 17 gatti, sempre pronta a mobilitarsi per una causa che riteneva giusta. Così
ritornò in politica, e a Roma, a Montecitorio, eletta, se ricordo bene, in una lista ecologista. Il ‘68 ci aveva fatti perdere di vista: a lei piacque molto meno che a me. Ma poi
riconcordammo.
Ora giace in una tomba spoglia al Cimitero Maggiore di Milano, non nel Famedio, ove
pure sostano non pochi imbelli. Ma lei non si sarebbe lamentata dell’oblio. D’altronde,
la sua è la sorte che questa città riserba alle donne intelligenti, inconsuete, capaci di
ignorare il cogente, cosiddetto fascino del denaro.
L’ODORE SELVAGGIO DELLA NOTTE
di Maria Scarfì Cirone
Narra la storia vera di un anarchico
spezzino, Dante Carnesecchi, che
ha operato ai primi del novecento ad
Arcola. L’autenticità dei fatti, riportati
con accuratezza attraverso documenti
e testimonianze d’epoca, conduce alla
conoscenza di eventi che infiammano
il protagonista di questa storia ed i
suoi amici in un contrasto violento con
coloro che rappresentavano lo Stato e
le Istituzioni. È un percorso impervio,
a volte spietato, in bilico fra speranza e
disperazione.
Solo apparentemente lontane appaiono le immagini di due donne,
la madre del carabiniere ucciso e la
madre dell’anarchico trucidato. Unite
dal destino dei loro figli conoscono lo
stesso strazio, lo stesso amore.
«Dante Carnesecchi è una delle più
belle figure dell’individualismo anarchico. Alto, vigoroso, pallido e bruno.
Occhi taglienti e penetranti di ribelle e
di dominatore. Ha l’agilità di un acrobata ed è dotato di una forza erculea.
Ha ventotto anni. È un solitario ed
ha pochissimi amici. L’indipendenza
è il suo carattere. La volontà è la sua
anima. Nelle conversazioni è un vulcano impetuoso di critica corrodente.
È sarcastico, ironico, sprezzante
[…]. È un anarchico veramente
individualista».
( R e n z o
Novatore articolo del 7 ottobre 1920, da Il
Libertario)
«Tra quella nidiata d’aquilotti
libertari che dai
colli
arcolani,
dominanti
a
mezzogiorno la
conca
azzurra
del golfo di Spezia e a tramontana
la vallata del Magra, spiccavano il
volo verso tanti quotidiani ardimenti, si distingueva sopra tutti
Dante Carnesecchi. Alto, atletico,
volto energico, parco di parole, rapido nel gesto, tagliente lo sguardo
una giovinezza creata per l’azione,
e nell’azione interamente spesa…
Non aveva amici, non ne ricercava:
non affetti, mollezze, piaceri. In
seno alla stessa famiglia viveva
senza vincoli. Verso la madre, come
verso le sorelle che lo adoravano, si
comportava con la freddezza di un
estraneo… Nessuno poteva esercitare un qualsiasi ascendente su di
lui. ».
(Auro d’Arcola, da L’adunata dei
refrattari. I nostri caduti: Dante
Carnesecchi dell’11 maggio 1929)
MARIA SCARFÌ, autrice di
ventisei opere edite. Il volume
è stato presentato l’8 novembre
presso presso il Centro Sociale E.
Bassano di Arcola (Sp) da Emiliana
Orlani, Assessore alla cultura del
Comune di Arcola, Paola Baldini,
Assessore alla Cultura del Comune
di Vezzano Ligure e Giorgio Neri,
storico.
13
Cultura
Che coppia il garibaldino e la femminista
Nel libro di Vincenzo Teti Il patriota e la maestra la storia di un amore appassionato che divenne sodalizio politico
di Giovanni Russo
Vito Teti, che insegna antropologia culturale nella facoltà di Lettere
e Filosofia dell’Università della
Calabria, è un accademico che non
risente delle caratteristiche attribuite quasi sempre alla categoria.
Fondatore del Centro di antropologia e di letteratura del
Mediterraneo, unisce allo studio e
ai saggi strettamente scientifici l’attenzione per la società meridionale.
Accanto a libri come quello intitolato Il pane, la beffa e la festa.
Alimentazione e ideologia dell’alimentazione nelle classi subalterne
e Il colore del cibo. Geografia, mito
e realtà dell’alimentazione mediterranea si è dedicato a realizzare
reportage fotografici e documentari etnografici nella regione in
cui è nato, la Calabria. Vogliamo
citare tra gli altri suoi testi Il senso
dei luoghi, memorie e vita dei paesi
abbandonati e Storia del peperoncino, ambedue pubblicati per
l’editore Donzelli.
La sua capacità di fondere la
ricerca scientifica con l’interesse per la realtà umana e sociale
emerge in questo ultimo libro Il
patriota e la maestra (Quodlibet
editore). Teti ricostruisce la storia
d’amore tra il calabrese Antonio
Garcea, che per la sua lotta contro
i Borboni fu rinchiuso più volte
in carcere, e Giovanna Bertòla,
giovane maestra piemontese, fondatrice di un giornale che potremmo
definire femminista, intitolato La
voce delle donne. Questo libro, come
scrive lo storico francese Maurice
Aymard nella prefazione, è anche
“un grande libro di storia, nel senso
più forte della parola”.
Vito Teti si è identificato con la
vicenda umana dei personaggi. E’
riuscito a darci come in un romanzo
la straordinaria storia del rapporto
tra i protagonisti che si intreccia alle lotte per il Risorgimento
in Calabria. Così scrive Aymard
nella prefazione: “Lui, nato nel
1820 in Calabria, a San Nicola di
Vallelonga, ha alle spalle sia l’esperienza delle lotte del Risorgimento
nel Regno di Napoli, sia quella
delle guerre degli anni 1859-1861,
combattute nell’esercito sardo e poi
accanto a Garibaldi. Lei, nata nel
1843 in Piemonte, a Mondovì, lo sposa
a diciotto anni. Antonio Garcea e
Giovanna Bertòla si sono incontrati quasi per caso, hanno fondato
una famiglia e proseguito insieme le
loro carriere personali dal Nord al
Sud dell’Italia, da Empoli a Parma, da
Messina a Vasto a Velletri, fino ad arrivare a Reggio Calabria e Catanzaro, le
due città dove lui, già ufficiale dell’esercito italiano, poi impiegato nelle
ferrovie, e lei, pedagoga, fondatrice
e responsabile di scuole femminili,
vengono destinati senza mai poter
tornare a lungo nelle loro piccole patrie
familiari”. Vito Teti comincia il libro
con un ricordo della sua infanzia: vide
nella casa comunale del suo paese, San
Nicola da Crissa, una teca che conteneva un pezzo della aorta di Carlo
Poerio, uno dei principali protagonisti del Risorgimento, cui Benedetto
Croce ha dedicato uno dei saggi più
importanti. Questa reliquia è stata
conservata dai discendenti di Antonio
Garcea, che fu compagno di lotta del
14
Cultura
Poerio. Come osserva Teti, la memorialistica risorgimentale diffonde il
culto dei nuovi martiri: coloro che
sacrificarono la vita in nome della
religione della patria, che morirono
per l’indipendenza e l’unità dell’Italia, hanno preso il posto dei santi. In
polemica con il revisionismo di alcuni
storici come Giordano Bruno Guerri,
autore del libro Il sangue del Sud, Teti
sottolinea che il sangue del Sud non
è solo quello dei briganti, ma anche
quello delle loro vittime e ancora
prima dei giacobini e dei patrioti antiborbonici.
Poi sarà il sangue degli emigranti.
Infine, nel Novecento, quello dei contadini uccisi mentre chiedevano terra
e libertà, a Portella della Ginestra e
Melissa. L’autore descrive l’insurrezione e gli avvenimenti del ’48, di cui
sono protagonisti nobili e borghesi
che contrastano l’antica aristocrazia parassitaria e che vogliono un
profondo mutamento sociale.
