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Società Italiana di Anatomia Patologica e Citopatologia diagnostica S.I.A.P.E.C.
L’errore in Anatomia Patologica
Migliorare la sicurezza del paziente e tutelare il professionista
Roma, Sala Conferenze Banca di Roma
22-23 marzo 2001
Presidente del Convegno
V. Ninfo, Padova
Comitato Scientifico
A. Andrion, Torino
E. Cristofori, Lecco
A. Fabiano, Roma
V. Ninfo, Padova
J. Rosai, Milano
V. Stracca Pansa, Venezia
F.M. Vecchio, Roma
Con il Patrocinio del Ministero della Sanità
e della Federazione Nazionale degli Ordini dei Medici Chirurghi e Odontoiatri
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M. Gualco et al.: Applicazioni e vantaggi dei sistemi multimediali nella pratica autoptica
Presentazione del Convegno
“…Nel momento in cui vengono alla luce errori medici, spesso con racconti emotivi sulla sofferenza delle principali vittime – i pazienti daneggiati – la recente reazione è nella maggior parte dei casi un tentativo di definire la responsabilità e di punire qualcuno. Questo comportamento non funziona.…Gli studi scientifici di ingegneria dei fattori umani, di psicologia dell’organizzazione, di ricerca operativa e molte altre discipline hanno ormai chiarito che nei sistemi complessi la sicurezza
non dipende dall’esortazione a non commettere errori, ma piuttosto da una appropriata progettazione delle apparecchiature, delle mansioni, dei sistemi di supporto e dell’organizzazione. Se noi vogliamo realmente una assistenza sanitaria sicura dobbiamo progettare dei sistemi sanitari sicuri.…”
(Berwick DM, Leape LL (1999) Reducing errors in medicine. Br Med J 319:136-137)
L’esercizio delle attività mediche, al pari di tutte le altre attività umane, è correlato alla possibilità
di generare errori. La pratica anatomo-patologica non è immune da questi problemi. La comune esperienza aneddotica riporta molte possibilità di errore per lo più correlate a condizioni di stress lavorativo, a deficit organizzativi, a conflitti interpersonali e anche ad un ritardo di evoluzione tecnologica.
Ma esistono anche altre possibilità di errore (vero, potenziale o interpretato come tale) assai più legate al “cuore” della disciplina, connesse al tema della soggettività e variabilità di giudizio, al ruolo
dei sistemi classificativi, alla distinzione tra campo di ricerca e applicazione pratica routinaria.
Scopo del Convegno è affrontare il tema dell’errore in Anatomia Patologica con un approccio
multidisciplinare, stimolando la crescita di consapevolezza culturale, ma fornendo anche indicazioni pratiche di comportamento per l’attività quotidiana del patologo.
Pathologica (2001) 93:587-620
© Springer-Verlag 2001
II CONGRESSO NAZIONALE SIAPEC
Relazioni
L’errore in anatomia patologica: Il ruolo
della società scientifica
A. Andrion ()
Dipartimento dei Servizi Diagnostici, UOA di Anatomia e Istologia
Patologica, ASL 2, Ospedale Martini, Torino, Italia
Nel corso dell’ultimo decennio, il tema dell’errore nelle attività mediche ha avuto un crescente interesse, soprattutto per
quanto riguarda l’approccio che dovrebbe essere seguito nell’impostare le azioni correttive in grado di minimizzare
l’impatto del fenomeno. Quanto sopra, per raggiungere due
obiettivi prioritari: la sicurezza del fruitore delle prestazioni
(il paziente) e la tutela del soggetto (il medico), che ha la
principale responsabilità di una corretta esecuzione dell’atto
professionale.
La letteratura in materia è abbastanza consistente. Ad
esempio, una ricerca Medline della voce “medical error” è
in grado di elencare più di 16.000 pubblicazioni nell’ultimo
decennio (e circa 2000 nell’ultimo anno), mentre i lavori che
fanno riferimento all’errore in patologia assommano a circa
2000 nel passato decennio (200 nell’ultimo anno). Sulla
base delle evidenze disponibili, si può quindi affermare che
il fenomeno non è marginale, potendone trarre le seguenti
considerazioni [1, 2, 3]: (a) la pratica medica, inclusa quella anatomo-patologica, non è esente da errore; (b) il contesto socio-politico è sempre più sensibile al fenomeno; (c) il
significato di “errore medico” deve essere meglio studiato e
definito in quanto, nella maggior parte dei casi, non vi è
chiarezza in materia (errore medico non è sinonimo di evento sfavorevole per il paziente né di “malpractice”); (d) i problemi legati all’errore in medicina non sono risolvibili nell’ambito ristretto delle discipline mediche, ma attengono
principalmente al campo delle scienze del comportamento e
dell’organizzazione; (e) un approccio che si limiti e abbia
come principale obiettivo l’individuazione e la sanzione di
“un colpevole” non è in grado di apportare miglioramenti
sostanziali; (f) come già avviene in altre attività, le azioni
prioritarie da perseguire sono correlate alla prevenzione e
alla gestione del rischio di errore; l’obiettivo della riduzione
degli errori deve entrare a pieno titolo, come priorità, nella
predisposizione delle politiche che mirano alla qualità della
prestazione professionale.
In questo contesto, il ruolo che può e deve assumere la
Società Scientifica è di tutto rilievo, in particolare nei settori che elenchiamo di seguito.
Informazione. Mediante segnalazione e diffusione delle
pubblicazioni più significative, sia di ordine generale che di
tipo specialistico. Inoltre, tramite la segnalazione dell’evoluzione delle politiche governative in materia e degli indirizzi
assunti dalla magistratura, dalla direzione delle Aziende
Sanitarie e dalle organizzazioni mediche. Quanto sopra, sia
sul piano nazionale che internazionale.
Analisi/studio. Principalmente su due versanti:
a) Il sistema organizzativo e le procedure tecniche. È noto
che esistono alcune fasi, in cui esiste un rilevante rischio
di errore: quelle correlate all’identificazione dei campioni (accettazione, campionamento, etichettatura, etc.), alla
esecuzione e interpretazione di tecniche (inclusione e
microtomia, immunocolorazione) e alla stesura del referto finale. Attualmente, si hanno esperienze di tipo aneddotico, ma quasi nessuno è a conoscenza di dati quantitativi riguardanti gli errori e soprattutto i “mancati errori” (“near miss”), correlati alle varie fasi del sistema
organizzativo.
b) Il sistema descrittivo/classificativo/tassonomico. Si tratta
del tema che più coinvolge il training, lo sviluppo professionale e la performance del singolo patologo e del
team al quale appartiene. L’obiettivo dovrebbe essere
quello di ottimizzare la riproducibilità diagnostica e di
correlare sempre più (e meglio) le indicazioni fornite dal
patologo al trattamento clinico. Numerosi fenomeni possono influenzare l’interpretazione soggettiva (differenze
di percezione e valutazione delle immagini, “patrimonio” mnemonico personale di immagini, disponibilità di
archivi iconografici di consultazione, approccio all’im-
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piego dei sistemi classificativi, etc.). Un’attenta analisi
di questi e altri fenomeni potrebbe risultare utile per
meglio prevenire e gestire il rischio di errore.
Elaborazione. Dovrebbe riguardare la predisposizione di
indicazioni, procedure, linee-guida e suggerimenti ai partner commerciali, al fine di prevenire/ridurre le possibilità di
errore, individuate mediante l’analisi dei fattori sopra ricordati. A questo proposito, è indubbio che l’affinamento e la
diffusione dei sistemi di automazione e informatizzazione
(inclusa la diffusione della teleconsulenza e l’accesso ad
archivi iconografici online) potrà risultare di grande utilità.
Lo stesso dicasi per la definizione e diffusione di standard
di qualità operativi, inclusa una valutazione su ampia scala
dei possibili effetti dei rapporti costo-beneficio, dell’introduzione di procedure di “mandatory second opinion” e dell’introduzione di un sistema di “reporting” volontario degli
errori e dei mancati errori. Per quanto riguarda i contenuti
e le modalità di trasmissione del giudizio diagnostico, l’elaborazione di indicazioni (da sottoporre a discussione e
validazione) riguardanti l’impiego di classificazioni riproducibili e l’impiego di fraseologia comprensibile e non
equivoca (ad esempio, nonostante svariate critiche, permane ancora un impiego diffuso del termine “adenolinfoma”
per un tumore del tutto benigno delle ghiandole salivari).
Infine, è sempre più necessaria l’elaborazione di un glossario terminologico che specifichi le differenze tra errore,
mancato errore, incidente, effetto avverso, “malpractice”,
etc. da impiegare sia in sede medico-legale che nei rapporti con i media.
Formazione. Si tratta di un campo cruciale per una organizzazione professionale quale la Società Scientifica. I principali temi sono due: la cultura della sicurezza del paziente
e la cultura della riduzione dell’errore. Si suggerisce che, sia
a partire dalla formazione di base del medico, sia nel successivo percorso specialistico, venga data minore enfasi
all’obiettivo della perfezione individuale, al valore catarchico dell’individuazione di un singolo colpevole, al concetto
di medicina come arte o, all’opposto, come scienza esatta, al
caso clinico complesso e raro, come valore primario, e alla
capacità della memoria umana. Nel contempo, occorrerebbe
dare maggiore enfasi al concetto di fallibilità individuale, al
valore del lavoro in team, alla semplificazione e riproducibilità dei processi e alla standardizzazione delle attività e
infine allo studio e all’applicazione delle teorie cognitive e
dei sistemi.
Consulenza/supporto. Deve essere un servizio rivolto al
singolo patologo e ai team che operano nella realtà quotidiana. Negli ultimi anni molti sono stati gli sviluppi in questa direzione (elaborazione di linee-guida in campo tecnicoorganizzativo, gruppi di sottospecialità o singoli “esperti”
disponibili per consulenze, riunioni seminariali per la
discussione e il confronto di casi, supporto di colleghi nel
campo dell’informatica e della telepatologia). Esiste, tuttavia, la necessità di allargare la presenza e l’azione, costruendo rapporti con altri soggetti interessati al tema in modo
Recensione
diretto o indiretto. In primo luogo, certamente le altre
Società Scientifiche, ma anche altri soggetti, da quelli istituzionali a quelli che rappresentano gli interessi diffusi dei
consumatori.
Bibliografia
1. Sirota RL (2000) The Institute of Medicine’s Report on
Medical Error. Implications for Pathology. Arch Pathol Lab
Med 124:1674-1678
2. Foucar E, Foucar MK (2000) Error in anatomic pathology.
http://www.ajcp.com/special_article.html
3. Anonimous (2000) Human error in medicine.
http://www.visualexpert.com/Resources/mederror.html
Automazione, informatica e telematica:
quale ruolo?
C. Clemente1 () · S. Rao1 · A.M. Ferrari1 · A. Clemente2
1
Servizio di Anatomia Patologica e Citopatologia, Casa di Cura S.
Pio X, Milano, Italia
2 Idea Builder, Milano, Italia
L’informatica, ovvero la scienza che consente di ordinare,
trattare e trasmettere le informazioni attraverso l’elaborazione elettronica, sta rapidamente assumendo un ruolo che si
dimostra sempre più importante e indispensabile, non solo
nelle attività più strettamente tecnologiche, amministrative,
finanziarie, informative e dei servizi, ma anche in campo
medico. L’anatomia patologica, rispetto ad altre discipline,
deve recuperare un certo ritardo nell’acquisizione e utilizzo
di programmi informatici, tuttavia, i tempi sembrano ormai
maturi e le applicazioni sembrano conquistare rapidamente
sempre maggiore consenso.
Due aree hanno trovato un particolare sviluppo: quella
dell’automazione e quella della telematica. Mentre l’automazione è strettamente correlata alle soluzioni tecnologiche,
la telematica, intesa come trasmissione a distanza di dati,
ovvero la scienza che aggiunge all’informatica i benefici
della trasmissione remota, sta aprendo nuove e talora imprevedibili possibilità di sviluppo.
Il ruolo dell’automazione è quello di tendere a sostituire
la macchina all’intervento diretto dell’uomo, non solo per
quanto riguarda l’esecuzione pratica di operazioni, più o
meno complesse, ma anche per quanto riguarda il controllo
dei processi (microelettronica), per le fasi di progettazione
(computer aided design, CAD) e per i sistemi informativi,
quali la comunicazione delle informazioni (e-mail), la
gestione dei dati, il trattamento di documenti e le attività di
Recensione
supporto alle decisioni. Più le soluzioni tecnologiche saranno avanzate, migliori saranno i risultati. Gli esempi di automazione in anatomia patologica sono numerosi e vanno da
soluzioni tecnologiche di apparecchiature più o meno complesse (processi robotizzati), alla gestione dell’attività del
reparto (gestione informatica), sino alla lettura automatizzata (morfometria, valutazioni immunocitochimiche, screening diagnostici, etc.). Molte delle ricerche più recenti, quali ad esempio le analisi con DNA “microchips” sarebbero
impensabili senza l’ausilio di processi automatizzati robotizzati. Ma anche nella più semplice realtà quotidiana di un
servizio di Anatomia Patologica, l’automazione trova ampie
applicazioni, tanto da identificare, sul sito della SIAPEC
(http://www.siapec.it/), il laboratorio di Anatomia Patologica
come “virtual lab”. Indubbiamente i risultati ottenibili con
procedure automatizzate sono costanti e affidabili; anche se
necessitano di un continuo e specializzato controllo, sono in
grado di diminuire le possibilità di errore e di migliorare la
sicurezza del paziente.
La telematica è la scienza che aggiunge all’informatica
(scienza che consente di ordinare, trattare e trasmettere le
informazioni attraverso l’elaborazione elettronica) i vantaggi della trasmissione a distanza. Il ruolo della telematica è in
gran parte ancora da definire, ma senza dubbio rappresenterà, e già oggi in parte rappresenta, la realtà operativa con
cui quotidianamente dovremo, o meglio dobbiamo confrontarci. Tale scienza ha sollevato molti e importanti problemi
che devono essere ancora discussi e superati, quali, in particolare, gli standards (di processo, di comunicazione e di
risultato), l’etica (riservatezza), la gestione (finanziaria) e la
legalità (responsabilità, firma digitale). Le aree di applicazione della telematica sono numerose e soprattutto in continuo sviluppo e in costante incremento; anche lo sviluppo dei
sistemi informativi e di supporto all’automazione è in continuo aumento. Esempi che ormai sono entrati nella nostra
vita quotidiana sono: le tele-notizie, il mercato telematico, la
tele-informazione, la tele-consultazione e la tele-didattica
(teleteca), il tele-voto e anche la tele-medicina. Nell’ambito
delle tele-medicina, la tele-patologia sta lentamente acquisendo un suo spazio con una sua specifica caratterizzazione.
La tele-patologia [1, 2] è l’utilizzo delle telecomunicazioni
per l’invio di immagini “patologiche”, in formato digitale,
indipendentemente dalla distanza e dal tempo. Anche per la
tele-patologia, così come per l’automazione, le aree di applicazione sono numerose e in continuo incremento. Il più
comune utilizzo della tele-patologia riguarda il tele-consulto, o meglio la tele-discussione diagnostica, da alcuni identificata come “tele-consolazione”, in cui si richiede una
seconda opinione ad un collega remoto.
Al di là dei problemi tecnici, legali, etici e gestionalifinanziari, la tecnologia informatica sembra aprire nuove
possibilità per un rapido e semplice confronto di opinioni, a
vantaggio di una migliore qualità diagnostica e di una maggiore cultura medico-specialistica, con un favorevole impatto sulla gestione del paziente e per la tutela del professioni-
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sta. Il tele-consulto può trasformarsi, soprattutto in particolari situazioni di disagio ambientale geografico, in una necessità di una vera e propria tele-diagnosi (ad esempio, la telediagnosi intra-operatoria remota). Ovviamente, mentre nel
caso del tele-consulto la tecnologia informatica può essere
limitata al trasferimento di immagini digitali preselezionate
(tele-patologia statica), per una tele-diagnosi intraoperatoria
sono indispensabili attrezzature informatiche più sofisticate e
tali da permettere un comando a distanza, con selezione
remota delle immagini (tele-patologia dinamica, tele-patologia statica robotizzata, tele-patologia su immagini virtuali).
Altri esempi di applicazioni e del ruolo della tele-patologia sono: il tele-aggiornamento (siti web, biblioteche virtuali), la tele-formazione (tele-accreditamento, autovalutazione), la tele-didattica (bioimmagini virtuali), la tele-ricerca (video conferenze, archivi condivisi, consultazioni multiple e asincrone, seminari), le reti telematiche locali e le reti
geografiche (cartella digitale), le applicazioni virtuali e interattive (multimediali e multidisciplinari) e la tele-trasmissione di informazioni polidisciplinari (ad esempio, la tele-patologia abbinata alla tele-dermatologia, alla tele-endoscopia e
alla tele-radiologia).
La nostra esperienza di tele-consultazioni è iniziata nel
1996 e la Figura 1 dimostra la progressione delle richieste di
tele-consulenze sino al 2000. I tele-consulti sono pervenuti
in diversi formati: semplici immagini (.jpg), file compressi
(zip), file integrati in html, casi inviati con un sistema di telepatologia statica con connessione “punto a punto” (sistema
Leica), utilizzando un collegamento telefonico in ISDN.
Utilizzando lo stesso sistema statico, ma con possibilità di
comandare il microscopio a distanza (tele-patologia statica
robotizzata o semidinamica), abbiamo verificato la concordanza, su immagini digitali di preparati istologici intraoperatori, rispetto alla diagnosi eseguita al microscopio, confermando la validità del metodo (concordanza 97-99%, tempo
medio di diagnosi 3.2-4.8 minuti) [3].
Fig. 1 Casi ricevuti in tele-consultazione (Anatomia Patologica,
Casa di Cura S. Pio X, Milano)
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Stiamo sperimentando l’utilizzo della tele-patologia
dinamica, con un sistema applicato, nella nostra rete ospedaliera, in collaborazione con la Zeiss. Il sistema comprende tre differenti stazioni e ha dato buoni risultati, con particolare riferimento al controllo continuo sulla qualità degli
esami intraoperatori e alla valutazione macroscopica a
distanza del materiale da esaminare.
La tele-patologia come utilizzo di immagini digitali
apre anche nuove e interessanti possibilità quali: il teleaggiornamento (siti web, biblioteche virtuali), la teleformazione tele-accreditamento e tele-autovalutazione)
e la tele-didattica. Molti di questi argomenti sono stati
trattati nel corso dei Convegni Italiani di Tele-patologia,
che si sono svolti dal 1997 a oggi rispettivamente a
Udine, Trento (Castel Ivano), Milano, Torino e nel libro,
pubblicato dopo il convegno di Milano, dal titolo “Telepatologia: strumenti, problemi e applicazioni”. La telepatologia è entrata in reti locali e geografiche nel contesto di cartelle cliniche digitali su web (ad esempio, la
cartella digitale per il melanoma del GIPMe, Gruppo
Italiano Polidisciplinare sul Melanoma), in applicazioni
virtuali e interattive multimediali e multidisciplinari e in
portali (ad esempio, www.oncopath.org). Inoltre, la telepatologia integra e completa informazioni polidisciplinari come ad esempio la tele-patologia abbinata alla
tele-dermatologia, alla tele-endoscopia e alla tele-radiologia.
Nell’ambito del WHO Collaborating Centre on
Cancer Control of Uncommon Tumours, che ha sede a
Milano presso la Casa di Cura S. Pio X, abbiamo sviluppato, in collaborazione con la Nikon, un programma di
condivisione di immagini digitali per una rete di consultazione di tumori rari. Il programma prevede la digitalizzazione tramite scanner del preparato istologico di tumore raro e la possibilità di entrare, da parte di un patologo
remoto, nel server del Centro per osservare il preparato
“virtuale”, come se lo osservasse al microscopio in modo
asimmetrico e contemporaneo per più patologi collegati
simultaneamente. Infine, il ruolo della telematica deve
essere correlato con la valutazione del rapporto costi e
benefici e verificato in relazione alla qualità e all’accuratezza, tuttavia, molto si sta sviluppando e si svilupperà
in futuro in questo campo dell’informatica di grande interesse, in cui molti sono i vincitori, ma anche molti sono
i vinti [4]. In conclusione, l’automazione, l’informatica e
la telematica hanno assunto un ruolo indispensabile e
insostituibile nell’attività sia di ricerca che di routine.
Tuttavia, la tecnologia informatica non deve essere subita, ma deve essere coscientemente applicata alle diverse
necessità delle realtà operative. Ciò farà sì che, attraverso il corretto e appropriato utilizzo di queste applicazioni, si possa cercare di ridurre la possibilità di errore e di
conseguenza tutelare il lavoro del professionista, ma
soprattutto migliorare i risultati per una maggiore sicurezza del malato.
Recensione
Bibliografia
1. Clemente C, Scopsi L (2000) Telepatologia, strumenti, problemi e applicazioni. C.G. Ed. Medico Scientifiche, Torino
2. Clemente C, Rao S, Clemente A (1998) Acquisition and
transmission of images in anatomic pathology: our experience
between Internet and ISDN. Adv Clin Path 2:151
3. De Michelis F, Eccher C, Clemente C, Migliore G, Dalla
Palma P, Forti S (1998) A feasibility study of a static-robotic
telepathology system for remote diagnosis. Adv Clin Path
2:138-139
4. Bondi A (1998) Vincitori e vinti. Pathologica 90:83-85
L’Errore in Anatomia Patologica:
migliorare la sicurezza del paziente,
tutelare il professionista
V. Cirese ()
Studio Legale Cirese, Via G.D. Romagnosi 1/b, I-00196 Roma, Italia
L’incremento della conflittualità medico/paziente:
analisi delle possibili cause
In questi ultimi anni, si è assistito ad un forte incremento
delle controversie giudiziarie (soprattutto penali) e dell’attività stragiudiziale delle compagnie assicurative, per casi di
responsabilità civile avviati da pazienti, che si ritenevano
insoddisfatti o danneggiati dall’operato dei medici. Tanto in
Italia come negli altri Paesi dell’Europa, si osserva complessivamente un aumento significativo della conflittualità
nei confronti della classe medica.
Richiamando i dati contenuti nella relazione del Comité
Europeen des Assurances, dedicata al tema “La responsabilité des professions medicales et son assurance en Europe”,
emerge evidente una richiesta di maggior tutela dei diritti
del paziente ovunque e in particolare in Germania, Austria,
Belgio e Francia. Inoltre, alcuni Tribunali (Svizzera e
Germania) applicano sempre più frequentemente l’inversione dell’onere della prova o, comunque, rendono più facile
l’onere probatorio del danneggiato. Il numero dei casi e
l’entità dei risarcimenti è ovunque in aumento, soprattutto
in Belgio, Francia, Spagna e Lussemburgo. Nel Regno
Unito si è verificata una triplicazione delle richieste di
risarcimento nel corso degli ultimi 5 anni. In Portogallo,
invece, il numero dei casi è rimasto relativamente esiguo,
anche se di recente si è osservata una tendenza all’aumento, sotto la spinta dell’organizzazione dei consumatori. È
interessante notare che in Svezia, a seguito dell’introduzio-
Recensione
ne del regime di “assicurazione paziente”, il numero dei
casi è minimo, circa 10 per anno.
