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Società Italiana di Anatomia Patologica e Citopatologia diagnostica S.I.A.P.E.C. L’errore in Anatomia Patologica Migliorare la sicurezza del paziente e tutelare il professionista Roma, Sala Conferenze Banca di Roma 22-23 marzo 2001 Presidente del Convegno V. Ninfo, Padova Comitato Scientifico A. Andrion, Torino E. Cristofori, Lecco A. Fabiano, Roma V. Ninfo, Padova J. Rosai, Milano V. Stracca Pansa, Venezia F.M. Vecchio, Roma Con il Patrocinio del Ministero della Sanità e della Federazione Nazionale degli Ordini dei Medici Chirurghi e Odontoiatri 586 M. Gualco et al.: Applicazioni e vantaggi dei sistemi multimediali nella pratica autoptica Presentazione del Convegno “…Nel momento in cui vengono alla luce errori medici, spesso con racconti emotivi sulla sofferenza delle principali vittime – i pazienti daneggiati – la recente reazione è nella maggior parte dei casi un tentativo di definire la responsabilità e di punire qualcuno. Questo comportamento non funziona.…Gli studi scientifici di ingegneria dei fattori umani, di psicologia dell’organizzazione, di ricerca operativa e molte altre discipline hanno ormai chiarito che nei sistemi complessi la sicurezza non dipende dall’esortazione a non commettere errori, ma piuttosto da una appropriata progettazione delle apparecchiature, delle mansioni, dei sistemi di supporto e dell’organizzazione. Se noi vogliamo realmente una assistenza sanitaria sicura dobbiamo progettare dei sistemi sanitari sicuri.…” (Berwick DM, Leape LL (1999) Reducing errors in medicine. Br Med J 319:136-137) L’esercizio delle attività mediche, al pari di tutte le altre attività umane, è correlato alla possibilità di generare errori. La pratica anatomo-patologica non è immune da questi problemi. La comune esperienza aneddotica riporta molte possibilità di errore per lo più correlate a condizioni di stress lavorativo, a deficit organizzativi, a conflitti interpersonali e anche ad un ritardo di evoluzione tecnologica. Ma esistono anche altre possibilità di errore (vero, potenziale o interpretato come tale) assai più legate al “cuore” della disciplina, connesse al tema della soggettività e variabilità di giudizio, al ruolo dei sistemi classificativi, alla distinzione tra campo di ricerca e applicazione pratica routinaria. Scopo del Convegno è affrontare il tema dell’errore in Anatomia Patologica con un approccio multidisciplinare, stimolando la crescita di consapevolezza culturale, ma fornendo anche indicazioni pratiche di comportamento per l’attività quotidiana del patologo. Pathologica (2001) 93:587-620 © Springer-Verlag 2001 II CONGRESSO NAZIONALE SIAPEC Relazioni L’errore in anatomia patologica: Il ruolo della società scientifica A. Andrion () Dipartimento dei Servizi Diagnostici, UOA di Anatomia e Istologia Patologica, ASL 2, Ospedale Martini, Torino, Italia Nel corso dell’ultimo decennio, il tema dell’errore nelle attività mediche ha avuto un crescente interesse, soprattutto per quanto riguarda l’approccio che dovrebbe essere seguito nell’impostare le azioni correttive in grado di minimizzare l’impatto del fenomeno. Quanto sopra, per raggiungere due obiettivi prioritari: la sicurezza del fruitore delle prestazioni (il paziente) e la tutela del soggetto (il medico), che ha la principale responsabilità di una corretta esecuzione dell’atto professionale. La letteratura in materia è abbastanza consistente. Ad esempio, una ricerca Medline della voce “medical error” è in grado di elencare più di 16.000 pubblicazioni nell’ultimo decennio (e circa 2000 nell’ultimo anno), mentre i lavori che fanno riferimento all’errore in patologia assommano a circa 2000 nel passato decennio (200 nell’ultimo anno). Sulla base delle evidenze disponibili, si può quindi affermare che il fenomeno non è marginale, potendone trarre le seguenti considerazioni [1, 2, 3]: (a) la pratica medica, inclusa quella anatomo-patologica, non è esente da errore; (b) il contesto socio-politico è sempre più sensibile al fenomeno; (c) il significato di “errore medico” deve essere meglio studiato e definito in quanto, nella maggior parte dei casi, non vi è chiarezza in materia (errore medico non è sinonimo di evento sfavorevole per il paziente né di “malpractice”); (d) i problemi legati all’errore in medicina non sono risolvibili nell’ambito ristretto delle discipline mediche, ma attengono principalmente al campo delle scienze del comportamento e dell’organizzazione; (e) un approccio che si limiti e abbia come principale obiettivo l’individuazione e la sanzione di “un colpevole” non è in grado di apportare miglioramenti sostanziali; (f) come già avviene in altre attività, le azioni prioritarie da perseguire sono correlate alla prevenzione e alla gestione del rischio di errore; l’obiettivo della riduzione degli errori deve entrare a pieno titolo, come priorità, nella predisposizione delle politiche che mirano alla qualità della prestazione professionale. In questo contesto, il ruolo che può e deve assumere la Società Scientifica è di tutto rilievo, in particolare nei settori che elenchiamo di seguito. Informazione. Mediante segnalazione e diffusione delle pubblicazioni più significative, sia di ordine generale che di tipo specialistico. Inoltre, tramite la segnalazione dell’evoluzione delle politiche governative in materia e degli indirizzi assunti dalla magistratura, dalla direzione delle Aziende Sanitarie e dalle organizzazioni mediche. Quanto sopra, sia sul piano nazionale che internazionale. Analisi/studio. Principalmente su due versanti: a) Il sistema organizzativo e le procedure tecniche. È noto che esistono alcune fasi, in cui esiste un rilevante rischio di errore: quelle correlate all’identificazione dei campioni (accettazione, campionamento, etichettatura, etc.), alla esecuzione e interpretazione di tecniche (inclusione e microtomia, immunocolorazione) e alla stesura del referto finale. Attualmente, si hanno esperienze di tipo aneddotico, ma quasi nessuno è a conoscenza di dati quantitativi riguardanti gli errori e soprattutto i “mancati errori” (“near miss”), correlati alle varie fasi del sistema organizzativo. b) Il sistema descrittivo/classificativo/tassonomico. Si tratta del tema che più coinvolge il training, lo sviluppo professionale e la performance del singolo patologo e del team al quale appartiene. L’obiettivo dovrebbe essere quello di ottimizzare la riproducibilità diagnostica e di correlare sempre più (e meglio) le indicazioni fornite dal patologo al trattamento clinico. Numerosi fenomeni possono influenzare l’interpretazione soggettiva (differenze di percezione e valutazione delle immagini, “patrimonio” mnemonico personale di immagini, disponibilità di archivi iconografici di consultazione, approccio all’im- 588 piego dei sistemi classificativi, etc.). Un’attenta analisi di questi e altri fenomeni potrebbe risultare utile per meglio prevenire e gestire il rischio di errore. Elaborazione. Dovrebbe riguardare la predisposizione di indicazioni, procedure, linee-guida e suggerimenti ai partner commerciali, al fine di prevenire/ridurre le possibilità di errore, individuate mediante l’analisi dei fattori sopra ricordati. A questo proposito, è indubbio che l’affinamento e la diffusione dei sistemi di automazione e informatizzazione (inclusa la diffusione della teleconsulenza e l’accesso ad archivi iconografici online) potrà risultare di grande utilità. Lo stesso dicasi per la definizione e diffusione di standard di qualità operativi, inclusa una valutazione su ampia scala dei possibili effetti dei rapporti costo-beneficio, dell’introduzione di procedure di “mandatory second opinion” e dell’introduzione di un sistema di “reporting” volontario degli errori e dei mancati errori. Per quanto riguarda i contenuti e le modalità di trasmissione del giudizio diagnostico, l’elaborazione di indicazioni (da sottoporre a discussione e validazione) riguardanti l’impiego di classificazioni riproducibili e l’impiego di fraseologia comprensibile e non equivoca (ad esempio, nonostante svariate critiche, permane ancora un impiego diffuso del termine “adenolinfoma” per un tumore del tutto benigno delle ghiandole salivari). Infine, è sempre più necessaria l’elaborazione di un glossario terminologico che specifichi le differenze tra errore, mancato errore, incidente, effetto avverso, “malpractice”, etc. da impiegare sia in sede medico-legale che nei rapporti con i media. Formazione. Si tratta di un campo cruciale per una organizzazione professionale quale la Società Scientifica. I principali temi sono due: la cultura della sicurezza del paziente e la cultura della riduzione dell’errore. Si suggerisce che, sia a partire dalla formazione di base del medico, sia nel successivo percorso specialistico, venga data minore enfasi all’obiettivo della perfezione individuale, al valore catarchico dell’individuazione di un singolo colpevole, al concetto di medicina come arte o, all’opposto, come scienza esatta, al caso clinico complesso e raro, come valore primario, e alla capacità della memoria umana. Nel contempo, occorrerebbe dare maggiore enfasi al concetto di fallibilità individuale, al valore del lavoro in team, alla semplificazione e riproducibilità dei processi e alla standardizzazione delle attività e infine allo studio e all’applicazione delle teorie cognitive e dei sistemi. Consulenza/supporto. Deve essere un servizio rivolto al singolo patologo e ai team che operano nella realtà quotidiana. Negli ultimi anni molti sono stati gli sviluppi in questa direzione (elaborazione di linee-guida in campo tecnicoorganizzativo, gruppi di sottospecialità o singoli “esperti” disponibili per consulenze, riunioni seminariali per la discussione e il confronto di casi, supporto di colleghi nel campo dell’informatica e della telepatologia). Esiste, tuttavia, la necessità di allargare la presenza e l’azione, costruendo rapporti con altri soggetti interessati al tema in modo Recensione diretto o indiretto. In primo luogo, certamente le altre Società Scientifiche, ma anche altri soggetti, da quelli istituzionali a quelli che rappresentano gli interessi diffusi dei consumatori. Bibliografia 1. Sirota RL (2000) The Institute of Medicine’s Report on Medical Error. Implications for Pathology. Arch Pathol Lab Med 124:1674-1678 2. Foucar E, Foucar MK (2000) Error in anatomic pathology. http://www.ajcp.com/special_article.html 3. Anonimous (2000) Human error in medicine. http://www.visualexpert.com/Resources/mederror.html Automazione, informatica e telematica: quale ruolo? C. Clemente1 () · S. Rao1 · A.M. Ferrari1 · A. Clemente2 1 Servizio di Anatomia Patologica e Citopatologia, Casa di Cura S. Pio X, Milano, Italia 2 Idea Builder, Milano, Italia L’informatica, ovvero la scienza che consente di ordinare, trattare e trasmettere le informazioni attraverso l’elaborazione elettronica, sta rapidamente assumendo un ruolo che si dimostra sempre più importante e indispensabile, non solo nelle attività più strettamente tecnologiche, amministrative, finanziarie, informative e dei servizi, ma anche in campo medico. L’anatomia patologica, rispetto ad altre discipline, deve recuperare un certo ritardo nell’acquisizione e utilizzo di programmi informatici, tuttavia, i tempi sembrano ormai maturi e le applicazioni sembrano conquistare rapidamente sempre maggiore consenso. Due aree hanno trovato un particolare sviluppo: quella dell’automazione e quella della telematica. Mentre l’automazione è strettamente correlata alle soluzioni tecnologiche, la telematica, intesa come trasmissione a distanza di dati, ovvero la scienza che aggiunge all’informatica i benefici della trasmissione remota, sta aprendo nuove e talora imprevedibili possibilità di sviluppo. Il ruolo dell’automazione è quello di tendere a sostituire la