Per narrare la lotta di Antonio
Garcea contro i Borboni, Teti attinge
alla testimonianza di Giovanna
Bertòla, che ha raccolto in un libro i
racconti del marito. Per ottenere dal
Borbone la Costituzione, Garcea aiuta
i cospiratori nella lotta antiborbonica
che si sviluppa tra Roccella e Reggio,
con particolare intensità nel distretto
di Gerace.
Il generale Ferdinando Nunziante
arriva con le truppe borboniche
che compiono una dura repressione
soprattutto a Gerace, dove il principale avversario è proprio Garcea.
Scrive Teti: “A Reggio la Commissione
militare aveva condannato a morte
quattro rivoltosi. A Gerace, il 1˚ ottobre, destino analogo per i giovani capi
della sommossa del distretto, Michele
Bello, Rocco Verduci, Gaetano Ruffo,
Domenico Salvadori, Pietro Mazzoni.
Tutti formatisi a Napoli, dove studiavano giurisprudenza, saranno fucilati
il giorno successivo e i loro corpi, in
segno di disprezzo, gettati nella lupa,
la fossa comune”.
L’importanza del libro sta nel fatto
che ci fornisce il quadro di un Mezzogiorno che non fu passivo. Anzi. Il ’48
a Napoli e in Calabria vide un movimento al quale parteciparono i ceti
popolari, come dimostrano i morti
negli scontri del 15 maggio del ’48 a
Napoli, dove Francesco De Sanctis
combatte e dove muore sulle barricate
il giovane studente lucano Luigi La
Vista.
Lo scontro con le truppe borboniche, che hanno la meglio, è durissimo
e si conclude con oltre cento morti e
cinquecento feriti. Antonio Garcea
viene catturato e, insieme ad altri
prigionieri, incatenato e portato a
Napoli dove saranno tutti imbarcati e
tradotti nel carcere di Procida.
L’idea che i meridionali non hanno
saputo lottare per il Risorgimento è
stata ed è ancora ampiamente condivisa.
A questo proposito mi si scuserà se
faccio un riferimento personale: nel
mio libro E’ tornato Garibaldi, proprio
a proposito della spedizione dei
Mille, scrivevo che molti meridionali
avevano partecipato al Risorgimento
nel Sud. Indro Montanelli, recensendolo, sostenne che invece essi non
vi avevano affatto preso parte. Se si
pensa al numero dei morti, dei feriti
e degli imprigionati durante e dopo il
’48 si capisce quanto fu alto il prezzo
pagato dai patrioti meridionali che si
opponevano ai Borboni.
A proposito della prigionia inflitta
a Garcea e Carlo Poerio, Teti ricorda
come nacque il pamphlet del conservatore
inglese
Gladstone,
che
denunziava la violazione dei diritti
degli imputati e dei prigionieri e
descriveva il regno delle Due Sicilie
come la negazione di Dio e la sovversione di ogni idea morale e sociale. Il
pamphlet fu alla base di uno scandalo
internazionale. I Borboni pensarono
di chiudere il caso trasferendo in
Argentina i prigionieri, tra cui Antonio Garcea. Essi vennero imbarcati su
una nave americana diretta in Argentina: è molto interessante il racconto
che Antonio Garcea fa alla moglie
Giovanna su come essi riuscirono a
far cambiare rotta alla nave e a dirigersi invece verso l’Irlanda, cosicché
i prigionieri sbarcano a Queenstown
dove vengono liberati. Antonio
Garcea lascia l’Irlanda e raggiunge
Torino, dove ottiene di far parte
dell’esercito piemontese. Siamo nell’agosto del 1859.
Nel 1860 c’è la spedizione dei Mille.
Garcea dal Piemonte raggiunge la
Calabria e lancia un messaggio che
invita i calabresi a partecipare all’insurrezione contro i Borboni. Si unisce
così al gruppo dei volontari calabresi
che faranno parte della spedizione dei
Mille nei reparti comandati da Bixio.
Protagonista della seconda parte del
libro di Teti è la moglie di Garcea,
Giovanna Bertòla, che raccoglie le
memorie del marito e le sue vicende
sotto i Borboni in un libro pubblicato a Torino. Dopo la guerra la
coppia si trasferisce a Parma, dove
Giovanna fonda una rivista intitolata La voce delle donne. Il giornale,
che ha come programma quello di
parlare dei diritti e dei doveri delle
donne, è una novità assoluta in quel
momento e in quegli anni. Sostiene
infatti le idee rivoluzionarie di
uguaglianza tra maschi e femmine
e il diritto delle donne all’istruzione
e al voto. La rivista, in un primo
momento, riceve una buona accoglienza anche da parte della stampa
moderata.
Quando però affronta il tema
degli effetti negativi sulle donne
dell’educazione religiosa viene
condannata dal Vescovo di Parma
e quindi boicottata sia dai cattolici, sia dai giornali progressisti e
liberali. Giovanna Bertòla si trova
quindi isolata e in difficoltà economiche: dopo due anni è costretta a
chiudere il giornale. Decide allora
di dedicare tutte le sue forze alla
battaglia per l’istruzione femminile
e si impegna nella fondazione di
scuole per le donne.
Questo saggio ha il merito di
smentire molti luoghi comuni che
ancora sopravvivono sulla società e
sui problemi del Mezzogiorno.
Ci illumina su aspetti della storia
del Risorgimento del Sud trascurati
dalla storiografia ufficiale e chiarisce le motivazioni di fenomeni quali
quelli del brigantaggio, che storici
revisionisti vorrebbero presentare
come una ribellione caratterizzata
da ideali politici.
Ed è un contributo fondamentale alla comprensione delle vicende
storiche e politiche che caratterizzarono il Mezzogiorno durante il
Risorgimento e successivamente
nella costruzione dello Stato unitario.
Cultura
15
Un politico ad arte
In mostra opere di Maurizio Valenzi, l’antifascista torturato con l’elettricità che ammirava Picasso e Modigliani
di Antonella Amendola
Panoramica di Napoli dipinta da Maurizio Valenzi
M
olto spesso, nel corso di una
riunione politica, o mentre
sedeva al suo scranno di
parlamentare, tirava fuori dalla tasca
della giacca piccoli album di carta
porosa e via con la matita a tracciare in
segni rapidi, incisivi, ma non beffardi
o caricaturali, le fisionomie dei suoi
interlocutori.
Maurizio
Valenzi
è stato un disegnatore eccellente:
sapeva, anche con pochi tratti,
evocare la tensione psicologica dei
volti che abbozzava, quasi a futura
memoria, per dipinti di là da venire
(che magari non hanno mai visto la
luce) o come il registro diaristico di
quella composizione sonora, fatta di
tanti contrappunti, che è la discussione
politica. Una bella mostra alla Provincia
di Roma (dal 7 al 28 novembre), curata
per conto della Fondazione Valenzi
dallo storico dell’arte Claudio Strinati,
ha sottolineato l’intima coerenza del
percorso di un artista che abbracciò
la politica nella sua accezione più alta
di impegno in nome di una compiuta
visione umanistica della storia e dei
destini umani. Valenzi, come ha
ricordato anche il suo vecchio e caro
amico Giorgio Napolitano, che ha
inaugurato la mostra, «era un impasto
singolare, aveva una visione non
meschina e non settaria della politica
che trovava respiro in altre fonti, come
la cultura e l’arte».
Chi era quel signore dalla conversazione
affascinante e così amabile da conquistare
la regina Elisabetta in visita a Napoli durante il suo mandato di primo cittadino?
Cominciamo col dire che Maurizio si
chiamava Valensi: il cognome fu storpiato in Valenzi nel ‘44 da un impiegato
dell’anagrafe del capoluogo partenopeo,
come lui stesso ha raccontato nel libro
C’era Togliatti, acuta ricostruzione della
svolta di Salerno nella quale l’aneddotica
ha quasi il gusto di pennellate. L’artista e
uomo pubblico proveniva da una famiglia
ebraica di origine livornese che da diverse
generazioni si era stabilita in Tunisia. Lì,
nel Nord Africa, a Tunisi, Maurizio vide
la luce il 16 novembre 1909 (morì quasi
centenario ad Acerra il 23 giugno 2009).