Primarie fonti d’informazione riportano che in Italia le
compagnie assicuratrici sosterrebbero la spesa globale di 2
miliardi al giorno per il risarcimento di danni ai pazienti, circa 800 miliardi di lire (più del doppio della raccolta). Le
denunce dei sinistri da responsabilità civile medica si agirebbero sulle 12.000 l’anno. Inoltre, le assicurazioni lamentano la sproporzione crescente tra i premi assicurativi incassati e le somme destinate ai risarcimenti (rapporto 1/3, fonte ANIA) e per tale motivo impongono tariffe sempre più
alte, con maggiori oneri per tutti.
Si assiste, inoltre, alla minaccia di uscita dal settore delle
assicurazioni più serie e qualificate (ad esempio, GENERALI,
già Ina Assitalia, e RAS), con il contestuale ingresso di compagnie straniere che, se da una parte impongono condizioni
contrattuali di minor onere economico, dall’altra non garantiscono una gestione corretta e qualificata del sinistro, né si attivano per composizioni bonarie, stragiudiziali delle controversie. Infine, queste “nuove” compagnie espongono gli assicurati al rischio di una mancata o incompleta copertura, per dissesti, sofferenze temporanee, liquidazione della società, etc..
Il fenomeno della citata conflittualità quale risultante
di più cause e fattori
La creazione, nell’immaginario collettivo, di modelli e stili di
vita incentrati sul benessere, sulla bellezza, sulla salute e sulla
longevità costituisce sicuramente un particolare fattore di incidenza sul fenomeno di incremento della conflittualità nei confronti dei medici. Modelli creati ad arte e supportati dai progressi della scienza e della medicina, che hanno abituato ad
attese di qualità della vita non sempre possibili, si rilevano di
indiscutibile condizionamento dei destinatari delle prestazioni.
L’attuale società, con la progressiva scomparsa di orientamenti tradizionali, appare molto concentrata sui problemi
dei singoli, privilegiando beni materiali con un’ipersensibilizzazione dei diritti individuali. Ciò ha mutato il sistema dei
valori, indirizzando verso un diverso stile di vita, verso l’autorealizzazione e la tutela del bene salute.
In tale contesto, l’operato del medico, che è considerato
la “chiave per accedere al benessere e a un futuro migliore”,
è messo in dubbio da una generazione di “consumatori”, cui
è stato insegnato a non accettare acriticamente nulla, ma a
dubitare, controllare e far valere i propri diritti. Di conseguenza, in ambito sanitario, la guarigione da una malattia
viene considerata come un diritto indipendente dalle circostanze e dalle reali possibilità di farlo valere come una prestazione, che per essere stata in qualche modo pagata, deve
essere esattamente eseguita.
La mancata guarigione è quindi considerata “colpa” del
sanitario, se non addirittura “inadempimento”.
Ne è scaturito il diffondersi di una “cultura del vittimi-
591
smo”, in cui le “vittime” vengono rese popolari dalla televisione e dalla stampa. Dal canto loro, i medici e le relative
associazioni professionali, non hanno saputo costituire un
“contraltare” con una corretta informazione sui rischi e sui
limiti della medicina, forse perché ancora non ne avvertono
l’impellente necessità, sicuri di essere al riparo da ogni
rischio per la semplice operatività della copertura assicurativa (spesso insufficiente e relativa al solo settore civile).
I grandi progressi compiuti dalla scienza e dalla professione medica, soprattutto nella seconda metà del ventesimo
secolo, si sono caratterizzati per la possibilità, enormemente
accresciuta, di diagnosticare e curare molte malattie, con complete guarigioni senza esiti, ovvero con menomazioni residue
accettabili. Questi successi sono quasi quotidianamente vantati, attraverso i mezzi di comunicazione di massa, e questa
forma di “promozione” ha indubbie ricadute positive sul prestigio della medicina e dei medici, con rilevanti risvolti economici per un certo numero di essi, per le industrie che producono farmaci e strumenti, per la sanità privata, etc..
Naturalmente, esistono categorie di malattie a decorso
inevitabilmente cronico – come, ad esempio, molte patologie
vascolari, neurologiche, psichiatriche, reumatiche e parte di
quelle oncologiche – nell’ambito delle quali i progressi, e
quindi i successi, sono limitati. Queste malattie fanno ancora parte delle delusioni accettate dai pazienti e dai loro congiunti, perché non precedute da speranze infondate. È invece
sul versante assai vasto delle malattie, per le quali sono in
qualche misura giustificate delle attese ottimistiche, che la
reazione di rifiuto dell’insuccesso è proporzionale alla gravità dell’evento negativo, valga per tutti l’esempio del parto.
L’eccessiva e irrealistica esigenza di informazione può
trasformare il rapporto medico-paziente in un rapporto contrattuale, non dissimile da quelli commerciali, con una sorta
di “capitolato” sottoscritto dal medico e dal paziente all’inizio della prestazione sanitaria. Questa esasperazione – che è
l’eccesso opposto della frequente, eccessiva reticenza o sbrigatività dei medici nell’informare il paziente e chiedergli il
suo consenso – è una delle facce della professione che, da
parte dell’opinione pubblica e della magistratura, si tende
progressivamente a connotare, per una irrealistica obbligazione di risultato e non soltanto di mezzi. Il sistema dei DRG
non ha certo migliorato il problema del tempo a disposizione per instaurare un corretto rapporto medico-paziente. Né
si possono nascondere le carenze del servizio sanitario pubblico, in cui il soffocamento della lottizzazione partitica ha
avuto conseguenze negative sia sulle risorse umane (troppo
spesso l’apparato pubblico è stato utilizzato come trampolino per carriere politiche o mediche), non rispondenti ai canoni della singola preparazione o bravura, sia sulle strutture realizzate con logiche distanti dall’efficienza e dal miglioramento del servizio. Al contrario, il singolo medico responsabile si è trovato (e si trova) stretto nella morsa di chi, nel caso
di palesi carenze di strutture o di disservizi, non può fare a
meno di prestare comunque la propria opera per non incorrere nel reato di omissione di atti d’ufficio, essendo pubblico
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ufficiale o incaricato di pubblico servizio. Tuttavia, accettando di prestare la propria opera in un contesto carente, si espone ugualmente a responsabilità, potendo rispondere quantomeno per colpa (imprudenza), per aver accettato l’eventualità
del verificarsi di un rischio.
A ciò si aggiunga che spesso il contenzioso nei confronti
del singolo è strumentale ad ottenere l’intervento in giudizio
dell’ente (quale responsabile civile) da parte del danneggiato
o della pubblica accusa. Esiste poi la possibilità di rivalsa
dell’Azienda, nel caso che il professionista sia stato riconosciuto colpevole con sentenza passata in giudicato per dolo e
colpa grave. È negata invece la possibilità al singolo medico,
che sia stato imputato, di citare nel giudizio penale l’ente, perché risponda di quelle omissioni che, al verificarsi dell’evento infausto, hanno determinato l’istaurarsi del processo.
Diverso, invece, sarebbe, se l’ente rispondesse per proprio conto delle proprie carenze, sussistendo una normativa
di tutela della sicurezza nella pratica medica relativa alla
struttura, ad esempio, sulla stregua della disciplina antinfortunistica di matrice comunitaria, adottata per le imprese,
disciplina che è autonoma e concorrente e che anticipa la
soglia di punibilità al verificarsi del rischio, indipendentemente dall’evento dannoso.
Un certo orientamento giurisprudenziale – rafforzato talvolta dalla inconsapevole partecipazione emotiva della
magistratura alle aspettative del paziente – inquadrato in un
contesto legislativo locale e comunitario inadeguato quando
non mancante e il compattarsi di frange o categorie sociali
in organizzazioni a difesa dei diritti della collettività completano il novero delle ragioni di un incremento nella conflittualità medico/paziente.
A ben vedere, i magistrati – responsabili delle evoluzioni
giurisprudenziali – costituiscono un’interfaccia solo apparentemente asettica ed equidistante tra i “contendenti”, mentre in
realtà essi, nella inscindibile veste di giudici, ma anche di membri della società che li chiama a giudicare, non possono non
essere partecipi degli stessi sentimenti che animano la comunità
intera nei confronti dei medici e della Medicina. Sono sentimenti in cui oggi domina l’attesa, spesso esagerata e tramutata
in pretesa di risultati favorevoli non sempre possibili.
L’inevitabile, quanto forse inconsapevole, partecipazione
dei magistrati al sentimento collettivo e la loro meditata adesione all’attuale orientamento dottrinale e giurisprudenziale
di massima tutela del paziente, spiega, in buona sostanza, il
progressivo abbandono di un orientamento generale più comprensivo nei confronti dei medici, dovuto forse anche al tradizionale “rispetto” nei confronti della categoria e anche alla
millenaria accettazione dell’ineluttabilità della malattia e della morte. Conseguentemente, si è avuto il passaggio progressivo a quella giurisprudenza severa, non di rado eccessiva.
Il fenomeno del maggior rigore degli indirizzi giurisprudenziali non è limitato all’Italia, ma come già evidenziato è
comune a Stati altrettanto sviluppati. Ad esempio, in
Germania e Svizzera, sempre più spesso con l’inversione
dell’onere della prova, è il medico a dover dimostrare di non
Recensione
aver causato danni al paziente o di non essere stato inadempiente nello svolgimento delle sue funzioni. In queste due
nazioni, come anche in Belgio, Francia, Lussemburgo,
Spagna, è in crescita il numero dei contenziosi (nel Regno
Unito è addirittura triplicato negli ultimi cinque anni), così
come l’entità media del risarcimento.
Il quadro appena delineato è quello di un settore vasto,
potente, ma assolutamente sfilacciato: un gigante scoordinato, un agglomerato disorganico e vulnerabile capace soltanto
di difendersi con mezzi spuntati e perversi, come la cosiddetta “medicina difensiva”. La “medicina difensiva” è da considerarsi un fenomeno sostanzialmente nuovo, direttamente
conseguente all’incremento patologico del contenzioso giudiziario nei confronti dei medici. A prima vista, essa non si
discosta, nei connotati comportamentali che la caratterizzano,
dalla tipica condotta professionale che si avvale di scelte operative in discreta misura opzionali, cioè di scelte caso per caso
dei mezzi diagnostici e, soprattutto, terapeutici, ritenuti più
opportuni e utili al paziente. La differenza essenziale consiste
nei motivi delle scelte che, nella “medicina difensiva”, non
sono dettate dall’interesse primario del paziente, bensì dall’obiettivo del medico di prevenire denunce giudiziarie. La
“medicina difensiva” è ormai una realtà, un frutto perverso e
preoccupante del contenzioso giudiziario, che assilla la classe
medica e turba la regolare evoluzione della pratica professionale, che ha invece l’obbligo di convogliare gli strumenti forniti dal progresso scientifico e tecnologico entro i binari dei
propri millenari principi deontologici: i quali pongono al centro dell’opera del medico l’esclusivo interesse del paziente.
Alla luce delle premesse, che precedono, appare inconfutabile che il problema di fondo, in tema di colpa professionale sanitaria, consista nel ritrovare una soluzione che
contemperi sia l’esigenza di tutelare adeguatamente il bene
della vita e della salute del paziente, sia quella di assicurare
una valutazione della condotta del medico confacente alla
complessità dell’attività svolta, posto che la giurisprudenza,
originariamente e per un lungo lasso di tempo in posizione
di benevolenza e indulgente considerazione verso i medici,
sia stata progressivamente sostituita da indirizzi severi.
Non vi è dubbio che gli orientamenti dominanti, recentemente, si siano dimostrati più rigorosi anche nella valutazione della colpa medica in ambito anatomo-patologico, in
considerazione del peso giuridico di un errore professionale
in un settore così specializzato e tuttavia così ampio, nonché
per la maggior severità di valutazione dell’errore commesso
dallo specialista (a fronte delle specifiche capacità tecniche
che l’acquisizione del titolo specialistico comporta, legittimanti maggiori aspettative).
Profili rilevanti di colpa in ambito anatomo-patologico
Fra i profili rilevanti della colpa medica, anche in ambito
anatomo-patologico, meno ricorrente anche alla luce della
Recensione
esperienza giudiziaria, risulta quello collegato all’inosservanza di leggi e regolamenti, ordini o discipline, anche se a
volte ciò si rinviene e anzi l’inosservanza, fonte della colpa, può in teoria riflettere, non solo norme consacrate in
leggi o regolamenti, ma anche norme di servizio o di disciplina, contenute, ad esempio, nei regolamenti interni dell’ospedale o di altri enti, o frutto di singole disposizioni
impartite in forza di una posizione di superiorità gerarchica
o funzionale.
Nella netta maggioranza dei casi, la colpa del medico
assume, per come si evince dalla giurisprudenza, le tipiche
forme della negligenza, dell’imprudenza e della imperizia.
Vale la pena notare che la limitazione della responsabilità
del professionista riguarda non ogni possibile manifestazione della colpa, ma solo quella costituita dell’imperizia; solo
in ordine a quest’ultima ha senso prevedere un margine d’esenzione da responsabilità; per chi affronta interventi di
“particolare difficoltà tecnica”, ai sensi dell’art. 2236 c.c., è
fatto riferimento esclusivamente a quell’aspetto della colpa
che concerne non già la prudenza e la diligenza in senso
stretto, bensì la perizia.
In tema di malpratica sanitaria, la casistica degli ultimi
anni ha evidenziato che, nell’ambito dell’istopatologia umana, il rischio dell’errore diagnostico (per mancata o errata
diagnosi) ricorre con maggiore frequenza al momento della
scelta della metodica del taglio da eseguire o nell’esecuzione del taglio stesso. È stato rilevato, inoltre, che la responsabilità professionale può conseguire anche alla mancata
conservazione dei vetrini.
Occorre premettere che la metodica del taglio, fase centrale e altresì fondamentale dell’attività specialistica del settore, non è attualmente regolata da specifici protocolli.
Tale mancanza, se da una parte garantisce al clinico che deve
procedere all’escissione del pezzo, maggiore libertà nella
scelta tecnica, potendo egli applicare o meno una ben precisa metodica, dall’altra rischia di esasperare la diversità “di
scuola” nella scelta della metodica, che in alcuni casi è già
ben evidente. È stata riscontrata, ad esempio, una diversità
d’esecuzione (di sezione e di prelievo) per identiche patologie tumorali, a seconda delle istituzioni ospedaliere ove s’interveniva. A titolo esemplificativo, basti citare che nell’asportazione radicale della prostata, vi sono scuole che sezionano l’intera ghiandola prostatica e altre invece che preferiscono inciderne solo un pezzo. Come vi sono cliniche che
sostengono che l’escissione (del tumore) ideale è quella di
spaccare a metà la sezione, lasciando al centro la parte tumorale e ben in evidenza i margini, i cui contorni devono essere valutati con estrema precisione per l’identificazione della
patologia: ciò in particolare nel caso di tumori cerebrali e del
seno. Ed è proprio la diversità di pratica medica descritta la
causa più ricorrente nei contenziosi civili e dei processi
penali, che vedono come protagonisti gli anatomi patologi,
chiamati a rispondere, come prestatori d’opera intellettuale,
esclusivamente per l’inadempimento di un’obbligazione di
mezzi e non di risultato.
593
Tipici casi sui quali la giurisprudenza ha avuto modo di
esprimere indirizzi precisi sono:
1. Gli errori diagnostici di primari ospedalieri (di reparti di
Anatomia e Istologia Patologica) che, dopo aver eseguito esami di frammenti di cute provenienti dalle sale operatorie, hanno diagnosticato erroneamente (ad esempio,
l’esistenza di un melanoma anziché di un angioma),
inducendo il radiologo a praticare al paziente terapie
irradianti non indicate.
2. Errate diagnosi istologiche di carcinoma, che hanno
comportato interventi chirurgici di asportazione di
mammella e utero in donne in età feconda. Trattandosi
di tipiche contestazioni di “imperizia”, si rileva la distinzione, perché si esige per l’affermazione della responsabilità la colpa grave, nel criterio, comunemente accolto dalla non ricorrenza di “speciali difficoltà tecniche”.
Va osservato però che, trattandosi di condotta omissiva,
il metodo di accertamento causale è di tipo probabilistico e scaturisce dal fatto che il nesso tra condotta ed
evento è in forza della previsione dell’art. 40 c.p. (non
impedire un evento che si ha l’obbligo giuridico di
impedire, equivale a cagionarlo), costituito in termini
ipotetici e non naturalistici come è invece per la causalità del reato commissivo.
Variabilità diagnosticata versus errore
diagnostico in citologia
P. Dalla Palma ()
Servizio di Anatomia Patologica, Ospedale S. Chiara, Largo
Madaglie d’Oro 1, I-38100 Trento, Italia
Si è verificato certamente un errore, o per meglio dire uno
sbaglio, se:
1. vi sono due diagnosi diverse fatte da due patologi
diversi;
2. alla revisione superiore, ad esempio, in un programma di
controllo di qualità, viene posta una diagnosi diversa dalla prima;
3. il follow-up clinico-laboratoristico, compreso l’eventuale controllo istologico successivo, contraddice la diagnosi primitiva [1].
La frequenza di tale situazione in citologia è maggiore
che in istologia. Vi sono però delle specificità dell’esame
citologico, in quanto quest’ultimo è spesso usato come esame di primo livello; la mancata rilevazione di un allarme,
peraltro presente nel preparato, il falso negativo, non indurrà
gli esami successivi, compreso il controllo istologico, che
dimostrerebbero con certezza la presenza di una condizione
neoplastica o pre-neoplastica. In tali situazioni, si configura
594
Recensione
di fatto un ritardo diagnostico che potrebbe avere delle
importanti conseguenze per il paziente.
Meno grave, anche se spesso molto ansiogeno e costoso, è
il falso positivo: la mancata conferma di una diagnosi citologica fa in genere terminare il processo diagnostico-terapeutico.
Allorquando un clinico richiede un esame citologico, si
attende una risposta certa: negativo o positivo, bianco o nero.
Egli non gradisce risposte come “ASCUS non si può escludere un HSIL” o anche “Reperto compatibile con...”. La classificazione binaria in citologia è spesso impossibile e tutti usiamo con frequenza variabile la classe del sospetto, la vecchia
classe III di Papanicolaou, cioè il grigio. Si tratta della categoria più comoda per il patologo, ma quella meno amata dal
clinico, perché non utile a chiarire il quesito diagnostico.
Recentemente, è stata introdotta una modifica a tale classe,
suddividendola in due ulteriori categorie: l’atipia verosimilmente benigna e il sospetto maligno. Se esiste un colloquio
aperto tra clinico e patologo si sarà fatto un passo in avanti
perché il primo, anche alla luce di ulteriori notizie cliniche, in
genere ignote al patologo, potrà scegliere l’atteggiamento diagnostico-terapeutico più appropriato per il paziente; in caso
contrario, non si sarà fatto altro che introdurre una quarta
variabile con conseguente diminuzione della concordanza.
Sempre riguardo alla variabilità, un commento a parte
merita la valutazione dell’adeguatezza del preparato nei PapTest. Senza modificare la categoria degli inadeguati, il
Sistema Bethesda [2] ha distinto gli adeguati dai meno che
ottimali per… Dati Italiani del GISCi e personali di Trento
hanno dimostrato come quest’ultima categoria sia scarsamente riproducibile, con valori variabili fino a 3 volte a
seconda dei citotecnici, che pur avevano un bagaglio culturale e una esperienza professionale simile (Tab. 1).
Tabella 1 Classificazione di adeguatezza per i Pap-Test del 1999
Ottimale
Subottimale
Inadeguato
1
2
3
4
5
6
7
90.6
6.2
3.2
84.0
12.5
3.5
85.0
12.1
2.9
84.8
12.3
2.9
83.6
13.4
3.0
79.1
16.9
4.0
78.9
16.7
4.4
Mentre l’inutilità di questa distinzione è evidente per la
donna che verrà richiamata o meno a ripetere il test a seconda della volontà del clinico, non se ne vede una sostanziale
utilità nemmeno per il patologo, a meno che la distinzione
non venga usata come controllo di qualità. Si possono ricercare le cause del non ottimale: se queste sono dovute alla
paziente (ad esempio, una infiammazione), se ne possono
curare le cause; se sono dovute al prelevatore (ad esempio,
la mancanza di elementi endocervicali), si possono modificare e correggere abitudini errate di prelievo; se sono dovute al laboratorio (ad esempio, non ottimale colorazione), si
possono apportare modifiche migliorative della fase preanalitica. È indubbio, infatti, che una diagnosi sarà tanto
migliore, quanto migliore sarà la qualità del preparato da
esaminare. Se un preparato è inadeguato non si deve comunque porre alcuna diagnosi né alcun sospetto, ma si deve ripetere il prelievo. Attenzione comunque, perché un preparato
che contiene elementi neoplastici diagnostici, per definizione, non è mai inadeguato! A fronte di una diagnosi sbagliata, difficilmente il giudice modificherà il suo atteggiamento
solo perché il preparato era stato giudicato subottimale.
Se si fa riferimento al numero delle cause giudiziarie
contro i patologi, per errori dovuti alla citologia, si può notare come negli ultimi anni vi sia stato un sensibile calo dovuto principalmente al fatto che i patologi credono maggiormente alla citologia e almeno in parte al fatto che abbiamo
sensibilmente migliorato la qualità del nostro lavoro [3]. Vi
sono almeno quattro momenti in cui intervenire:
1. il prelievo deve essere rappresentativo del processo biologico in accertamento;
2. la preparazione tecnica deve essere ottimale;
3. la visione (se vogliamo la scansione) del preparato deve
essere completa;
4. il citologo deve essere in grado di riconoscere le alterazioni cellulari presenti.
Con il “Quality Control” si deve essere in grado di monitorare, ottimizzare e standardizzare ogni singolo passo del processo diagnostico, affinché, attraverso la “Quality Assurance”,
si sia in grado di fornire un prodotto finale (la diagnosi) sempre più preciso e utile per il cliente/paziente. Negli Stati Uniti
il CAP [4], nel suo “Quality Improvement Manual”, dedica un
intero capitolo alla citologia. Il modello proposto dà una garanzia di prodotto standard e di competenza (credenzialità) attraverso linee guida, programmi di accreditamento e i Q-Probes
che permettono di avere dei valori di riferimento.