macchina all’intervento diretto dell’uomo, non solo per quanto riguarda l’esecuzione pratica di operazioni, più o meno complesse, ma anche per quanto riguarda il controllo dei processi (microelettronica), per le fasi di progettazione (computer aided design, CAD) e per i sistemi informativi, quali la comunicazione delle informazioni (e-mail), la gestione dei dati, il trattamento di documenti e le attività di Recensione supporto alle decisioni. Più le soluzioni tecnologiche saranno avanzate, migliori saranno i risultati. Gli esempi di automazione in anatomia patologica sono numerosi e vanno da soluzioni tecnologiche di apparecchiature più o meno complesse (processi robotizzati), alla gestione dell’attività del reparto (gestione informatica), sino alla lettura automatizzata (morfometria, valutazioni immunocitochimiche, screening diagnostici, etc.). Molte delle ricerche più recenti, quali ad esempio le analisi con DNA “microchips” sarebbero impensabili senza l’ausilio di processi automatizzati robotizzati. Ma anche nella più semplice realtà quotidiana di un servizio di Anatomia Patologica, l’automazione trova ampie applicazioni, tanto da identificare, sul sito della SIAPEC (http://www.siapec.it/), il laboratorio di Anatomia Patologica come “virtual lab”. Indubbiamente i risultati ottenibili con procedure automatizzate sono costanti e affidabili; anche se necessitano di un continuo e specializzato controllo, sono in grado di diminuire le possibilità di errore e di migliorare la sicurezza del paziente. La telematica è la scienza che aggiunge all’informatica (scienza che consente di ordinare, trattare e trasmettere le informazioni attraverso l’elaborazione elettronica) i vantaggi della trasmissione a distanza. Il ruolo della telematica è in gran parte ancora da definire, ma senza dubbio rappresenterà, e già oggi in parte rappresenta, la realtà operativa con cui quotidianamente dovremo, o meglio dobbiamo confrontarci. Tale scienza ha sollevato molti e importanti problemi che devono essere ancora discussi e superati, quali, in particolare, gli standards (di processo, di comunicazione e di risultato), l’etica (riservatezza), la gestione (finanziaria) e la legalità (responsabilità, firma digitale). Le aree di applicazione della telematica sono numerose e soprattutto in continuo sviluppo e in costante incremento; anche lo sviluppo dei sistemi informativi e di supporto all’automazione è in continuo aumento. Esempi che ormai sono entrati nella nostra vita quotidiana sono: le tele-notizie, il mercato telematico, la tele-informazione, la tele-consultazione e la tele-didattica (teleteca), il tele-voto e anche la tele-medicina. Nell’ambito delle tele-medicina, la tele-patologia sta lentamente acquisendo un suo spazio con una sua specifica caratterizzazione. La tele-patologia [1, 2] è l’utilizzo delle telecomunicazioni per l’invio di immagini “patologiche”, in formato digitale, indipendentemente dalla distanza e dal tempo. Anche per la tele-patologia, così come per l’automazione, le aree di applicazione sono numerose e in continuo incremento. Il più comune utilizzo della tele-patologia riguarda il tele-consulto, o meglio la tele-discussione diagnostica, da alcuni identificata come “tele-consolazione”, in cui si richiede una seconda opinione ad un collega remoto. Al di là dei problemi tecnici, legali, etici e gestionalifinanziari, la tecnologia informatica sembra aprire nuove possibilità per un rapido e semplice confronto di opinioni, a vantaggio di una migliore qualità diagnostica e di una maggiore cultura medico-specialistica, con un favorevole impatto sulla gestione del paziente e per la tutela del professioni- 589 sta. Il tele-consulto può trasformarsi, soprattutto in particolari situazioni di disagio ambientale geografico, in una necessità di una vera e propria tele-diagnosi (ad esempio, la telediagnosi intra-operatoria remota). Ovviamente, mentre nel caso del tele-consulto la tecnologia informatica può essere limitata al trasferimento di immagini digitali preselezionate (tele-patologia statica), per una tele-diagnosi intraoperatoria sono indispensabili attrezzature informatiche più sofisticate e tali da permettere un comando a distanza, con selezione remota delle immagini (tele-patologia dinamica, tele-patologia statica robotizzata, tele-patologia su immagini virtuali). Altri esempi di applicazioni e del ruolo della tele-patologia sono: il tele-aggiornamento (siti web, biblioteche virtuali), la tele-formazione (tele-accreditamento, autovalutazione), la tele-didattica (bioimmagini virtuali), la tele-ricerca (video conferenze, archivi condivisi, consultazioni multiple e asincrone, seminari), le reti telematiche locali e le reti geografiche (cartella digitale), le applicazioni virtuali e interattive (multimediali e multidisciplinari) e la tele-trasmissione di informazioni polidisciplinari (ad esempio, la tele-patologia abbinata alla tele-dermatologia, alla tele-endoscopia e alla tele-radiologia). La nostra esperienza di tele-consultazioni è iniziata nel 1996 e la Figura 1 dimostra la progressione delle richieste di tele-consulenze sino al 2000. I tele-consulti sono pervenuti in diversi formati: semplici immagini (.jpg), file compressi (zip), file integrati in html, casi inviati con un sistema di telepatologia statica con connessione “punto a punto” (sistema Leica), utilizzando un collegamento telefonico in ISDN. Utilizzando lo stesso sistema statico, ma con possibilità di comandare il microscopio a distanza (tele-patologia statica robotizzata o semidinamica), abbiamo verificato la concordanza, su immagini digitali di preparati istologici intraoperatori, rispetto alla diagnosi eseguita al microscopio, confermando la validità del metodo (concordanza 97-99%, tempo medio di diagnosi 3.2-4.8 minuti) [3]. Fig. 1 Casi ricevuti in tele-consultazione (Anatomia Patologica, Casa di Cura S. Pio X, Milano) 590 Stiamo sperimentando l’utilizzo della tele-patologia dinamica, con un sistema applicato, nella nostra rete ospedaliera, in collaborazione con la Zeiss. Il sistema comprende tre differenti stazioni e ha dato buoni risultati, con particolare riferimento al controllo continuo sulla qualità degli esami intraoperatori e alla valutazione macroscopica a distanza del materiale da esaminare. La tele-patologia come utilizzo di immagini digitali apre anche nuove e interessanti possibilità quali: il teleaggiornamento (siti web, biblioteche virtuali), la teleformazione tele-accreditamento e tele-autovalutazione) e la tele-didattica. Molti di questi argomenti sono stati trattati nel corso dei Convegni Italiani di Tele-patologia, che si sono svolti dal 1997 a oggi rispettivamente a Udine, Trento (Castel Ivano), Milano, Torino e nel libro, pubblicato dopo il convegno di Milano, dal titolo “Telepatologia: strumenti, problemi e applicazioni”. La telepatologia è entrata in reti locali e geografiche nel contesto di cartelle cliniche digitali su web (ad esempio, la cartella digitale per il melanoma del GIPMe, Gruppo Italiano Polidisciplinare sul Melanoma), in applicazioni virtuali e interattive multimediali e multidisciplinari e in portali (ad esempio, www.oncopath.org). Inoltre, la telepatologia integra e completa informazioni polidisciplinari come ad esempio la tele-patologia abbinata alla tele-dermatologia, alla tele-endoscopia e alla tele-radiologia. Nell’ambito del WHO Collaborating Centre on Cancer Control of Uncommon Tumours, che ha sede a Milano presso la Casa di Cura S. Pio X, abbiamo sviluppato, in collaborazione con la Nikon, un programma di condivisione di immagini digitali per una rete di consultazione di tumori rari. Il programma prevede la digitalizzazione tramite scanner del preparato istologico di tumore raro e la possibilità di entrare, da parte di un patologo remoto, nel server del Centro per osservare il preparato “virtuale”, come se lo osservasse al microscopio in modo asimmetrico e contemporaneo per più patologi collegati simultaneamente. Infine, il ruolo della telematica deve essere correlato con la valutazione del rapporto costi e benefici e verificato in relazione alla qualità e all’accuratezza, tuttavia, molto si sta sviluppando e si svilupperà in futuro in questo campo dell’informatica di grande interesse, in cui molti sono i vincitori, ma anche molti sono i vinti [4]. In conclusione, l’automazione, l’informatica e la telematica hanno assunto un ruolo indispensabile e insostituibile nell’attività sia di ricerca che di routine. Tuttavia, la tecnologia informatica non deve essere subita, ma deve essere coscientemente applicata alle diverse necessità delle realtà operative. Ciò farà sì che, attraverso il corretto e appropriato utilizzo di queste applicazioni, si possa cercare di ridurre la possibilità di errore e di conseguenza tutelare il lavoro del professionista, ma soprattutto migliorare i risultati per una maggiore sicurezza del malato. Recensione Bibliografia 1. Clemente C, Scopsi L (2000) Telepatologia, strumenti, problemi e applicazioni. C.G. Ed. Medico Scientifiche, Torino 2. Clemente C, Rao S, Clemente A (1998) Acquisition and transmission of images in anatomic pathology: our experience between Internet and ISDN. Adv Clin Path 2:151 3. De Michelis F, Eccher C, Clemente C, Migliore G, Dalla Palma P, Forti S (1998) A feasibility study of a static-robotic telepathology system for remote diagnosis. Adv Clin Path 2:138-139 4. Bondi A (1998) Vincitori e vinti. Pathologica 90:83-85 L’Errore in Anatomia Patologica: migliorare la sicurezza del paziente, tutelare il professionista V. Cirese () Studio Legale Cirese, Via G.D. Romagnosi 1/b, I-00196 Roma, Italia L’incremento della conflittualità medico/paziente: analisi delle possibili cause In questi ultimi anni, si è assistito ad un forte incremento delle controversie giudiziarie (soprattutto penali) e dell’attività stragiudiziale delle compagnie assicurative, per casi di responsabilità civile avviati da pazienti, che si ritenevano insoddisfatti o danneggiati dall’operato dei medici. Tanto in Italia come negli altri Paesi dell’Europa, si osserva complessivamente un aumento significativo della conflittualità nei confronti della classe medica. Richiamando i dati contenuti nella relazione del Comité Europeen des Assurances, dedicata al tema “La responsabilité des professions medicales et son assurance en Europe”, emerge evidente una richiesta di maggior tutela dei diritti del paziente ovunque e in particolare in Germania, Austria, Belgio e Francia. Inoltre, alcuni Tribunali (Svizzera e Germania) applicano sempre più frequentemente l’inversione dell’onere della prova o, comunque, rendono più facile l’onere probatorio del danneggiato. Il numero dei casi e l’entità dei risarcimenti è ovunque in aumento, soprattutto in Belgio, Francia, Spagna e Lussemburgo. Nel Regno Unito si è verificata una triplicazione delle richieste di risarcimento nel corso degli ultimi 5 anni. In Portogallo, invece, il numero dei casi è rimasto relativamente esiguo, anche se di recente si è osservata una tendenza all’aumento, sotto la spinta dell’organizzazione dei consumatori. È interessante notare che in Svezia, a seguito dell’introduzio- Recensione ne del regime di “assicurazione paziente”, il numero dei casi è minimo, circa 10 per anno. Primarie fonti d’informazione riportano che in Italia le compagnie assicuratrici sosterrebbero la spesa globale di 2 miliardi al giorno per il risarcimento di danni ai pazienti, circa 800 miliardi di lire (più del doppio della raccolta). Le denunce dei sinistri da responsabilità civile medica si agirebbero sulle 12.000 l’anno. Inoltre, le assicurazioni lamentano la sproporzione crescente tra i premi assicurativi incassati e le somme destinate ai risarcimenti (rapporto 1/3, fonte ANIA) e per tale motivo impongono tariffe sempre più alte, con maggiori oneri