Iniziò presto a dipingere e si formò all’Accademia di Belle Arti di Tunisi, diretta
dal professor Vergeaud. La sua capacità
di osservare, della quale l’inclinazione al
disegno è felice conseguenza, la sua voglia
di sperimentare, nutrita da curiosità onnivora e trasversale alle discipline umanistiche, lo portano nel solco delle correnti di
avanguardia. Mentore del suo percorso è il
pittore Moses Levy, compagno di strada
Antonio Corpora con il quale tra il ‘30 e
il ‘31 tenne aperto uno studio a Roma dove
transitavano gli amici pittori Carlo Levi,
Fausto Pirandello e Adriana Pincherle,
sorella di Alberto Moravia. Espone al
Salon Tunisien, a Roma, a Parigi, ma solo
quando torna in patria nel ‘32 e si iscrive al
Partito Comunista Italiano la sua iconografia pittorica si delinea più libera rispetto ai
modelli, più personale e seduttiva. In quel
Eduardo De Filippo e il “teatro” napoletano in un dipinto di Maurizio Valenzi
16
Cultura
periodo, infatti, mentre fa attività politica tra i braccianti di Sfax
e di Djerba e promuove nella zona di Chiffar la ribellione contro
i grandi agrari europei, racconta magicamente in una serie di dipinti e di disegni quel mondo esotico e al tempo stesso sofferente.
Purtroppo molti di quei lavori sono andati perduti, ma bastano i
disegni dedicati alla vita dei beduini della tribù Zlass per rimanere
incantati: politica e arte a braccetto, un segno sintetico che non si
fa mai bozzetto di genere perché prevale l’afflato umanistico, la
voglia di testimoniare per cambiare, ecco il carattere distintivo di
Valenzi artista.
Nel periodo successivo della sua vita, a Parigi, nel ‘37, dove collabora alla Voce degli italiani, diretta
da Giuseppe Di
Vittorio, Maurizio
si confronta con i
protagonisti della
nuova
cultura
francese, Tristan
Tzara,
Paul
Eluard, Aragon,
studia l’opera degli
impressionisti, ma
anche di maestri
come Modigliani
e Picasso dei quali
apprezza, in particolare, l’approccio
rivoluzionario al
ritratto, non più banalmente naturalista, ma complesso,
emozionale, introspettivo,
nutrito
di segmenti che
hanno quasi un loro
autonomo piglio architettonico. Il ritratto della moglie
Litza Cittanova,
esposto alla mostra
romana,
rimane
un caposaldo del
lavoro di Valenzi.
Non meno bella la
tempera dedicata a
Loris Gallico, con i
suoi particolari eleganti, sofisticati,
Ritratto della moglie Litza, opera di Maurizio Valenzi
che
richiamano
figure letterarie di Paul Bowles. Tuttavia il sacro fuoco si coglie
proprio nello spezzone più doloroso dell’avventura esistenziale
di Maurizio Valenzi. Quando viene incarcerato a Lambèse in
Algeria e condannato ai lavori forzati, dopo essere stato torturato con l’elettricità dagli aguzzini del regime di Vichy, dedica ai
compagni di prigionia disegni bellissimi: si coglie nelle posture
allungate dei detenuti, costretti, in poco spazio, a un simulacro
di vita sociale, quasi una condivisione della tenda beduina; è l’ora
del patimento anche per i bianchi, la resitenza ai carnefici, espressione della classe coloniale sfruttatrice, accomuna tutti, braccianti
e intellettuali.
Valenzi non abbandonò mai la pittura, anche quando era molto
preso dall’impegno politico: fu eletto senatore del Pci per tre legislature, dal 1953 al 1968, si occupò di esteri, di Vigilanza Rai.
Tuttavia la sua ispirazione si rinnova proprio dopo il fatidico
‘68 che lo porta a riconsiderare le spinte propulsive e convulse
dei moti rivoluzionari. Nel corpus del suo lavoro troviamo due
temi, la Rivoluzione francese e la Rivoluzione partenopea,
declinati con composizioni dalle tecniche miste fitte di protagonisti, di tocchi di colore, di profili ora arguti, ora imperiosi
e arroganti che nulla di buono lasciano presagire. Cappelli,
costumi, pennacchi, concitazione: sembra che la congestione
di sentimenti eccessivi si spinga fino a lambire i margini delle
opere; una rivoluzione non è un pranzo di gala, come diceva
Mao, ma assomiglia parecchio a una messinscena teatrale dove
i primi attoi sgomitano per avere le battute migliori. Che contrasto tra un certo imprevedibile caos di luminarie e quell’aristocratica solitudine dei prigionieri distesi sulle brande del
carcere algerino! Come sono densi e complessi i percorsi della
politica. Quante cose sapeva Maurizio Valenzi, maestro d’arte
e di democrazia.
Memorie
L’enigma della morte di Giangiacomo Feltrinelli
di Ferdinando Imposimato
N
el mio libro La repubblica delle stragi impunite
(Newton Compton editori), parlo anche di lui.
Indagando su Giangiacomo Feltrinelli, ho
scoperto una verità molto diversa da quella ufficiale,
secondo la quale l’editore morì mentre tentava di collocare una bomba su un traliccio di Segrate. Quando per la
prima volta vidi in Pretura, a Milano, il rampollo di una
delle dinastie industriali più importanti d’Italia mi
apparve un uomo fisicamente fragile, timido e vulnerabile, non sprezzante e superbo. Era rispettoso delle istituzioni, un utopista della rivoluzione, che riteneva strumento di difesa contro l’attacco neofascista del quale egli
stesso era diventato bersaglio. Venne denunziato per l’attentato del 12 dicembre e ancor prima per quelli della
primavera-estate dello stesso anno, ma era totalmente
estraneo a quei lugrubri fatti. Con la certezza ossessiva,
dell’imminenza del colpo di Stato di marca neofascista e
della necessità di preparare la resistenza armata, ispirandosi al modello della Resistenza, creò i gap, Gruppi di
Azione Partigiani. Ebbe contatti anche con le br, ma la
conclusione di Curcio e Franceschini era stata che
«accordi con Osvaldo-Feltrinelli erano impossibili».. Per
le sue idee rivoluzionarie, Feltrinelli venne messo fin dal
1948 sotto controllo dai servizi segreti militari (sifar e
sid) e civili (Ufficio Affari Riservati).
All’indomani della strage di Piazza Fontana entrò
nel mirino di D’Amato: perquisirono il suo studio. Ma
a quella data lui era già in Austria. Sarebbe rientrato da
lì – penso su probabile invito di Marco Pisetta, collaboratore degli apparati di sicurezza, – il giorno della sua
morte, il 14 marzo 1972. Feltrinelli morì alla vigilia delle
elezioni politiche del 7 maggio 1972, in coincidenza non
casuale con un periodo cruciale delle indagini dei magistrati di Milano e Treviso. Il 23 febbraio 1972 era iniziato
il processo contro Pietro Valpreda a Roma. I fautori
della pista rossa speravano che tutto filasse liscio contro
il ballerino e i suoi compagni anarchici. Ma il 6 marzo,
la Corte di Assise di Roma si dichiarò incompetente per
territorio e il caso passò in mano ai giudici meneghini.
Gli giunsero a Milano il 10 marzo 1972: il corpo dell’editore venne trovato, vestito da guerrigliero, la mattina del
15 marzo 1972 ai piedi di un traliccio dell’alta tensione a
Segrate. Indosso a Feltrinelli erano state rinvenute la foto
della moglie e del figlio, una carta d’identità, intestata a
Vincenzo Maggioni, e “allettanti mazzi di chiavi” che
portavano a tre basi eversive a Milano, in via Subiaco, via
Delfico e via Boiardo. Era una quantità impressionante e
sospetta di indizi compromettenti, improbabili per una
persona dotata di normale prudenza e sottoposta ad assidua sorveglianza della polizia. Vicino al cadavere venne
trovato un pulmino Volkswagen, la cui assicurazione era
intestata a Carlo Fioroni di Potere Operaio, poi divenuto collaboratore di giustizia. C’era inoltre sul veicolo
una mappa geografica con alcune annotazioni di luoghi
cruciali.