La via verso la qualità ha comunque dei costi che possono essere anche sensibili. In una bella revisione di Gill sull’argomento [5], viene dimostrato come vi sia una rotta di
collisione tra il laboratorio di citologia e il mondo esterno:
il primo ha problemi di costi, di produttività limitata (massimo 70 casi al giorno, secondo un recente lavoro italiano [6]),
di reale difficoltà nel riconoscere pochi elementi atipici,
magari non sempre chiari, le “litigation cells”, in un mare di
cellule normali; il secondo vorrebbe pagare il servizio sempre meno, vorrebbe un’efficienza massima di ogni singolo
operatore indipendentemente dalla sua esperienza, vorrebbe
anche che il singolo elemento atipico venisse sempre riconosciuto e giustifica le azioni di supposta “malpratica”.
Purtroppo i dati disponibili dimostrano che solo il 6.2%
del tempo è speso dai citotecnico per il controllo di qualità e
questo dato si riferisce agli Stati Uniti, ove il controllo di qualità è alla base del sistema di remunerazione del Pap-Test da
parte delle compagnie assicurative [5]. Nei riguardi del controllo di qualità, vi è chi ha voluto vedere delle rassomiglianze tra il lavoro del controllore di volo e quello del citologo.
Sembrerebbe che sia proprio quest’ultimo a stare peggio, in
quanto per i controllori di volo è prevista la presenza contemporanea di almeno due unità che usufruiscono di un periodo di riposo di 30 minuti ogni due ore, lavorando su un radar
Recensione
ove gli oggetti da seguire sono relativamente pochi e vi si
muovono lentamente. Il lavoro del citologo è peggiore, anche
se le responsabilità sono ovviamente non paragonabili.
Certo, attraverso programmi di “quality control” e “ quality assurance” possiamo migliorare il nostro prodotto, ma
dobbiamo stare attenti a monitorare anche la comunicazione: siamo proprio certi che il nostro cliente intermedio (il
clinico e/o il medico di medicina generale) e quello finale (il
paziente) comprendano veramente il significato di una
nostra diagnosi, peraltro formalmente esatta? Alcune diagnosi sono assolutamente criptiche e sembrano fatte per diagnosticare tutto e il suo contrario, forse per problemi medico-legali. Ma giustamente Skoumal [7] sostiene che una
chiara e precisa comunicazione tra patologo e clinico è il
miglior modo di prevenire la malpratica ed è particolarmente utile al paziente. Certo vi sono casi in cui non è possibile
essere chiari e si deve esprimere un certo margine di incertezza. Raab [8] ha proposto anche di quantificare il nostro
grado di incertezza (ad esempio, “vi sono 75 probabilità su
100 che si tratti di un..”), ma tale suggerimento, almeno per
il momento non ha fatto molti proseliti.
In una recentissima pubblicazione, apparsa su BMJ nel
Marzo 2001, è emersa un’altra preoccupante realtà. Il PapTest è un test di screening e, come tale, dotato di una certa
percentuale di inesattezza, indicando che nei casi di normalità
vi è un rischio molto basso di sviluppare un carcinoma della
cervice, con una protezione superiore al 90%. Nel 1997 il
National Cancer Screening Program Inglese aveva deciso di
modificare la dizione “negativo” (che aveva posto infatti qualche problema) con il termine “striscio normale”. Ad una indagine, solo il 52% della popolazione generale comprendeva l’esatta informazione ottenibile attraverso il test e si arrivava ad
una percentuale del 70% dopo adeguata spiegazione. Le donne rimanenti erano convinte che “striscio normale” significasse assoluta garanzia di non essere affette da neoplasia per
i successivi 5 anni [9].
Nel 1999, la questione nota come “Kent at Canterbury” ha
suscitato molto scalpore nell’ambiente citologico. Alcuni
Colleghi inglesi erano stati condannati per diagnosi di
ASCUS. Tutto l’ambiente si era ribellato perché sembrava che
le condanne vertessero appunto su “litigation cells”. Una lettura attenta della sentenza metteva però in luce altri problemi
di ordine più propriamente organizzativo. In quel laboratorio
vi era una gestione confusa e difficile; vi erano stati dei segnali (allarmi) di cui non si era tenuto conto; i responsabili non
erano molto interessati a che le cose funzionassero bene e non
era nemmeno chiaro chi fosse il vero responsabile.
In conclusione, anche alla luce dei lavori sull’errore
medico, apparsi sul British Medical Journal del 2000 [10],
possiamo suggerire alcune riflessioni:
1. quando si verifica uno sbaglio non dobbiamo nasconderci o biasimarci, ma piuttosto imparare dall’errore e mettere in atto tutte quelle procedure che sono utili per prevenirlo, magari cambiando abitudini lavorative consolidate nel tempo;
595
2. dobbiamo riconoscerci come parte di un sistema complesso, in cui giocano il loro ruolo anche il clinico e il
paziente e con cui dobbiamo interagire e comprenderci;
3. dobbiamo garantire standard procedurali e diagnostici
che vengano monitorati quotidianamente nella coscienza
che l’errore è grave per il paziente, ma anche noi ne
abbiamo a soffrire.
Bibliografia
1. Foucar E, Foucar MK (2000) Error in Anatomic Pathology.
In: Foukar MK (ed) Bone marrow pathology. ASCAP Press,
Chicago
2. National Cancer Institute Workshop (1993) The 1991
Bethesda system for reporting cervical/vaginal cytologic
diagnoses. Acta Cytol 37:115-124
3. Sabella JE (1997) Medicolegal principles and problems. In:
Principles and practice of surgical pathology and cytopathology, 3rd ed. Silverberg S.G, New York
4. College of American Pathologists: Cytopathology. In: Travers
H (ed) Quality improvement manual in Anatomic Pathology.
CAP
5. Gill GW (1997) Pap smear risk management by process control. Cancer Cytopathol 81:198-211
6. Andrion A, Dalla Palma P (2000) Il carico di lavoro in citologia cervico-vaginale: un compito complesso nella pianificazione dell’attività di laboratorio. Pathologica 92:177-184
7. Skoumal SM, Florell SR, Bydalek MK, Hunter WJ 3rd
(1996) Malpractice protection: communication of diagnostic
uncertainty. Diagn Cytopathol 14:385-389
8. Raab SS, Thomas PA, Cohen MB (1995) Decision analysis in
cytopathology. Diagn Cytopathol 12:334-340
9. Marteau TM, Senior V, Sasieni P (2001) Women’s understanding of “a normal smear test result”: experimental questionnaire based study. BMJ 322:526-528
10. Reinerstein JL (2000) Let’s talk about error. Leaders should
take responsibility for mistakes. BMJ 320:730
Errore scientifico e sbaglio umano in
medicina
G. Federspil () · R. Vettor · C. Pagano
Dipartimento di Scienze Mediche e Chirurgiche dell’Università di
Padova, Cattedra di Medicina Interna, Università di Padova, Via
Ospedale 105, I-35100 Padova, Italia
Errore e verità
Il tema dell’errore scientifico è, come appare immediatamente evidente, speculare all’idea della verità, cosicché
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non è possibile trattare del primo argomento senza prendere contemporaneamente in considerazione il secondo. Non
è certo possibile, in questa occasione, analizzare in modo
approfondito un’idea come quella della verità, sulla quale
i filosofi dibattono dai tempi della civiltà ellenica, tuttavia,
se si vuole comprendere che cosa sia l’errore è indispensabile esporre almeno alcuni concetti basilari che possano
rendere più chiaro il discorso. Come introduzione generale, dirò subito che professo un’idea della verità molto vicina a quella del senso comune, un’idea, quindi, della quale
siamo debitori ad Aristotele e secondo la quale la verità
non è la proprietà di una cosa, ma è la proprietà di un
discorso. Vero, quindi, è quel discorso che descrive le cose
come stanno, ovvero che corrisponde alla realtà, e falso è
un discorso o un asserto che non afferma le cose come queste sono nella realtà. Vera, quindi, non sarà l’esistenza delle cellule, ma vera sarà l’affermazione di chi dice che le
cellule esistono.
La scienza moderna è sorta nel XVII secolo con il preciso intendimento e con l’ambizione di costituire un sapere
capace di dare all’uomo, ad un tempo, sia la verità che la
certezza di averla raggiunta.
Questa convinzione filosofica è già presente nelle parole di uno dei fondatori della scienza moderna, Galileo
Galilei: “Le deliberazioni della natura” ha scritto lo scienziato pisano “sono ottime, une, e forse necessarie, onde circa di esse non hanno luogo le ragioni probabili: si che ogni
discorso che noi facciamo circa di esse o è ottimo e verissimo, o pessimo e falsissimo. (....) È cosa da ridere il dire che
la verità sta tanto ascosta, che è difficile il distinguerla dalle bugie: sta bene ascosa sino a che non si producono altro
che pareri falsi; tra i quali spazia la probabilità; ma non si
tosto viene in campo la verità, che, illuminando a guisa di
sole, scaccia le tenebre della falsità.” E, ancora: “Nelle
scienze naturali, le conclusioni delle quali son vere e necessarie né vi ha che far nulla l’arbitrio umano, bisogna guardarsi di non si porre alla difesa del falso, perché mille
Demosteni e mille Aristoteli resterebbero a piede contro ad
ogni mediocre ingegno che abbia avuto ventura di apprendersi al vero.”
È evidente, dunque, che per Galileo la verità si mostra
con facilità a chi la cerca con onestà d’intenti e che, per essere compresa, essa non necessita di argomentazioni complicate, ma può essere dimostrata anche con “mediocri discorsi”. Inoltre, la verità, una volta che venga conosciuta, appare con tale evidenza alla mente umana da dare all’uomo la
certezza di averla conquistata definitivamente. Infine,
secondo Galileo, il retto uso della ragione e le esperienze
conducono con sicurezza alla verità e non possono fornire
sostegno alle opinioni errate: “Sendo” ha affermato Galileo
“una delle posizioni vera e l’altra necessariamente falsa, è
impossibile che per la falsa s’incontri mai ragione, esperienza o retto discorso che le sia favorevole, sì come alla
vera nessuna di queste cose può essere repugnante.” [1].
Questa filosofia ottimistica sulle capacità dell’uomo e
Recensione
della scienza di poter conoscere la verità ha dominato molto a lungo gli ambienti scientifici e ha costituito il paradigma epistemologico dominante anche in medicina fino alla
prima metà del XIX secolo.
Conoscenza e medicina nel XVIII e nel XIX secolo
Come ricorda Bernardino Fantini, nel XVIII secolo i medici
ritenevano che la medicina dovesse essere interamente fondata, sia sul piano teorico che su quello clinico-operativo,
sulla osservazione passiva e neutrale dei fenomeni, poiché
solo l’osservazione metteva in contatto diretto l’uomo con la
realtà naturale e gli permetteva così di giungere alla verità.
“Ars medica” recitava, appunto, un aforisma dell’epoca
“(est) tota in observationibus” [2] e il primo metodologo clinico, lo svizzero J.J. Zimmermann, scriveva nel suo trattato
‘Della esperienza nella medicina’ queste parole: “La medicina è nata dalla osservazione; ella deve i suoi avanzamenti
alla osservazione, e senza quest’aiuto ella non può essere
che una chiacchera inutile.” [3].
Nel XVIII secolo, dunque, la tesi epistemologica dominante sosteneva che la scienza non solo poteva raggiungere
la verità, ma era anche capace di dare al ricercatore la certezza di averla raggiunta e riteneva che lo strumento fondamentale, che conduceva contemporaneamente alla verità e
alla certezza della verità, era costituito dalla osservazione
accurata ed obiettiva dei fenomeni naturali. “Le osservazioni adunque” scriveva ancora Zimmermann “sono la base dei
nostri ragionamenti; e s’elleno sono buone, si prendono
come tanti dati dimostrati”. In questo contesto concettuale i
ragionamenti e le argomentazioni venivano guardati con
sospetto e venivano ritenuti capaci di condurre in errore chi
investigava la realtà naturale. “Le buone osservazioni” raccomandava ancora Zimmermann “non si debbono né pure
frammischiare coi raziocini. E i fenomeni della natura
vogliono essere descritti tali quali si veggono e non come si
giudicano” [3].
L’anatomia patologica è nata, come tutti sappiamo, nel
XVIII secolo, nel clima epistemologico appena descritto e
si è subito presentata come una scienza medica che occupava una posizione privilegiata rispetto alla clinica, perché
conduceva in via diretta alla verità. Mentre la medicina
clinica si fondava su rilievi indiretti ed era quindi obbligata a formulare ipotesi e congetture su ciò che si verificava all’interno dell’organismo malato, l’anatomia patologica poteva osservare direttamente la realtà patologica: le
lesioni degli organi che avevano provocato la malattia si
presentavano infatti direttamente sotto gli occhi dell’anatomo-patologo e gli mostravano come veramente stavano
le cose. In una parola, l’anatomo-patologo aveva accesso
diretto alla realtà e poteva quindi evitare di perdersi in
congetture, come invece erano obbligati a fare i clinici. Il
discorso dell’anatomico, quindi, era un discorso vero per-
Recensione
ché basato su un’evidenza osservativa, che non poteva
ragionevolmente essere messa in dubbio. “Affermeremo”
scrive Morgagni nel 1722 “che non è possibile prospettare la natura e le cause di nessuna malattia senza le rispettive dissezioni dei cadaveri. (...) E per la ricerca delle vere
cause che determinano i morbi (...) non v’è migliore via
che sezionare pezzi patologici e cadaveri e osservare il
comportamento degli umori.” [4]. E circa un secolo più
tardi, l’anatomo-patologo di Wurzburg, Augusto Foerster,
scrisse che nel XIX secolo “s’imparò a conoscere ciascun
processo morboso in tutto il suo sviluppo nei singoli organi, e si concepì la natura del processo morboso generale
dal suo lato materiale in tutta la sua estensione.
L’anatomia patologica (...) ebbe lo scopo di studiare
scientificamente la vita morbosa e il corpo da tutt’i lati.”
[5]. Appare quindi chiaro il quadro concettuale della
medicina del XVIII e del XIX secolo: come ha scritto un
epistemologo contemporaneo, Massimo Baldini, per la
massima parte dei medici del ‘700 e dell’‘800 “la natura
è paragonabile a un libro aperto: lo scienziato deve solo
aprire gli occhi e osservare senza pregiudizi quello che vi
è scritto. L’osservazione pura ed incorrotta non può in
alcun modo fargli commettere degli errori; l’uomo di
scienza infatti cadrà in errore soltanto quando invece di
osservare, teorizzerà.” [6]. Esisteva dunque una scienza –
la Clinica – che congetturava sulla realtà, ed un’altra
scienza – l’Anatomia Patologica – che descriveva la realtà
così come essa era. In questo quadro era inevitabile che la
seconda disciplina divenisse il tribunale della prima: l’anatomopatologo, avendo accesso diretto alla realtà patologica, poteva e doveva giudicare l’opera congetturale del
clinico.
Questo modello epistemologico ha cominciato ad
incrinarsi e a mostrare i propri limiti nella seconda metà
del XIX secolo, quando divenne evidente che l’osservazione passiva dei fenomeni morbosi – clinici o anatomici che fossero – non era in grado di risolvere molti problemi, i quali invece, potevano essere risolti soltanto con
l’uso sistematico dell’esperimento. I limiti dell’anatomia
patologica classica vennero esposti dallo stesso Rudolf
Virchow in un celebre scritto del 1847 intitolato “Sui
punti di vista nella medicina scientifica”: “Mi limito a
concludere” scrisse il patologo di Berlino “che l’anatomia patologica è una scienza anatomica e non fisiologica, e che essa può giudicare con ogni competenza di questioni puramente anatomiche ma non fisiologiche. (....)
L’anatomia patologica com’è stata elaborata finora, può
solo diventare un rinnovato panegirico dell’ipotesi.
Come decidere con certezza quale di due oggetti giustapposti è causa e quale effetto, e se in generale l’uno
dei due sia causa o se invece entrambi non siano coeffetti di una stessa terza causa; o infine se ogni oggetto non
sia l’effetto di una causa diversa da quella dell’altro
oggetto? La decisione finale su questi problemi appartiene a una scienza, che attualmente è solo agli inizi (...)
597
intendo dire la fisiologia patologica.” [7]. Queste parole
del patologo tedesco fanno intravvedere una concezione
epistemologica più articolata e complessa di quella precedente: l’anatomia patologica non è più soltanto il regno
dei fatti e delle osservazioni, ma dà origine e comprende
al proprio interno anche le ipotesi. A queste ipotesi a volte essa non è capace di rispondere, mentre una risposta
alle domande che essa solleva può venire dalla sperimentazione.
Le idee di Virchow sono state poi riprese e sviluppate da
Claude Bernard, il fondatore della medicina sperimentale.
Per il fisiologo francese “la medicina osservativa, in quanto scienza naturale, ammetteva una scienza delle malattie,
cioè delle entità morbose analoghe alle specie degli zoologi”, tuttavia, la vera scienza non poteva accettare le classificazioni delle malattie come entità distinte e si proponeva
invece il fine ultimo della scienza, cioè la spiegazione dei
meccanismi patologici. Ma una spiegazione adeguata dei
meccanismi morbosi non poteva essere ottenuta soltanto
osservando passivamente la natura, come fanno il clinico e
l’anatomico, ma solo intervenendo attivamente sui fenomeni e perciò sperimentando.
Alla luce delle riflessioni metodologiche di Bernard, nella seconda metà dell’‘800, la natura non era più soltanto un
libro aperto, nel quale si poteva leggere ciò che vi era scritto, ma diventava un testo complesso che poteva essere interpretato secondo diverse prospettive, un testo che doveva
essere interrogato e che poteva rispondere in modi diversi a
seconda delle domande che gli venivano poste.
Questo nuovo rapporto che veniva a crearsi fra il ricercatore e il suo oggetto di indagine era stato già intuito da
Kant, il quale aveva compreso come, nella ricerca empirica, lo scienziato non è soltanto un passivo ricevitore di
informazioni, come ritenevano Bacone o Magendie, ma
rappresenta un soggetto che interviene attivamente nella
ricerca indirizzandola verso l’una o l’altra direzione.
“Quando Galilei” è scritto nella Prefazione alla edizione
del 1787 della ‘Critica della Ragion pura’ “fece rotolare le
sue sfere su un piano inclinato, con un peso da lui stesso
scelto, e Torricelli fece sopportare all’aria un peso, che
egli stesso sapeva di già uguale a quello di una colonna
d’acqua conosciuta (...) fu una rivelazione luminosa per
tutti gli investigatori della natura. Essi compresero che la
ragione vede solo ciò che lei stessa produce secondo il
proprio disegno, e che (...) deve essa entrare innanzi e
costringere la natura a rispondere alle sue domande; e
non lasciarsi guidare da lei, per dir così, colle redini; perché altrimenti le nostre osservazioni fatte a caso e senza
un disegno prestabilito non metterebbero capo ad una legge necessaria, che pure la ragione cerca e di cui ha bisogno.” [8].
Questi mutamenti metodologici portarono, nel corso
del XX secolo, a un cambiamento profondo anche nel
modo di concepire la conoscenza scientifica. Mentre fino
alla prima metà dell’‘800 la verità scientifica appariva sol-
598
tanto come il prodotto delle osservazioni obiettive e veniva considerata come una conquista definitiva dello spirito
umano, nella seconda metà dell’‘800 ha cominciato a farsi
strada l’idea che la verità scientifica non costituisce affatto un’acquisizione definitiva, ma consiste invece in una
conoscenza incerta, approssimata e perennemente rivedibile che è il risultato di una discussione razionale fra diversi
interlocutori. “La conoscenza del rapporto assoluto e
necessario delle cose è sempre più o meno approssimata”
ha scritto Claude Bernard “e le nostre teorie sono ben lontane dal rappresentare verità immutabili.”. Esse “rappresentano solo delle verità parziali e provvisorie di cui ci si
serve per procedere nella ricerca” (...), verità che “riproducono lo stato attuale delle nostre conoscenze” che
“dovranno cambiare necessariamente col progredire della
scienza” [9].
Scienza, verità ed errore nell’epistemologia contemporanea
Nel corso della seconda metà del XX, secolo l’epistemologia ha definitivamente abbandonato l’idea che le osservazioni scientifiche siano realmente neutrali ed obiettive,
cioè libere da pre-concetti e da pre-giudizi, e ha riconosciuto come le osservazioni siano sempre raccolte e registrate in relazione alle ipotesi e alle congetture che lo
scienziato avanza per spiegare la realtà naturale.
“L’osservazione «pura», cioè l’osservazione priva di una
componente teorica” ha affermato Karl Popper “non esiste. Tutte le osservazioni sono osservazioni di fatti compiute alla luce di questa o di quella teoria. Infatti, l’idea
che noi possiamo, volendolo, e in via preparatoria rispetto alla scoperta scientifica, purgare la nostra mente dai
pregiudizi – cioè da idee o teorie preconcette – è ingenua
e sbagliata” [10]. “È un grossolano errore” ha aggiunto
l’epistemologo Dario Antiseri “pensare che la scienza
parta dall’osservazione, si risolva in asserzioni che
descrivono osservazioni e che si sviluppi aumentando il
volume delle asserzioni che descrivono osservazioni. E
dietro a questa idea c’é la teoria sbagliata, di baconiana
memoria, secondo cui la mente del ricercatore è una tabula rasa su cui verrebbe a riflettersi il gran Libro della
Natura. (...). Ma l’osservazione non è mai «pura»; essa è
sempre guidata da un qualche sospetto o da una qualche
congettura o speranza (...). Senza ipotesi o aspettazioni
non sapremmo cosa guadare, saremmo come pescatori
senza rete.” [11]. Lo scienziato, pertanto, opera sempre
con teorie, anche se spesso non ne è consapevole, e i fatti
che egli pazientemente raccoglie sono sempre fatti raccolti alla luce delle conoscenze che pre-esistono nella sua
mente e fatti interpretati alla luce di quelle conoscenze.
Contrariamente a ciò che riteneva la concezione tradizionale della scienza, i fatti non sono mai indifferenti rispetto alla conoscenze vigenti in un certo momento storico,
Recensione
ma militano sempre a favore o in contrasto dell’una o dell’altra conoscenza. Ovvero, come Charles Darwin scriveva ad un amico: “È ben strano che non si veda come ogni
osservazione debba essere fatta pro o contro un qualche
punto di vista.” [12].
Da tutto ciò che si è detto fin qui appare chiaramente
che alla luce dell’epistemologia del XX secolo, la scienza assume un aspetto molto diverso da quello tradizionale. Mentre nella concezione classica la scienza costituisce
un sapere cumulativo, nel quale le nuove acquisizioni si
aggiungono a quelle precedenti di un processo di crescita continua, secondo il motto di Berengario da Carpi:
“scientia augit per additionem partis ad partem”, nella
concezione attuale il progresso scientifico non procede
soltanto per accumulazione, ma si realizza soprattutto
attraverso la lotta e la selezione di teorie contrastanti.
