Le candele della memoria

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Le candele della memoria
Dina Wardi - M.S.W
Psicoterapista
Gerusalemme
Transizione del trauma della Shoah.
Le candele della memoria.
La personalità umana contiene tre diversi strati di identità: lo strato collettivo, lo strato familiare e
lo strato individuale intrapsichico. La teoria della razza dei nazisti, applicata contro gli Ebrei
durante la seconda guerra mondiale, era intesa a distruggere sistematicamente tutti e tre gli strati. In
questo contributo tenterò di descrivere la frattura intervenuta nella continuità intergenerazionale e
nel normale corso di trasmissione della memoria e dell'identificazione per le vittime della Shoah.
Vorrei prima dire alcune parole sulla separazione e sulla perdita. Oltre all'esposizione personale a
un enorme trauma e alla paura esistenziale dell'annientamento, un'altra importante circostanza che
ha avuto una notevole influenza sulla personalità e sull'identità dei sopravvissuti è nella netta e
brutale separazione dalle famiglie e la perdita della casa e della comunità. Questa separazione ha
causato una scissione che ha prodotto alla fine una zona di apatia nella personalità. Nei
sopravvissuti questa zona di apatia, che lo studioso Lifton definì "psychic closing off", tende
normalmente a durare per tutta la vita. La frattura interiore tra l'io e i genitori, insieme alle terribili
esperienze vissute dai prigionieri, ha portato ad instaurare in modo massiccio dei meccanismi di
difesa: diniego, repressione e isolamento emotivo.
Paradossalmente, questi meccanismi di difesa sono serviti contemporaneamente a due scopi: la
restrizione dell'ego essenziale per la sopravvivenza e la salvaguardia della rappresentazione del
mondo familiare.
Dopo la liberazione, i sopravvissuti hanno dovuto affrontare immediatamente l'amara realtà. Erano
rimasti completamente soli al mondo, senza alcun luogo familiare in cui andare, minacciati dal
rischio di essere completamente schiacciati dalla solitudine e dalla separazione. Di conseguenza,
l'ego, avendo già subito un processo regressivo in precedenza, si è difeso fondendosi con
rappresentazioni interne di oggetti morti. Questo meccanismo ha fornito i mezzi per garantire un
equilibrio interno minimo, insieme ad un senso di continuità e di identificazione con gli oggetti
morti. D'altra parte, tuttavia, questo meccanismo ha anche drasticamente pregiudicato la capacità di
vivere in modo normale il dolore del lutto. È necessario inoltre ricordare che i sopravvissuti alla
Shoah non avevano un luogo preciso in cui manifestare realmente il proprio dolore (nessun luogo di
decesso, nessuna tomba, nemmeno un monumento).
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E quando si trovavano di fronte alla necessità di esprimere dolore e afflizione, i sopravvissuti erano
costretti ad affrontare una piena di dolore, ricordi penosi e solitudine personale, insieme ad un
carico emotivo devastante che poteva minacciare una completa disintegrazione dell'Io, sicché essi
spesso preferivano evitare del tutto questo penoso ricordo. La massa di libido (stimoli più emozioni)
rimaneva quindi così intimamente legata alle rappresentazioni interiorizzate degli oggetti perduti,
alle immagini delle madri, padri, fratelli, e talvolta anche di un neonato brutalmente ucciso. Cosi
l'energia emotiva residua, che avrebbe potuto essere investita in un rapporto matrimoniale o in un
successivo rapporto tra genitore e figlio, era estremamente limitata.
Subito dopo la guerra i sopravvissuti si sono accoppiati in fretta per evitare la solitudine ed il vuoto
interiore e così, subito dopo, sono nati i primi bambini. Di norma, i genitori sopravvissuti hanno
inconsciamente assegnato ad un figlio o ad una figlia un ruolo particolare, che io ho definito quello
della "candela della memoria".
Il singolare compito di questo bambino consisteva nel farsi carico della riabilitazione emotiva e
mentale dell'intera famiglia. In realtà, i genitori si aspettavano che egli personificasse l'intera
identità familiare, ricostruisse per loro o al posto loro tutti i loro ricordi così crudelmente storpiati e
che raggiungesse una riabilitazione emotiva della famiglia, liberando in tal modo i fratelli da questa
onerosa responsabilità. La stessa esistenza fisica dei piccoli appena nati aveva il potere di
diffondere luce in mezzo al caos. Questi bambini dovevano fare da salvagente per la mente confusa
dei loro genitori, i quali tuttavia non li vedevano soltanto come un sostegno, ma anche come un
contenuto nuovo che avrebbe riempito la loro vita. Loro avrebbero compensato e surrogato i parenti
perduti, le comunità sterminate, e addirittura il loro stesso passato.