per tutti. Si assiste, inoltre, alla minaccia di uscita dal settore delle assicurazioni più serie e qualificate (ad esempio, GENERALI, già Ina Assitalia, e RAS), con il contestuale ingresso di compagnie straniere che, se da una parte impongono condizioni contrattuali di minor onere economico, dall’altra non garantiscono una gestione corretta e qualificata del sinistro, né si attivano per composizioni bonarie, stragiudiziali delle controversie. Infine, queste “nuove” compagnie espongono gli assicurati al rischio di una mancata o incompleta copertura, per dissesti, sofferenze temporanee, liquidazione della società, etc.. Il fenomeno della citata conflittualità quale risultante di più cause e fattori La creazione, nell’immaginario collettivo, di modelli e stili di vita incentrati sul benessere, sulla bellezza, sulla salute e sulla longevità costituisce sicuramente un particolare fattore di incidenza sul fenomeno di incremento della conflittualità nei confronti dei medici. Modelli creati ad arte e supportati dai progressi della scienza e della medicina, che hanno abituato ad attese di qualità della vita non sempre possibili, si rilevano di indiscutibile condizionamento dei destinatari delle prestazioni. L’attuale società, con la progressiva scomparsa di orientamenti tradizionali, appare molto concentrata sui problemi dei singoli, privilegiando beni materiali con un’ipersensibilizzazione dei diritti individuali. Ciò ha mutato il sistema dei valori, indirizzando verso un diverso stile di vita, verso l’autorealizzazione e la tutela del bene salute. In tale contesto, l’operato del medico, che è considerato la “chiave per accedere al benessere e a un futuro migliore”, è messo in dubbio da una generazione di “consumatori”, cui è stato insegnato a non accettare acriticamente nulla, ma a dubitare, controllare e far valere i propri diritti. Di conseguenza, in ambito sanitario, la guarigione da una malattia viene considerata come un diritto indipendente dalle circostanze e dalle reali possibilità di farlo valere come una prestazione, che per essere stata in qualche modo pagata, deve essere esattamente eseguita. La mancata guarigione è quindi considerata “colpa” del sanitario, se non addirittura “inadempimento”. Ne è scaturito il diffondersi di una “cultura del vittimi- 591 smo”, in cui le “vittime” vengono rese popolari dalla televisione e dalla stampa. Dal canto loro, i medici e le relative associazioni professionali, non hanno saputo costituire un “contraltare” con una corretta informazione sui rischi e sui limiti della medicina, forse perché ancora non ne avvertono l’impellente necessità, sicuri di essere al riparo da ogni rischio per la semplice operatività della copertura assicurativa (spesso insufficiente e relativa al solo settore civile). I grandi progressi compiuti dalla scienza e dalla professione medica, soprattutto nella seconda metà del ventesimo secolo, si sono caratterizzati per la possibilità, enormemente accresciuta, di diagnosticare e curare molte malattie, con complete guarigioni senza esiti, ovvero con menomazioni residue accettabili. Questi successi sono quasi quotidianamente vantati, attraverso i mezzi di comunicazione di massa, e questa forma di “promozione” ha indubbie ricadute positive sul prestigio della medicina e dei medici, con rilevanti risvolti economici per un certo numero di essi, per le industrie che producono farmaci e strumenti, per la sanità privata, etc.. Naturalmente, esistono categorie di malattie a decorso inevitabilmente cronico – come, ad esempio, molte patologie vascolari, neurologiche, psichiatriche, reumatiche e parte di quelle oncologiche – nell’ambito delle quali i progressi, e quindi i successi, sono limitati. Queste malattie fanno ancora parte delle delusioni accettate dai pazienti e dai loro congiunti, perché non precedute da speranze infondate. È invece sul versante assai vasto delle malattie, per le quali sono in qualche misura giustificate delle attese ottimistiche, che la reazione di rifiuto dell’insuccesso è proporzionale alla gravità dell’evento negativo, valga per tutti l’esempio del parto. L’eccessiva e irrealistica esigenza di informazione può trasformare il rapporto medico-paziente in un rapporto contrattuale, non dissimile da quelli commerciali, con una sorta di “capitolato” sottoscritto dal medico e dal paziente all’inizio della prestazione sanitaria. Questa esasperazione – che è l’eccesso opposto della frequente, eccessiva reticenza o sbrigatività dei medici nell’informare il paziente e chiedergli il suo consenso – è una delle facce della professione che, da parte dell’opinione pubblica e della magistratura, si tende progressivamente a connotare, per una irrealistica obbligazione di risultato e non soltanto di mezzi. Il sistema dei DRG non ha certo migliorato il problema del tempo a disposizione per instaurare un corretto rapporto medico-paziente. Né si possono nascondere le carenze del servizio sanitario pubblico, in cui il soffocamento della lottizzazione partitica ha avuto conseguenze negative sia sulle risorse umane (troppo spesso l’apparato pubblico è stato utilizzato come trampolino per carriere politiche o mediche), non rispondenti ai canoni della singola preparazione o bravura, sia sulle strutture realizzate con logiche distanti dall’efficienza e dal miglioramento del servizio. Al contrario, il singolo medico responsabile si è trovato (e si trova) stretto nella morsa di chi, nel caso di palesi carenze di strutture o di disservizi, non può fare a meno di prestare comunque la propria opera per non incorrere nel reato di omissione di atti d’ufficio, essendo pubblico 592 ufficiale o incaricato di pubblico servizio. Tuttavia, accettando di prestare la propria opera in un contesto carente, si espone ugualmente a responsabilità, potendo rispondere quantomeno per colpa (imprudenza), per aver accettato l’eventualità del verificarsi di un rischio. A ciò si aggiunga che spesso il contenzioso nei confronti del singolo è strumentale ad ottenere l’intervento in giudizio dell’ente (quale responsabile civile) da parte del danneggiato o della pubblica accusa. Esiste poi la possibilità di rivalsa dell’Azienda, nel caso che il professionista sia stato riconosciuto colpevole con sentenza passata in giudicato per dolo e colpa grave. È negata invece la possibilità al singolo medico, che sia stato imputato, di citare nel giudizio penale l’ente, perché risponda di quelle omissioni che, al verificarsi dell’evento infausto, hanno determinato l’istaurarsi del processo. Diverso, invece, sarebbe, se l’ente rispondesse per proprio conto delle proprie carenze, sussistendo una normativa di tutela della sicurezza nella pratica medica relativa alla struttura, ad esempio, sulla stregua della disciplina antinfortunistica di matrice comunitaria, adottata per le imprese, disciplina che è autonoma e concorrente e che anticipa la soglia di punibilità al verificarsi del rischio, indipendentemente dall’evento dannoso. Un certo orientamento giurisprudenziale – rafforzato talvolta dalla inconsapevole partecipazione emotiva della magistratura alle aspettative del paziente – inquadrato in un contesto legislativo locale e comunitario inadeguato quando non mancante e il compattarsi di frange o categorie sociali in organizzazioni a difesa dei diritti della collettività completano il novero delle ragioni di un incremento nella conflittualità medico/paziente. A ben vedere, i magistrati – responsabili delle evoluzioni giurisprudenziali – costituiscono un’interfaccia solo apparentemente asettica ed equidistante tra i “contendenti”, mentre in realtà essi, nella inscindibile veste di giudici, ma anche di membri della società che li chiama a giudicare, non possono non essere partecipi degli stessi sentimenti che animano la comunità intera nei confronti dei medici e della Medicina. Sono sentimenti in cui oggi domina l’attesa, spesso esagerata e tramutata in pretesa di risultati favorevoli non sempre possibili. L’inevitabile, quanto forse inconsapevole, partecipazione dei magistrati al sentimento collettivo e la loro meditata adesione all’attuale orientamento dottrinale e giurisprudenziale di massima tutela del paziente, spiega, in buona sostanza, il progressivo abbandono di un orientamento generale più comprensivo nei confronti dei medici, dovuto forse anche al tradizionale “rispetto” nei confronti della categoria e anche alla millenaria accettazione dell’ineluttabilità della malattia e della morte. Conseguentemente, si è avuto il passaggio progressivo a quella giurisprudenza severa, non di rado eccessiva. Il fenomeno del maggior rigore degli indirizzi giurisprudenziali non è limitato all’Italia, ma come già evidenziato è comune a Stati altrettanto sviluppati. Ad esempio, in Germania e Svizzera, sempre più spesso con l’inversione dell’onere della prova, è il medico a dover dimostrare di non Recensione aver causato danni al paziente o di non essere stato inadempiente nello svolgimento delle sue funzioni. In queste due nazioni, come anche in Belgio, Francia, Lussemburgo, Spagna, è in crescita il numero dei contenziosi (nel Regno Unito è addirittura triplicato negli ultimi cinque anni), così come l’entità media del risarcimento. Il quadro appena delineato è quello di un settore vasto, potente, ma assolutamente sfilacciato: un gigante scoordinato, un agglomerato disorganico e vulnerabile capace soltanto di difendersi con mezzi spuntati e perversi, come la cosiddetta “medicina difensiva”. La “medicina difensiva” è da considerarsi un fenomeno sostanzialmente nuovo, direttamente conseguente all’incremento patologico del contenzioso giudiziario nei confronti dei medici. A prima vista, essa non si discosta, nei connotati comportamentali che la caratterizzano, dalla tipica condotta professionale che si avvale di scelte operative in discreta misura opzionali, cioè di scelte caso per caso dei mezzi diagnostici e, soprattutto, terapeutici, ritenuti più opportuni e utili al paziente. La differenza essenziale consiste nei motivi delle scelte che, nella “medicina difensiva”, non sono dettate dall’interesse primario del paziente, bensì dall’obiettivo del medico di prevenire denunce giudiziarie. La “medicina difensiva” è ormai una realtà, un frutto perverso e preoccupante del contenzioso giudiziario, che assilla la classe medica e turba la regolare evoluzione della pratica professionale, che ha invece l’obbligo di convogliare gli strumenti forniti dal progresso scientifico e tecnologico entro i binari dei propri millenari principi deontologici: i quali pongono al centro dell’opera del medico l’esclusivo interesse del paziente. Alla luce delle premesse, che precedono, appare inconfutabile che il problema di fondo, in tema di colpa professionale sanitaria, consista nel ritrovare una soluzione che contemperi sia l’esigenza di tutelare adeguatamente il bene della vita e della salute del paziente, sia quella di assicurare una valutazione della condotta del medico confacente alla complessità dell’attività svolta, posto che la giurisprudenza, originariamente e per un lungo lasso di tempo in posizione di benevolenza e indulgente considerazione verso i medici, sia stata progressivamente sostituita da indirizzi severi. Non vi è dubbio che gli orientamenti dominanti, recentemente, si siano dimostrati più rigorosi anche nella valutazione della colpa medica in ambito anatomo-patologico, in considerazione del peso giuridico di un errore professionale in un settore così specializzato e tuttavia così ampio, nonché per la maggior severità di valutazione dell’errore commesso dallo specialista (a fronte delle specifiche capacità tecniche che l’acquisizione del titolo specialistico comporta, legittimanti maggiori aspettative). Profili rilevanti di colpa in ambito anatomo-patologico Fra i profili rilevanti della colpa