Come aveva riconosciuto già nel 1865 lo stesso Claude
Bernard: “Le scienze sperimentali, nelle quali le verità
sono relative, possono progredire solo per capovolgimenti delle antiche verità o per elaborazione di esse in forme
scientifiche nuove.”.
Secondo la descrizione datane da Karl Popper, la
ricerca scientifica non nasce affatto dalle osservazioni
neutrali, ma prende sempre origine da una situazione problematica: la comparsa di una febbre o la morte di un
individuo, la causa di una malattia infettiva sconosciuta
che colpisce una popolazione, la flogosi entro le insule di
Langerhans. Per dare una spiegazione a questa situazione
problematica lo scienziato avanza una serie di ipotesi;
successivamente, deduce da queste ipotesi una serie di
conseguenze osservabili e, infine, cerca di osservare se
quelle conseguenze si verificano davvero nella realtà
empirica. Se le conseguenze previste da una delle ipotesi
avanzate, si riscontra nella realtà, allora quella ipotesi
viene considerata corroborata e può essere ritenuta un’ipotesi verosimile. Se invece le conseguenze osservabili,
previste da un’ipotesi, non vengono riscontrate nella
realtà, allora quella ipotesi viene considerata falsificata e
viene respinta 1. Come si vede anche da questa breve
descrizione, la concezione ipotetico-deduttivista non è
basata sull’idea della verifica di una teoria, quanto su
quella della sua falsificazione. Infatti, per ragioni logiche,
non è in alcun modo possibile fornire una conferma
incontrovertibile di un’ipotesi scientifica e pertanto alla
mente umana resta definitivamente preclusa la certezza di
possedere la verità. Così, lo scienziato non può mai dimostrare che le sue teorie sono vere, ma può solo dimostrare con certezza che le teorie che in un certo momento riteneva vere, sono in realtà errate. A questo proposito, l’immunologo Peter Medawar ha scritto con molta chiarezza:
“Se un’ipotesi conduce ad aspettative che non vengono
confermate, deve necessariamente esservi qualcosa di
sbagliato. Tuttavia, se le nostre aspettative vengono confermate, ciò non vuole assolutamente dire che le ipotesi
che ad esse ci hanno condotto siano vere, in quanto anche
Recensione
599
ipotesi false possono condurre a conclusioni vere.” [13].
Lo sviluppo della scienza può essere rappresentato,
secondo Popper, per mezzo dello schema seguente:
P1 → TT → EE → P2
il quale mostra come la scienza inizi sempre dalla consapevolezza di un problema e si sviluppi, poi, dapprima attraverso la proposta di un’ipotesi esplicativa e quindi attraverso
l’eliminazione degli errori contenuti nell’ipotesi avanzata,
per giungere infine ad un secondo problema [14]. “Tutta la
mia concezione del metodo scientifico” ha scritto Karl
Popper “si può riassumere dicendo che esso consiste di questi tre passi: (1) inciampiamo in qualche problema; (2) tentiamo di risolverlo, proponendo qualche nuova teoria; (3)
impariamo dai nostri sbagli, specialmente da quelli che ci
sono resi presenti dalla discussione critica dei nostri tentativi di soluzione;”. “O per dirla in tre parole: problemi-teorie-critiche.”
Poiché, come si è visto, la scienza non costituisce una
conoscenza completa ed esaustiva della realtà, le conoscenze che vengono ritenute vere in un certo momento storico,
sono inevitabilmente costituite da un misto di verità e di
errori. Il progresso scientifico consiste quindi in un processo nel quale la discussione critica sulle teorie vigenti e i
controlli sperimentali mettono via via in luce ed eliminano
gli errori contenuti nelle conoscenze che venivano ritenute
vere. Quando una teoria, T1, è confutata dall’esperienza e
viene quindi riconosciuta come errata, essa viene sostituita
da una teoria migliore, cioè dalla teoria T2, che è compatibile con tutti i dati osservativi che erano compatibili con la
teoria T1, e che è compatibile anche con le osservazioni che
avevano confutato la teoria T1 (Figura 1). Lo schema del
progresso scientifico è illustrato dalla Figura 2, la quale
mostra il riconoscimento di un errore presente nella teoria
T1 e l’eliminazione dell’errore ottenuta attraverso la proposta di una seconda teoria T2, migliore della precedente.
Questo schema permette di comprendere bene il ruolo fondamentale giocato dall’errore nel progresso scientifico.
Mentre nell’epistemologia tradizionale, la verità era un
ideale raggiungibile e l’errore rappresentava una deviazione dalla retta via, che conduceva alla conoscenza della
realtà, per l’epistemologia contemporanea, la verità costituisce soltanto un ideale regolativo e il riconoscimento dell’errore rappresenta una tappa inevitabile del progredire
della conoscenza. “L’errore” ha affermato Gaston
Bachelard “è una delle fasi della dialettica che bisogna
necessariamente attraversare.” [15]. E quindi, “Occorre
errare per riuscire (...). La verità non ha il suo senso pieno
che al termine di una polemica.” [16]. E Massimo Baldini
ha soggiunto: “In effetti, il nostro sapere è una rettificazione progressiva di teorie sempre migliori, ma mai perfette,
una costruzione di teorie che dobbiamo innalzare facendole poggiare sugli errori commessi.” [17].
Fig. 1 Schema del progresso da una teoria scientifica ad una teoria successiva (Da G. Holton modificata). Fase A: la teoria (T1) si
mostra in accordo con tutti i fatti previsti. Fase B: scoperta di un
errore. Uno dei fatti previsti dalla teoria non viene osservato e la
teoria viene falsificata. Fase C: viene proposta una nuova teoria
(T2) che è in accordo con tutti i fatti osservati. E rappresenta il piano delle osservazioni empiriche possibili. I rappresenta il salto speculativo che consente di formulare l’ipotesi a partire da una (o più)
osservazioni effettuate. T1 rappresenta l’ipotesi formulata. D sono
i fenomeni che possono venire dedotti dall’ipotesi. O sono i fenomeni che vengono realmente osservati.
Errori e sbagli nella scienza
Tutto ciò che si è detto fin qui intorno all’errore concerne la
scienza in generale, intesa soprattutto come attività di ricerca volta all’acquisizione di nuove conoscenze. Tuttavia, ciò
che chiamiamo scienza comprende anche attività diverse
dalla ricerca speculativa, attività nelle quali lo scienziato
applica le conoscenze teoriche acquisite per perseguire fini
che vengono ritenuti utili. È appunto questo il caso della
medicina in generale e dell’anatomia patologica in particolare, le quali, non sono soltanto volte allo studio teorico delle varie forme morbose, ma perseguono anche fini applicativi, come la diagnosi clinica o l’accertamento autoptico della causa di morte di un singolo soggetto. Appare evidente
che, in questi casi, il problema dell’errore assume aspetti
diversi da quelli finora considerati e deve essere affrontato
impiegando altri concetti [18-22].
Negli ultimi anni gli epistemologi hanno evidenziato nell’ambito di ciò che viene comunemente chiamato errore, due
aspetti ben distinti, che hanno rispettivamente indicato con i
termini di errore e sbaglio. [23-26] Mentre l’errore viene
compiuto dal ricercatore che affronta un nuovo problema e
che, per trovare una soluzione adeguata, propone una nuova
ipotesi, lo sbaglio viene compiuto dallo scienziato che
affronta un problema che è stato già risolto in precedenza e
che ora gli si ripresenta sotto un aspetto diverso da quello
noto. Questa distinzione appare fondamentale perché, mentre l’errore, essendo una conseguenza della limitatezza del
nostro sapere e un elemento ineliminabile della nostra conoscenza, costituisce un fattore di progresso della ricerca, lo
sbaglio possiede invece una connotazione radicalmente
negativa. Chi cerca di stabilire una nuova legge o propone un
600
nuovo concetto o intravvede una relazione insospettata tra
fenomeni diversi, può evidentemente errare, ma contribuisce
comunque al progresso della scienza perché quelle idee,
anche se verranno dimostrate non-vere da studi successivi,
avranno comunque posto problemi nuovi e stimolato nuove
ricerche. Chi, invece, utilizza conoscenze consolidate e
applica regole codificate per chiarire, ad esempio, un problema diagnostico o per decidere una terapia, può mancare
il proprio obiettivo per molte ragioni diverse: ad esempio
perché non ha utilizzato le nozioni più adatte al suo caso, o
perché non ha impiegato tutte le nozioni e/o le tecniche
disponibili, o perché ha fatto ricorso a una regola inappropriata, e così via. In ogni caso, mentre l’errore è in qualche
misura inevitabile, lo sbaglio, in linea di principio, dovrebbe poter essere evitato2. In Clinica e in Anatomia Patologica
si possono compiere sia errori che sbagli e sarà, volta per
volta, necessario analizzare le singole circostanze per constatare se il ricercatore avrà mancato l’obiettivo per l’una o
per l’altra ragione.
Lo status dell’Anatomia Patologica
L’Anatomia Patologica si presenta come una disciplina complessa, caratterizzata da uno status epistemologico particolare.
Da una parte essa è una disciplina sistematica, che si propone di descrivere e di classificare le modificazioni morfologiche – macroscopiche e/o microscopiche – presenti in
diverse situazioni patologiche specifiche. Così, ad esempio,
nei manuali di Anatomia Patologica, troviamo la descrizione
dei solchi accessori profondi del fegato, o quella delle cisti
del pancreas o del tronco arterioso comune persistente [27].
Sotto questo aspetto, l’Anatomia Patologica appare relativamente indipendente dalle altre discipline mediche perché
fornisce elementi osservativi – si pensi alle descrizioni
autoptiche di fenomeni strani e non previsti – che poi altre
discipline interpreteranno in vario modo.
Da un altro punto di vista, l’Anatomia Patologica concorre con tutte le altre scienze biomediche a comporre la
conoscenza globale delle varie forme morbose: essa descrive
un gran numero di fenomeni morfologici che, integrati con
tutte le altre informazioni che provengono dalla genetica, dalla biochimica, dalla fisiologia, dalla microbiologia e dalla clinica contribuiscono a costruire quel sistema di conoscenze
che costituisce il modello ideale di una specifica malattia. Per
esemplificare questo aspetto, basterà pensare a come le alterazioni istologiche delle insule di Langerhans abbiano contribuito alla conoscenza globale del diabete di tipo 1 o a come
i quadri patologici descritti nella sindrome da immunodeficienza acquisita – dalla deplezione dei linfociti T helper
(CD4+) alle lesioni neurologiche, fino allo sviluppo del sarcoma di Kaposi – abbiano contribuito a dare una sistematizzazione globale razionale a questa nuova malattia [28].
Infine, l’Anatomia Patologica possiede un terzo aspetto,
Recensione
il quale la pone a stretto contatto con la pratica della medicina. Essa, infatti, analizza le alterazioni morfologiche presenti nell’uomo vivente allo scopo di diagnosticarne la
malattia e studia le lesioni presenti in uno specifico cadavere allo scopo di chiarirne la causa di morte e di trovare le
ragioni dello specifico decorso che la malattia ha avuto in
quell’individuo.
A questi tre differenti aspetti dell’Anatomia Patologica
corrispondono varie possibilità di compiere errori o di commettere sbagli. Mentre nella prima funzione, eminentemente
descrittiva e scarsamente interpretativa, l’anatomia patologica
può compiere soprattutto sbagli, nella sua seconda funzione,
eminentemente teorica, essa andrà incontro soprattutto ad
errori. Infine, nella sua terza funzione – quella anatomo-clinica -, essa può andare incontro sia ad errori che a sbagli.
Anatomia Patologica, Clinica ed errori
Secondo la concezione classica della scienza, per la quale i
fatti e le teorie sono entità nettamente separate e distinte,
l’Anatomia Patologica costituisce il regno dei fatti, cioè il
regno della realtà patologica autentica, mentre la Clinica può
essere paragonata alla caverna di Platone, cioè a un luogo in
cui si possono soltanto percepire le ombre delle cose reali e
stando dentro il quale si può soltanto immaginare quale sia
la realtà.
Nell’Anatomia Patologica – si pensava e si pensa spesso
tuttora – si toccano con mano le lesioni colliquative o le concrezioni calcaree, si vedono le stenosi delle arterie coronarie
e si osservano le cellule che costituivano gli infiltrati flogistici, mentre nella clinica si può al massimo udire un suono
percussorio iperfonetico, o ascoltare un soffio, oppure si
ottiene una mappa scintigrafica o un’immagine della densità
dei vari tessuti e degli organi. Quindi, fatti patologici reali
da una parte, fenomeni indiretti, interpretazioni e ipotesi dall’altra. O, in termini più filosofici, descrizioni veritiere da
un lato, congetture, spesso sbagliate, dall’altro. Per molti
anni l’Anatomia Patologica si è quindi presentata come il tribunale della clinica e l’anatomo-patologo come il giudice
che metteva in luce gli sbagli del clinico e lo informava su
questi affinché in futuro non dovesse ripeterli.
In realtà, questo modo di concepire i rapporti fra
Anatomia Patologica e clinica, fra verità ed errore in medicina, è stato messo in discussione dalla epistemologia contemporanea e oggi deve essere completamente ripensato. In effetti, i rapporti fra Anatomia Patologica e scienze cliniche sono
stati resi più complessi da due idee che si sono andate affermando negli ultimi decenni: l’idea che i termini osservativi,
come citoplasma, ipertrofia cardiaca o atrofia della tiroide, e
quelli teorici, come cellula, ghiandola endocrina o apudoma,
non siano più così nettamente distinti e l’idea che la scienza
non sia un sapere certamente vero, nel quale le osservazioni
possono dare una conferma definitiva delle ipotesi. Fino a
Recensione
che le osservazioni anatomiche venivano considerate puramente obiettive e capaci di dare una rappresentazione esatta
della realtà, l’antica concezione poteva essere mantenuta, ma
quando tutte le osservazioni e tutti i concetti scientifici – cellula, flogosi, gene, scompenso, necrosi, sistema cromaffine –
vengono considerati teorici [29-31], cioè dipendenti da un
certo numero di assunti teorici precedenti, diviene impossibile conservare la distinzione tradizionale fra osservazioni
anatomiche che corrispondono alla realtà e osservazioni cliniche che interpretano la realtà e che quindi sono soggette al
dubbio. D’altra parte, come è sotto gli occhi di tutti, le tecniche sempre più sofisticate impiegate correntemente dai
patologi – bioptiche, istochimiche, elettronmicroscopiche,
immunologiche, e così via – non riflettono la realtà quale
essa è più di quanto non facciano una risonanza magnetica
nucleare o il dosaggio radioimmunologico di un ormone.
Questo stato di cose rende sempre più evidente che il fatto
scientifico non si identifica affatto con il fatto bruto dell’esperienza comune, ma rappresenta un costrutto mentale che
lo scienziato elabora nella sua mente scegliendo un fatto bruto fra tanti, descrivendolo nel suo speciale linguaggio e collocandolo dentro la rete teorica delle sue conoscenze [32].
Errori e sbagli in Patologia e in Clinica
L’Anatomia Patologica, considerata nel suo insieme, persegue almeno quattro fini distinti. Essa, infatti:
1. Studia sistematicamente le alterazioni morfologiche
degli organismi malati riuniti in classi, allo scopo di
descrivere le lesioni tipiche delle varie forme morbose e
di dare una spiegazione alla fenomenologia clinica di
queste malattie.
2. Descrive le alterazioni presenti nei tessuti e/o nelle cellule
di un certo paziente, allo scopo di classificare quelle alterazioni in qualcuno dei quadri istopatologici codificati.
3. Osserva e descrive le lesioni presenti in un singolo cadavere, allo scopo di ricostruire la sequenza patogenetica
che ha portato a morte un certo individuo.
4. Confronta, nel corso del riesame epicritico di un singolo
caso, la ricostruzione degli eventi morbosi effettuata dall’anatomo-patologo con la ricostruzione che è stata fatta
dal clinico.
Il primo obiettivo contribuisce alla conoscenza globale
delle varie malattie e non si differenzia da quello delle altre
discipline biomediche, come la biochimica o la fisiopatologia. Considerata sotto questo aspetto, l’Anatomia Patologica
va incontro ad errori che non sono diversi da quelli ai quali
va incontro ogni altra scienza speculativa. E, come abbiamo
visto, anche in questa disciplina la presenza e l’eliminazione degli errori rappresentano un elemento propulsivo della
massima importanza.
Il secondo obiettivo dell’attività del patologo viene perseguito effettuando quelle indagini istologiche o citologiche,
601
che vengono condotte su materiale prelevato da un soggetto
vivente mediante biopsia o aspirazione con ago. Da questo
punto di vista l’attività del patologo non è diversa da quella
del clinico e, per analizzarla, sarà necessario ricorrere ai
princìpi della metodologia clinica.
A questo punto è opportuno ricordare che, sul piano
metodologico, l’interpretazione di un prelievo bioptico o di
un ago-aspirato, effettuata dall’anatomopatologo – ad esempio, il referto di un’agobiopsia tiroidea in un paziente in cui
si sospetta una tiroidite di Hashimoto – non può essere mai
considerata l’espressione della malattia in sé, ma rappresenta soltanto un segno della malattia dalla quale può essere
affetto il paziente. Il giudizio diagnostico finale deve essere
sempre formulato integrando il referto morfologico con tutti gli altri fenomeni presentati dal malato. Valutando ora le
relazioni esistenti fra il risultato di un test clinico e l’esistenza di una certa malattia, è importante ricordare che un
test ideale, cioè un test che indichi con certezza assoluta l’esistenza di una certa malattia, dovrebbe fornire un risultato
che stia in corrispondenza biunivoca con la presenza o l’assenza di quella malattia. In altre parole, il test positivo
dovrebbe essere associato sempre e solo alla presenza di una
specifica malattia, mentre il test negativo dovrebbe essere
sempre e solo associato all’assenza di quella malattia.
Sfortunatamente, nella pratica clinica, questa situazione non
si realizza praticamente mai e il risultato di ogni indagine
diagnostica deve essere valutato in base a considerazioni
probabilistiche, fondate sul teorema di Bayes. Infatti, come
è ben noto, un test positivo si presenta non solo nei soggetti malati di una certa malattia, ma anche in un certo numero
di soggetti sani e nei malati di altre malattie, e un test negativo per una malattia si presenta non solo nei soggetti sani,
ma anche in un certo numero di soggetti affetti da quella
malattia. Questa situazione si può schematizzare in una
tabella logico-diagnostica 2 × 2, come illustrato nella prossima figura. Mentre i veri positivi (VP) e i veri negativi
(VN) forniscono informazioni vere, i falsi positivi (FP) e i
falsi negativi (FN) corrispondono agli sbagli, che ogni valutazione di un’indagine clinica trascina inevitabilmente con
sé. Ciò vale anche per le indagini morfologiche, poiché
anch’esse sono soggette, come qualunque altra indagine, ad
una possibilità di errore (sbagli interpretativi, sbagli da difettosa esecuzione dell’indagine, sbagli dovuti al caso, etc.).
Fig. 2 Tabella logico-diagnostica.
602
Poiché un test può dar luogo a due tipi di sbagli, i falsi positivi e i falsi negativi, sono stati elaborati vari indici che valutano la tendenza di un test a dare origine all’uno o all’altro dei due tipi di sbagli. La sensibilità di un
test è data dal rapporto fra VP e malati totali (MT) ed
esprime la capacità di quel test di ridurre gli sbagli falsi
negativi (Fig. 3). La specificità di un test è data invece
dal rapporto fra VN e sani totali (ST) ed esprime la sua
capacità di ridurre gli sbagli falsi positivi (Fig. 4). Il
valore predittivo del segno positivo è poi dato dal rapporto fra veri positivi VP e positivi totali (PT) ed è quindi tanto maggiore, quanto minore è il numero dei falsi
positivi. Il valore predittivo del segno negativo è invece
dato dal rapporto fra veri negativi (VN) e negativi totali
(NT) ed è tanto maggiore, quanto minori sono gli sbagli
falsi negativi. I valori predittivi, considerati fin qui, corrispondono alle probabilità a posteriori e possono venire
calcolati sulla base del teorema di Bayes [33-34]. Infine,
un altro indice molto usato è il cosiddetto rapporto di
verosimiglianza, il quale è dato dal rapporto fra la sensibilità e l’inverso della specificità (sensibilità/1-specificità) (Fig. 5).
Fig. 3 Estrapolazione dell’indice di sensibilità di un test da una
tabella logico-diagnostica.
Fig. 4 Estrapolazione dell’indice di specificità di un test da una
tabella logico-diagnostica.
Recensione
Fig. 5 Estrapolazione del valore predittivo del segno positivo e del
segno negativo da tabelle logico-diagnostiche.
Tutti questi rapporti riguardano la capacità di una singola indagine clinica di indicare la presenza o l’assenza di una
specifica malattia. Essi, pertanto, fanno parte della cosiddetta diagnostica nosografica, che è strettamente legata a
valutazioni probabilistiche. La diagnostica bayesiana è di
grande utilità nella pratica clinica corrente, tuttavia, mostra
come ogni valutazione medica, proprio perché legata a valutazioni probabilistiche, sia inevitabilmente legata alla possibilità di sbagliare [21].
Finora abbiamo considerato un obiettivo importante della pratica medica quotidiana, quale è la diagnosi di malattia,
tuttavia un obiettivo ancora più importante (e certamente più
difficile da raggiungere) è costituito dalla spiegazione dei
fenomeni patologici che si presentano nel singolo malato.
Questo obiettivo è illustrato dagli ultimi due punti, i quali
costituiscono i fini fondamentali sul piano scientifico
dell’Anatomia Clinica. Infatti, come ha scritto William Boyd:
“Il vero obiettivo della patologia non è semplicemente quello di descrivere delle lesioni e così di aiutare a porre una
cosiddetta diagnosi, (...), ma piuttosto quello di descrivere e
spiegare il processo morboso” [35]. Qui il patologo si propone, fondandosi su una serie più o meno numerosa di osservazioni effettuate sul cadavere, di ricostruire la sequenza dei
vari fenomeni morbosi che si sono succeduti in vita in un certo paziente. Appare evidente che questa attività del patologo
è molto simile all’attività interpretativa fisiopatologica del
clinico e, come quest’ultima, è gravata sia dalla possibilità di
commettere errori che dalla possibilità di commettere sbagli.
Quando il patologo interpreta le proprie osservazioni
macro o microscopiche – un infiltrato leucemico, un’arteriosclerosi generalizzata, una iperplasia diffusa delle insule di
Langerhans – egli non può che fare ricorso ai concetti e alle
conoscenze universalmente accettate in quel momento.