In generale, ai bambini della seconda generazione, ma in particolar modo alle "candele", è stato
imposto il nome dei parenti morti. Uno dei miei pazienti, ad esempio, che è l'unico figlio maschio di
una famiglia di sopravvissuti, ha cinque nomi e quattro cognomi, poichè è stato prescelto come
colui che sostituisce e continua la presenza di tutti i parenti stretti periti dei suoi genitori. Qui
prevale il tentativo del desiderio inconscio di far rivivere morti, dando i loro nomi ai propri
bambini. Molte "candele" crescono dalla nascita con un senso di profonda confusione semantica e
di completa frammentazione della propria identità. I tanti nomi che portano rappresentano identità
di diverse figure e vari aspetti della lora personalità. Non ci si deve quindi stupire che per loro sia
così difficile costruire un'identità precisa, ben definita e indipendente.
Esaminiamo ora brevemente quali erano i messaggi trasmessi dai sopravvissuti ai propri figli. I
genitori, attraverso canali di comunicazione consci ed inconsci, hanno trasmesso messaggi cognitivi
ed emotivi riguardanti il ricordo della Shoah in generale, e in particolare la storia dei parenti spariti.
Questi messaggi contengono un richiamo etico, in parte manifesto ed in parte celato, che può essere
riassunto in alcune frasi: tu sei la generazione che continua. Dietro a noi è rovina, morte e un vuoto
emotivo immenso. È un tuo dovere e un tuo privilegio conservare la nazione, ricostruire la famiglia
scomparsa e colmare l'enorme vuoto fisico ed emotivo lasciato dalla Shoah. Le "candele" vengono
istruite a costruire, completamente da soli, l'intera continuazione di tutta la storia della famiglia, e a
creare quindi un legame nascosto con gli oggetti morti. Questo processo di trasmissione si è
realizzato con l'impiego massiccio di meccanismi proiettivi di identificazione. I genitori hanno
proiettato inconsciamente sui loro figli parti del self-object intrappolate nel groviglio di immagini
relative ai parenti stretti morti. Di conseguenza, è divenuta inevitabile l'interiorizzazione di queste
immagini di morti da parte dei figli.
I genitori hanno quindi decretato per i loro figli un doppio senso di identità e di vita emotiva: i figli
devono vivere contemporaneamente come sé stessi e come i parenti da cui essi hanno preso il nome.
Non si tratta di una pura e semplice identificazione con i morti, ma di un meccanismo più
complesso: una trasposizione del mondo del passato nel corso del quale viene creato un ego diviso,
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in cui esistono contemporaneamente, fianco a fianco, due o più identità. L'atmosfera familiare
predominante nelle case dei sopravvissuti era quindi pesante e triste. Molto poco spazio rimaneva
per la felicità o le frivolezze, o anche semplicemente per una conversazione schietta e sincera. La
morte impregnava ogni angolo della vita quotidiana e veniva trasmessa ai figli anche attraverso il
pesante silenzio dei genitori.
A Hanna, figlia unica di due genitori sopravvissuti, è stato imposto il nome delle nonne e di una zia,
tutte morte nella Shoah. Una volta mi ha raccontato che alla cena rituale della Pasqua ebraica (il
Seder), quando tutti solitamente si vestono a festa, il padre era sempre solito indossare la casacca a
righe bianche e nere che aveva portato con sè da Auschwitz. Lei e i suoi genitori, gli unici tre
membri della famiglia, si sedevano abitualmente alla lunga tavola, accuratamente preparata per la
celebrazione, in un profondo silenzio e con una moltitudine di sedie vuote tutte intorno a loro. ‹‹La
presenza dei morti della famiglia stava riempiendo l'intera stanza››, disse. ‹‹Non mi hanno mai
raccontato niente di loro e tanto meno di ciò che hanno subito durante la Shoah. Tutto quello che
ricordo sono le loro grida spaventose nel sonno durante quei terribili incubi che avevano sempre.
Non mi hanno mai chiesto come io mi sentissi in mezzo a tutto ciò››.