Secondo la versione ufficiale, la morte era stata causata
dall’esplosione di un ordigno che Feltrinelli stava manipolando, allo scopo di provocare, con l’abbattimento del
traliccio, l’interruzione dell’elettricità che avrebbe dovuto
oscurare il xiii congresso del pci in corso al Palalido, che
si concluse con l’elezione di Enrico Berlinguer. Ma quello
stesso 14 marzo Giangiacomo era rientrato dall’Austria, ed
era quantomeno anomalo che avesse eseguito l’attentato la
stessa sera del suo arrivo con la febbre a 40. L’inchiesta del
pubblico ministero Guido Viola concluse per un incidente
dovuto all’imprudenza e imperizia dell’editore, ma Scalfari
e la Cederna, parlarono subito di omicidio.
A rafforzare i dubbi sulla dinamica ufficiale dei fatti fu
Marco Nozza, giornalista del Giorno. Nel suo libro Il pistarolo riferì un episodio inedito. Il questore di Milano Attilio
Bonanno, il 2 maggio 1972, un mese e mezzo dopo Segrate,
invitò i giornalisti in via Boiardo
33 per farli assistere in diretta
alla
scoperta
di una prigione
del popolo delle
Brigate Rosse,
allora agli esordi.
Si rammenti che
proprio a via
Boiardo, ove fu
tenuto
prigioniero delle br
Idalgo Macchiarini,
portava
una delle chiavi
trovate indosso a
Feltrinelli. L’invito venne raccolto subito da una folta schiera di cronisti, tra
cui lo stesso Nozza. A un certo punto, mentre i giornalisti
erano in attesa del questore, arrivò «un tizio, spalle grosse»
che estrasse dalla tasca un mazzo di chiavi e ne infilò una
nella toppa alla porta d’ingresso del civico 33. Solo allora
venne fermato dal maresciallo della polizia Panessa, che
gli chiese chi fosse. L’uomo rispose: «Sono Marco Pisetta,
sono qui a sistemare l’impianto elettrico. Ho avuto le chiavi
da Luigi Russo». Una breve indagine portò alla scoperta
che Luigi Russo altri non era che Giorgio Semeria, uno
dei fondatori delle Brigate Rosse, di cui mi sarei occupato
per molti anni. Nel frattempo, era sopraggiunto il questore
Bonanno, seguito dal pm Guido Viola. A un certo punto in
via Boiardo, a cinquanta metri dalla prigione, giunse un
giovane con una Fiat 500, che si fermò e, alla vista della
polizia, cercò di ripartire. Ma la macchina era bloccata e
fuggì a piedi. Si seppe poi che si trattava di Mario Moretti,
il capo delle Brigate Rosse. Pisetta intanto era stato fermato
e portato in questura, dove verrà rilasciato la stessa sera del
2 maggio 1972, senza una spiegazione. Logico sospettare
che ci fosse accordo tra lui e la questura per la sceneggiata. I dubbi sulla dinamica della morte erano ancora tanti.
Quale vantaggio avrebbero avuto le br, che non approvavano la strategia dell’editore, a consegnargli le chiavi di una
base così importante quale quella di via Boiardo, gestita
da Semeria, frequentata da Moretti e usata per custodire
17
18
Memorie
un ostaggio? E che senso aveva per
Feltrinelli-Osvaldo, ammesso che
avesse avuto le chiavi del covo br,
portarle appresso mentre era impegnato in un attentato così importante,
che era pur sempre gravido di rischi?
all’esplosione non fossero intervenute
altre violenze, traumatiche o di altra
natura».
In altre parole, Feltrinelli avrebbe
prima subìto un’aggressione fisica
e poi sarebbe stato investito da una
violenta esplosione. Infatti «la ferita
lacero-contusa in sede occipito-parietale sinistra, ferita di forma stellare, a
tre punte, con braccia della lunghezza
ciascuna di mm. 7 circa, con bordi
finemente laceri» fu attribuita a uno
strumento ad azione contusiva. Infine
le mani dell’editore erano intatte,
nonostante l’esplosione. Eppure se
lo scoppio fosse avvenuto per imperizia di Feltrinelli, avrebbe dovuto
investirle mentre egli maneggiava
l’esplosivo. Ciò dimostrava, che le
mani di Feltrinelli erano legate dietro
la schiena e che non erano venute a
contatto con la bomba.
Feltrinelli vittima dei servizi?
Nella foto al centro Giangiacomo Feltrinelli
E perché avrebbe dovuto portare con
sé non solo la chiave del covo dei gap,
in via Subiaco, ma anche quelle di altri
due covi importanti? E ancora, perché
avrebbe dovuto esporsi al pericolo di
morire per l’esplosione dell’ordigno
La scoperta di Ferruccio Pinotti
A sostegno della tesi dell’omicidio, il giornalista Ferruccio Pinotti
– in un articolo del 12 marzo 2012
apparso su Sette, – ha fatto un’importante scoperta: ha trovato, tra gli atti
inediti del processo, un documento
completamente trascurato dal pm
Viola e dalle forze dell’ordine. Si tratta
della “relazione di consulenza medicolegale”, redatta dal professor Gilberto
Marrubini e dal professor Antonio
Fornari. Questo documento sconvolgente – mai pubblicato e corredato da
foto impressionanti – contestava la
tesi dell’incidente sostenuta dai periti
d’ufficio. I due consulenti accreditarono la successione cronologica delle
varie lesioni, che non sarebbero state
causate tutte dall’esplosione, ma sarebbero state provocate da mezzi diversi
e in tempi diversi. Pertanto i due
professori osservarono: «Viene fatto
di domandarci se antecedentemente
All’indomani dell’attentato, si sapeva
solo che intorno alle tre di pomeriggio, il corpo di uno sconosciuto
– tale Vincenzo Maggioni – era
stato trovato dilaniato ai piedi di un
traliccio di Segrate. Il generale dei
carabinieri Francesco Delfino, incriminato e poi assolto dalle accuse di
reati connessi alla strage di Brescia,
disse che il cadavere di Feltrinelli
si trovava a trecento metri da uno
dei covi di Carlo Fumagalli, partigiano bianco che guidava il mar,
Movimento di Azione Rivoluzionaria, legato ai servizi segreti occidentali
italiani e americani. Fumagalli conosceva bene Feltrinelli e addirittura
avrebbe tentato di rapirlo assieme a
Mario Capanna, come disse il pentito
di Ordine Nuovo Martino Siciliano
al giudice Salvini. Secondo il pentito
Gaetano Orlando, ex braccio destro
nel movimento mar, «Fumagalli aveva
contatti diretti con i massimi livelli
della divisione carabinieri Pastrengo».
Da ricordare che Fumagalli era stato
collaboratore dell’oss e poi della cia,
e in seguito del sid: era notorio, per
notizie di stampa, che i mar avevano
eseguito in Valtellina, tra il 1970 e
il 1974, attentati a tralicci dell’alta
tensione. Questi episodi, che vanno
tutti nella direzione di costruire prove
false contro Feltrinelli per incolparlo della partecipazione alla strage
di Piazza Fontana e alle altre stragi,
ci aiutano a inquadrare meglio la
vicenda della morte di Giangiacomo
Feltrinelli. Appare possibile che
Fumagalli fosse coinvolto nella
vicenda di Segrate, come alcuni
apparati dello Stato. A rafforzare
i già consistenti dubbi sul ruolo
dei servizi nella morte dell’editore, fu l’utilizzo di un particolare
pulmino per compiere l’attentato:
perché Feltrinelli avrebbe dovuto
andare a Segrate con un veicolo la
cui assicurazione automobilistica
era intestata a Carlo Fioroni, uno
dei militanti di Potere Operaio? Ma
che c’entrava quest’ultimo con l’indagine per l’esplosione di Segrate?
Fioroni venne ovviamente sentito
come teste dal pm Antonio Bevere:
intanto era stato già portato in
Questura in via Fatebenefratelli,
dove aveva subìto un interrogatorio insolitamente tranquillo,
per poi essere rilasciato per decisione del Commissario Antonino
Allegra, capo dell’Ufficio politico
della Questura di Milano. La sola
spiegazione possibile a questo trattamento di favore era che Fioroni
non fosse ritenuto un terrorista,
ma un collaboratore. Un’ipotesi
collegata anche ad un altro episodio mai chiarito del tutto. L’8
febbraio 1980, sulla prima pagina
di Lotta continua, venne pubblicata
la copia di un fonogramma che lo
riguardava. L’articolo era a firma
di Andrea Marcenaro e Franco
Travaglini. Il fonogramma dell’aprile 1974 era stato trasmesso a
organismi svizzeri dalla polizia
federale degli stranieri di Berna, a
firma del direttore Guido Solari.