medica, anche in ambito anatomo-patologico, meno ricorrente anche alla luce della Recensione esperienza giudiziaria, risulta quello collegato all’inosservanza di leggi e regolamenti, ordini o discipline, anche se a volte ciò si rinviene e anzi l’inosservanza, fonte della colpa, può in teoria riflettere, non solo norme consacrate in leggi o regolamenti, ma anche norme di servizio o di disciplina, contenute, ad esempio, nei regolamenti interni dell’ospedale o di altri enti, o frutto di singole disposizioni impartite in forza di una posizione di superiorità gerarchica o funzionale. Nella netta maggioranza dei casi, la colpa del medico assume, per come si evince dalla giurisprudenza, le tipiche forme della negligenza, dell’imprudenza e della imperizia. Vale la pena notare che la limitazione della responsabilità del professionista riguarda non ogni possibile manifestazione della colpa, ma solo quella costituita dell’imperizia; solo in ordine a quest’ultima ha senso prevedere un margine d’esenzione da responsabilità; per chi affronta interventi di “particolare difficoltà tecnica”, ai sensi dell’art. 2236 c.c., è fatto riferimento esclusivamente a quell’aspetto della colpa che concerne non già la prudenza e la diligenza in senso stretto, bensì la perizia. In tema di malpratica sanitaria, la casistica degli ultimi anni ha evidenziato che, nell’ambito dell’istopatologia umana, il rischio dell’errore diagnostico (per mancata o errata diagnosi) ricorre con maggiore frequenza al momento della scelta della metodica del taglio da eseguire o nell’esecuzione del taglio stesso. È stato rilevato, inoltre, che la responsabilità professionale può conseguire anche alla mancata conservazione dei vetrini. Occorre premettere che la metodica del taglio, fase centrale e altresì fondamentale dell’attività specialistica del settore, non è attualmente regolata da specifici protocolli. Tale mancanza, se da una parte garantisce al clinico che deve procedere all’escissione del pezzo, maggiore libertà nella scelta tecnica, potendo egli applicare o meno una ben precisa metodica, dall’altra rischia di esasperare la diversità “di scuola” nella scelta della metodica, che in alcuni casi è già ben evidente. È stata riscontrata, ad esempio, una diversità d’esecuzione (di sezione e di prelievo) per identiche patologie tumorali, a seconda delle istituzioni ospedaliere ove s’interveniva. A titolo esemplificativo, basti citare che nell’asportazione radicale della prostata, vi sono scuole che sezionano l’intera ghiandola prostatica e altre invece che preferiscono inciderne solo un pezzo. Come vi sono cliniche che sostengono che l’escissione (del tumore) ideale è quella di spaccare a metà la sezione, lasciando al centro la parte tumorale e ben in evidenza i margini, i cui contorni devono essere valutati con estrema precisione per l’identificazione della patologia: ciò in particolare nel caso di tumori cerebrali e del seno. Ed è proprio la diversità di pratica medica descritta la causa più ricorrente nei contenziosi civili e dei processi penali, che vedono come protagonisti gli anatomi patologi, chiamati a rispondere, come prestatori d’opera intellettuale, esclusivamente per l’inadempimento di un’obbligazione di mezzi e non di risultato. 593 Tipici casi sui quali la giurisprudenza ha avuto modo di esprimere indirizzi precisi sono: 1. Gli errori diagnostici di primari ospedalieri (di reparti di Anatomia e Istologia Patologica) che, dopo aver eseguito esami di frammenti di cute provenienti dalle sale operatorie, hanno diagnosticato erroneamente (ad esempio, l’esistenza di un melanoma anziché di un angioma), inducendo il radiologo a praticare al paziente terapie irradianti non indicate. 2. Errate diagnosi istologiche di carcinoma, che hanno comportato interventi chirurgici di asportazione di mammella e utero in donne in età feconda. Trattandosi di tipiche contestazioni di “imperizia”, si rileva la distinzione, perché si esige per l’affermazione della responsabilità la colpa grave, nel criterio, comunemente accolto dalla non ricorrenza di “speciali difficoltà tecniche”. Va osservato però che, trattandosi di condotta omissiva, il metodo di accertamento causale è di tipo probabilistico e scaturisce dal fatto che il nesso tra condotta ed evento è in forza della previsione dell’art. 40 c.p. (non impedire un evento che si ha l’obbligo giuridico di impedire, equivale a cagionarlo), costituito in termini ipotetici e non naturalistici come è invece per la causalità del reato commissivo. Variabilità diagnosticata versus errore diagnostico in citologia P. Dalla Palma () Servizio di Anatomia Patologica, Ospedale S. Chiara, Largo Madaglie d’Oro 1, I-38100 Trento, Italia Si è verificato certamente un errore, o per meglio dire uno sbaglio, se: 1. vi sono due diagnosi diverse fatte da due patologi diversi; 2. alla revisione superiore, ad esempio, in un programma di controllo di qualità, viene posta una diagnosi diversa dalla prima; 3. il follow-up clinico-laboratoristico, compreso l’eventuale controllo istologico successivo, contraddice la diagnosi primitiva [1]. La frequenza di tale situazione in citologia è maggiore che in istologia. Vi sono però delle specificità dell’esame citologico, in quanto quest’ultimo è spesso usato come esame di primo livello; la mancata rilevazione di un allarme, peraltro presente nel preparato, il falso negativo, non indurrà gli esami successivi, compreso il controllo istologico, che dimostrerebbero con certezza la presenza di una condizione neoplastica o pre-neoplastica. In tali situazioni, si configura 594 Recensione di fatto un ritardo diagnostico che potrebbe avere delle importanti conseguenze per il paziente. Meno grave, anche se spesso molto ansiogeno e costoso, è il falso positivo: la mancata conferma di una diagnosi citologica fa in genere terminare il processo diagnostico-terapeutico. Allorquando un clinico richiede un esame citologico, si attende una risposta certa: negativo o positivo, bianco o nero. Egli non gradisce risposte come “ASCUS non si può escludere un HSIL” o anche “Reperto compatibile con...”. La classificazione binaria in citologia è spesso impossibile e tutti usiamo con frequenza variabile la classe del sospetto, la vecchia classe III di Papanicolaou, cioè il grigio. Si tratta della categoria più comoda per il patologo, ma quella meno amata dal clinico, perché non utile a chiarire il quesito diagnostico. Recentemente, è stata introdotta una modifica a tale classe, suddividendola in due ulteriori categorie: l’atipia verosimilmente benigna e il sospetto maligno. Se esiste un colloquio aperto tra clinico e patologo si sarà fatto un passo in avanti perché il primo, anche alla luce di ulteriori notizie cliniche, in genere ignote al patologo, potrà scegliere l’atteggiamento diagnostico-terapeutico più appropriato per il paziente; in caso contrario, non si sarà fatto altro che introdurre una quarta variabile con conseguente diminuzione della concordanza. Sempre riguardo alla variabilità, un commento a parte merita la valutazione dell’adeguatezza del preparato nei PapTest. Senza modificare la categoria degli inadeguati, il Sistema Bethesda [2] ha distinto gli adeguati dai meno che ottimali per… Dati Italiani del GISCi e personali di Trento hanno dimostrato come quest’ultima categoria sia scarsamente riproducibile, con valori variabili fino a 3 volte a seconda dei citotecnici, che pur avevano un bagaglio culturale e una esperienza professionale simile (Tab. 1). Tabella 1 Classificazione di adeguatezza per i Pap-Test del 1999 Ottimale Subottimale Inadeguato 1 2 3 4 5 6 7 90.6 6.2 3.2 84.0 12.5 3.5 85.0 12.1 2.9 84.8 12.3 2.9 83.6 13.4 3.0 79.1 16.9 4.0 78.9 16.7 4.4 Mentre l’inutilità di questa distinzione è evidente per la donna che verrà richiamata o meno a ripetere il test a seconda della volontà del clinico, non se ne vede una sostanziale utilità nemmeno per il patologo, a meno che la distinzione non venga usata come controllo di qualità. Si possono ricercare le cause del non ottimale: se queste sono dovute alla paziente (ad esempio, una infiammazione), se ne possono curare le cause; se sono dovute al prelevatore (ad esempio, la mancanza di elementi endocervicali), si possono modificare e correggere abitudini errate di prelievo; se sono dovute al laboratorio (ad esempio, non ottimale colorazione), si possono apportare modifiche migliorative della fase preanalitica. È indubbio, infatti, che una diagnosi sarà tanto migliore, quanto migliore sarà la qualità del preparato da esaminare. Se un preparato è inadeguato non si deve comunque porre alcuna diagnosi né alcun sospetto, ma si deve ripetere il prelievo. Attenzione comunque, perché un preparato che contiene elementi neoplastici diagnostici, per definizione, non è mai inadeguato! A fronte di una diagnosi sbagliata, difficilmente il giudice modificherà il suo atteggiamento solo perché il preparato era stato giudicato subottimale. Se si fa riferimento al numero delle cause giudiziarie contro i patologi, per errori dovuti alla citologia, si può notare come negli ultimi anni vi sia stato un sensibile calo dovuto principalmente al fatto che i patologi credono maggiormente alla citologia e almeno in parte al fatto che abbiamo sensibilmente migliorato la qualità del nostro lavoro [3]. Vi sono almeno quattro momenti in cui intervenire: 1. il prelievo deve essere rappresentativo del processo biologico in accertamento; 2. la preparazione tecnica deve essere ottimale; 3. la visione (se vogliamo la scansione) del preparato deve essere completa; 4. il citologo deve essere in grado di riconoscere le alterazioni cellulari presenti. Con il “Quality Control” si deve essere in grado di monitorare, ottimizzare e standardizzare ogni singolo passo del processo diagnostico, affinché, attraverso la “Quality Assurance”, si sia in grado di fornire un prodotto finale (la diagnosi) sempre più preciso e utile per il cliente/paziente. Negli Stati Uniti il CAP [4], nel suo “Quality Improvement Manual”, dedica un intero capitolo alla citologia. Il modello proposto dà una garanzia di prodotto standard e di competenza (credenzialità) attraverso linee guida, programmi di accreditamento e i Q-Probes che permettono di avere dei valori di riferimento. La via verso la qualità ha comunque dei costi che possono essere anche sensibili. In una bella revisione di Gill sull’argomento [5], viene dimostrato come vi sia una rotta di collisione tra il laboratorio di citologia e il mondo esterno: il primo ha problemi di costi, di produttività limitata (massimo 70 casi al giorno, secondo un recente lavoro italiano [6]), di reale difficoltà nel riconoscere pochi elementi atipici, magari non sempre chiari, le “litigation cells”, in un mare di cellule normali; il secondo vorrebbe pagare il servizio sempre meno, vorrebbe un’efficienza massima di ogni singolo operatore indipendentemente dalla sua esperienza, vorrebbe anche che il singolo elemento atipico venisse sempre riconosciuto e giustifica le azioni di supposta “malpratica”. Purtroppo i dati disponibili dimostrano che solo il 6.2% del tempo è speso dai citotecnico per il controllo di qualità e questo dato si riferisce agli Stati Uniti, ove il controllo di qualità è alla base del sistema di remunerazione del Pap-Test da parte delle compagnie assicurative [5]. Nei riguardi del controllo di qualità, vi è chi ha voluto vedere delle rassomiglianze tra il lavoro del controllore di volo e quello del citologo. Sembrerebbe che sia proprio quest’ultimo a stare peggio, in quanto per i controllori di volo è prevista la presenza contemporanea di almeno due unità che usufruiscono di un periodo di riposo di 30 minuti ogni due ore, lavorando su un radar Recensione ove gli oggetti da seguire sono relativamente pochi e vi si muovono lentamente. Il lavoro del citologo