Recensione
Tuttavia, poiché le nostre conoscenze scientifiche sono sempre costituite da un misto di verità e di errori, l’anatomopatologo, analogamente al clinico, anche quando interpreta in
modo corretto le proprie osservazioni non può non andare
incontro a quegli inevitabili errori ai quali la provvisorietà
delle sue conoscenze lo espone. La verità clinica è, infatti,
sempre legata alla validità di quei costrutti mentali che sono
le varie malattie, i quali non rimangono costanti nel tempo,
ma cambiano a volte anche radicalmente con il mutare delle
varie conoscenze biomediche. Pertanto, una diagnosi, che è
vera oggi, può non essere più vera domani, perché la malattia a cui fa riferimento non esiste più, oppure è stata suddivisa in più forme morbose, oppure ha cambiato natura [36].
Tutto ciò mette in luce i possibili errori scientifici, ma
accanto a questi si devono poi considerare gli sbagli umani. Fra
questi, il caso più semplice si verifica quando l’esame autoptico rileva un fenomeno che l’indagine clinica non aveva saputo, o potuto, o voluto mettere in luce. In questi casi, la mancata scoperta di un fenomeno patologico può essere dovuta ad
una reale negligenza del clinico, ma può anche essere dovuta
ad una particolare valutazione della situazione del malato.
Immaginiamo, ad esempio, che in un soggetto anziano,
cateterizzato e microematurico, diabetico, pancreatitico cronico, affetto da una demenza senile arteriosclerotica e da una
sindrome da allettamento, il patologo osservi al polo di un
rene una massa biancastra, che infiltra la vena renale. È evidente che, in questo caso, l’osservazione patologica porta ad
una conclusione diagnostica in parte diversa da quella del
clinico il quale, date le condizioni generali del paziente, aveva ritenuto inutile l’esecuzione di una TAC, che avrebbe certamente mostrato l’esistenza della massa renale.
Il quarto obiettivo riguarda quei casi, nei quali vengono
confrontate due interpretazioni fisiopatologiche diverse del
medesimo caso clinico. Infatti, può accadere, e di fatto accade con una certa frequenza, che la conclusione diagnostica
dell’anatomopatologo – intesa non come la pura e semplice
indicazione della causa di morte, ma come l’interpretazione
globale degli eventi morbosi che si sono succeduti in uno specifico caso – diverga o sia addirittura opposta alla conclusione del clinico. Per esemplificare, immaginiamo che un soggetto diabetico, precedentemente infartuato, allettato per un
incidente stradale subìto alcuni giorni prima, sia morto nel
giro di pochi minuti dopo l’improvvisa comparsa di un violento dolore precordiale. In questo caso, il clinico potrà formulare la seguente diagnosi: “Recidiva di infarto acuto del
miocardio in soggetto con arteriosclerosi polidistrettuale.
Trauma stradale con frattura composta della tibia dx. e ferita
infetta della gamba dx. con conseguente stato settico. Diabete
mellito tipo 2 in fase di scompenso metabolico secondario
alla sepsi”. L’anatomopatologo, dopo il riscontro autoptico,
potrà emettere quest’altra diagnosi: “Embolia polmonare
recidivante in soggetto con arteriosclerosi polidistrettuale.
Trombosi venosa profonda secondaria a frattura composta
della tibia dx. con ferita infetta della gamba dx. e conseguente stato settico. Diabete mellito in fase di scompenso”.
603
È evidente che, in casi come questo, il conflitto di opinioni non è riconducibile ad una interpretazione vera, che si
confronta con una interpretazione sbagliata. Questa tesi era
possibile quando si riteneva che l’Anatomia Patologica vedesse direttamente la realtà dei fenomeni morbosi e mostrasse
quindi alla clinica quale era la realtà delle cose. Ma poiché
nella scienza non vi sono sguardi privilegiati, i conflitti di opinione hanno sempre alla loro radice un conflitto teorico, e
pertanto, per giudicare le differenti conclusioni del patologo
e del clinico, sarà necessario analizzarne criticamente le
rispettive argomentazioni. Nel nostro caso, ci troveremo di
fronte ad una serie di domande: le due diagnosi sono ambedue vere, oppure possono essere ambedue false? Oppure, se
una diagnosi è vera e una diagnosi è falsa, quale sarà quella
vera? E quali saranno gli strumenti o gli argomenti che garantiranno la verità di una delle due diagnosi e la falsità dell’altra? In questo caso, patologo e clinico concordano entrambi
sull’esistenza di una arteriosclerosi diffusa ed è verosimile
che concordino anche nell’attribuire le alterazioni arteriose al
diabete mellito. Un secondo punto di accordo è dato dalla
frattura della tibia dx. e dalla ferita infetta che ha provocato
la sepsi. Un terzo punto di probabile accordo è dato dal ruolo che il diabete mellito ha giocato nella insorgenza della
sepsi. Il dissenso inizia invece sulla presenza di una trombosi venosa profonda alla gamba dx. trombosi che è stata osservata dal patologo e che non è stata invece rilevata (e probabilmente non ricercata) dal clinico. Il patologo poi ha constatato la presenza di un certo numero di microembolie polmonari ed ha concluso che una di queste è stata la causa del dolore precordiale improvviso del paziente e della sua morte.
Nel suo complesso, l’interpretazione del decorso, data
dall’anatomopatologo, può essere rappresentata come in
Figura 6.
Frattura della tibia+Ferita infetta della gamba dx Diabete mellito
↓


 
Immobità


↓
↓
↓
Stasi circolatoria
Sepsi
Arteriosclerosi diffusa
↓
↓
Trombosi venosa profonda Scompenso diabetico
↓
Micro-embolie polmonari recidivanti
↓
Exitus
Fig. 6 Interpretazione del decorso data dall’anatomo-patologo
Il clinico, invece, che condivide l’esistenza del diabete
dell’arteriosclerosi diffusa, della frattura, della ferita infetta
e della sepsi, non possedeva informazioni intorno all’esistenza di una trombosi venosa profonda e ha interpretato il
dolore precordiale del paziente come un dolore dovuto a una
ischemia cardiaca acuta. Questa ipotesi gli è apparsa del tutto ragionevole in un soggetto diabetico con un’arteriosclerosi diffusa e gli è apparsa anche rafforzata dalla presenza di
uno scompenso diabetico, il quale, come è noto, rende più
probabile l’insorgenza di fenomeni ischemici cardiaci. Il cli-
604
nico ha eseguito un ECG e ha effettuato un dosaggio della
troponina I, che hanno mostrato, rispettivamente, la presenza di una ‘lesione’ e una lieve elevazione di questa sostanza.
L’interpretazione esplicativa del clinico, può quindi essere
rappresentata come in Figura 7.
Frattura+Ferita infetta della tibiadella gamba Dx Diabete mellito


 


↓

Sepsi

↓
↓
Scompenso diabetico
Arteriosclerosi diffusa


↓
Infarto acuto del miocardio
↓
Exitus
Fig. 7 Interpretazione del decorso data dal clinico.
Queste due diverse interpretazioni del medesimo caso
clinico suggeriscono ora alcune riflessioni epistemologiche,
che possono servire da conclusione per questa relazione. La
prima considerazione è che in questo caso non ci si trova
dinanzi al confronto fra una constatazione fattuale e una ipotesi diagnostica; qui, in realtà, si confrontano, e si scontrano, due interpretazioni esplicative di un evento morboso
individuale complesso. Un certo numero di rilievi fattuali è
comune ad ambedue le interpretazioni – la frattura, la ferita
infetta, il diabete mellito, l’arteriosclerosi diffusa, il dolore
precordiale – ma alcuni rilievi non sono comuni: la presenza della trombosi venosa profonda e la presenza di microembolie polmonari fanno parte del resoconto anatomico, mentre le alterazioni elettrocardiografiche fanno parte delle
osservazioni effettuate dal clinico prima dell’exitus e l’aumento della Troponina I è pervenuto al medico solo dopo la
morte del paziente.
In queste circostanze concrete, ambedue le ipotesi esplicative potrebbero corrispondere alla realtà, ma ambedue le
ipotesi potrebbero anche essere sbagliate. Le microembolie
polmonari potrebbero, infatti, essere state la causa della morte, ma potrebbero anche essersi verificate e non aver provocato il decesso del paziente. E, parimenti, l’ischemia cardiaca
e la lesione miocardica potrebbero essere sfociate in un infarto e aver provocato la morte del paziente, ma potrebbero
anche non essere state responsabili del decesso. L’esistenza
delle alterazioni patologiche attestate dalle osservazioni non
fornisce di per sé la prova che quelle alterazioni abbiano provocato la morte del paziente: passare dalla constatazione delle alterazioni alla conclusione che quelle alterazioni abbiano
giocato un ruolo causale nella morte del paziente costituisce
un non sequitur. È evidente che nella situazione nella quale in
questo caso sia l’anatomopatologo che il clinico si trovano,
non è possibile concludere con qualche attendibilità in favore
dell’una o dell’altra ipotesi esplicativa. Infatti, se sul piano
logico una delle due interpretazioni diagnostiche potrebbe
Recensione
essere vera e l’altra sbagliata, potrebbe anche darsi il caso che
fossero entrambe sbagliate: il paziente infatti potrebbe essere
deceduto per una terza causa, come uno squilibrio elettrolitico dovuto allo scompenso metabolico. Questo caso mostra
con chiarezza come, nelle circostanze reali, in cui vengono
condotti sia gli studi clinici che i riscontri autoptici, i medici
non possiedono quasi mai tutte le informazioni che sarebbero
necessarie per ricostruire con certezza l’intera sequenza patologica che dal primo evento morboso conduce all’exitus. In
altre parole, sia la ricostruzione del patologo che quella del
clinico sono ricostruzioni congetturali nelle quali, sulla base
di un certo numero di informazioni più o meno attendibili e
più o meno significative, patologo e clinico tentano di ricostruire nella loro mente gli eventi che si sono succeduti nell’organismo del paziente.
Come si vede, in medicina spesso non si tratta di mettere a confronto un’osservazione con una congettura, ma si
tratta di mettere a confronto due congetture plausibili e di
discutere razionalmente per appurare quale delle due congetture sia più plausibile dell’altra. Mentre in alcuni casi
questo obiettivo è facilmente raggiungibile, in altri, esso si
rivela particolarmente difficile perché gli elementi fattuali,
su cui le interpretazioni diagnostiche del patologo e quelle
del clinico vengono fondate, non sono i medesimi e non vi
è quindi possibilità di giungere ad una interpretazione condivisa. Come ha ricordato Massimo Baldini, ne ‘Il Nome
della Rosa’ il giovane Adso chiede al suo Maestro,
Guglielmo di Baskerville, se sia vicino o lontano dalla soluzione dei misteriosi casi accaduti nell’abbazia: “Ci sono
vicinissimo” disse Guglielmo “ma non so a quale”. “Quindi
non avete una sola risposta alle vostre domande?”. “Adso,
se l’avessi insegnerei teologia a Parigi”. “A Parigi hanno
sempre la risposta vera?”. “Mai” disse Gugliemo “ma sono
molto sicuri dei loro errori” [37].
Note
1. È evidente che, per ragioni di spazio, questa esposizione dell’attuale metodologia della scienza è estremamente semplificata.
Chi volesse approfondire tale questione può trovare informazioni
più ampie ed approfondite alle voci bibliografiche n. 6, 10, 11, 13,
14, 26, 29, 30, 31, 32, 34, 36.
2. Questa affermazione va presa in senso molto limitato. Infatti, in
certe circostanze anche lo sbaglio non può essere evitato, mentre,
in altre, può essere conveniente correre il rischio di sbagliare.
Bibliografia
1. Favaro A. (1964) Galileo Galilei. G. Barbéra Editore, Firenze
2. Fantini B (2000) La medicina e l’errore. Nuova Civiltà delle
Macchine 2:79-111
3. Zimmermann JJ Della esperienza nella medicina. Ed.
Schieppatti, Truffi e Fusi, Milano
4. Morgagni Joannis (1722) Baptistae Nova Institutionum
Medicarum Idea. Patavii
Recensione
5. Foerster A (1887) Manuale di Anatomia Patologica. G.
Regina Editore, Napoli
6. Baldini M (1975) Epistemologia contemporanea e clinica
Medica. Città di Vita, Firenze
7. Virchow R (1847) Uber die Standpunkte in der wissenschaftlichen Medicin. Archiv fur pathologische Anatomie
und Physiologie und fur klinische Medicin 1:3-19
8. Kant I (1994) Critica della ragion pura. Editrice La Scuola,
Brescia
9. Bernard C (1994) Introduzione allo studio della medicina
sperimentale. Piccin, Padova
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Science Federations Proceedings 1963; 22:961-972 In:
Scienza e filosofia. Problemi e scopi della scienza. Einaudi,
Torino
11. Antiseri D (1977) L’interdisciplinarità. Un punto di vista epistemologico. In: Il metodo interdisciplinare nella scuola, nel
lavoro, nella politica. Editrice Liviana, Padova
12. Darwin F, Seward AC (1977) More Letters of Charles
Darwin. London 1903. In: D. Antiseri (ed.) Epistemologia e
didattica delle scienze. Armando, Roma
13. Medawar PB (1971) Induzione e intuizione nel pensiero
scientifico. Armando, Roma
14. Popper KR (1975) Conoscenza oggettiva. Armando, Roma
15. Bachelard G (1973) Essai sur la connaissance approchée.
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16. Bachelard G (1970) Etudes. Vrin, Parigi
17. Baldini M (2000) Storia ed epistemologia dell’errore. Nuova
Civiltà delle Macchine 2:8-20
18. Austoni M, Federspil G (1975) Princìpi di Metodologia
Clinica. CEDAM, Padova
19. Poli E (1965) Metodologia medica. Princìpi di logica e pratica clinica. Rizzoli, Milano
20. Gallo V (1976) Metodi ed errori statistici in medicina e biologia. CEDAM, Padova
21. Federspil G, Vettor R (1998) Modi dell’errore clinico e
responsabilità medica. MEDIC 6:219-224
22. Ransohoff DF, Feinstein AR (1978) Problems of spectrum
and bias in evaluating the efficacy of diagnostic tests. N Engl
J Med 299:926-930
23. Colozza GA (1899) L’immaginazione nella scienza. Appunti
di psicologia e di pedagogia. Paravia, Torino
24. Baldini M (1993) Errori della medicina e sbagli dei medici.
MEDIC 1:53-56
25. Baldini M (2000) Storia ed epistemologia dell’errore. Nuova
Civiltà delle Macchine 2:8-20
26. Antiseri D (1996) Trattato di Metodologia delle scienze
sociali. UTET-Libreria, Torino
27. Kaufman E (1967) Trattato di Anatomia Patologica speciale.
Casa Editrice Francesco Vallardi, Milano
28. Rubin E, Farber JL (1999) Pathology. Lippincott-Raven,
Philadelphia
29. Hempel CG (1968) Filosofia delle scienze naturali. Il Mulino,
Bologna
30. Popper KR (1968) The Logic of Scientific Discovery. Harper
and Row, New York
31. Carnap R (1971) I fondamenti filosofici della fisica. Il
Saggiatore, Milano
32. Antiseri D (1985) Teoria e pratica della ricerca nella scuola di
base. Editrice La Scuola Brescia, pp 117-118
33. Scandellari C (1981) La strategia della diagnosi. Piccin,
Padova
605
34. Scandellari C, Federspil G (1985) Metodologia clinica.
Relazione all’86° Congresso Nazionale della Società Italiana
di Medicina Interna. Edizioni Pozzi, Roma
35. Boyd W (1966) Le basi anatomopatologiche della medicina
interna. Vallardi Editore, Milano
36. Federspil G, Scandellari C (1993) L’errore clinico. Una introduzione. Atti del 94° Congresso della Società Italiana di
Medicina Interna. Edizioni Luigi Pozzi, Roma
37. Eco U (1984) Il Nome della Rosa. Bompiani, Milano
Error: an obstacle in the journey from
quackery to quality
E. Foucar ()
Department of Pathology, Presbyterian Hospital, 1100 Central SE
Albuquerque, New Mexico 87106, USA
Introduction
Development of the modern sciences is a story of the journey from methods that depended upon occult, divine, or private knowledge to methods that could be taught to and
applied consistently by trained individuals. Science, of
course, is much more than the application of complex systems of rules. Non-scientific systems such as law, religion
and astrology also have complex rules. Science differs from
these latter systems both because of method and because of
how science approaches detection and response to error.
Karl Popper’s insight was that science differs from pseudoscience largely because of science’s ability to respond to
error [1]. If methods to identify error are slow, lack sensitivity and specificity, or are otherwise flawed, then science
drifts back toward the occult, divine, or private knowledge
of quackery.
Sick sigma vs. six sigma
The number of errors that occur in a process is bound on one
side by error-free performance (zero errors), and on the other side by the number of steps in the process. Advanced,
heavily automated companies such as Motorola and General
Electric have attempted to achieve an error rate of 3.4 per
million opportunities to make an error, and this so-called
“six sigma” approach to reducing error has achieved the status of a widespread management fad [2]. In contrast, even
highly automated heavy industries such as Caterpillar have
reported rates of error much higher than “six sigma” [3]. The
606
rates of error in medicine seem to be even higher than those
seen in modern heavy industry, and therefore can perhaps be
appropriately referred to as “sick sigma” levels of performance. These high levels of error have convinced some powerful groups outside of medicine that those of us in medicine
need outside pressure to achieve acceptable rates of error.
For example, the Leapfrog project sponsored by General
Motors and other major businesses is an attempt to force
improvement in the practice of medicine, and politicians are
also attempting to safeguard patients [4].
Recensione
Predispositional Pathology testing
Pathology is progressively moving into the complex area of
predispositional testing. The patient is not clinically ill, but
a biopsy shows a morphological variation from normal that
confers increased risk for the development of clinically
apparent malignancy. Predispositional testing is much more
complex than pathology’s traditional task of documenting
advanced disease states, if for no other reason than error is
much more difficult to identify. Some patients at high risk
will not develop disease, and some patients at low risk will
develop disease.
How important is medical error?
The publication of the Institute of Medicine (IOM) report To
Error is Human precipitated what an AMA News article
referred to as a “furious interest” in medical error [5].
During the month of December 1999, there were an unprecedented 12 articles in the New York Times dealing with the
topic of medical error. However, contemporary news stories
such as the Firestone/Bridgestone tire failures or the
President Clinton/Monica Lewinsky scandal received much
more press coverage. A follow-up publication from the IOM
entitled Crossing the Quality Chasm: A New Health System
for the 21st Century again pointed out flaws in the medical
delivery system [6]. This latter report received widespread
coverage on the day of its release, but interest quickly faded. The public feels that the topic of medical error is very
important, but is also beginning to understand that the problem is refractory to quick fixes.
What type of activity is Pathology?
In order to understand error in the performance of an activity, it is important to establish the nature of that activity. For
example, if an error occurs within the confines of science,
engineering, or technology, the error can often be detected
by weighing, measuring, timing, or making other controlled
observations. In contrast, error in law involves factors such
as violation of codified rules, violation of rules based on
precedent, or decisions overturned by a higher authority in a
rigidly hierarchical system. Art differs from both science and
law because artistic error is quite vague. If experts declare
that the Virgin Mary crafted from elephant dung is great art,
then many people will agree. In contrast, declaring the earth
to be flat has no effect on the shape of the earth, and declaring that the US Supreme Court is wrong has no effect on the
force of the court’s decision. Pathology is currently evolving
from an observational science grounded on normative rules,
art, and hierarchy. As pathology becomes more and more a
basic science of medical tissue analysis, the nature of pathology error will also change.
Classification of Pathology error
Pathology error can be classified in many different ways. For
example, in his studies of medical error, the British psychologist James Reason has concentrated on the psychology
of error, classifying it according to various types of cognitive activities [7]. My contention is that understanding error
in pathology requires that we start with a broader approach.
If cognitive mistakes made by individual pathologists are
admixed with errors made by the specialty of pathology,
errors made by healthcare delivery systems, and operational
errors of clerical and support staff, the result is chaos. A
brief overview of different levels of errors follows:
– Individual pathologist errors. If the task of the pathologist is to adhere to clearly enumerated norms of diagnostic behavior, errors by the practitioner are simply violations of these norms. When pathology has multiple
norms to choose from, such as one might see when
pathologists at one institution follow one set of rules and
pathologists at another institution follow another, then
the specialty is split into schools, much as artists could
be either Cubists or Impressionists. When norms become
less and less codified or when the individual pathologist
acquires more and more autonomy, error becomes progressively more difficult to define.
– Specialty of Pathology errors. If best practice applied by
the practitioner is flawed, any resulting errors are the fault
of the specialty, not the individual. An example would be a
classification system promoted for general use even though
there is abundant data that its categories cannot be identified with precision. Pathologists should perform autopsies
on these failed systems to provide data that could be used
to identify classification errors in their early treatable phases, before they metastasize throughout the specialty.
– Healthcare system errors. Currently, in the USA, the
healthcare system is designed for delivery of advanced
technology at dispersed locations that are conveniently
near to most patients and also provide revenue to local
communities or to established hospitals. No one ever
asked pathologists if this was the best way to deliver low
Recensione
error pathology services, and of course it isn’t. Another
example of a feature of the system that promotes pathology error is misallocation of resources. For example,
compare the resources available to evaluate the safety
and effectiveness of a medication used to treat a disease
with the resources available to pathology for assuring
that the diagnostic category is precise and accurate.
– Operational errors. When errors such as clerical mislabeling occur in a pathology setting, they are operational
errors with pathology implications. When the same error
occurs at a laundry, it has laundry implications. In general, keeping track of names and numbers is a generic
requirement of any business, not a special problem for
pathologists. However, the resources devoted to avoiding
operational errors should be proportional to the consequences of those errors.
Conclusions
Some of the variation in pathology diagnoses has a large
impact on patient management, suggesting that this variation
should be wrung out of the system. This objective can be
achieved in a setting where uniformly trained pathologists
apply highly sensitive and specific diagnostic criteria. As the
diagnostic criteria become less and less reliable, the individuality of the pathologist becomes progressively more important in the use of these criteria. In the worst-case scenario,
the image on the slide becomes a Rorschach, telling us more
about the pathologist than it tells us about the disease
process.