Il documento provava «i rapporti
stretti intercorsi tra Carlo Fioroni
e i due servizi italiano e svizzero».
Fioroni, letta la notizia, reagì sostenendo che il documento di Berna
fosse una volgare montatura, tuttavia decise di non querelare. Al di
là del singolo caso Fioroni, comunque, le indagini compiute negli anni
successivi hanno dimostrato che
il sid e l’Ufficio Affari Riservati
si sono serviti non solo di personaggi di destra estrema, ma anche
della sinistra radicale. Il 19 novembre 2012 mi recai presso l’Archivio
storico del Senato per continuare le
ricerche sulla morte di Feltrinelli
circa 1700 documenti erano riservati
e non consultabili. Ho deciso allora
di impugnare davanti al TAR, come
illegittima decisione, la secretazione.
Memorie
Un capopolo di nome Allicu
L’avventurosa vita di Raffaele Cois sindaco antifascista di Quartu Sant’Elena
di Maurizio Orrù
L
o chiamavano Allicu e con quel fiero nome di lotta ha
segnato il territorio di Quartu Sant’Elena. Difficile
però ricostruire l’appassionata biografia di Raffele
Cois, sindaco antifascista della cittadina sarda. «Le racconto
tutto io», suggerisce, il nipote Alessandro Meloni. «Qualche
cenno biografico può essere d’aiuto per capire?», domanda il
mio interlocutore. Sì, cominciamo con le radici.
«La famiglia Cois era originaria di Selargius, in provincia
di Cagliari», racconta Meloni. «Raffaele, nato nel 1902, in gioventù era vicino al socialismo libertario. Per motivi di lavoro
emigrava in Francia dove ebbe modo di venire a contatto con
numerosi suoi connazionali fuoriusciti antifascisti, come i
fratelli Rosselli,
con
i
quali
strinse rapporti
di amicizia, e
Pietro Nenni, il
futuro dirigente
nazionale
del
Partito socialista italiano».
In famiglia
com’era considerato
zio
Raffaele?
«La sua figura
costituiva
un
modello e un
nobile esempio
di
coraggio,
rettitudine e coMurales ad Orgosolo
erenza, a difesa
delle cause di libertà e uguaglianza. Per i suoi ideali, insieme
alla moglie e ai figli, aveva affrontato sacrifici e pene. Ricordo
che quando faceva visita a noi nipoti (siamo cinque fratelli) coglievamo l’importanza di un evento che ci riempiva di orgoglio»
Zio Raffaele veniva spesso in Sardegna?
«Si faceva vivo. Veniva incaricato, com’era prassi
tra i gruppi dei fuoriusciti antifascisti, di introdurre in Italia,
clandestinamente, della stampa politica illegale. Custodiva nel
doppio fondo della valigia materiale di alto valore politico.
Ma, una mattina, appena varcata la frontiera di Ventimiglia, la
polizia italiana scopriva il marchingegno e arrestava Raffaele
Cois. E’ evidente che nel gruppo vi fossero infiltrati e delatori
del regime».
Che cosa successe dopo?
«Per Allicu iniziava un lungo tragitto tra i vari penitenziari
nazionali. Il regime fascista timoroso e preoccupato per possibili azioni antifasciste in occasione di visite di importanti
gerarchi in Sardegna rinchiudeva, per qualche giorno, a
Buoncammino gli esponenti politici antifascisti».
Quali esperienze fece Allicu da perseguitato politico
antifascista?
“Frequentò, presumo prima in Francia e poi a Ustica, un
esponente di primo piano del movimento anarchico, il carrarese Gino Bibbi. Zio Raffaele, per il possesso e detenzione
di stampa illegale antifascista, nel 1926, veniva sottoposto a
processo e condannato al confino, nell’isola di Ustica. Qui incontrò uno stuolo di militanti antifascisti e comunisti e divenne
marxista».
Tornato da Ustica continuò a fare lavoro politico clandestino?
«Sì, era più che mai convinto che solo con un impegno senza tregua e su vasta scala si potesse abbattere la dittatura Ma la polizia
politica del regime lo marcava stretto. Fu una vita difficilissima
per lui e per la famiglia. Alla caduta del regime fascista, entrava
nel Cln, diventando componente dell’Alto Commissariato all’Epurazione. Allora Allicu si trasferiva a Quartu Sant’Elena e cominciava a lavorare nel Pci e nell’apparato delle società cooperative».
Mi racconta un
episodio di Allicu
dirigente delle cooperative sarde?
«Mio
padre
ricordava di macchine agricole fatte
arrivare
dall’Unione
Sovietica
e
destinate
al
nascente
mondo
cooperativo. Una di
queste, un trattore,
fu dato alla prima
cooperativa agricola e di consumo
sorta a Selargius
su iniziativa di zio
Raffaele. Però il
trattore, rimase inutilizzato per mancanza dei pezzi di ricambio.
Zio Raffaele nella sua attività di dirigente politico ebbe modo
di frequentare varie realtà sociali, come i lavoratori portuali, i
lavoratori delle saline e delle miniere del bacino carbonifero del
Sulcis-Iglesiente, suscitando ampi consensi umani e politici».
Zio Raffaele era un capopopolo?
«Zio aveva una notevole vis dialettica, e spesso, svolgeva i comizi in lingua sarda. Era considerato un vero comunista».
Che succedeva in campagna elettorale?
«Anche nei paesi come Quartu e Selargius nelle competizioni
elettorali si usava colpire gli avversari politici con becere insinuazioni. In particolare, zio Raffaele veniva attaccato e sbeffeggiato
politicamente, in quanto i genitori anziani continuavano l’attività
di commercianti. Si trattava di un commercio minuto, che non volevano abbandonare. Essi si rifornivano di oggetti quali stoviglie,
stoffe e li caricavano su un carro trainato da un cavallo e affrontavano la strada bianca per Villasimius. Non esistevano botteghe e
si scambiavano gli oggetti con i generi alimentari del luogo, come
salumi, formaggi e pollame. L’attività commerciale dei Cois veniva
denigrata dagli avversari politici, quasi fosse una vergogna da
attribuirsi alla fede comunista del figlio. Zio Raffaele rispondeva
rivendicando l’onestà e l’impegno che i suoi genitori mettevano
nella loro attività di commercianti e criticava il perbenismo bigotto. Quando Raffaele Cois divenne sindaco di Quartu Sant’Elena
si adoperò perché quella strada polverosa che percorrevano i suoi
fosse allargata e sistemata».
19
20
Memorie
Pasquale Schiano, l’antifascista che denunciò i servizi
di Nicola Terracciano
P
asquale Schiano nacque il 26
aprile 1905 a Bacoli (dove è morto
il 30 novembre 1987), cittadina
considerata dalla dittatura fascista come
l’epicentro dell’antifascismo dell’area
flegrea. Indelebile il ricordo della
tumultuosa giornata del 16 settembre 1925.
«Era sindaco mio padre Ernesto, valente
archeologo», ricordava negli anni maturi
Schiano. «Contro di lui ci fu una spedizione
squadrista. Il Comune fu occupato, fu
assalita la nostra casa, difesa da un gruppo
di coraggiosi lavoratori».
Il giovane dalle solide radici in una
famiglia antifascista, che ha pagato con
pericoli e sacrifici la sua fedeltà ideale ai
valori di libertà e di democrazia, si laureò
in giurisprudenza all’Università di Napoli,
divenendo avvocato specializzato in diritto marittimo. Nel capoluogo campano
fu tra gli organizzatori dei primi gruppi
di riscossa antifascista meridionale, nel
richiamo anzitutto del grande Martire
liberaldemocratico Giovanni Amendola.