è peggiore, anche se le responsabilità sono ovviamente non paragonabili. Certo, attraverso programmi di “quality control” e “ quality assurance” possiamo migliorare il nostro prodotto, ma dobbiamo stare attenti a monitorare anche la comunicazione: siamo proprio certi che il nostro cliente intermedio (il clinico e/o il medico di medicina generale) e quello finale (il paziente) comprendano veramente il significato di una nostra diagnosi, peraltro formalmente esatta? Alcune diagnosi sono assolutamente criptiche e sembrano fatte per diagnosticare tutto e il suo contrario, forse per problemi medico-legali. Ma giustamente Skoumal [7] sostiene che una chiara e precisa comunicazione tra patologo e clinico è il miglior modo di prevenire la malpratica ed è particolarmente utile al paziente. Certo vi sono casi in cui non è possibile essere chiari e si deve esprimere un certo margine di incertezza. Raab [8] ha proposto anche di quantificare il nostro grado di incertezza (ad esempio, “vi sono 75 probabilità su 100 che si tratti di un..”), ma tale suggerimento, almeno per il momento non ha fatto molti proseliti. In una recentissima pubblicazione, apparsa su BMJ nel Marzo 2001, è emersa un’altra preoccupante realtà. Il PapTest è un test di screening e, come tale, dotato di una certa percentuale di inesattezza, indicando che nei casi di normalità vi è un rischio molto basso di sviluppare un carcinoma della cervice, con una protezione superiore al 90%. Nel 1997 il National Cancer Screening Program Inglese aveva deciso di modificare la dizione “negativo” (che aveva posto infatti qualche problema) con il termine “striscio normale”. Ad una indagine, solo il 52% della popolazione generale comprendeva l’esatta informazione ottenibile attraverso il test e si arrivava ad una percentuale del 70% dopo adeguata spiegazione. Le donne rimanenti erano convinte che “striscio normale” significasse assoluta garanzia di non essere affette da neoplasia per i successivi 5 anni [9]. Nel 1999, la questione nota come “Kent at Canterbury” ha suscitato molto scalpore nell’ambiente citologico. Alcuni Colleghi inglesi erano stati condannati per diagnosi di ASCUS. Tutto l’ambiente si era ribellato perché sembrava che le condanne vertessero appunto su “litigation cells”. Una lettura attenta della sentenza metteva però in luce altri problemi di ordine più propriamente organizzativo. In quel laboratorio vi era una gestione confusa e difficile; vi erano stati dei segnali (allarmi) di cui non si era tenuto conto; i responsabili non erano molto interessati a che le cose funzionassero bene e non era nemmeno chiaro chi fosse il vero responsabile. In conclusione, anche alla luce dei lavori sull’errore medico, apparsi sul British Medical Journal del 2000 [10], possiamo suggerire alcune riflessioni: 1. quando si verifica uno sbaglio non dobbiamo nasconderci o biasimarci, ma piuttosto imparare dall’errore e mettere in atto tutte quelle procedure che sono utili per prevenirlo, magari cambiando abitudini lavorative consolidate nel tempo; 595 2. dobbiamo riconoscerci come parte di un sistema complesso, in cui giocano il loro ruolo anche il clinico e il paziente e con cui dobbiamo interagire e comprenderci; 3. dobbiamo garantire standard procedurali e diagnostici che vengano monitorati quotidianamente nella coscienza che l’errore è grave per il paziente, ma anche noi ne abbiamo a soffrire. Bibliografia 1. Foucar E, Foucar MK (2000) Error in Anatomic Pathology. In: Foukar MK (ed) Bone marrow pathology. ASCAP Press, Chicago 2. National Cancer Institute Workshop (1993) The 1991 Bethesda system for reporting cervical/vaginal cytologic diagnoses. Acta Cytol 37:115-124 3. Sabella JE (1997) Medicolegal principles and problems. In: Principles and practice of surgical pathology and cytopathology, 3rd ed. Silverberg S.G, New York 4. College of American Pathologists: Cytopathology. In: Travers H (ed) Quality improvement manual in Anatomic Pathology. CAP 5. Gill GW (1997) Pap smear risk management by process control. Cancer Cytopathol 81:198-211 6. Andrion A, Dalla Palma P (2000) Il carico di lavoro in citologia cervico-vaginale: un compito complesso nella pianificazione dell’attività di laboratorio. Pathologica 92:177-184 7. Skoumal SM, Florell SR, Bydalek MK, Hunter WJ 3rd (1996) Malpractice protection: communication of diagnostic uncertainty. Diagn Cytopathol 14:385-389 8. Raab SS, Thomas PA, Cohen MB (1995) Decision analysis in cytopathology. Diagn Cytopathol 12:334-340 9. Marteau TM, Senior V, Sasieni P (2001) Women’s understanding of “a normal smear test result”: experimental questionnaire based study. BMJ 322:526-528 10. Reinerstein JL (2000) Let’s talk about error. Leaders should take responsibility for mistakes. BMJ 320:730 Errore scientifico e sbaglio umano in medicina G. Federspil () · R. Vettor · C. Pagano Dipartimento di Scienze Mediche e Chirurgiche dell’Università di Padova, Cattedra di Medicina Interna, Università di Padova, Via Ospedale 105, I-35100 Padova, Italia Errore e verità Il tema dell’errore scientifico è, come appare immediatamente evidente, speculare all’idea della verità, cosicché 596 non è possibile trattare del primo argomento senza prendere contemporaneamente in considerazione il secondo. Non è certo possibile, in questa occasione, analizzare in modo approfondito un’idea come quella della verità, sulla quale i filosofi dibattono dai tempi della civiltà ellenica, tuttavia, se si vuole comprendere che cosa sia l’errore è indispensabile esporre almeno alcuni concetti basilari che possano rendere più chiaro il discorso. Come introduzione generale, dirò subito che professo un’idea della verità molto vicina a quella del senso comune, un’idea, quindi, della quale siamo debitori ad Aristotele e secondo la quale la verità non è la proprietà di una cosa, ma è la proprietà di un discorso. Vero, quindi, è quel discorso che descrive le cose come stanno, ovvero che corrisponde alla realtà, e falso è un discorso o un asserto che non afferma le cose come queste sono nella realtà. Vera, quindi, non sarà l’esistenza delle cellule, ma vera sarà l’affermazione di chi dice che le cellule esistono. La scienza moderna è sorta nel XVII secolo con il preciso intendimento e con l’ambizione di costituire un sapere capace di dare all’uomo, ad un tempo, sia la verità che la certezza di averla raggiunta. Questa convinzione filosofica è già presente nelle parole di uno dei fondatori della scienza moderna, Galileo Galilei: “Le deliberazioni della natura” ha scritto lo scienziato pisano “sono ottime, une, e forse necessarie, onde circa di esse non hanno luogo le ragioni probabili: si che ogni discorso che noi facciamo circa di esse o è ottimo e verissimo, o pessimo e falsissimo. (....) È cosa da ridere il dire che la verità sta tanto ascosta, che è difficile il distinguerla dalle bugie: sta bene ascosa sino a che non si producono altro che pareri falsi; tra i quali spazia la probabilità; ma non si tosto viene in campo la verità, che, illuminando a guisa di sole, scaccia le tenebre della falsità.” E, ancora: “Nelle scienze naturali, le conclusioni delle quali son vere e necessarie né vi ha che far nulla l’arbitrio umano, bisogna guardarsi di non si porre alla difesa del falso, perché mille Demosteni e mille Aristoteli resterebbero a piede contro ad ogni mediocre ingegno che abbia avuto ventura di apprendersi al vero.” È evidente, dunque, che per Galileo la verità si mostra con facilità a chi la cerca con onestà d’intenti e che, per essere compresa, essa non necessita di argomentazioni complicate, ma può essere dimostrata anche con “mediocri discorsi”. Inoltre, la verità, una volta che venga conosciuta, appare con tale evidenza alla mente umana da dare all’uomo la certezza di averla conquistata definitivamente. Infine, secondo Galileo, il retto uso della ragione e le esperienze conducono con sicurezza alla verità e non possono fornire sostegno alle opinioni errate: “Sendo” ha affermato Galileo “una delle posizioni vera e l’altra necessariamente falsa, è impossibile che per la falsa s’incontri mai ragione, esperienza o retto discorso che le sia favorevole, sì come alla vera nessuna di queste cose può essere repugnante.” [1]. Questa filosofia ottimistica sulle capacità dell’uomo e Recensione della scienza di poter conoscere la verità ha dominato molto a lungo gli ambienti scientifici e ha costituito il paradigma epistemologico dominante anche in medicina fino alla prima metà del XIX secolo. Conoscenza e medicina nel XVIII e nel XIX secolo Come ricorda Bernardino Fantini, nel XVIII secolo i medici ritenevano che la medicina dovesse essere interamente fondata, sia sul piano teorico che su quello clinico-operativo, sulla osservazione passiva e neutrale dei fenomeni, poiché solo l’osservazione metteva in contatto diretto l’uomo con la realtà naturale e gli permetteva così di giungere alla verità. “Ars medica” recitava, appunto, un aforisma dell’epoca “(est) tota in observationibus” [2] e il primo metodologo clinico, lo svizzero J.J. Zimmermann, scriveva nel suo trattato ‘Della esperienza nella medicina’ queste parole: “La medicina è nata dalla osservazione; ella deve i suoi avanzamenti alla osservazione, e senza quest’aiuto ella non può essere che una chiacchera inutile.” [3]. Nel XVIII secolo, dunque, la tesi epistemologica dominante sosteneva che la scienza non solo poteva raggiungere la verità, ma era anche capace di dare al ricercatore la certezza di averla raggiunta e riteneva che lo strumento fondamentale, che conduceva contemporaneamente alla verità e alla certezza della verità, era costituito dalla osservazione accurata ed obiettiva dei fenomeni naturali. “Le osservazioni adunque” scriveva ancora Zimmermann “sono la base dei nostri ragionamenti; e s’elleno sono buone, si prendono come tanti dati dimostrati”. In questo contesto concettuale i ragionamenti e le argomentazioni venivano guardati con sospetto e venivano ritenuti capaci di condurre in errore chi investigava la realtà naturale. “Le buone osservazioni” raccomandava ancora Zimmermann “non si debbono né pure frammischiare coi raziocini. E i fenomeni della natura vogliono essere descritti tali quali si veggono e non come si giudicano” [3]. L’anatomia patologica è nata, come tutti sappiamo, nel XVIII secolo, nel clima epistemologico appena descritto e si è subito presentata come una scienza medica che occupava una posizione privilegiata rispetto alla clinica, perché conduceva in via diretta alla verità. Mentre la medicina clinica si fondava su rilievi indiretti ed era quindi obbligata a formulare ipotesi e congetture su ciò che si verificava all’interno dell’organismo malato, l’anatomia patologica poteva osservare direttamente la realtà patologica: le lesioni degli organi che avevano provocato la malattia si presentavano infatti direttamente sotto gli occhi dell’anatomo-patologo e gli mostravano come veramente stavano le cose. In una parola, l’anatomo-patologo aveva accesso diretto alla realtà e poteva quindi evitare di perdersi in congetture, come invece erano obbligati a fare i clinici. Il discorso dell’anatomico, quindi, era un discorso vero per- Recensione ché basato su un’evidenza osservativa, che non poteva ragionevolmente essere messa in dubbio. “Affermeremo” scrive Morgagni nel 1722 “che non è possibile prospettare la natura e le cause di nessuna malattia senza le rispettive dissezioni dei cadaveri. (...) E per la ricerca delle vere cause che determinano i morbi (...) non v’è migliore via che sezionare pezzi patologici e cadaveri e osservare il comportamento degli umori.” [4]. E circa un secolo più tardi, l’anatomo-patologo di Wurzburg, Augusto Foerster, scrisse che nel XIX secolo “s’imparò a conoscere ciascun processo morboso in tutto il suo sviluppo nei singoli organi, e si concepì la natura