Hanna, come molte altre "candele", ha dovuto aggrapparsi con le sole sue forze a questo groviglio
confuso di messaggi verbali e non verbali, derivanti, sia consciamente che inconsciamente, dal
passato traumatico dei genitori, e ha dovuto cercare di dar loro un certo senso. I suoi genitori,
infatti, non erano mai riusciti a parlare apertamente, non soltanto delle loro esperienze durante la
Shoah, ma anche della loro vita prima della guerra e, inoltre, non vi era nessun altro che potesse
raccoglierlo. La vita nelle famiglie dei sopravvissuti veniva quindi sempre vissuta attraverso il
prisma della Shoah e il linguaggio utilizzato era sempre il linguaggio della Shoah.
Durante il processo terapeutico, le "candele" vengono incoraggiate a sviluppare il tema della morte
attraverso varie tecniche verbali e non verbali. Talvolta, ad esempio, utilizziamo l'interpretazione
dei sogni oppressi da un senso di morte come mezzo per metterli a contatto con la morte reale e con
la realtà dell'esperienza della Shoah vissuta dai genitori. Usiamo di sovente nei gruppi anche
tecniche non verbali come il disegno, la plastilina ecc… Con questi materiali, i membri del gruppo
creano a nostra richiesta varie immagini dei parenti morti – nonni, nonne, zii, fratellini, i vari rami
dell'albero genealogico, tutti scomparsi nella Shoah. Queste immagini, che erano fino a quel
momento totalmente vaghe, diventano molto più chiare, si trasformano in tratti dalle caratteristiche
definite. Questo dà la possibilità di affrontarle direttamente e di dialogare con loro. Sono dialoghi,
questi, molto carichi ed emozionanti; sono una doppia esperienza: d'incontro, ma anche di vere
separazioni. Le prime espressioni di dolore, di vero lutto. Questa fase segna anche i primi passi
interni di separazione dalle parti interiorizzate dei propri genitori. La barriera delle emozioni che era
stata creata nell'infanzia primaria facendo uso di forti meccanismi di difesa, come l'isolamento
emozionale, negazione, repressione ecc…, vanno gradualmente sciogliendosi. Nuove aperture per
nuove energie ed emozioni si fanno strada. Il loro Sé raggiunge una maggiore integrazione. Con
l'avanzamento del processo terapeutico, i sensi di colpa, la depressione e il lutto non elaborato
scompaiono man mano dal loro mondo interno e vengono sostituiti da legami emotivi e mentali con
il mondo reale. Insieme a espressioni di tristezza e di vero dolore, appaiono anche sentimenti di
intimità, empatia e amore, che non solo vengono provati per la prima volta, ma sono anche espressi
all'interno del gruppo e nella vita esterna. In una seduta di gruppo a questa fase, Mordechai dice:
‹‹Lea, dovresti sapere che il racconto sul tuo matrimonio mi ha fatto un'impressione fortissima. In
fondo, un matrimonio è il momento in cui la vicinanza e l'amore sono al massimo. Sento che vorrei
tanto esser già in grado di riuscirci anch'io. Ultimamente ho pensato a lungo al rapporto con la mia
ragazza, e ora va molto meglio e spero che questa volta le cose riescano a funzionare››.
Miriam: ‹‹Anch'io ho fatto un sogno sull'amore. Si svolgeva nel ghetto, in una città grigia e tetra, in
Europa. Il ghetto era cinto da alte mura e agli ebrei era vietato uscire. C'erano un ragazzo e una
ragazza che erano innamorati e riuscivano ad amarsi lì. A un certo punto decidevano di cercare di
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fuggire dal ghetto, e in questo tentativo affrontavano ogni sorta di pericoli, e alla fine uscivano dalle
mura e correvano fuori. Fuori c'era l'erba verde, colline illuminate dal sole e un ruscello che
scorreva. Avevano lasciato lo squallore del ghetto per un mondo pieno di vita e di colori. Mi sembra
un sogno pieno di ottimismo, che esprime le sensazioni che ho provato ultimamente, negli ultimi
mesi. Del resto è già da tempo che non ho più avuto attacchi di depressione e sento perfino una
certa gioia di vivere. Sono anche molto più ottimista sulle mie possibilità di trovare finalmente
l'amore. Mi sembra che in questo sogno il mio desiderio si realizzi››.