Fece parte del cenacolo del drammaturgo
antifascista Roberto Bracco con Emilio
Scaglione, sostenendo a livello locale
le battaglie antifasciste de Il Mondo di
Amendola, diretto a Roma da Alberto
Cianca. Ebbe rapporti con il mondo clandestino italiano di Giustizia e Libertà,
che aveva la sua sede centrale a Parigi con
Carlo Rosselli. Per questa molteplice attività antifascista conobbe anche il carcere
di Poggioreale nel 1942.
Pasquale Schiano è stato tra i fondatori
e principali animatori del Partito d’Azione Giustizia e Libertà, divenendo la
figura più importante dal punto di vista
organizzativo nel Mezzogiorno ed uno
dei suoi esponenti politici nazionali più
importanti a partire dal 1943.
Il Partito d’Azione del Sud a lui deve
l’incardinamento non solo nelle grandi
città, a partire da Napoli e Bari, ma anche
nei piccoli comuni, con un livello di adesione che rompe con l’immagine ingiusta
e deformata, nel giudizio storiografico e
politico, sul Partito d’Azione come il partito degli intellettuali, delle disquisizioni
astratte, che non seppe sintonizzarsi con le
masse. Lo si capisce bene proprio leggendo
due volumetti divulgativi pubblicati nel’45
da Schiano Chi siamo, che cosa vogliamo e
Che cos’è la Repubblica.
«Nel luglio del 1943 mio padre ebbe modo
di dimostrare che non era solo un politico
dal forte connotato intellettuale, ma anche
Foto di Pasquale Schiano durante un’intervento pubblico
un uomo d’azione deciso e coraggioso»,
ricorda il figlio Brunello Schiano. «Con
i vertici degli Alleati preparò piani per
colpire le truppe tedesche e prese poi parte
attivamente alla guerra di liberazione tra il
napoletano e il casertano. Raccontò le sue
esperienze in un libro editato nel 1965 La
Resistenza nel Napoletano, con prefazione
di Ferruccio Parri, un volume che ancora
oggi è prezioso per gli studiosi perché la
storia della Resistenza nel Napoletano
è poco conosciuta e papà dedica pagine
bellissime, emozionanti alle Quattro
Giornate».
Coerente il percorso di Schiano.
Designato dal Partito come membro della
Consulta Nazionale, che operò come
Parlamento in attesa delle elezioni, fu tra i
membri dell’ Alta Corte di Giustizia e sottosegretario alla Marina mercantile nel I e
II governo De Gasperi.
Nel solco della fedeltà al Partito d’Azione, fu tra quelli che nel’47 votarono
contro la confluenza nel Psi, allora frontista, e contribuì a fondare i Gruppi di
Azione Socialista Giustizia e Libertà con
Ernesto Rossi, Tristano Codignola,
Aldo Garosci, Paolo Vittorelli. Poi militò
nell’Unione socialista italiana per una lista
socialista democratica indipendente alle
delicate elezioni del 1948 (la formazione
guadagnò il 7% e 33 seggi), in seguito nel
Partito socialista unitario che si richiamava
al socialismo liberale di Rosselli, infine nel
Partito socialista democratico Italiano
di Saragat, che aveva avuto comunque il
coraggio di salvare la tradizione socialista
democratica italiana dalla subalternità di
Psiup e Pci e allo stalinismo. Fu deputato
nella terza legislatura repubblicana (‘58’63), prima nel gruppo del Partito socialista
democratico italiano, col quale era stato
eletto, poi in quello del Psi, divenuto
autonomista. Qui si impegnò sui temi di
sua competenza nel campo dei problemi
marittimi, ma anche per la costruzione
di case per i lavoratori agricoli, contro il
laurismo che devastava Napoli, contro i
rigurgiti neofascisti.
«Nel 1964 ci fu una svolta determinante per mio padre», ricorda Brunello
Schiano. «Lui che era tutto d’un
pezzo e molto attento a intercettare i
bubboni della fragile democrazia italiana fece scoppiare il caso Sifar, così
allora si chiamavano i servizi segreti.
Con grande determinazione e prove
circostanziate alla mano denunciò le
pericolose deviazioni dei servizi segreti. Strumento di quella battaglia fu
L’ Espresso. Il generale De Lorenzo,
comandante generale dell’ Arma dei
Carabinieri, fu costretto a dimettersi.
Da allora la carriera politica di mio
padre subì un contraccolpo: evidentemente si era fatto troppi nemici e perciò
non fu rieletto».
Presidente
dell’Ente
Autonomo
Volturno, Schiano si batté per la metropolitana collinare di Napoli, per l’aeroporto internazionale di Grazzanise, per
la riconversione industriale dell’area
dei Campi Flegrei, del litorale domiziano e delle zone del Basso Volturno.
Animatore e finanziatore delle associazioni partigiane e antifasciste, fu
vicepresidente della Fiap, fondata da
Ferruccio Parri.
Fu, infine, fondatore e Presidente
dell’Istituto campano per la storia della
Resistenza, dove depositò il suo prezioso archivio.Ho conosciuto Schiano
21
Noi
nelle visite che faceva nelle sezioni del
Psi di Caserta e lo ricordo con commozione. Si vantava di essere uno dei
pochi politici che, negli anni, aveva visto sensibilmente diminuire il proprio
reddito personale. Altri tempi, altro
stile morale, civile, politico! Oggi, leggendo il bel libro che Antonio Alosco
gli ha dedicato, Pasquale Schiano (Dick
Peerson editore, Napoli, 19899) colpisce
la grande sintonia, la profonda stima
che vi furono tra Schiano e De Martino,
accomunati dalla speranza e dalla lotta
per un socialismo di tipo nuovo, non
avendo retto alla prova della storia
quello tradizionale. Il libro di Alosco ricostruisce, attraverso l’impegno poliedrico di Schiano, l’apporto del Partito
d’Azione alla crescita della democrazia
partenopea con uomini come il sindaco
Gennaro Fermariello, il generoso sforzo
di quei liberalsocialisti preveggenti che
non volevano finire nel calderone del marxismo e dello stalinismo perché consapevoli delle derive totalitarie. Appassionata,
intransigente, profetica la posizione di
Schiano contro ogni forma di collaborazionismo verso il secondo governo Badoglio,
dopo la discussa svolta comunista togliattiana di Salerno del 1944 (Schiano finì in
minoranza nel suo stesso partito, che deliberò, con la forza di Omodeo, Tarchiani,
Caracciolo, altro comportamento politico,
alla luce di ragionevoli riflessioni sulla situazione drammatica di allora e l’esigenza
di mettere insieme tutte le forze per abbattere un nazifascismo ancora possente oltre
il Garigliano). Ma Schiano aveva intuito
che in quel cedimento e in quella collaborazione con forze che erano state pesantemente e direttamente complici col fascismo si annidava un pericolo mortale per
la futura democrazia. Quanta preveggenza
nei timori di Schiano, quante prove dolorose, quanti drammi si sarebbero evitati se
dai gangli delicati dello Stato fossero stati
espulsi quegli uomini che dovevano solo
rendere conto del male fatto alla nazione
durante il fascismo. «Mio padre», conclude
Brunello Schiano,« fino all’ultimo ha
avuto un profondo senso di responsabilità
civile, più che un politico professionista si
è sempre sentito un cittadino chiamato a
dare il suo contributo per la soluzione dei
nodi cruciali della vita nazionale e anzitutto meridionale. Per questo è ricordato
con tanto amore».
XVII Congresso Nazionale A.N.P.P.IA.
Relazione del Presidente Nazionale
Roma, 10/11 Novembre 2012
Il XVII Congresso dell’ANPPIA cade in un momento sociale e politico molto delicato. La crisi colpisce principalmente
le classi deboli e la politica è appannata da scandali di tutti i
tipi.
Dopo un ventennio di vuoto programmatico i segni si vedono
nei settori più significativi del Paese, i giovani, l’industria e la
scuola che soffrono per mancanza di lavoro, di innovazione e
di competitività. Ma il segno principale di un declino diffuso
è l’affievolirsi dei principi etico morali che sono elementi portanti di una democrazia. Non sono solo i partiti a soffrirne ma
è buona parte della società civile che si racchiude in se stessa e
pensa alla difesa dei propri interessi o alla perdita di livelli di
vita necessari anche per supportare la generazione successiva.