del processo morboso generale dal suo lato materiale in tutta la sua estensione. L’anatomia patologica (...) ebbe lo scopo di studiare scientificamente la vita morbosa e il corpo da tutt’i lati.” [5]. Appare quindi chiaro il quadro concettuale della medicina del XVIII e del XIX secolo: come ha scritto un epistemologo contemporaneo, Massimo Baldini, per la massima parte dei medici del ‘700 e dell’‘800 “la natura è paragonabile a un libro aperto: lo scienziato deve solo aprire gli occhi e osservare senza pregiudizi quello che vi è scritto. L’osservazione pura ed incorrotta non può in alcun modo fargli commettere degli errori; l’uomo di scienza infatti cadrà in errore soltanto quando invece di osservare, teorizzerà.” [6]. Esisteva dunque una scienza – la Clinica – che congetturava sulla realtà, ed un’altra scienza – l’Anatomia Patologica – che descriveva la realtà così come essa era. In questo quadro era inevitabile che la seconda disciplina divenisse il tribunale della prima: l’anatomopatologo, avendo accesso diretto alla realtà patologica, poteva e doveva giudicare l’opera congetturale del clinico. Questo modello epistemologico ha cominciato ad incrinarsi e a mostrare i propri limiti nella seconda metà del XIX secolo, quando divenne evidente che l’osservazione passiva dei fenomeni morbosi – clinici o anatomici che fossero – non era in grado di risolvere molti problemi, i quali invece, potevano essere risolti soltanto con l’uso sistematico dell’esperimento. I limiti dell’anatomia patologica classica vennero esposti dallo stesso Rudolf Virchow in un celebre scritto del 1847 intitolato “Sui punti di vista nella medicina scientifica”: “Mi limito a concludere” scrisse il patologo di Berlino “che l’anatomia patologica è una scienza anatomica e non fisiologica, e che essa può giudicare con ogni competenza di questioni puramente anatomiche ma non fisiologiche. (....) L’anatomia patologica com’è stata elaborata finora, può solo diventare un rinnovato panegirico dell’ipotesi. Come decidere con certezza quale di due oggetti giustapposti è causa e quale effetto, e se in generale l’uno dei due sia causa o se invece entrambi non siano coeffetti di una stessa terza causa; o infine se ogni oggetto non sia l’effetto di una causa diversa da quella dell’altro oggetto? La decisione finale su questi problemi appartiene a una scienza, che attualmente è solo agli inizi (...) 597 intendo dire la fisiologia patologica.” [7]. Queste parole del patologo tedesco fanno intravvedere una concezione epistemologica più articolata e complessa di quella precedente: l’anatomia patologica non è più soltanto il regno dei fatti e delle osservazioni, ma dà origine e comprende al proprio interno anche le ipotesi. A queste ipotesi a volte essa non è capace di rispondere, mentre una risposta alle domande che essa solleva può venire dalla sperimentazione. Le idee di Virchow sono state poi riprese e sviluppate da Claude Bernard, il fondatore della medicina sperimentale. Per il fisiologo francese “la medicina osservativa, in quanto scienza naturale, ammetteva una scienza delle malattie, cioè delle entità morbose analoghe alle specie degli zoologi”, tuttavia, la vera scienza non poteva accettare le classificazioni delle malattie come entità distinte e si proponeva invece il fine ultimo della scienza, cioè la spiegazione dei meccanismi patologici. Ma una spiegazione adeguata dei meccanismi morbosi non poteva essere ottenuta soltanto osservando passivamente la natura, come fanno il clinico e l’anatomico, ma solo intervenendo attivamente sui fenomeni e perciò sperimentando. Alla luce delle riflessioni metodologiche di Bernard, nella seconda metà dell’‘800, la natura non era più soltanto un libro aperto, nel quale si poteva leggere ciò che vi era scritto, ma diventava un testo complesso che poteva essere interpretato secondo diverse prospettive, un testo che doveva essere interrogato e che poteva rispondere in modi diversi a seconda delle domande che gli venivano poste. Questo nuovo rapporto che veniva a crearsi fra il ricercatore e il suo oggetto di indagine era stato già intuito da Kant, il quale aveva compreso come, nella ricerca empirica, lo scienziato non è soltanto un passivo ricevitore di informazioni, come ritenevano Bacone o Magendie, ma rappresenta un soggetto che interviene attivamente nella ricerca indirizzandola verso l’una o l’altra direzione. “Quando Galilei” è scritto nella Prefazione alla edizione del 1787 della ‘Critica della Ragion pura’ “fece rotolare le sue sfere su un piano inclinato, con un peso da lui stesso scelto, e Torricelli fece sopportare all’aria un peso, che egli stesso sapeva di già uguale a quello di una colonna d’acqua conosciuta (...) fu una rivelazione luminosa per tutti gli investigatori della natura. Essi compresero che la ragione vede solo ciò che lei stessa produce secondo il proprio disegno, e che (...) deve essa entrare innanzi e costringere la natura a rispondere alle sue domande; e non lasciarsi guidare da lei, per dir così, colle redini; perché altrimenti le nostre osservazioni fatte a caso e senza un disegno prestabilito non metterebbero capo ad una legge necessaria, che pure la ragione cerca e di cui ha bisogno.” [8]. Questi mutamenti metodologici portarono, nel corso del XX secolo, a un cambiamento profondo anche nel modo di concepire la conoscenza scientifica. Mentre fino alla prima metà dell’‘800 la verità scientifica appariva sol- 598 tanto come il prodotto delle osservazioni obiettive e veniva considerata come una conquista definitiva dello spirito umano, nella seconda metà dell’‘800 ha cominciato a farsi strada l’idea che la verità scientifica non costituisce affatto un’acquisizione definitiva, ma consiste invece in una conoscenza incerta, approssimata e perennemente rivedibile che è il risultato di una discussione razionale fra diversi interlocutori. “La conoscenza del rapporto assoluto e necessario delle cose è sempre più o meno approssimata” ha scritto Claude Bernard “e le nostre teorie sono ben lontane dal rappresentare verità immutabili.”. Esse “rappresentano solo delle verità parziali e provvisorie di cui ci si serve per procedere nella ricerca” (...), verità che “riproducono lo stato attuale delle nostre conoscenze” che “dovranno cambiare necessariamente col progredire della scienza” [9]. Scienza, verità ed errore nell’epistemologia contemporanea Nel corso della seconda metà del XX, secolo l’epistemologia ha definitivamente abbandonato l’idea che le osservazioni scientifiche siano realmente neutrali ed obiettive, cioè libere da pre-concetti e da pre-giudizi, e ha riconosciuto come le osservazioni siano sempre raccolte e registrate in relazione alle ipotesi e alle congetture che lo scienziato avanza per spiegare la realtà naturale. “L’osservazione «pura», cioè l’osservazione priva di una componente teorica” ha affermato Karl Popper “non esiste. Tutte le osservazioni sono osservazioni di fatti compiute alla luce di questa o di quella teoria. Infatti, l’idea che noi possiamo, volendolo, e in via preparatoria rispetto alla scoperta scientifica, purgare la nostra mente dai pregiudizi – cioè da idee o teorie preconcette – è ingenua e sbagliata” [10]. “È un grossolano errore” ha aggiunto l’epistemologo Dario Antiseri “pensare che la scienza parta dall’osservazione, si risolva in asserzioni che descrivono osservazioni e che si sviluppi aumentando il volume delle asserzioni che descrivono osservazioni. E dietro a questa idea c’é la teoria sbagliata, di baconiana memoria, secondo cui la mente del ricercatore è una tabula rasa su cui verrebbe a riflettersi il gran Libro della Natura. (...). Ma l’osservazione non è mai «pura»; essa è sempre guidata da un qualche sospetto o da una qualche congettura o speranza (...). Senza ipotesi o aspettazioni non sapremmo cosa guadare, saremmo come pescatori senza rete.” [11]. Lo scienziato, pertanto, opera sempre con teorie, anche se spesso non ne è consapevole, e i fatti che egli pazientemente raccoglie sono sempre fatti raccolti alla luce delle conoscenze che pre-esistono nella sua mente e fatti interpretati alla luce di quelle conoscenze. Contrariamente a ciò che riteneva la concezione tradizionale della scienza, i fatti non sono mai indifferenti rispetto alla conoscenze vigenti in un certo momento storico, Recensione ma militano sempre a favore o in contrasto dell’una o dell’altra conoscenza. Ovvero, come Charles Darwin scriveva ad un amico: “È ben strano che non si veda come ogni osservazione debba essere fatta pro o contro un qualche punto di vista.” [12]. Da tutto ciò che si è detto fin qui appare chiaramente che alla luce dell’epistemologia del XX secolo, la scienza assume un aspetto molto diverso da quello tradizionale. Mentre nella concezione classica la scienza costituisce un sapere cumulativo, nel quale le nuove acquisizioni si aggiungono a quelle precedenti di un processo di crescita continua, secondo il motto di Berengario da Carpi: “scientia augit per additionem partis ad partem”, nella concezione attuale il progresso scientifico non procede soltanto per accumulazione, ma si realizza soprattutto attraverso la lotta e la selezione di teorie contrastanti. Come aveva riconosciuto già nel 1865 lo stesso Claude Bernard: “Le scienze sperimentali, nelle quali le verità sono relative, possono progredire solo per capovolgimenti delle antiche verità o per elaborazione di esse in forme scientifiche nuove.”. Secondo la descrizione datane da Karl Popper, la ricerca scientifica non nasce affatto dalle osservazioni neutrali, ma prende sempre origine da una situazione problematica: la comparsa di una febbre o la morte di un individuo, la causa di una malattia infettiva sconosciuta che colpisce una popolazione, la flogosi entro le insule di Langerhans. Per dare una spiegazione a questa situazione problematica lo scienziato avanza una serie di ipotesi; successivamente, deduce da queste ipotesi una serie di conseguenze osservabili e, infine, cerca di osservare se quelle conseguenze si verificano davvero nella realtà empirica. Se le conseguenze previste da una delle ipotesi avanzate, si riscontra nella realtà, allora quella ipotesi viene considerata corroborata e può essere ritenuta un’ipotesi verosimile. Se invece le conseguenze osservabili, previste da un’ipotesi, non vengono riscontrate nella realtà, allora quella ipotesi viene considerata falsificata e viene respinta 1. Come si vede anche da questa breve descrizione, la concezione ipotetico-deduttivista non è basata sull’idea della verifica di una teoria, quanto su quella della sua falsificazione. Infatti, per ragioni logiche, non è in alcun modo possibile fornire una conferma incontrovertibile di un’ipotesi scientifica e pertanto alla mente umana resta definitivamente preclusa la certezza di possedere la verità. Così, lo scienziato non può mai dimostrare che le sue teorie sono vere, ma può solo dimostrare con certezza che le teorie che in un certo momento riteneva vere, sono in realtà errate. A questo proposito, l’immunologo Peter Medawar ha scritto con molta chiarezza: “Se un’ipotesi conduce ad aspettative che non vengono confermate, deve necessariamente esservi qualcosa di sbagliato. Tuttavia, se le nostre aspettative vengono confermate, ciò non vuole assolutamente dire che le ipotesi che ad esse ci hanno condotto siano vere, in quanto anche Recensione 599 ipotesi false possono condurre a conclusioni vere.” [13]. Lo sviluppo della scienza può essere rappresentato, secondo Popper, per mezzo dello schema seguente: P1 → TT → EE → P2 il quale mostra come la scienza inizi sempre dalla consapevolezza di un problema e si sviluppi, poi, dapprima attraverso la proposta di un’ipotesi esplicativa e quindi attraverso l’eliminazione degli errori contenuti nell’ipotesi avanzata, per giungere infine ad un secondo