References
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607
Errore e responsabilità professionale
in Anatomia Patologica
S. Fucci ()
Corte di Appello di Milano, Milano, Italia
Nell’accertamento della responsabilità professionale in
Anatomia Patologica, pur tenendo conto della specificità di
questa disciplina, devono trovare applicazione i principi
generali che la giurisprudenza della Corte di Cassazione ha
dettato in tema di responsabilità medica. In base a questi
principi, per affermare la responsabilità professionale,
occorre verificare l’esistenza di un comportamento colposo
del medico che ha prodotto un danno, ovvero una lesione al
paziente. La responsabilità, dal punto di vista civile o penale, sussiste quindi solo se, in una determinata fattispecie, è
possibile riscontrare l’esistenza di un comportamento colposo tenuto dal medico, di un danno subito dal paziente e del
nesso di causalità tra questi due elementi della fattispecie. In
mancanza di uno di questi elementi, non è possibile invece
configurare una responsabilità per malpratica e il comportamento tenuto dal medico potrà eventualmente essere rilevato in sede di addebito disciplinare.
Da quanto precede emerge chiaramente che, dal punto di
vista giuridico, l’errore incolpevole è irrilevante anche se
produttivo di un danno per il paziente, perché non è possibile muovere alcun addebito al professionista che ha agito,
sotto ogni profilo, in modo diligente e corretto. La responsabilità del medico per i danni causati al paziente consegue,
invece, alla violazione dei doveri inerenti l’attività professionale esercitata in concreto che, per sua natura, implica
scrupolosa attenzione e adeguata preparazione professionale. La giurisprudenza ha ripetutamente affermato al riguardo
che il medico, nell’adempimento della sua obbligazione
relativa alla diagnosi, ovvero alla cura in senso lato del
paziente, deve agire nel rispetto di tutte le regole e gli accorgimenti che, nel loro insieme, costituiscono la conoscenza
della professione medica.
Nel concetto di diligenza professionale la giurisprudenza fa rientrare anche il rispetto delle regole proprie dell’arte
medica in generale e di quelle relative alla specifica branca
specialistica esercitata dal singolo sanitario.
Ciò significa che anche al patologo si richiede di agire con
scrupolosa attenzione e adeguata preparazione professionale, attuando le regole tecniche proprie di questa specifica branca del sapere medico. Ne consegue che solo la violazione di queste regole potrà comportare la responsabilità
professionale per imperizia del singolo operatore e, quindi,
che il prelievo di un reperto biologico e il suo esame da
parte del patologo può essere ritenuto sbagliato solo se l’operatore ha agito senza applicare le specifiche regole tecniche esistenti al riguardo. Pertanto, non è corretto valutare il comportamento del medico solo alla luce dell’esito
608
sbagliato del processo diagnostico e dell’eventuale conseguente esito negativo delle terapie eseguite in danno del
paziente, ma occorre verificare se il patologo ha giustamente eseguito la sua prestazione professionale, applicando correttamente le regole tecniche esistenti al momento in
cui ha agito.
L’imperizia può essere lieve o grave e, quindi, a seconda
dei casi, il medico verserà in colpa professionale lieve o grave; il grado di colpa, peraltro, rileva giuridicamente solo per
determinati effetti e, per quel che interessa in questa sede,
potrà comportare l’esenzione del medico da responsabilità
solo in particolari fattispecie. L’art. 2236 del codice civile,
applicabile anche ai medici, stabilisce infatti che il professionista risponde solo per dolo o colpa grave qualora la sua
prestazione implichi la soluzione di problemi tecnici di speciale difficoltà. Questa norma, i cui principi possono trovare applicazione anche in sede penale come criterio di valutazione della singola fattispecie, esclude quindi che il medico debba essere chiamato a rispondere per una lieve imperizia, nell’ipotesi in cui ha dovuto affrontare la risoluzione di
casi che trascendono la preparazione media, di fattispecie
non ancora adeguatamente studiate a livello scientifico o
ancora dibattute con riferimento ai metodi diagnostici o
curativi da adottare. Negli altri casi, invece, il professionista
risponderà anche solo per una lieve imperizia, oltre che per
colpa, lieve o grave che sia, riferita ai diversi parametri della negligenza o imprudenza.
La problematica della variabilità diagnostica e dell’incertezza del quadro diagnostico deve essere affrontata nell’ambito dei principi sopra brevemente riassunti, tenendo
conto del fatto che, oltre alla speciale difficoltà del caso
affrontato, rilevano pur sempre le circostanze obiettive in
cui il medico si è trovato ad operare e che l’oggettiva incertezza della scienza non può essere correttamente posta a
carico del medico, che abbia agito applicando correttamente le regole dell’arte. Non può comunque essere giustificato, in base al tradizionale principio secondo il quale
il medico agisce secondo scienza e coscienza, il puro soggettivismo clinico, perché in medicina esistono pur sempre
delle regole scientifiche da rispettare nell’esercizio professionale.
La magistratura si interessa dell’errore professionale
solo dopo che è si è realizzato un evento dannoso per il
paziente, che si ipotizza essere stato causato da un comportamento colposo del medico e demanda l’accertamento di questi presupposti, necessari per configurare la
responsabilità professionale, a consulenti esperti in materia, scelti in base alla loro affidabilità e capacità che, di
norma, si confrontano con quelli nominati dalle parti coinvolte nel giudizio. Il giudizio tecnico del consulente del
giudice gioca quindi un ruolo fondamentale nell’accertamento della colpa professionale del singolo sanitario. Le
conclusioni sul punto del consulente devono, peraltro,
essere congruamente motivate e fondate su corretti accertamenti tecnici.
Recensione
Anche in sede di contenzioso giudiziario le regole dell’arte medica, condivise e generalmente applicate in un
determinato contesto storico per la loro validità scientifica,
costituiscono il principale criterio di riferimento per valutare l’appropriatezza della condotta tenuta dal medico nella
diagnosi e nella cura del paziente. Quanto più sono precise
e condivise queste regole, tanto meno ampia è la discrezionalità del medico nell’applicarle. Pertanto, salvo motivate e
giustificate eccezioni, la mancata applicazione delle regole
tecniche vigenti, al momento della prestazione professionale, costituisce un rilevante indice di imperizia professionale.
Questi principi giuridici generali non possono ovviamente
non trovare applicazione anche al settore di competenza propria del patologo.
È notorio, infine, che l’errore umano non può essere eliminato in assoluto e che costituisce una risorsa nel momento in cui viene studiato e utilizzato al fine di prevenirne altri.
Il timore del medico di essere chiamato a rispondere dei danni conseguenti agli sbagli compiuti può impedire o ritardare
una tempestiva analisi extragiudiziaria delle ragioni che hanno condotto all’errore e, quindi, può pregiudicare l’interesse collettivo ad attuare, con sollecitudine, misure preventive
in grado di aumentare la sicurezza del sistema sanitario nel
suo complesso. D’altra parte l’obbligo di denuncia all’autorità giudiziaria, posto a carico di coloro che si occupano della verifica di qualità delle prestazioni e dei servizi resi nel
campo sanitario, finisce oggettivamente con l’incidere negativamente sulla ricerca degli errori e delle relative disfunzioni. Il sistema, peraltro, in conformità con i principi costituzionali in materia, deve garantire adeguata tutela giuridica
ed economica al singolo paziente danneggiato da un intervento medico. La dottrina giuridica, proprio sulla base di
questi principi, ritiene che non vi può essere autonomia professionale senza responsabilità per le scelte compiute, che in
campo sanitario sono nulle clausole di esenzione preventiva
da responsabilità e che le regole giuridiche, in tema di
responsabilità, hanno, indirettamente, anche una positiva
funzione di prevenzione degli errori.
Letture consigliate
1. Fucci S, Saracco G, Rizzetto R (2001) Aspetti etico-giuridici
del rapporto medico-paziente. Le responsabilità dell’epatologo e del gastroenterologo. Forum Service Editore, Genova
2. Crespi A (1995) I recenti orientamenti giurisprudenziali nell’accertamento della colpa professionale del medico-chirurgo: evoluzione o involuzione? Riv It Med Leg, p 785
3. Portigliatti Barbos M (1996) Le linee Guida nell’esercizio
della pratica clinica, Diritto Penale e Processo 7:891
2. Zampi CM, Benucci G, Bacci M (1998) VRQ, obbligo di
denuncia ed obbligo di referto: un contrasto insanabile de iure
condito; una soluzione necessaria dei iure condendo, Riv It
Med Leg, p 677
Recensione
Un modello operativo: la verifica di
qualità del Pap-Test di screening
G.R. Montanari1 () · S. Arnaud2 · E. Berardengo2
D. Campione2 · C. Cozzani2 · F. Parisio2 · L. Viberti2
B. Ghiringhello2
1
Centro di Prevenzione Oncologica, Regione Piemonte, Italia
Screening per il cervicocarcinoma, Prevenzione Serena Torino,
Italia
2
Il Pap-Test, esame citologico cervico-vaginale, può essere
usato come test diagnostico, seppur orientativo, in donne che
si recano di propria iniziativa in strutture sanitarie (consultori, ambulatori, ospedali) per una motivazione di salute, che
comporta la sua esecuzione nel corso di una visita clinica.
Il Pap-Test è, invece, un test orientativo per l’invio o
meno a procedure di II° livello (colposcopia), negli screening spontanei per prevenzione oncologica della cervice uterina, in donne asintomatiche che spontaneamente si presentano alle strutture sanitarie. Lo è anche, in campagne di
dépistage, in donne invitate a sottoporsi a Pap-Test una tantum e senza una continuità nel tempo del programma e una
sua valutazione.
Il Pap-Test è soprattutto un test orientativo negli screening organizzati: di qui la necessità che esso sia un test il
più possibile dicotomico, cioè negativo con invio alla ripetizione a scadenza programmata, o positivo con invio al
secondo livello. Esiste, tuttavia, una fascia grigia che rappresenta il dubbio, da limitare il più possibile. Tale fascia
comprende le ASCUS (anomalie squamose di incerto
significato) e le AGUS (anomalie ghiandolari di incerto
significato). Le ASCUS, secondo il TBS 2001 [1], non
devono superare il 5% delle diagnosi citologiche e non
essere più del doppio delle diagnosi complessive di lesioni
squamose intraepiteliali (SIL). Le AGUS, in un laboratorio-tipo di citologia, devono essere meno del 1% delle diagnosi citologiche. Quindi, le diagnosi di ASCUS-AGUS
vanno regolarmente monitorate, anche nel loro valore predittivo positivo.
Sono ovviamente da limitare gli errori del Pap-Test,
che comportano una diminuzione della sensibilità e della
specificità del test con risultati falsi negativi e falsi positivi. Considerazioni etiche ci ricordano che la popolazione convocata agli screening è di donne presumibilmente
sane, da non trasformare in malate che non sapevano di
esserlo (falsi positivi) [2]. I falsi negativi comportano,
oltre ad una falsa rassicurazione in malate che sapranno
tardivamente di esserlo, una lievitazione dei costi per i
riflessi medico-legali legati all’errata diagnosi [3], nonché
una minor adesione allo screening, legata alla pubblicità
negativa diffusa dagli organi di stampa che crea sfiducia
nelle donne convocate [4]. A tal proposito, secondo
Renshaw [5], gli addetti alla citologia ginecologica, nel-
609
l’ultima decade, hanno continuato a tormentarsi per cercare di raggiungere standard di qualità accettabili e fruibili. Tale sforzo è riassumibile nelle questioni: come definire un errore e quali sono le percentuali accettabili di errori individuali o di riferimento.
Michael Baum, su The Lancet [6] col titolo: “The uses
of error: quality control”, lamenta la scarsità della pratica
dell’audit sugli errori commessi in medicina. Nel 1998
[7], un incontro multidisciplinare sul Miglioramento della
sicurezza per i pazienti e la riduzione degli errori in
Sanità ha trattato “Lo scenario del Pap-Test: la percentuale irriducibile di errore”. Viene riportato un 20% di falsi
negativi per singolo Pap-Test, letto in modo tradizionale,
non automatizzato. Migliorando prelievo e fissazione,
applicando il controllo di qualità di ogni fase della colorazione e lettura del preparato e usando nuove tecnologie,
i falsi negativi possono diventare al massimo il 5%, al di
sotto del quale non si può andare. Ma il pubblico si aspetta una accuratezza del 100%, pur richiedendo tempi brevi
e prezzi così ridotti da indurre il lavoro a cottimo dei citologi e la lettura dei Pap-Test inaffidabile, in nome della
produttività.
Il controllo di qualità deve affrontare prioritariamente
la riproducibilità inter- ed intra-laboratorio delle diagnosi
rispetto alla sensibilità e specificità del test. Confronti
inter-laboratori della riproducibilità a Torino hanno coinvolto, oltre ai 5 centri torinesi di lettura, il CSPO di
Firenze. Con l’invio di un set ad hoc, seguito da una seduta di consensus sui casi discordanti e da un secondo set ad
hoc, si è ottenuto un aumento della riproducibilità: la statistica kappa complessiva è aumentata in tre laboratori di
oltre il 20% ed è rimasta pressocchè invariata negli altri tre.
Un successivo set del Gruppo Italiano Screening Citologico, fatto circolare fra 6 laboratori, ha portato ad un
consensus sull’adeguatezza dei preparati (1998-99), eliminando la categoria del TBS “soddisfacente ma limitato”.
Nuove tecnologie (citologia in strato sottile, pre-screening
e re-screening automatico) possono aumentare riproducibilità, sensibilità e specificità del test, ma con una lievitazione dei costi. Nel Gruppo di Torino, con 6 laboratori di citologia di screening, la riproducibilità è aumentata da quando, quindicinalmente, si tengono – al microscopio multiplo
o proiettore – discussioni dei casi incerti. Il Gruppo ha
quindi modificato la scheda, ha ridotto al 2.8% gli invii al
II° livello (colposcopia), ha costruito un syllabus per i citologi e ha migliorato la riproducibilità inter- ed intra-laboratorio delle diagnosi. La discussione ha dato agli errori
una valenza di formazione, pur restando nel campo della
morfologia tradizionale.
Il Pap-Test è perciò un test diffuso ovunque, con una
proporzione irriducibile di falsi negativi, non percepita dal
pubblico in genere, ma strumentalizzabile dai media e
dagli avvocati. Ne risulta una irragionevole aspettativa di
errore zero in un test che si è dimostrato utile, anche se
imperfetto.
610
Bibliografia
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Proceeding of enhancing patient safety and reducing errors in
health care. The National Patient Safety Foundation, Chicago,
Illinois
L’errore in aviazione: insegnamenti
e strategie
F.M. Patono ()
Alitalia Human Factor Department, Roma, Italia
Si ipotizzano 98.000 decessi annui, nel sistema sanitario
americano, per errore medico; con un costo di 9 bilioni di
dollari (U.S. Institute of Medicine). In Italia, siamo a 30.000
decessi. Cifre colossali.
A questo punto sorge spontanea una domanda: com’è
possibile che un professionista, qual’è un medico, che ha
seguito un iter formativo lungo e complesso, che ha affrontato un tirocinio di svariati anni, che opera in una struttura
dotata di strumenti diagnostici e di intervento all’avanguardia, possa commettere errori che portano al decesso del proprio assistito?
È perciò importante stabilire perché ha sbagliato e non
chi ha sbagliato. Analizziamo i punti che rendono il mondo
medico assimilabile a quello aeronautico:
- Aviazione: cabina di pilotaggio, piloti, assistenti di volo,
controllori del traffico aereo, tecnici di scalo e manutenzione.
Recensione
-
Medicina: sala operatoria, medici, infermieri di sala,
anatomo patologi, tecnici di laboratorio, personale di
corsia.
Possiamo assumere che la cabina di pilotaggio sia equivalente alla sala operatoria in quanto sono modelli simili nei
processi e nelle funzioni; in entrambi, il personale svolge
professioni molto “forti”; esistono regole, procedure, imprevisti da affrontare; in entrambi, si lavora in team e si ha un
identico obiettivo: sviluppare sicurezza.
L’errore, come riconoscerlo
S. Agostino diceva: “Errare humanum est”, affermazione
valida per tutti. Definiamo quindi l’errore: tutte quelle occasioni in cui una sequenza pianificata di attività fisica o mentale non raggiunge i risultati desiderati e questi insuccessi
non sono attribuibili al caso. Ne deriva che ogni sistema, per
complesso e protetto che sia, essendo frutto dell’elaborazione umana o di una partecipazione attiva a vari livelli di esseri umani, è soggetto ad errore. L’errore è quindi una componente attiva di ogni processo ed è presente in ogni sistema.
Gli elementi coinvolti nella produzione dell’errore sono:
1. la natura del compito da svolgere e le sue circostanze
ambientali (difficoltà del compito);
2. i meccanismi che governano la prestazione umana;
3. la natura dell’individuo.
L’incidente aereo, l’intervento medico non riuscito, la
diagnosi errata non sono frutto di una sola causa, ma di più
cause, che in tempi successivi, concorrono concatenandosi
e combinandosi tra loro. In aviazione il 70% dei primary
cause factor, concorrenti in un incidente, sono riconducibili a fattori umani legati all’equipaggio; in campo medico,
data la particolare natura del compito, si ritiene che la percentuale sia ancora più elevata. È quindi sull’uomo che si
deve lavorare.
L’essere umano elabora delle proposte strutturali secondo due modalità:
1. schematica: elaborazione automatica od inconscia,
avviene per applicazione di modelli interiorizzati; è rapida, agisce in parallelo con altri processi mentali, è senza
sforzo cosciente;
2. attenzionale: elaborazione controllata o cosciente, esegue una rielaborazione degli elementi informazionali trasformandoli, estendendoli, ricombinandoli; è lenta, limitata, sequenziale (non agisce in parallelo ad altri processi mentali), comporta sforzo ed è quindi limitata nel
tempo.
Le attività cognitive sono guidate da un’interazione tra le
due modalità descritte, ognuna delle quali sfrutta differenti
livelli di prestazione umana:
1. schematica: abilità superapprese (skill) e regole (rule);
2. attenzionale: abilità di valutazione e giudizio (knowledge), la più complessa e difficile.
Recensione
Ad ogni abilità corrisponde una forma di errore:
– skill: errori di coordinamento, di spazio e di forza (slip);
– rule: classificazione inadeguata dell’evento con conseguente applicazione di regole errate o recupero errato di
procedure (mistake, lapse);
– knowledge: errori per limitazione delle risorse (razionalità
limitata), per conoscenza errata o incompleta (mistakes).
In sintesi:
– slip: azione motoria, differisce dall’intenzione (esecuzione errata di un’azione);
– lapse: azione, differisce dall’intenzione, si riferisce alla
memoria (esecuzione errata per dimenticanza della
sequenza corretta);
– mistake: l’intenzione non è appropriata all’evento a
seguito di un errato processo di valutazione e giudizio.
Sono gli errori più elusivi, meno evidenti, più complessi
e meno capiti.
Possiamo quindi affermare che la conoscenza e l’errore
hanno le stesse origini, solo il successo distingue una dall’altra (Mach).
Esiste un’altra classificazione degli errori:
– errori attivi (active failure): i cui esiti si manifestano
immediatamente; sono associati fondamentalmente
all’attività svolta dall’operatore (il pilota nel pilotare, il
medico nel diagnosticare);
– errori latenti (latent failure): possono rimanere inattivi
per lungo periodo e manifestarsi solo in concomitanza
con altri fattori; sono prodotti per lo più da coloro che
sono lontani da “interfacce” di controllo (manager, progettisti, responsabili sanitari).
Questi ultimi rappresentano un aspetto recente dell’analisi dell’errore, frutto degli studi conseguenti ai grandi disastri di Chernobil, Severo, Bhopal, Challenger, etc., da cui è
scaturito che nei sistemi dotati di difese, raramente, se non
mai, gli incidenti sono causati da un fattore unico, umano o
meccanico che sia; derivano invece dalla concatenazione
imprevista e spesso imprevedibile di molti eventi diversi,
ciascuno dei quali necessario, ma singolarmente insufficiente. Possiamo considerare l’errore latente come un “patogeno
residente”, che in presenza di fattori contributivi dà via ai
suoi processi degenerativi.
Le decisioni fallibili sono una parte inevitabile dei processi relativi al progetto e alla gestione. Il problema non è
quello di trovare un modo per prevenirle, quanto di assicurare che le loro conseguenze avverse siano prontamente rilevate e annullate.
Mentre si possono prevedere strumenti di sicurezza, elaborati in campo ingegneristico, contro gli errori umani e
meccanici, non esiste difesa contro gli errori latenti connessi alla sfera organizzativa e manageriale o alla loro congiunzione avversa con elementi scatenanti. Ne scaturisce un
sistema a “gruviera” per effetto dei patogeni residenti, che si
annidano anche nelle barriere protettive poste a difesa del
sistema, (ad esempio, le incomprensioni di procedure stabilite) (Fig. 1).
611
Fig. 1 Sistema a “gruviera” degli errori latenti.
Quando avviene l’incidente? Quando, per una serie di
fattori contributivi, tutti i patogeni residenti sono allineati
determinando un buco complessivo nel sistema (Fig. 2).
Fig. 2 L’incidente in un sistema a “gruviera” degli errori latenti.
Come prevenire l’errore
La prevenzione avviene attraverso ricerche condotte sul
sistema che si sta analizzando, basato su un’ampia raccolta
e catalogazione di dati. In aviazione, inizialmente, esistevano solo i mandatory reporting system (MRS), formulari da
redigersi in conseguenza di un evento. Più di recente si sono
introdotti i voluntary reporting system (VRS).
Il MRS è obbligatorio, legato all’evento negativo manifestatosi, compilato dal protagonista, è circostanziato
all’accaduto, non è divulgabile per prevenzione essendo
riconducibile all’estensore. Da luogo a un rapporto redatto
in chiave difensiva, teso a dimostrare l’aderenza del com-
612
portamento tenuto alle procedure e alle regole in vigore. Il
VRS è redatto su base volontaria, non necessariamente
legato a eventi noti, è redigibile da chiunque, è riservato
(anonimo), analizza solitamente in maniera ampia l’evento
e il sistema a contorno, è divulgabile per prevenzione. Non
induce atteggiamento difensivo, anzi vuole rendere nota una
deficienza nel sistema o nelle procedure. I VRS si sono
dimostrati così efficaci per l’analisi del sistema aeronautico, che l’Ente Federale aeronautico Statunitense (FAA) ha
incaricato la NASA di diventare l’organo ufficiale di raccolta e analisi dati. Il programma ha preso il nome di
Aviation Safety Reporting System (ASRS) e rappresenta la
finestra più trasparente per accedere al mondo aeronautico.
Da essi scaturisce la rappresentazione grafica del fenomeno errore che appare in Figura 3.
Recensione
– analizzare i dati e identificare le cause degli eventi, in
funzione di indicatori di sicurezza;
– poter intervenire sul sistema per correggerlo;
È inoltre basilare che l’Ente preposto alla raccolta dati:
– sia indipendente dai poteri forti del sistema: politico,
industriale, di categoria;
– dia luogo a gruppi di analisi interdisciplinari composti
non solo da esperti del settore di lavoro, ma anche psicologi, ingegneri cognitivi, esperti human factor;
– individui incidenti vincolanti su cui sviluppare analisi di
riferimento;
– conduca analisi specifiche sui quasi incidenti e sugli
eventi di pericolo, permettendo così l’analisi dell’evoluzione dinamica dei processi e il necessario feed-back.