La nascita del nuovo governo è stata una scelta
patriottica e giusta perché si doveva salvare il Paese.
L’attenzione è stata data all’economia intesa come risanamento, con le conseguenze che gli strumenti sono stati quelli
inevitabili dell’aumento delle tasse, della diminuzione delle
pensioni e della riduzione delle spese sociali.
Ma per cogliere gli obbiettivi di ridare equilibrio al bilancio
dello Stato non si è pensato, a mio avviso, a creare nel cittadino
una spinta morale che legittimasse i sacrifici fatti nell’interesse
generale.
Si poteva dare al cittadino la garanzia che l’operato del
Governo era indispensabile, rigoroso e giusto e che la visione
politica (anche i tecnici ce l’hanno un poco) era visibilmente
indirizzata ad intervenire in modo equo alla distribuzione delle risorse disponibili. Ma giovani e anziani sono rimasti esclusi.
Diamo però atto al Governo di aver fatto molti passi avanti rispetto a quello precedente. È un governo di tecnici professionisti
colto, trasparente, disinteressato e dotato nell’operare di uno stile di comportamento lontano anni luce da quello subìto dal Paese
negli ultimi tempi. Se ci aspettavamo maggiore equità e maggior coraggio, e questo non è avvenuto che in parte, ciò è dovuto alla
maggioranza che sostiene il governo Monti che è disomogenea, diversa negli obbiettivi ed è una maggioranza transitoria.
Ecco quindi la necessità di tornare al più presto alla buona politica ossia quella che nasce dalla formazione di gruppi politici eletti
22
Noi
in libere elezioni nazionali.
Il partito che avrà più voti, anche attraverso una coalizione, esprimerà il leader del governo. Il momento difficile del Paese sarà così
affrontato da una maggioranza politica con linee di programma concordate.
Non basteranno libere elezioni per avere fiducia e credibilità per i partiti. È necessario riaffermare la democrazia
parlamentare nella situazione attuale, iniziativa non facile ma prioritaria e che si deve affrontare con atti credibili
anche per adeguarsi all’Europa.
Questi atti sono degli atti legislativi che devono essere fatti per rendere costituzionale la presenza e l’attività dei partiti e mettere
ordine ai diritti e doveri degli stessi. Il Parlamento deve provvedere alla messa a punto del loro riconoscimento giuridico e a disciplinare le spese elettorali come affermava a suo tempo Calamandrei.
Oggi per l’ANPPIA si svolge un Congresso importante. Siamo un’Associazione civile apartitica nel cui interno convivono fedi diverse ma tutte accumunate da uno spirito di solidarietà, di uguaglianza sociale e principalmente da una comunanza di ideali nata con
l’Antifascimo, la Resistenza e nel dopoguerra con le conquiste sociali. Ricordiamo che tra gli antifascisti che soffrirono nel ventennio
erano presenti varie anime. In sintesi quella comunista di Gramsci, quella liberale di Amendola, quella socialista di Matteotti,
quella cattolica di Sturzo, quella azionista di Albertelli.
Così l’ANPPIA riesce ad essere un’Associazione unitaria che nella società continua a svolgere un compito istituzionale in favore
delle famiglie indigenti di perseguitati ebrei e non, a trasmettere le Memorie nobili di migliaia di perseguitati politici, a combattere
contro il rinascente fascismo, a diffondere i principi di democrazia nati dalla lotta per la libertà.
Molti antifascisti furono protagonisti della nascita della Costituzione nell’Assemblea Costituente, presieduta da Terracini, primo
presidente ANPPIA, ed hanno lasciato a noi il dovere di difenderla.
La Costituzione è ad un tempo un vessillo di libertà e un baluardo contro il revisionismo.
Non sottovalutiamo il fatto che la crisi attuale non è solo economica ma istituzionale. Ecco l’importanza di ricordare che l’impronta antifascista nella Costituzione è indiscutibile e che le successive conquiste democratiche furono realizzate nello spirito della
Costituzione.
Il nostro Capo dello Stato, impeccabile interprete delle Sue funzioni istituzionali, resta il vero garante di tali irrinunciabili valori.
È in atto purtroppo un tentativo di rottamare non solo la trasmissione della storia democratica ma di violarne l’autenticità.
L’ignoranza nelle ultime generazioni - anche perché l’insegnamento della storia dopo la prima guerra mondiale è alla fine dei
programmi e non viene quasi mai impartito - è molto vasta e facilita negli
adolescenti l’insorgere di idealità di
destra, considerate come nuove. A questo si aggiunge la preoccupazione che
dobbiamo esprimere per la marginalità,
assegnata nei programmi di governo,
alla cultura e in modo particolare alla
Memoria e alle conseguenze di questa
assenza.
È in atto infatti un’azione di contro
antifascismo da parte di gruppi di
destra estrema, armati e non, e di atti
di revisionismo (basti pensare al mausoleo di Graziani) da parte di forze
politiche periferiche di centrodestra
che meritano, oltre alla manifestazione
dello sdegno di noi Associazioni, una
reazione appropriata dei partiti antifascisti e del Governo. A loro l’ANPPIA
Da sinistra: Giulio Spallone, Guido Albertelli e Garibaldo Benifei, alla presidenza durante il Congresso
rivolge l’appello di non sottovalutare
questi tentativi di indebolimento dell’intangibilità della fede antifascista, che rappresenta il valore democratico identificante della
Repubblica e che l’ANPPIA e tutti i portatori degli stessi ideali non accetteranno mai possa essere revisionato.
Non ci illudiamo. Si può uscire dal profondo declino verso cui ci stiamo indirizzando solo con un superamento della
cultura generica, egoistica e superficiale formatasi negli ultimi decenni e presente in buona parte delle nuove
generazioni.
Per poterlo fare i partiti che hanno tradizioni nelle conquiste dei diritti e nelle lotte per la democrazia devono rilanciare la loro
identità nobile e così differenziarsi dagli altri che sono senza storia e senza ideali. Oggi dobbiamo prendere atto che la Memoria
storica è offuscata non solo dagli anni trascorsi ma anche dalle forze politiche che hanno lasciato che fosse dimenticata.
A questo si aggiunge la disinformazione dell’opinione pubblica alla quale, spesso sulle televisioni, vengono comunicate storie che
distorcono la verità, come avveniva nel ventennio fascista.
Ma ricordiamo che dopo la guerra di Spagna iniziò in Italia una opposizione clandestina non violenta al regime che ebbe come
focolari molte cattedre nei licei e nelle Università dimostrando che gli antifascisti non erano parolai ma uomini di coraggio. Iniziò
23
Noi
Delegati di Livorno e Terni al XVII Congresso Nazionale dell’ANPPIA
così un cambiamento di coscienza negli studenti adolescenti che iniziarono a distaccarsi dall’ideologia fascista e molti di loro
parteciparono in seguito alla Resistenza.
Ecco che la storia ci dice che mai tutto è perduto. Anche ora la situazione di crisi del Paese può portare ad un risveglio delle
coscienze e a un recupero di parte degli indifferenti o di chi si illudeva di speranze poi risultate tradite. È per questo che per
riconquistare il consenso è ora necessario ricreare l’unità dei partiti antifascisti, unire le forze di progresso democratico,
abbiamo rappresentanze della società civile, uniformare i programmi sul consolidamento del sistema Paese. Ma il lavoro di
recupero nelle masse delle regole democratiche sarà un compito molto duro e molto
lungo.
Ci attendiamo che le forze politiche sane inizino una lotta senza quartiere alla corruzione dilagante facendo del rispetto dei valori etico morali una bandiera sul terriSOTTOSCRIZIONI
torio e un impegno indilazionabile. È indispensabile ripristinare lo Stato dove la sua
presenza è appannata e dove la paura condiziona i comportamenti dei cittadini.