problema [14]. “Tutta la mia concezione del metodo scientifico” ha scritto Karl Popper “si può riassumere dicendo che esso consiste di questi tre passi: (1) inciampiamo in qualche problema; (2) tentiamo di risolverlo, proponendo qualche nuova teoria; (3) impariamo dai nostri sbagli, specialmente da quelli che ci sono resi presenti dalla discussione critica dei nostri tentativi di soluzione;”. “O per dirla in tre parole: problemi-teorie-critiche.” Poiché, come si è visto, la scienza non costituisce una conoscenza completa ed esaustiva della realtà, le conoscenze che vengono ritenute vere in un certo momento storico, sono inevitabilmente costituite da un misto di verità e di errori. Il progresso scientifico consiste quindi in un processo nel quale la discussione critica sulle teorie vigenti e i controlli sperimentali mettono via via in luce ed eliminano gli errori contenuti nelle conoscenze che venivano ritenute vere. Quando una teoria, T1, è confutata dall’esperienza e viene quindi riconosciuta come errata, essa viene sostituita da una teoria migliore, cioè dalla teoria T2, che è compatibile con tutti i dati osservativi che erano compatibili con la teoria T1, e che è compatibile anche con le osservazioni che avevano confutato la teoria T1 (Figura 1). Lo schema del progresso scientifico è illustrato dalla Figura 2, la quale mostra il riconoscimento di un errore presente nella teoria T1 e l’eliminazione dell’errore ottenuta attraverso la proposta di una seconda teoria T2, migliore della precedente. Questo schema permette di comprendere bene il ruolo fondamentale giocato dall’errore nel progresso scientifico. Mentre nell’epistemologia tradizionale, la verità era un ideale raggiungibile e l’errore rappresentava una deviazione dalla retta via, che conduceva alla conoscenza della realtà, per l’epistemologia contemporanea, la verità costituisce soltanto un ideale regolativo e il riconoscimento dell’errore rappresenta una tappa inevitabile del progredire della conoscenza. “L’errore” ha affermato Gaston Bachelard “è una delle fasi della dialettica che bisogna necessariamente attraversare.” [15]. E quindi, “Occorre errare per riuscire (...). La verità non ha il suo senso pieno che al termine di una polemica.” [16]. E Massimo Baldini ha soggiunto: “In effetti, il nostro sapere è una rettificazione progressiva di teorie sempre migliori, ma mai perfette, una costruzione di teorie che dobbiamo innalzare facendole poggiare sugli errori commessi.” [17]. Fig. 1 Schema del progresso da una teoria scientifica ad una teoria successiva (Da G. Holton modificata). Fase A: la teoria (T1) si mostra in accordo con tutti i fatti previsti. Fase B: scoperta di un errore. Uno dei fatti previsti dalla teoria non viene osservato e la teoria viene falsificata. Fase C: viene proposta una nuova teoria (T2) che è in accordo con tutti i fatti osservati. E rappresenta il piano delle osservazioni empiriche possibili. I rappresenta il salto speculativo che consente di formulare l’ipotesi a partire da una (o più) osservazioni effettuate. T1 rappresenta l’ipotesi formulata. D sono i fenomeni che possono venire dedotti dall’ipotesi. O sono i fenomeni che vengono realmente osservati. Errori e sbagli nella scienza Tutto ciò che si è detto fin qui intorno all’errore concerne la scienza in generale, intesa soprattutto come attività di ricerca volta all’acquisizione di nuove conoscenze. Tuttavia, ciò che chiamiamo scienza comprende anche attività diverse dalla ricerca speculativa, attività nelle quali lo scienziato applica le conoscenze teoriche acquisite per perseguire fini che vengono ritenuti utili. È appunto questo il caso della medicina in generale e dell’anatomia patologica in particolare, le quali, non sono soltanto volte allo studio teorico delle varie forme morbose, ma perseguono anche fini applicativi, come la diagnosi clinica o l’accertamento autoptico della causa di morte di un singolo soggetto. Appare evidente che, in questi casi, il problema dell’errore assume aspetti diversi da quelli finora considerati e deve essere affrontato impiegando altri concetti [18-22]. Negli ultimi anni gli epistemologi hanno evidenziato nell’ambito di ciò che viene comunemente chiamato errore, due aspetti ben distinti, che hanno rispettivamente indicato con i termini di errore e sbaglio. [23-26] Mentre l’errore viene compiuto dal ricercatore che affronta un nuovo problema e che, per trovare una soluzione adeguata, propone una nuova ipotesi, lo sbaglio viene compiuto dallo scienziato che affronta un problema che è stato già risolto in precedenza e che ora gli si ripresenta sotto un aspetto diverso da quello noto. Questa distinzione appare fondamentale perché, mentre l’errore, essendo una conseguenza della limitatezza del nostro sapere e un elemento ineliminabile della nostra conoscenza, costituisce un fattore di progresso della ricerca, lo sbaglio possiede invece una connotazione radicalmente negativa. Chi cerca di stabilire una nuova legge o propone un 600 nuovo concetto o intravvede una relazione insospettata tra fenomeni diversi, può evidentemente errare, ma contribuisce comunque al progresso della scienza perché quelle idee, anche se verranno dimostrate non-vere da studi successivi, avranno comunque posto problemi nuovi e stimolato nuove ricerche. Chi, invece, utilizza conoscenze consolidate e applica regole codificate per chiarire, ad esempio, un problema diagnostico o per decidere una terapia, può mancare il proprio obiettivo per molte ragioni diverse: ad esempio perché non ha utilizzato le nozioni più adatte al suo caso, o perché non ha impiegato tutte le nozioni e/o le tecniche disponibili, o perché ha fatto ricorso a una regola inappropriata, e così via. In ogni caso, mentre l’errore è in qualche misura inevitabile, lo sbaglio, in linea di principio, dovrebbe poter essere evitato2. In Clinica e in Anatomia Patologica si possono compiere sia errori che sbagli e sarà, volta per volta, necessario analizzare le singole circostanze per constatare se il ricercatore avrà mancato l’obiettivo per l’una o per l’altra ragione. Lo status dell’Anatomia Patologica L’Anatomia Patologica si presenta come una disciplina complessa, caratterizzata da uno status epistemologico particolare. Da una parte essa è una disciplina sistematica, che si propone di descrivere e di classificare le modificazioni morfologiche – macroscopiche e/o microscopiche – presenti in diverse situazioni patologiche specifiche. Così, ad esempio, nei manuali di Anatomia Patologica, troviamo la descrizione dei solchi accessori profondi del fegato, o quella delle cisti del pancreas o del tronco arterioso comune persistente [27]. Sotto questo aspetto, l’Anatomia Patologica appare relativamente indipendente dalle altre discipline mediche perché fornisce elementi osservativi – si pensi alle descrizioni autoptiche di fenomeni strani e non previsti – che poi altre discipline interpreteranno in vario modo. Da un altro punto di vista, l’Anatomia Patologica concorre con tutte le altre scienze biomediche a comporre la conoscenza globale delle varie forme morbose: essa descrive un gran numero di fenomeni morfologici che, integrati con tutte le altre informazioni che provengono dalla genetica, dalla biochimica, dalla fisiologia, dalla microbiologia e dalla clinica contribuiscono a costruire quel sistema di conoscenze che costituisce il modello ideale di una specifica malattia. Per esemplificare questo aspetto, basterà pensare a come le alterazioni istologiche delle insule di Langerhans abbiano contribuito alla conoscenza globale del diabete di tipo 1 o a come i quadri patologici descritti nella sindrome da immunodeficienza acquisita – dalla deplezione dei linfociti T helper (CD4+) alle lesioni neurologiche, fino allo sviluppo del sarcoma di Kaposi – abbiano contribuito a dare una sistematizzazione globale razionale a questa nuova malattia [28]. Infine, l’Anatomia Patologica possiede un terzo aspetto, Recensione il quale la pone a stretto contatto con la pratica della medicina. Essa, infatti, analizza le alterazioni morfologiche presenti nell’uomo vivente allo scopo di diagnosticarne la malattia e studia le lesioni presenti in uno specifico cadavere allo scopo di chiarirne la causa di morte e di trovare le ragioni dello specifico decorso che la malattia ha avuto in quell’individuo. A questi tre differenti aspetti dell’Anatomia Patologica corrispondono varie possibilità di compiere errori o di commettere sbagli. Mentre nella prima funzione, eminentemente descrittiva e scarsamente interpretativa, l’anatomia patologica può compiere soprattutto sbagli, nella sua seconda funzione, eminentemente teorica, essa andrà incontro soprattutto ad errori. Infine, nella sua terza funzione – quella anatomo-clinica -, essa può andare incontro sia ad errori che a sbagli. Anatomia Patologica, Clinica ed errori Secondo la concezione classica della scienza, per la quale i fatti e le teorie sono entità nettamente separate e distinte, l’Anatomia Patologica costituisce il regno dei fatti, cioè il regno della realtà patologica autentica, mentre la Clinica può essere paragonata alla caverna di Platone, cioè a un luogo in cui si possono soltanto percepire le ombre delle cose reali e stando dentro il quale si può soltanto immaginare quale sia la realtà. Nell’Anatomia Patologica – si pensava e si pensa spesso tuttora – si toccano con mano le lesioni colliquative o le concrezioni calcaree, si vedono le stenosi delle arterie coronarie e si osservano le cellule che costituivano gli infiltrati flogistici, mentre nella clinica si può al massimo udire un suono percussorio iperfonetico, o ascoltare un soffio, oppure si ottiene una mappa scintigrafica o un’immagine della densità dei vari tessuti e degli organi. Quindi, fatti patologici reali da una parte, fenomeni indiretti, interpretazioni e ipotesi dall’altra. O, in termini più filosofici, descrizioni veritiere da un lato, congetture, spesso sbagliate, dall’altro. Per molti anni l’Anatomia Patologica si è quindi presentata come il tribunale della clinica e l’anatomo-patologo come il giudice che metteva in luce gli sbagli del clinico e lo informava su questi affinché in futuro non dovesse ripeterli. In realtà, questo modo di concepire i rapporti fra Anatomia Patologica e clinica, fra verità ed errore in medicina, è stato messo in discussione dalla epistemologia contemporanea e oggi deve essere completamente ripensato. In effetti, i rapporti fra Anatomia Patologica e scienze cliniche sono stati resi più complessi da due idee che si sono andate affermando negli ultimi decenni: l’idea che i termini osservativi, come citoplasma, ipertrofia cardiaca o atrofia della tiroide, e quelli teorici, come cellula, ghiandola endocrina o apudoma, non siano più così nettamente distinti e l’idea che la scienza non sia un sapere certamente vero, nel quale le osservazioni possono dare una conferma definitiva delle ipotesi. Fino a Recensione che le osservazioni anatomiche venivano considerate puramente obiettive e capaci di dare una rappresentazione esatta della realtà, l’antica concezione poteva essere mantenuta, ma quando tutte le osservazioni e tutti i concetti scientifici – cellula, flogosi, gene, scompenso, necrosi, sistema cromaffine – vengono considerati teorici [29-31], cioè dipendenti da un certo numero di assunti teorici precedenti, diviene impossibile conservare la distinzione tradizionale fra osservazioni anatomiche che corrispondono alla realtà e osservazioni cliniche che interpretano la realtà e che quindi sono soggette al dubbio. D’altra parte, come è sotto gli occhi di tutti, le tecniche sempre più sofisticate impiegate correntemente dai patologi – bioptiche, istochimiche, elettronmicroscopiche, immunologiche, e così via – non riflettono la realtà quale essa è più di quanto non facciano una risonanza magnetica nucleare o il dosaggio radioimmunologico di un ormone. Questo stato di cose rende sempre più evidente che il fatto scientifico non si identifica affatto con il fatto bruto dell’esperienza comune, ma rappresenta un costrutto mentale che lo scienziato elabora nella sua mente scegliendo un fatto bruto fra tanti, descrivendolo nel suo speciale linguaggio e collocandolo dentro la rete teorica delle sue conoscenze [32]. Errori e sbagli in Patologia e in Clinica L’Anatomia Patologica, considerata nel suo insieme, persegue almeno quattro fini distinti. Essa, infatti: 1. Studia sistematicamente le alterazioni morfologiche degli organismi malati riuniti in classi, allo scopo di descrivere le lesioni tipiche delle varie forme morbose e di dare una spiegazione alla fenomenologia clinica di queste malattie. 