Come gestire l’errore
Fig. 3 Rappresentazione grafica del fenomeno errore basata sull’analisi dei dati dell’ASRS.
Gli Accident sono conosciuti e analizzati, gli Incident
assieme agli Hazard (quasi incidenti) sono solo parzialmente noti al sistema. Gli errori, se non fosse per gli ASRS,
sarebbero totalmente sconosciuti. Questo strumento di raccolta dati, con altri che sono seguiti, ha consentito agli psicologi cognitivisti di sviluppare un nuovo approccio nell’analisi del fattore errore: non più descrizione fenomenica
degli stessi, che non consente di riferire gli errori alle differenti strutture e meccanismi cognitivi (visione statica del
sistema), bensì, partendo dalla considerazione che i processi operanti all’interno del sistema cognitivo si diversificano
in funzione del controllo attentivo cui sono soggetti, si può
pervenire ad una descrizione delle forme e dei tipi di errori,
facendo riferimento al processo che li ha prodotti (visione
dinamica del sistema).
È quindi indispensabile se si vuole parlare di prevenzione:
– creare un sistema di raccolta dati confidenziale e non
punitivo;
– che chi raccoglie i dati sia credibile (ad esempio, la
NASA);
Essendo irrealistico pensare di poter prevedere tutti gli errori che si possono generare, ci si è indirizzati verso obiettivi
che avessero come denominatore comune la tolleranza degli
errori. Da qui, la necessità di educare gli operatori, particolarmente esposti agli errori “attivi”, a essere consapevoli della fallibilità che sempre accompagna l’azione umana.
Qui si arriva a uno dei grandi problemi che affligge la
sanità:
– manca in campo medico la cultura dell’errore;
– il personale dirigente, medico e paramedico non è addestrato a comprendere, ricercare, accettare e gestire la propria fallibilità;
– gli studenti non sono educati all’errore.
L’iter per arrivare a esercitare la professione medica è
lungo e selettivo, naturale che l’aspirante medico sia fortemente motivato, consapevole dei propri mezzi, dotato di elevata autostima. Queste doti, essenziali per l’iter formativo,
possono diventare “pericolose” nell’esercizio della professione, se non controbilanciate da una appropriata cultura
della fallibilità dell’uomo, in quanto danno vita a soggetti
psicologicamente poco adatti a prevenire l’errore, in quanto
questa realtà non appartiene alla propria sfera culturale. È
quindi necessario formare culturalmente il personale medico alla fallibilità umana.
I costi derivanti vanno affrontati passando dal concetto:
“quanto costa fare sicurezza?” a “quanto costa non fare sicurezza?” Nove bilioni di dollari solo negli U.S.A. Quante vite
risparmiate se solo una parte di questa cifra venisse spesa
preventivamente per rendere più sicuro il sistema sanitario,
piuttosto che a posteriori per risarcire gli eredi!
Si dovranno sviluppare iter addestrativi comprendenti:
– addestramento: per incidere sugli errori legati alle abilità
skill e rule attraverso sistemi di simulazione informatizzata;
– formazione: protesa a diffondere la cultura della fallibilità umana, del suo manifestarsi, della gestione.
Recensione
A livello di pensiero astratto, gli errori possono aiutare i
soggetti facenti parte del sistema a discriminare i processi
metacognitivi che funzionano da quelli che non funzionano
e a sviluppare e sostenere un approccio attivo ed esplorativo
del sistema.
In conclusione, vediamo quali benefici questo mutamento culturale, accompagnato da una crescita tecnologica
del sistema, anch’essa protesa alla prevenzione dell’errore,
ha prodotto in campo aeronautico: nel 1960, circa 35 incidenti ogni milione di decolli; nel 2000, circa 0,97 incidenti
ogni milione di decolli. E nonostante questo indubbio successo, la spesa mondiale annua stanziata per nuovi programmi di ricerca e formazione, dedicati al fattore sicurezza, aumenta costantemente, convinti che il sistema sia ancora migliorabile.
Lettura consilgliata
Reason J. Errore Umano, Editrice il Mulino, Bologna
L’errore in medicina: conseguenze e
prevenzioni
N. Sicolo () · C. Martini · R. Mioni · P. Maffei
C. Scandellari
Dipartimento di Scienze Mediche e Chirurgiche, Clinica Medica 3
Azienda Ospedale, Università di Padova, Padova, Italia
Introduzione
In questo intervento gli Autori si propongono di:
a) analizzare la rilevanza delle situazioni potenzialmente
suscettibili di provocare contenziosi per malpractice; per
tale motivo il termine “errore” non terrà conto della classica distinzione tra “errore metodologico” e “sbaglio”,
dipendente da difettoso comportamento del medico;
b) discutere le vie atte a minimizzare le occasioni d’errore,
minimizzazione che presuppone la possibilità di riconoscere oggettivamente l’eventuale errore commesso;
c) valutare la possibilità di utilizzare il riscontro autoptico
come gold standard per il riconoscimento dell’errore
stesso.
La pratica clinica è, senza dubbio, una delle attività professionali più difficili fra quelle esercitate dall’uomo e l’errore ne rappresenta un aspetto intrinseco ineludibile.
Comunemente, si pensa che l’errore in medicina appartenga
al passato, quando sembrava naturale poter sbagliare, date le
613
limitate conoscenze scientifiche e tecnologiche. Ora che lo
sviluppo scientifico e tecnologico ha aumentato enormemente le possibilità diagnostiche e terapeutiche, l’opinione
comune non ammette che il medico, con tali sofisticate
risorse a disposizione, possa continuare a sbagliare. In
realtà, invece, va considerato che per sé “La medicina è un
sapere incerto ed in perenne divenire, come tutto il sapere
scientifico”, ne consegue che “tutta la medicina clinica è
dominata dalla probabilità. Il medico quindi ha a che fare
con valutazioni probabilistiche e per tale motivo è sempre
esposto alla possibilità di sbagliare” [1]. D’altronde il medico, ancor più nei tempi attuali rispetto a quelli del passato,
è, come già diceva il clinico elvetico Zimmerman nel XVIII
secolo, “...uno scienziato che non può accontentarsi di conoscere, ma che deve comunque anche agire, e che deve prendere decisioni in condizioni di incertezze” [citato in 1].
Diversamente dalle altre professioni tuttavia, lo sbaglio del
medico è giustamente oggetto di particolare attenzione da
parte della società e degli organi di informazione, se non
altro per le possibili serie conseguenze per l’incolumità dei
pazienti. L’argomento è quindi di estrema delicatezza e
importanza per l’intera società, per il quale non appaiono
opportuni né atteggiamenti riduttivi o superficiali né tanto
meno informazioni “scandalistiche”.
Da sempre i medici hanno riflettuto sugli errori, soprattutto al fine di trarne gli insegnamenti necessari a non ripeterli. Tuttavia, lo scenario nel quale il medico, come professionista della salute, attualmente opera, sta divenendo di
giorno in giorno sempre più complesso e paradossale. Se,
infatti, anche in virtù del progresso scientifico e tecnologico
della scienza medica, si registra, soprattutto nelle popolazioni delle società economicamente più sviluppate, un prolungamento della vita media, paradossalmente questo successo
si sta ritorcendo come un “boomerang” contro la stessa professione medica, la quale si trova a dover fronteggiare un’inarrestabile crescita quantitativa e qualitativa di bisogni di
salute da parte della popolazione, cui non corrisponde una
parallela e altrettanto veloce crescita delle risorse impegnate dai vari Stati, nei programmi sanitari nazionali. La forbice tra richieste di salute e risorse pubbliche disponibili si sta
sempre più allargando. Il fenomeno, a tutti noto come crisi
dello “stato sociale”, richiede necessariamente una ricerca di
vie e di strumenti volti ad ottenere un’ottimizzazione delle
prestazioni sanitarie e degli investimenti, basata da un lato
sull’avvio di una educazione continua del professionista
medico (ECM) e dall’altro sulla ricerca di priorità nell’allocazione delle risorse.
Per quanto riguarda l’aggiornamento, il medico, in quanto professionista, da sempre ha lavorato e studiato per il
miglioramento delle proprie decisioni. Ciononostante, non
sarà mai possibile raggiungere l’infallibilità: ed infatti ancora agli inizi del secolo il clinico medico Augusto Murri [2]
riconosceva che “la pretesa di non errare è un’idea da matti”. Purtroppo, al contrario di quanto la gente pensa, lo sviluppo scientifico non è sufficiente a eliminare la possibilità
614
di commettere errori. A dimostrazione di ciò, da una analisi
della letteratura anglosassone relativa agli “errori” o “adverse event”, come vengono chiamati dagli inglesi, occorsi
durante il periodo di ricovero in Ospedale, emerge il dato
che tali “inconvenienti” sono, non solo ancora presenti, ma
paradossalmente in continuo aumento [3, 4, 5, 6].
Le conseguenze
Analogamente a quanto presente nel mondo anglosassone e
statunitense in particolare, anche in Italia si sta assistendo ad
una inarrestabile crescita del numero delle cause legali per
malpractice medica e il fenomeno appare ancora sottostimato rispetto alle dimensioni e alle percentuali degli “errori”.
Gli Autori di una ricerca comparsa sul Lancet [4] trovano
che su 1047 pazienti, ricoverati durante i 9 mesi dello studio
in tre strutture assistenziali di un Ospedale di Insegnamento,
ben 480 (45.8%) avevano subito un adverse event e in 185
(17.7%), si trattava di un adverse event di non lieve entità.
Ebbene, a fronte di tali dati, i ricorsi per richieste di rimborsi furono solo 13 (1.2%) il che, se da un lato fa intravedere
una certa capacità da parte del pubblico di comprendere le
difficoltà della professione medica e della possibilità di
eventi collaterali non voluti, dall’altro rende evidente quanto sia ampio il mercato potenziale dei procedimenti per malpractice medica.
Sintomatica di tale tendenza è una recente analisi
dell’Associazione delle Compagnie Assicuratrici (ANIA)
[5] che fa rilevare come, nel 1995, la raccolta premi per la
Responsabilità Civile Medica (RCM) è risultata di 180
miliardi, mentre i sinistri rimborsati costituivano il doppio
(360 miliardi). Il dato più allarmante però è rappresentato
dal fatto che, nell’anno successivo, ad un aumento dei premi pari a 250 miliardi, corrispondeva un risarcimento tre
volte superiore, pari cioè a 750 miliardi e, mentre il premio
della RCM riscosso dalle Compagnie rappresentava l’8.3%
dell’intero introito assicurativo, il rimborso pagato per malpractice costituiva il 23% della quota pagata dalle
Assicurazioni quale indennizzo. In pratica, alle
Assicurazioni, le polizze dei medici costano mediamente dal
doppio al triplo di quanto rendono. Tale trend di progressivo e vertiginoso aumento delle perdite portava a prospettare
o un ritiro di un certo numero di compagnie da questa branca della RC o un congruo aumento dei premi.
Purtroppo, in Italia, non risulta esistere un osservatorio
nazionale che permetta di quantificare il fenomeno degli
errori medici e dei relativi ricorsi da parte dei pazienti all’istanza giudiziaria, per ottenere il risarcimento per presunti
danni. Se tuttavia si prende, come indicatore indiretto del
fenomeno e del malessere della categoria, il numero dei
provvedimenti disciplinari e le radiazioni dall’Albo
dell’Ordine Professionale, possiamo registrare come, nel
breve tempo del quadriennio 1991-1994, i primi si siano
Recensione
quadruplicati e le seconde sono passate da 1 a 53 [5]. Il
medico, di fronte a questa realtà, si sente spesso solo e stretto in una morsa, il cui rischio è rappresentato da un atteggiamento e un conseguente comportamento di “arroccamento” professionale e culturale, che lo porta verso una
prassi diagnostico-terapeutica sicuramente molto più attenta e approfondita, ma anche molto più prudente e ridondante, in quanto mirata primariamente alla tutela della propria
responsabilità e, solo in seconda istanza, alle esigenze del
paziente.
La “medicina difensiva”, come negli USA viene definito tale comportamento professionale, sta muovendo i primi
passi anche in Italia e sempre più sta entrando nell’atteggiamento del medico. A spingere ulteriormente il medico verso
tale direzione concorre anche una procedura Assicurativa
che, se dal punto di vista processuale, sembra ineccepibile,
dal punto di vista umano e professionale, provoca negli interessati qualche disillusione. Infatti, la lungaggine della giustizia “civile”, induce sovente i ricorrenti a pensare di essere stati vittima di una malpractice medica e a perseguire
quindi la via “penale”. Di fronte a tale evenienza, le
Compagnie Assicuratrici, che tutelano gli interessi del professionista o delle Aziende Ospedaliere, provvedono di norma automaticamente e autonomamente, anche in assenza di
valutazioni sui fatti e sulla legittimità delle accuse, a liquidare la parte “civile”. Se da un lato, come loro sostengono,
questo non implica nessun riconoscimento di colpa e semmai facilita lo svolgimento del successivo procedimento
penale, appare comunque lecito chiedersi quanto questo
automatismo nei risarcimenti non incentivi il fenomeno stesso. Inoltre, nel caso in cui il processo penale scagionasse
completamente il professionista, qual è il destino del rimborso già effettuato?
La prevenzione
La prevenzione di un qualsiasi evento, e in questo caso degli
errori e degli sbagli medici, presuppone la disponibilità di
mezzi per il loro riconoscimento anche al fine di valutarne
la tipologia e l’andamento epidemiologico. Considerando
che gli errori in Medicina sono stati presenti sin dalla nascita della professione, sembrerebbe naturale pensare che su di
essi vi sia una ricca documentazione con classificazioni
varie, quale strumento indispensabile per una sistematizzazione degli stessi. In realtà, forse per un’oggettiva intrinseca
difficoltà o forse per il timore delle conseguenze che una
tale cultura poteva indurre, scarsi sono gli studi sugli errori
in clinica. Per tale motivo, il tentativo fatto da Federspil e
Scandellari di proporre una classificazione che raggruppi gli
errori in 3 grandi categorie (errori di osservazione e di registrazione dei fenomeni; errori nel procedimento razionale
della diagnosi; errori nel procedimento terapeutico) assume
particolare importanza in quanto punto di partenza per quel-
Recensione
la disciplina clinica che sta muovendo in Italia i primi passi
e che è nota come “pedagogia dell’errore” [1].
In realtà, l’utilità della “pedagogia dell’errore” per la formazione del medico, ha sostenitori molto illustri, vissuti
anche in tempi più antichi di quanto si pensi, e, proprio nello Studio di Padova, G.B. Morgagni il 17 Marzo 1712 [6],
nell’orazione inaugurale al corso di “Teorica Ordinaria della Medicina”, rivolgendosi al corpo docente e agli studenti
diceva: “...dirò poi quali siano le prime nozioni che vorrei
fossero i maestri ad impartire ai discepoli. In breve, esse
sono queste: togliere dall’animo degli alunni le false opinioni dell’ignoranza e i pregiudizi: svelare gli inganni dei
sensi e illustrare i più comuni e noti errori per metterli in
guardia da essi per il futuro che non è vergognoso per l’uomo ammettere di essersi ingannato, ma lo è non ammetterlo
quando si viene ammoniti dall’errore”.
Agli inizi del secolo, Augusto Murri [7] riprendeva la raccomandazione di Morgagni, riconoscendo che “...la pretesa
di non errare è un’idea da matti” e affermando che “...la critica è la più fondamentale dote dello spirito perché la più
efficace profilassi dell’errore”. Dunque, il riconoscimento
degli errori stessi, ma soprattutto il ragionamento critico,
rappresentano la più efficace profilassi verso l’errore e quindi il mezzo più potente per il miglioramento della qualità
della prestazione medica.
La pedagogia dell’errore in medicina appare quindi
quanto mai di attualità in un tempo, come l’attuale, nel quale la qualità della prestazione medica si sta giustamente
imponendo all’attenzione sia degli operatori sanitari che del
grande pubblico. Ne è una ulteriore dimostrazione il richiamo fatto dagli Autori della recente pubblicazione comparsa
sul Lancet e dedicata a tale argomento, che, riprendendo
quanto detto da Morgagni, oltre due secoli fa, afferma:
“Analyses of adverse events ........may provide the starting
point for proactive error-prevention, thus improving clinical
teaching and the quality of care.” [7]. Alla pedagogia dell’errore tuttavia, per quanto da tempo e più parti sollecitata
ed invocata, viene dedicata una scarsissima attenzione, come
lo dimostra il fatto che nella formazione di base essa sia latitante. Eppure, la possibilità e il timore d’errare rappresenta
il primo sentimento che qualsiasi neo-medico prova nel
momento della sua prima decisione professionale. Il risultato è che vi giunge emotivamente e logicamente impreparato,
il che potrebbe forse aumentare ancor più la possibilità di
errare.
Nei processi formativi di base, oltre agli elementi culturali professionalizzanti, dovrebbero essere previsti quindi
quelli metodologici, orientati prevalentemente al riconoscimento dell’errore e soprattutto ai meccanismi logici che
l’hanno indotto. In altre parole, si dovrebbe sviluppare la
capacità di indagare il singolo caso clinico, oggetto dell’errore, con lo stesso occhio dell’investigatore Sherlock
Holmes [8]. In effetti, allo studente dovrebbe essere insegnato che il procedimento clinico, sovente paragonato a
quello dell’investigatore poliziesco, non deve limitarsi alla
615
raccolta degli indizi su cui razionalmente ricostruire la diagnosi, quanto a trarre le informazioni che gli indizi, in campo medico i sintomi, portano con sé. In altri termini, non
basta che lo studente riconosca un’onda elettrocardiografica
anomala o annoti la presenza di un’iposideremia. Egli deve
finire per riuscire a valutare il significato che il sintomo può
avere in quel malato e, ancor più importante, le possibilità
che quell’indizio possa trarlo in inganno, prospettandogli
una falsa pista e inducendolo in errore. Solo con un simile
allenamento logico lo studente potrà, nella futura professione medica, prevenire molti errori e, nel caso venissero commessi, imparare da essi.
La pedagogia dell’errore, utile nella formazione di base,
diviene essenziale per i professionisti già in attività da anni,
che si presume abbiano ormai superato il timore, quanto
meno a livello emotivo, dell’errore clinico. Non esistono
purtroppo studi che mostrino l’andamento epidemiologico
dell’errore clinico in relazione all’esperienza professionale;
tuttavia, anche se questa può rappresentare una certa garanzia, non vi può essere la matematica certezza di non errare.
L’analisi dell’”errore”, come strumento di “formazione permanente” o di “ricerca clinica avanzata”, rappresenta quindi
una scelta sia strategica che culturale.
In effetti, il clinico, nella sua quotidiana attività, si deve
destreggiare tra le incertezze delle teorie e la variabilità individuale delle manifestazioni cliniche. Le sue diagnosi sono
e saranno inevitabilmente e ineludibilmente minate da una
certa percentuale di verità e di errore, e quindi, pur tenendo
presenti i limiti epistemologici sopraddetti, resta la necessità
di sottoporre la diagnosi a controlli qualitativi simili a quelli adottati nel settore dell’industria manifatturiera, dove storicamente è nato, agli inizi del ’900, il concetto del controllo sistematico di qualità. Quest’ultima, anch’essa concettualmente in continua evoluzione, può essere analizzata sia
attraverso il controllo del “processo” produttivo che del
“prodotto” ottenuto al termine dello stesso (collaudo).
Quanto al primo livello, quello del controllo del processo,
l’intrinseca complessità del procedimento diagnostico
richiede un’accurata analisi preliminare dei singoli passaggi
metodologici. A questo proposito, non sembra fuori luogo
ricordare quanto sempre Murri [citato in 9] affermava “...
quanto più la critica dei fatti e del giudizio è pertinace,
quanto più il dubbio è insistente e molteplice, quanto più
l’assenso della ragione è difficile e acuto, tanto più è valoroso il medico, tanto più raro diventa l’errore nella diagnosi”. Secondo il clinico bolognese, quindi, la qualità del
medico è certificata dalla rigorosità del procedimento logico adottato. Tanto più valido risulterà il medico, quanto più
è abile nel “riconoscere” nel singolo malato quei “fatti” che,
pur camuffati dalle peculiarità del particolare paziente, rappresentano gli elementi indiziari delle malattie sui quali formulare le corrette ipotesi diagnostiche, analoghe, in ambito
investigativo, all’individuazione degli indiziati. Successivamente, le ipotesi così avanzate vengono sottoposte al controllo, reso possibile dalla raccolta di altri “fatti”, che in cli-
616
nica sono rappresentati dai risultati dei test chimici e strumentali e, nel mondo investigativo, dal riscontro della validità degli alibi forniti.
Da molti autori viene attualmente affermato che il clinico, si comporterebbe, dal punto di vista metodologico, come
uno scienziato si comporta nella ricerca “pura”, cioè non
applicata come è la clinica. [10]. Avanzerebbe cioè nella
conoscenza mettendo sistematicamente alla prova le ipotesi
diagnostiche formulate, eliminando via via quelle che risultano falsificate in base alle conoscenze del momento.
Quanto resta da questa operazione di falsificazione o confutazione logica delle ipotesi, verrebbe a costituire la “vera
diagnosi clinica” di quel particolare soggetto, in quel
momento storico. La possibilità di utilizzare in clinica la
procedura, qui esemplificata, era stata sostenuta anche dal
Murri, che ha affermato che il clinico, al letto del paziente,
deve “...escogitare tutte le ipotesi possibili e successivamente procedere all’eliminazione di quelle che non reggono l’urto con l’esperienza” [citato in 11]. Con tale procedura metodologica “scientifica” il clinico, pur non raggiungendo la
verità assoluta, dovrebbe riuscire a ridurre al massimo, relativamente al singolo paziente e alle conoscenze teoriche del
momento, la percentuale di errore presente nella sua diagnosi clinica. Secondo altri autori [12], tuttavia, in molte
occasioni il clinico utilizza anche altre strategie diagnostiche, in particolare quella della “conferma probabilistica”
dell’ipotesi e, soprattutto (ma non solo) in questa attività
diagnostica, un ruolo fondamentale gioca l’abilità personale
del professionista, cui contribuiscono non solo gli insegnamenti clinici e i successivi aggiornamenti scientifici, ma
altresì doti naturali e una solida esperienza professionale,
tutte caratteristiche individuali che rendono l’operato del
medico clinico più simile a quello di un artigiano che a quello di uno scienziato [13]. Nonostante la complessità e la
variabilità ora delineata del procedimento clinico, i moderni
studi di metodologia clinica, hanno permesso di progredire
notevolmente verso una rigorosa analisi qualitativa del “processo”: resta da vedere, ora, se sia possibile anche analizzare la qualità del “prodotto” di tale processo. Vale a dire: esiste un modo per “collaudare” la diagnosi clinica? Esistono
in clinica degli “indicatori” diretti o indiretti della bontà diagnostica?