Mari Gagna (Cuneo) in ricordo
La nuova legge elettorale è un elemento decisivo per una svolta democratica e l’idendel padre Antonio e della madre
tità dei nuovi eletti in Parlamento può essere determinante. È quindi da approfondire
Margherita Zavattero: 50,00
la possibilità che una parte dei parlamentari possa venir eletto con le preferenze. Non
può essere dimenticato che oggi la maggioranza dei cittadini le vuole. Un controllo
DA REGGIO EMILIA
stretto da parte del partito sulla onorabilità e sulle capacità dei candidati è già una
buona garanzia. Il popolo seguirà quei leaders che possono raccogliere fiducia anche
Anna Bonini (Cadelbosco Sopra)
attraverso una sensibilità acuta per il dialogo con i rappresentanti e per un diverso
ricorda il marito Raggio Corradini
modo di fare politica. Il Movimento 5 Stelle dovrebbe essere visto positivamente sotto
nel 31° anniversario della scomparsa
l’aspetto della capacità di creare contatti semplici e personali e negativamente per la
(21.6.1981): 100,00 pro Antifascista
rozzezza del linguaggio e per gli anatemi che lancia sugli avversari. Condannarlo tout
court è superficiale. Per fare delle buone liste non c’è bisogno di rottamare nessuno.
Nel 5° anniversario della scomparIl patrimonio di esperienze e conoscenze degli anziani non può essere messo da parte
sa di Otello Nicolini (Rubiera) i
ma valorizzato. Non esiste il fallimento di un’intera classe politica. Dovrà essere
figli Ivano e Silvana: 100,00 pro
una parte di coloro che hanno avuto tanto nei Partiti e nelle Istituzioni, a rinunciare
Antifascista
spontaneamente alle candidature e accettare un ruolo di alta consulenza politica che
affianchi il vertice. Sarebbe un segnale positivo per l’opinione pubblica.
Nel 5° anniversario della scomparsa di
Carlo Porta (RE), Lea e Vanna lo
Per contribuire a raggiungere questi obbiettivi di interesse generale anche le
ricordano: 50,00 pro Antifascista
Associazioni della Memoria devono essere messe in condizioni di svolgere il
loro dovere istituzionale. È inaccettabile che i contributi statali siano, anno
dopo anno ridotti a valori risibili rispetto a impegni nobili non riducibili.
È vergognoso che il Ministero della Difesa neghi un aumento annuo di 400.000 euro
al complesso delle Associazioni che sono 21. Se si supererà questo blocco economico
anche le Associazioni della Memoria possono ritrovare un’unità di intenti verso l’esterno ed un adeguamento organizzativo efficace ed influente imposto dai tempi.
L’inizio del cambiamento potrebbe realizzarsi con la costituzione di una Fondazione
per la ricerca storica comune, attualmente in progetto avanzato presso l’ANPPIA e
l’Associazione Nazionale Vittime Civili di Guerra, con il solo scopo di costruire
una struttura tecnica sulla Memoria del primo Novecento che può diventare, ferma
l’autonomia di ogni organizzazione che vi aderirà, un centro di iniziativa culturale,
Nel 31° anniversario della scomparsa del padre Celso Ghini (dicembre
1981) e dello zio Omero Ghini (gennaio 1982)
Nel 6° anniversario della scomparsa
della madre Luisa Deskovic (aprile 2006), il figlio e nipote Sergio
Ghini: 350,00
24
Noi
composto in massima parte da ricercatori, che salvi le memorie in pericolo, che
sia obbiettivo verso l’esterno per storici
e studenti e rappresentativo elemento di
risposta documentata alle affermazioni
di revisionismo, meritando così di essere
dotato di un fondo specifico da parte dello
Stato. L’ANPPIA nel frattempo intensificherà i propri progetti di ricerca storica
e relativa pubblicazione, anche se è tra le
Associazioni quella che vi impegna ben
quattro collaboratori e diffonderà il suo
periodico mensile L’Antifascista, migliorato nella grafica e nel contenuto, a tutte le
strutture storiche, agli studiosi, ai giornalisti e alle Istituzioni.
In questi ultimi mesi si è riscontrata negli incontri nelle scuole e nelle Università,
probabilmente anche a causa della crisi
politica, la presenza di molti giovani che
hanno interesse a conoscere cosa erano
realmente fascismo e antifascismo. Il
Circolo Giustizia e Libertà di Roma e
l’ANPPIA si sono accordati per pubblicare
un fumetto sulla Resistenza Romana nel
quartiere Prati Trionfale che ha avuto
molto successo con gli studenti di terza
media ai quali è stato distribuito. Stiamo
esaminando la possibilità di estenderlo
ad altre zone romane. Il nostro ruolo
prioritario è aiutare la scuola a ritrovare
se stessa perché è lì dentro il domani.
Troviamo il modo di stare vicino ai professori dotandoli di pubblicazioni documentate, collaborando nei convegni, facendo
delle Celebrazioni l’occasione di incontri
nelle scuole per illustrare senza retorica
il valore dell’avvenimento, creiamo negli
studenti le ragioni del coraggio di difendere le loro opinioni portandoli non solo
sui luoghi dello Sterminio ma anche dove
l’Antifascismo ebbe i suoi monumenti e i
suoi caduti. Mi sembra doveroso oggi affermare che l’Associazione, che ho l’onore
di presiedere, intende collaborare alla
rinascit del Paese, insieme a tutti coloro,
forze politiche e movimenti, che sentono
il dovere, avendo tradizioni democratiche,
di battersi per una nuova società sia attraverso libere elezioni sia collaborando ad un
programma avanzato e solidale.
Questo programma, a parere dell’
ANPPIA, deve avere punti fermi come il
legame europeo, un rigore accettabile dalle
classi medio piccole, una diminuzione
della tassazione sul lavoro, un costo equo
della politica, un’attenzione alla Memoria
e un contenuto alto di speranza civile.
Non è questo il momento peggiore della
Nazione. Il principio di disfacimento di
partiti politici già alla guida del Paese e
responsabili in buona parte del declino
economico e morale fa ben sperare sulla
fattibilità di un ricambio. I partiti del riformismo possono essere i protagonisti del
cambiamento se ristabiliranno rapporti di
stretta collaborazione con i rappresentanti
della Memoria che sono sì apartitici ma
sono testimoni delle tradizioni politiche.
Non abbiamo mai creduto che siano le
parole a dare valore e credibilità alle nostre strutture di rappresentanza storica,
ma i fatti che loro rappresentano si. Fatti
che sono le fondamenta della Repubblica,
che si trovano scritti nei mille e mille nomi
delle piazze, delle strade, delle lapidi, nei
luoghi di rappresaglia e in quelli dove dormono le migliaia di vittime innocenti di
guerra. Non dobbiamo essere solo noi antifascisti a ricordare ma tutti i democratici.
Se torneranno ad essere numerosi quelli che considerano le nostre
radici indispensabili alle battaglie
per il rinnovamento civile del Paese,
Messaggio del Presidente della Repubblica Napolitano
per il XVII Congresso Nazionale dell’ANPPIA
Il Presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, ha inviato al Presidente dell’Associazione Nazionale Perseguitati Politici Italiani e Antifascisti, Guido Albertelli, il seguente messaggio: “Sono idealmente vicino ai partecipanti al diciassettesimo Congresso
nazionale dell’ANPPIA riuniti a Roma per mantenere viva la memoria delle persecuzioni condotte dal fascismo per motivi politici e l’eredità ideale di quanti a quel regime
si opposero per restituire libertà e democrazia al nostro Paese. L’attività della vostra
Associazione si conferma, oggi come ieri, fattore insostituibile di questo impegno, a tutela di un patrimonio comune a tutti gli italiani. Spetta in particolare alle generazioni
più giovani il compito di raccogliere l’esempio di coloro che, con il loro sacrificio, hanno
consentito la rinascita del Paese e la fondazione del nostro ordinamento democratico e
repubblicano. Nel commosso ricordo delle vittime della violenza nazifascista, rivolgo ai
presenti il mio partecipe saluto”.
Roma, 10 novembre 2012
riusciremo, con spirito nuovo, a
superare le difficoltà davanti a noi,
come fu per i nostri padri.
Guido Albertelli
l’antifascista
Mensile dell’ANPPIA
Associazione Nazionale Perseguitati
Politici Italiani Antifascisti
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Chiuso in redazione il: 21 Gennaio 2013
finito di stampare il: 27 Gennaio 2013
Registrazione al Tribunale di
Roma n. 3925 del 13.05.1954