Ora che la nascita psichica delle "candele" avanza con il rafforzamento del nuovo Sé, il loro ruolo
di badare alla continuità intergenerazionale cambia completamente di forma e di colore. Yitzchak
realizza queste sensazioni – di avere una missione e di incarnare la continuità – piantando un
boschetto di alberi sulle colline di Gerusalemme in memoria dei membri della sua famiglia morti
nella Shoah: un albero per ciascuno. Gli alberi veri che egli pianta sono simbolo anche dell'albero
genealogico troncato, e rappresentano un concreto monumento, una tomba viva per tutti i parenti
morti. ‹‹Ieri sono andato a vedere il bosco›› – racconta Yitzchak. ‹‹A volte sento il bisogno di starci
per un po' da solo. È un bosco dove mi sento tranquillo e posso pensare a molte cose. Ho visto che
alcuni pini avevano le punte ingiallite e sono stato colto dalla tristezza. Ho avuto paura che
morissero. Mi sono messo a sedere e ho pianto. Parlavo con mio nonno, il padre di mio padre, e
anche con la nonna e il nonno materni. Mia nonna… mi pare che si chiamasse Pnina, ma non ne
sono proprio sicuro. Di lei non è rimasta neppure una fotografia. Di recente, quando parlavo con
Nurit dei preparativi per il nostro matrimonio, non so perché, sebbene fossi molto felice, ho sentito
una grande tristezza. Penso a tutti quelli che non potranno condividere la felicità delle nostre nozze.
Però ieri nel bosco ho pensato tutt'a un tratto, che prima del Lager loro avevano avuto una loro vita
ed erano stati circondati dal calore e dal sostegno di una grande famiglia, piena di vita. In Polonia,
mio padre aveva molti amici che ha perduto. Io a volte credo di non essere così legato ai miei amici
come mio padre lo era ai suoi. Ieri, mentre guardavo i pini, ho pensato che li avevo messi per me,
ma in effetti anche per mio padre e mia madre. La prima volta che ho visto mio padre piangere in
tutta la mia vita è stata quando l'ho portato a vedere il bosco, i pini che avevo piantato con le mie
mani. Mi ha abbracciato e ha chinato la testa sulla mia spalla e ha pianto come un bambino. Dentro
di me, mi sono sentito pieno di calore. Ero così orgoglioso di poter avere forza anche per lui e dargli
questo senso autentico di affetto e di vicinanza››.
‹‹Ieri ho parlato con il nonno dei miei problemi, del fatto che ogni tanto faccio fatica ad andare
d'accordo con la gente. Gli ho presentato Nurit e gli ho chiesto se gli sembra carina. Immaginavo di
essere seduto sulle sue ginocchia e che lui mi accarezzasse. Mio padre non è mai riuscito ad
abbracciarmi o accarezzarmi. Era quasi sempre molto distaccato e chiuso in sé stesso››. Yitzchak si
mette a piangere e non riesce più a parlare. Riprende, con voce commossa: ‹‹nell'insieme ieri mi
sono sentito molto bene. Sentivo il legame che passava da mio nonno a mio padre, e da lui a me››.
Durante l'ultimo stadio del lungo processo terapeutico, le "candele" sono sempre più impegnate a
racimolare i brandelli e i resti di informazioni della storia passata delle famiglie e a cucirli insieme.
Trascorrono la maggior parte del loro tempo libero a leggere libri attinenti a questo argomento, a
scorrere archivi e soprattutto ad ascoltare i vecchi racconti dei parenti ancora vivi e degli amici di
famiglia a cui è capitato di conoscere avvenimenti passati del periodo precedente alla guerra. A
questo stadio, osano talvolta anche parlare francamente ai propri genitori, porre domande sulla loro
vita passata ed ascoltare attentamente i loro tristi racconti, senza provare sempre la sensazione di
dover difendere i genitori o loro stessi dai ricordi troppo dolorosi. In un certo qual modo, il processo
terapeutico in questo stadio diviene una specie di ricerca archeologica di gruppo, in cui ciascun
membro scava il terreno della propria memoria alla ricerca dei frammenti dispersi, delle
informazioni, dei pezzi isolati dei lunghi ricordi confusi e li tesaurizza come frammenti preziosi del
puzzle sparpagliato delle storie individuali di famiglia: la memoria e l'eredità famigliare, personale
e collettiva, sta integrandosi sempre di più.
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