Per il “collaudo” della diagnosi formulata, l’andamento
clinico del paziente, cioè il criterio “ex iuvantibus”, è, fra gli
indicatori indiretti, forse il più noto per la sua facile comprensione e intuizione, tuttavia, la sua soggettività e la sua
stessa fragilità logica (essendo viziato dalla cosiddetta fallacia dell’affermazione del conseguente [14]) lo rende poco
affidabile come parametro di assoluto riferimento per stabilire un “gold standard” dell’esattezza della diagnosi. Uno
strumento migliore, a tal fine, sembra essere costituito dalla
possibilità di confrontare la diagnosi clinica con la diagnosi
ottenuta sullo stesso soggetto con una procedura diversa,
quale il riscontro autoptico (diagnosi autoptica). Ovviamente tale analisi è possibile solo nei casi clinici che giun-
Recensione
gono all’obitus; purtuttavia, anche se su un campione limitato, le caratteristiche della valutazione diretta, attraverso la
dissezione cadaverica, hanno stroricamente offerto documenti e informazioni preziosissimi per lo sviluppo della
scienza medica e della clinica.
Il controllo autoptico come “Gold Standard” per l’esattezza della diagnosi clinica
Agli inizi della sua autonomizzazione rispetto alla clinica,
l’Anatomia Patologica, per la caratteristica funzione conoscitiva e di controllo della qualità clinica, aveva determinato, per stessa ammissione dei clinici, un significativo miglioramento della clinica soprattutto, laddove, il curante presenziava al riscontro autoptico. Col tempo, la richiesta da parte
dei clinici del riscontro autoptico dei pazienti deceduti, è
diventata sempre più discrezionale, rendendo sempre più
occasionale il confronto della “realtà” clinica con quella
anatomo-patologica. Si è quindi giunti ai tempi odierni in
cui, salvo qualche non frequente eccezione, le due figure
lavorano separatamente giungendo talora a dualismi conflittuali. Non è infrequente infatti che il clinico veda nel patologo più un “giudice” che un alleato, e che, dal canto suo, il
patologo, ritenendo la sua “verità” non discutibile in via di
principio, consideri di poter emettere un “verdetto” inappellabile, men che meno da parte del clinico. Questi atteggiamenti contribuiscono ulteriormente ad accelerare la progressiva diminuzione dell’abitudine di richiedere il riscontro
autoptico, la cui eventuale soppressione totale, a nostro avviso, non sarà priva di conseguenze negative sul miglioramento delle conoscenze cliniche e quindi per la salute degli utenti.
In effetti, molti medici, e soprattutto il pubblico che spesso si oppone con ogni pressione possibile all’esecuzione del
riscontro autoptico sui propri congiunti, ritengono che tale
metodica sia ormai superata e non più in grado di offrire
informazioni utili al clinico o al ricercatore, in quanto soppiantata dalla biologia molecolare e/o dalle metodiche di
“imaging” sempre più sofisticate. E forse a tali atteggiamenti, non solo diffusi, ma anche non contrastati dalla stessa classe medica, può in parte essere attribuita la progressiva riduzione, osservata negli ultimi decenni, della pratica del
riscontro autoptico nei pazienti deceduti nelle varie strutture ospedaliere del mondo, a tal punto che nei paesi anglosassoni l’andamento sta raggiungendo livelli preoccupanti e
i pathologists negli USA sono una specie professionale in
estinzione [15, 16].
Anche se con percentuali diverse, il fenomeno è presente anche in Italia, con un trend negativo così diffuso e
costante che Trieste, città che negli ultimi anni ha registrato
un fenomeno inverso, viene comunemente riportata tra i
patologi come “anomalia di Trieste” [17]. Numerosi sono i
motivi del decremento, tuttavia spesso ricorre l’opinione,
Recensione
secondo la quale, il riscontro autoptico avrebbe fatto il suo
tempo e nulla potrebbe dire di più di quanto la moderna tecnologia già permette di mostrare in vita. È chiaro che tale
atteggiamento viene a presupporre che l’attuale qualità della diagnosi clinica è a tal punto di perfezione da rendere
superfluo il controllo autoptico. Ma se ciò fosse vero, la
discrepanza tra le due diagnosi avrebbe dovuto col tempo
diminuire, se non addirittura annullarsi. In realtà, negli studi condotti a tal proposito, si riporta che tale discrepanza non
è per nulla cambiata, rimanendo pressoché invariata negli
ultimi 50 anni [18].
Quest’ultimo rilievo pone un ulteriore interrogativo: si
dovrebbe dedurre da esso, che i clinici odierni, pur in condizioni tecnologiche più favorevoli, non avrebbero migliorato
le loro performances? In realtà, tale staticità sul contrasto tra
diagnosi clinica e diagnosi autoptica può essere spiegata in
modi diversi. L’evoluzione delle conoscenze mediche ha di
fatto modificato le classificazioni nosologiche, rendendole
più analitiche e articolate. In virtù di questo, ad esempio, la
diagnosi di “adenoma ipofisario”, ritenuta esauriente 50 anni
fa, non è attualmente più accettata, se non corredata dal tipo
istologico o immunoistochimico o dal tipo di attività funzionale o sensibilità terapeutica (adenoma ipofisario PRL-secernente, resistente ai dopaminoagonisti). Il bersaglio diagnostico, in altre parole, è divenuto col tempo sempre più piccolo
e, come conseguenza, di più difficile centramento.
L’insuccesso, in questo caso, può essere attribuito non esclusivamente all’imperizia dell’arciere, ma anche al rimpicciolimento del bersaglio. Ma è solo questa l’unica spiegazione?
In realtà, può essere avanzata un’altra considerazione che
deriva dalla constatazione che la discrepanza tra la diagnosi
clinica e quella autoptica varia, non solo in funzione del tipo
di patologia, minima per quella neoplastica e massima per
quella metabolica e digestiva, ma anche per la durata della
degenza e soprattutto per l’età del caso esaminato [18]. In
altre parole, a parità di malattia, la discrepanza tra le due diagnosi è tanto più ampia quanto più anziano è il paziente esaminato [19]. Tale fenomeno, secondo Silvestri [17], è spiegato dal fatto che la senescenza è essa stessa una malattia e,
come tale, si sovrappone e confonde il quadro clinico specifico delle malattie che interessano la persona senescente,
rendendone difficile l’identificazione. Un esempio per tutti:
l’ipertiroideo giovane lamenta e presenta un quadro clinico
(calo ponderale, ipersudorazione, cardiopalmo, astenia, nervosismo, etc.) che difficilmente si discosta dal modello di
malattia descritto sui libri. La stessa malattia, nel soggetto
senescente, può essere facilmente misconosciuta, manifestandosi frequentemente con il solo disturbo del ritmo cardiaco, che, data l’età, potrebbe essere più facilmente interpretabile nell’ambito di una cardiopatia ischemica. Ebbene,
gli studi che riportano la persistenza della discrepanza tra
diagnosi clinica ed autoptica si riferiscono ad una popolazione significativamente più senescente di quella di 50 anni
fa. Lo sviluppo della scienza medica, avendo con i suoi successi determinato un prolungamento della vita della popola-
617
zione, ha di fatto selezionato una popolazione di senescenti
che presentano quadri clinici sempre più diversi dai modelli
ideali, sia in virtù della loro età che della polipatologia frequentemente presente in questa età.
Se la polipatologia può ingannare il clinico, impedendogli di riconoscere in vita un quadro patologico mascherato
da altre affezioni, ciò può avvenire, se viene a mancare la
collaborazione tra clinico ed anatomopatologo, anche durante il riscontro autoptico, poiché lo scoprire in un cadavere
alterazioni appariscenti, sufficienti a chiarire la causa di
morte del paziente, potrebbe indurre il settore a considerare
esaurita la ricerca della presenza di altre lesioni determinanti il giudizio diagnostico del clinico. Va infine considerato il
fatto che molte patologie di natura funzionale possono condizionare in modo determinante il giudizio clinico, pur senza determinare modificazioni organiche rilevabili sul piano
autoptico.
La convinzione, quindi, che il riscontro autoptico possa
fornire sempre l’“evidenza” conclusiva della vicenda morbosa di un paziente deve essere anch’essa accolta con riserve e con limitazioni. In ogni caso, va considerato che solo
da un confronto tra le informazioni ottenute dallo stesso
riscontro autoptico e le ipotesi diagnostiche del clinico –
confronto nel quale né le une né gli altri hanno diritto di
assolutezza – è possibile pervenire a conclusioni “controllate” e affidabili. Nonostante il fatto che neppure il riscontro autoptico può rappresentare a nostro avviso il “Gold
Standard” della diagnosi clinica, rimane sempre viva ed
attuale la necessità di reintrodurne sistematicamente l’usanza. A tale proposito, la Scuola Triestina è estremamente
categorica, in quanto sostiene che “Autopsies are useful to
all those who are old now, and even more to those who will
be old in the future, including ourselves. We certainly agree
with those stating that the only meaningful autopsy rate
would be 100 %” [17].
Conclusioni
La ricerca della qualità nella diagnosi clinica, attraverso una
sua validazione con quella autoptica, potrebbe sembrare la
riproposizione di un’antica ricetta. Peraltro, nel mondo
moderno, il riscontro autoptico può essere analizzato da
molteplici punti di vista. Vi sono problemi etici, religiosi,
sociali, economici, politici che rendono l’argomento di non
facile trattazione. Se tuttavia lo si analizza solo dal punto di
vista della sua validità, quale controllo della qualità clinica,
si assiste ad uno strano paradosso. Tuttora, molti medici, pur
riconoscendone la validità, “paradossalmente” ne rifuggono
l’usanza. Questo trend, altro paradosso, coincide con una
sempre maggior richiesta e ricerca di qualità nel mondo
sanitario. Si impostano progetti di qualità, se ne ricercano
indicatori validi, ma contemporaneamente, nessun cenno
viene fatto alla necessità di sottoporre la diagnosi clinica al
Recensione
618
sistematico controllo di qualità. I clinici, per problemi di
budget, vengono valutati e incentivati più per le performances quantitative che non per la qualità delle stesse. È innegabile che l’analisi qualitativa, nel settore medico, non è una
cosa facile, ma laddove alcuni strumenti, quali il riscontro
autoptico, pur con i suoi limiti, sono in grado di fornire una
certa validazione della diagnosi clinica, non si vede il motivo perché questi non vengano utilizzati sistematicamente.
L’entità della concordanza diagnostica potrebbe sicuramente
rappresentare un indicatore oggettivo per parametrare la
qualità delle perfomances sanitarie e soprattutto costituire un
indicatore di maggior garanzia per l’utente. La struttura
ospedaliera, con una tale attività, potrebbe più facilmente
essere accreditata da parte del servizio sanitario o dalle
eventuali compagnie d’assicurazione. Lo stesso dovrebbe
valere per le strutture assistenziali private.
Al di là di queste moderne e giuste applicazioni, resta
comunque valida la primitiva indicazione del riscontro
autoptico come strumento di “autoformazione clinica”. La
verifica, al tavolo autoptico, delle ipotesi avanzate e anticipate dal clinico rappresenta un controllo interno con ricadute pedagogiche e professionali attualmente insostituibili. La
costante e sistematica abitudine del clinico a procedere e
presenziare al riscontro autoptico dei casi da lui seguiti e
giunti al decesso, anche se non fornirà la garanzia della futura infallibilità, indurrà inevitabilmente una riflessione critica sui punti di discordanza. In ultima analisi, l’individuazione degli errori clinici, siano essi errori veri e propri o “sbagli”, e l’analisi del percorso logico o delle circostanze contingenti, che hanno condotto ad essi, resta ancora uno degli
strumenti più efficaci per far progredire le conoscenze del
clinico, con conseguente miglioramento delle sue prestazioni professionali.
8.
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Ristampa dell’edizione padovana del 1712 nel III° centenario
Modelli e strategie aziendali di
prevenzione e gestione dell’errore
G. Varola ()
Dasein, Via Carcano 26, I-10153, Torino, Italia
L’errore, quale evento patologico e/o accidentale del “processo produttivo” di beni e servizi, è circostanza conosciuta
e gestita nelle attività aziendali. Le strategie aziendali per la
prevenzione e gestione di tali eventi oscillano tra Sistemi
Qualità e Sistemi di Controllo. L’errore con output “naturale” del processo produttivo appartiene alla sfera degli eventi
patologici e determina una ridefinizione del processo produt-
Recensione
tivo (rappresenta una delle motivazioni all’adozione del BPR,
Business Process Rengeneering). In questa sede, affronteremo solo l’errore come evento di natura accidentale.
La categoria di rischio, aziendalmente attribuita a questo
tipo di eventi, è il rischio puro. Ad essa concorrono eventi di
natura accidentale, dolosa e naturale. Le aziende vivono (e
muoiono) della corretta gestione di rischi competitivi/strategici, ma devono controllare, come altro elemento di sopravvivenza, anche i rischi puri. Il manifestarsi di uno degli
eventi ascrivibili alla categoria dei rischi puri determina, a
differenza dei rischi strategici e competitivi, il concretizzarsi di sola “perdita” per l’azienda.
La cultura aziendale sui rischi puri si fonda su due discipline: Risk Management (R.M.), Gestione e Controllo del
Rischio e Audit, Definizione e Gestione dei Controlli di
Revisione. Sul R.M. – di origine e tradizione anglosassone
– si fondano gran parte degli studi assicurativi e costituisce,
tra l’altro, il fondamento della nuova impostazione delle più
conosciute normative europee in materia di sicurezza del
lavoro.
L’elemento “assenza/carenza di dati”, fondamentale per
fondare qualsiasi strategia di misurazione e gestione del
rischio di tipo statistico sull’errore, anche in anatomia patologica, sconta probabilmente gli effetti della riservatezza/negazione, che nelle organizzazioni si riserva a questo tipo di
eventi, e della mancanza di una cultura che tende (tendeva)
ad attribuire gli effetti e le conseguenze economiche dell’errore ad altre categorie del “bilancio” aziendale. Per questi
motivi, nella stima dell’evento correttamente e preventivamente individuato all’interno dei processi aziendali, come
possibile “esito non desiderato” della “produzione”, si utilizzano valutazioni di tipo soggettivistico, svolte con metodologie consolidate e collaudate, che per dottrina individuano nello stesso soggetto/gruppo che è proprietario/responsabile del
processo – opportunamente guidato e addestrato – il soggetto più idoneo cui affidare la fase di individuazione e stima
dei rischi e dei possibili errori insistenti su un processo. La
stima può/deve tenere conto di tutti gli eventi indispensabili
alla correttezza dell’analisi quali, in particolare, i quasi-incidenti (si definiscono quasi-incidenti gli eventi verificatisi in
un processo il cui potenziale danno/effetto non si sia realizzato per circostanze fortunate ed eccezionali) e può essere
finalizzata all’individuazione di Key Performance Indicator
(KPI) predittivi – indicatori che consentono di monitorare le
cause/fattori di rischio (umano, organizzativo, tecnico, etc.)
prima che si manifestino attraverso gli eventi – o KPI di
misurazione, tesi a fornire quegli elementi utili di misurazione del fenomeno in termini di frequenza e gravità, di cui si
lamentava sopra l’assenza. A tal fine, la recente introduzione
di strumenti di Audit Management, in grado di valutare i
sistemi di controllo interni nelle modalità di gestione di rischi
qualitativi e di rischi puri (metodologie in grado di “pesare”
efficacia e valore dei controlli in essere attraverso parametri
strutturati e con riferimento alla rilevanza dei rischi individuati) consente agli operatori di usufruire di strumenti sofi-
619
sticati, in grado di guidare nelle scelte di implementazione
del sistema di prevenzione e controllo, fino all’individuazione dei costi-benefici derivanti dall’adozione di più idonei
strumenti/procedure, e stabilirne le relative priorità (elemento fondamentale in contesti di risorse limitate quali la sanità).
L’istituzione di miglioramenti ai processi e/o punti di controllo e l’adeguatezza dei KPI individuati devono essere
costantemente oggetto di valutazione/rivalutazione, alla luce
delle innovazioni intervenute sul processo e/o di ulteriori
rischi individuati od eventi verificatisi.
Tra Risk Manager e Auditor si stanno tuttavia sviluppando sempre maggiori forme di collaborazione nell’individuazione, valutazione e misurazione, definizione delle strategie
di prevenzione e protezione (la prima categoria tende ad agire sulla frequenza dell’evento, la seconda sul contenimento
degli effetti dello stesso collegati direttamente o indirettamente al suo manifestarsi).
La sofisticazione degli strumenti a disposizione dell’operatore nella “lotta all’errore” si arricchisce infine degli
strumenti di Crisis Management, in grado di neutralizzare e
contenere (oltre che prevedere) gli effetti tecnici/psicologici/relazionali e di comunicazione che investono persone e
organizzazioni colpite da eventi accidentali.
Le strategie di gestione
Abbiamo appena esaminato velocemente le strategie e gli
strumenti che le imprese utilizzano per prevenire errori e
altri tipi di eventi temuti.
Esistono diverse tipologie di errori, suddivise in:
– errori organizzativi;
– errori di comunicazione;
– errori di esecuzione.
L’errore ha comunque l’effetto di porre in crisi il professionista, il gruppo di lavoro e le relazioni fra i componenti il
gruppo e in generale l’organizzazione sotto il profilo economico (salvo la piena attivabilità di coperture assicurative
che comunque non coprono mai, o quasi, i danni indiretti
collegati all’evento) e di immagine. L’effetto immagine/reputazione va considerato con attenzione, non solo verso l’esterno, ma anche verso l’interno. L’osservazione di questi
fenomeni nel tempo ha rilevato, ad esempio, in coincidenza
del verificarsi di errori di “evidenza pubblica”, l’inasprirsi
della conflittualità sindacale.
Per quanto riguarda gli effetti/reazioni del singolo e del
gruppo di lavoro di fronte all’errore si rinvia, come stimolo,
al punto di vista “provocatorio” che fa riferimento agli studi longitudinali della psicologia sociale, svolti negli Stati
Uniti alla fine degli anni ottanta da A. Bandura sul “Disimpegno morale”: giustificazione morale, etichettamento eufemistico, confronto vantaggioso, dislocamento delle responsabilità, diffusione della responsabilità, distorsione delle
conseguenze, de-umanizzazione della vittima, attribuzione
620
della colpa alla vittima. Si utilizza questo riferimento di lettura e interpretazione degli eventi, ritenendo che non si possa parlare di errore senza far riferimento al “danno” che ne
consegue: un danno per l’Amministrazione, un danno per
l’organizzazione, per gli autori e per i familiari della vittima.
L’errore e\o danno significa che, esiste una disfunzionalità
all’interno del sistema. L’errore, come errore di comunicazione, va analizzato con un’ottica “sistemico-relazionale”con l’obiettivo, attraverso questa chiave di lettura, di individuare delle strategie di superamento e|o di correzione.
L’errore, secondo l’ottica sistemica è sempre un errore di
comunicazione, nel senso più ampio del termine, e, trattandolo come tale, è possibile recuperarlo nei suoi effetti pragmatici, per riportarlo all’interno del sistema in cui si è verificato per poterlo “toccare”, elaborare e riconsegnare al
gruppo di lavoro per il suo superamento: si “tocca” l’errore
per conoscerlo.
La gestione degli impatti organizzativi derivanti dal verificarsi degli errori, da inquadrarsi nell’area degli strumenti
mirati alla protezione aziendale, volta cioè a contenere/comprimere gli effetti dell’evento verificatosi (come, ad esempio, la polizza assicurativa per le conseguenze economiche),
è affidata al Crisis Management. La gestione delle crisi
aziendali, intesa come disciplina oggetto di studi e modelli
organizzativi, ha anch’essa origine anglosassone.
I primi studi, attivati in seguito al verificarsi di casi che
sono entrati nella storia industriale (ad esempio, caso
Tylenol), sono stati fortemente incentrati sugli effetti relazionali, ma soprattutto sulla comunicazione aziendale nelle
situazioni di crisi. Il legame tra visibilità dell’errore e effetti di immagine (e necessità di gestione degli stessi) è evidente. Al contrario, per relazione, si veda quanto già precisato in tema di quasi-incidenti.
L’approccio è ancora una volta di tipo prevenzionale,
fondato su tecniche di self/risk assessment, e può ricomprendere tecniche particolari, quali l’analisi di scenario
(intesa come previsione della situazione organizzativa aziendale, dell’attenzione posta dall’utenza e dai media conseguenti alle diverse tipologie di evento). Le metodologie pre-
Recensione
vedono che l’analisi venga condotta da un gruppo di lavoro
specializzato nei diversi profili che entrano in gioco in caso
di crisi. Tale gruppo probabilmente coinciderà con il gruppo
che sarà attivato, in caso di crisi, per la sua gestione. Il gruppo può essere opportunamente integrato di risorse esterne,
anticipatamente individuate, reperibili ed istruite. L’attenzione viene posta in particolare sui seguenti aspetti:
– previsione degli eventi possibili e installazione di indicatori di anomalia o “segnali deboli” (elementi che segnalano con anticipo adeguato il verificarsi di una crisi o
delle circostanze, se i dati passati disponibili lo consentono, che in passato hanno preceduto/determinato situazioni di crisi);
– attivazione dell’unità di crisi (processi organizzativi ed
operativi di “allerta”);
– definizione degli interventi tecnici per il ripristino/riallineamento del processo;
– definizione delle strategie legali;
– definizione delle strategie di comunicazione.
Un’analisi da noi condotta sulle resistenze di piccole e
medie imprese all’adozione di strumenti di Crisis Management ha evidenziato come sia infondato ritenere che la
dimensione dell’organizzazione sia un elemento chiave della rischiosità dei processi aziendali. A tal fine, il nostro
gruppo di lavoro ritiene spesso utile proporre e adottare, per
motivi di costi, politiche e strumenti di Crisis Management
in più fasi: formazione risorse, informazioni sulle risorse
critiche, eventi possibili, sensori, piano, aiuti esterni, comunicazione del piano e addestramento delle risorse, riavvio
del processo con l’individuazione di un altro evento possibile e dei relativi sensori, etc.. In ogni caso, l’esperienza sul
campo ha dimostrato che l’istituzione del gruppo di lavoro,
indipendentemente dal fatto, che non auguriamo mai, di
dover verificare in concreto le competenze acquisite dallo
stesso e gli strumenti predisposti, ha generato benefici significativi, nella struttura, sulla sensibilità al rischio/errore e al
suo controllo.