2. Descrive le alterazioni presenti nei tessuti e/o nelle cellule di un certo paziente, allo scopo di classificare quelle alterazioni in qualcuno dei quadri istopatologici codificati. 3. Osserva e descrive le lesioni presenti in un singolo cadavere, allo scopo di ricostruire la sequenza patogenetica che ha portato a morte un certo individuo. 4. Confronta, nel corso del riesame epicritico di un singolo caso, la ricostruzione degli eventi morbosi effettuata dall’anatomo-patologo con la ricostruzione che è stata fatta dal clinico. Il primo obiettivo contribuisce alla conoscenza globale delle varie malattie e non si differenzia da quello delle altre discipline biomediche, come la biochimica o la fisiopatologia. Considerata sotto questo aspetto, l’Anatomia Patologica va incontro ad errori che non sono diversi da quelli ai quali va incontro ogni altra scienza speculativa. E, come abbiamo visto, anche in questa disciplina la presenza e l’eliminazione degli errori rappresentano un elemento propulsivo della massima importanza. Il secondo obiettivo dell’attività del patologo viene perseguito effettuando quelle indagini istologiche o citologiche, 601 che vengono condotte su materiale prelevato da un soggetto vivente mediante biopsia o aspirazione con ago. Da questo punto di vista l’attività del patologo non è diversa da quella del clinico e, per analizzarla, sarà necessario ricorrere ai princìpi della metodologia clinica. A questo punto è opportuno ricordare che, sul piano metodologico, l’interpretazione di un prelievo bioptico o di un ago-aspirato, effettuata dall’anatomopatologo – ad esempio, il referto di un’agobiopsia tiroidea in un paziente in cui si sospetta una tiroidite di Hashimoto – non può essere mai considerata l’espressione della malattia in sé, ma rappresenta soltanto un segno della malattia dalla quale può essere affetto il paziente. Il giudizio diagnostico finale deve essere sempre formulato integrando il referto morfologico con tutti gli altri fenomeni presentati dal malato. Valutando ora le relazioni esistenti fra il risultato di un test clinico e l’esistenza di una certa malattia, è importante ricordare che un test ideale, cioè un test che indichi con certezza assoluta l’esistenza di una certa malattia, dovrebbe fornire un risultato che stia in corrispondenza biunivoca con la presenza o l’assenza di quella malattia. In altre parole, il test positivo dovrebbe essere associato sempre e solo alla presenza di una specifica malattia, mentre il test negativo dovrebbe essere sempre e solo associato all’assenza di quella malattia. Sfortunatamente, nella pratica clinica, questa situazione non si realizza praticamente mai e il risultato di ogni indagine diagnostica deve essere valutato in base a considerazioni probabilistiche, fondate sul teorema di Bayes. Infatti, come è ben noto, un test positivo si presenta non solo nei soggetti malati di una certa malattia, ma anche in un certo numero di soggetti sani e nei malati di altre malattie, e un test negativo per una malattia si presenta non solo nei soggetti sani, ma anche in un certo numero di soggetti affetti da quella malattia. Questa situazione si può schematizzare in una tabella logico-diagnostica 2 × 2, come illustrato nella prossima figura. Mentre i veri positivi (VP) e i veri negativi (VN) forniscono informazioni vere, i falsi positivi (FP) e i falsi negativi (FN) corrispondono agli sbagli, che ogni valutazione di un’indagine clinica trascina inevitabilmente con sé. Ciò vale anche per le indagini morfologiche, poiché anch’esse sono soggette, come qualunque altra indagine, ad una possibilità di errore (sbagli interpretativi, sbagli da difettosa esecuzione dell’indagine, sbagli dovuti al caso, etc.). Fig. 2 Tabella logico-diagnostica. 602 Poiché un test può dar luogo a due tipi di sbagli, i falsi positivi e i falsi negativi, sono stati elaborati vari indici che valutano la tendenza di un test a dare origine all’uno o all’altro dei due tipi di sbagli. La sensibilità di un test è data dal rapporto fra VP e malati totali (MT) ed esprime la capacità di quel test di ridurre gli sbagli falsi negativi (Fig. 3). La specificità di un test è data invece dal rapporto fra VN e sani totali (ST) ed esprime la sua capacità di ridurre gli sbagli falsi positivi (Fig. 4). Il valore predittivo del segno positivo è poi dato dal rapporto fra veri positivi VP e positivi totali (PT) ed è quindi tanto maggiore, quanto minore è il numero dei falsi positivi. Il valore predittivo del segno negativo è invece dato dal rapporto fra veri negativi (VN) e negativi totali (NT) ed è tanto maggiore, quanto minori sono gli sbagli falsi negativi. I valori predittivi, considerati fin qui, corrispondono alle probabilità a posteriori e possono venire calcolati sulla base del teorema di Bayes [33-34]. Infine, un altro indice molto usato è il cosiddetto rapporto di verosimiglianza, il quale è dato dal rapporto fra la sensibilità e l’inverso della specificità (sensibilità/1-specificità) (Fig. 5). Fig. 3 Estrapolazione dell’indice di sensibilità di un test da una tabella logico-diagnostica. Fig. 4 Estrapolazione dell’indice di specificità di un test da una tabella logico-diagnostica. Recensione Fig. 5 Estrapolazione del valore predittivo del segno positivo e del segno negativo da tabelle logico-diagnostiche. Tutti questi rapporti riguardano la capacità di una singola indagine clinica di indicare la presenza o l’assenza di una specifica malattia. Essi, pertanto, fanno parte della cosiddetta diagnostica nosografica, che è strettamente legata a valutazioni probabilistiche. La diagnostica bayesiana è di grande utilità nella pratica clinica corrente, tuttavia, mostra come ogni valutazione medica, proprio perché legata a valutazioni probabilistiche, sia inevitabilmente legata alla possibilità di sbagliare [21]. Finora abbiamo considerato un obiettivo importante della pratica medica quotidiana, quale è la diagnosi di malattia, tuttavia un obiettivo ancora più importante (e certamente più difficile da raggiungere) è costituito dalla spiegazione dei fenomeni patologici che si presentano nel singolo malato. Questo obiettivo è illustrato dagli ultimi due punti, i quali costituiscono i fini fondamentali sul piano scientifico dell’Anatomia Clinica. Infatti, come ha scritto William Boyd: “Il vero obiettivo della patologia non è semplicemente quello di descrivere delle lesioni e così di aiutare a porre una cosiddetta diagnosi, (...), ma piuttosto quello di descrivere e spiegare il processo morboso” [35]. Qui il patologo si propone, fondandosi su una serie più o meno numerosa di osservazioni effettuate sul cadavere, di ricostruire la sequenza dei vari fenomeni morbosi che si sono succeduti in vita in un certo paziente. Appare evidente che questa attività del patologo è molto simile all’attività interpretativa fisiopatologica del clinico e, come quest’ultima, è gravata sia dalla possibilità di commettere errori che dalla possibilità di commettere sbagli. Quando il patologo interpreta le proprie osservazioni macro o microscopiche – un infiltrato leucemico, un’arteriosclerosi generalizzata, una iperplasia diffusa delle insule di Langerhans – egli non può che fare ricorso ai concetti e alle conoscenze universalmente accettate in quel momento. Recensione Tuttavia, poiché le nostre conoscenze scientifiche sono sempre costituite da un misto di verità e di errori, l’anatomopatologo, analogamente al clinico, anche quando interpreta in modo corretto le proprie osservazioni non può non andare incontro a quegli inevitabili errori ai quali la provvisorietà delle sue conoscenze lo espone. La verità clinica è, infatti, sempre legata alla validità di quei costrutti mentali che sono le varie malattie, i quali non rimangono costanti nel tempo, ma cambiano a volte anche radicalmente con il mutare delle varie conoscenze biomediche. Pertanto, una diagnosi, che è vera oggi, può non essere più vera domani, perché la malattia a cui fa riferimento non esiste più, oppure è stata suddivisa in più forme morbose, oppure ha cambiato natura [36]. Tutto ciò mette in luce i possibili errori scientifici, ma accanto a questi si devono poi considerare gli sbagli umani. Fra questi, il caso più semplice si verifica quando l’esame autoptico rileva un fenomeno che l’indagine clinica non aveva saputo, o potuto, o voluto mettere in luce. In questi casi, la mancata scoperta di un fenomeno patologico può essere dovuta ad una reale negligenza del clinico, ma può anche essere dovuta ad una particolare valutazione della situazione del malato. Immaginiamo, ad esempio, che in un soggetto anziano, cateterizzato e microematurico, diabetico, pancreatitico cronico, affetto da una demenza senile arteriosclerotica e da una sindrome da allettamento, il patologo osservi al polo di un rene una massa biancastra, che infiltra la vena renale. È evidente che, in questo caso, l’osservazione patologica porta ad una conclusione diagnostica in parte diversa da quella del clinico il quale, date le condizioni generali del paziente, aveva ritenuto inutile l’esecuzione di una TAC, che avrebbe certamente mostrato l’esistenza della massa renale. Il quarto obiettivo riguarda quei casi, nei quali vengono confrontate due interpretazioni fisiopatologiche diverse del medesimo caso clinico. Infatti, può accadere, e di fatto accade con una certa frequenza, che la conclusione diagnostica dell’anatomopatologo – intesa non come la pura e semplice indicazione della causa di morte, ma come l’interpretazione globale degli eventi morbosi che si sono succeduti in uno specifico caso – diverga o sia addirittura opposta alla conclusione del clinico. Per esemplificare, immaginiamo che un soggetto diabetico, precedentemente infartuato, allettato per un incidente stradale subìto alcuni giorni prima, sia morto nel giro di pochi minuti dopo l’improvvisa comparsa di un violento dolore precordiale. In questo caso, il clinico potrà formulare la seguente diagnosi: “Recidiva di infarto acuto del miocardio in soggetto con arteriosclerosi polidistrettuale. Trauma stradale con frattura composta della tibia dx. e ferita infetta della gamba dx. con conseguente stato settico. Diabete mellito tipo 2 in fase di scompenso metabolico secondario alla sepsi”. L’anatomopatologo, dopo il riscontro autoptico, potrà emettere quest’altra diagnosi: “Embolia polmonare recidivante in soggetto con arteriosclerosi polidistrettuale. Trombosi venosa profonda secondaria a frattura composta della tibia dx. con ferita infetta della gamba dx. e conseguente stato settico. Diabete mellito in fase di scompenso”. 603 È evidente che, in casi come questo, il conflitto di opinioni non è riconducibile ad una interpretazione vera, che si confronta con una interpretazione sbagliata. Questa tesi era possibile quando si riteneva che l’Anatomia Patologica vedesse direttamente la realtà dei fenomeni morbosi e mostrasse quindi alla clinica quale era la realtà delle cose. Ma poiché nella scienza non vi sono sguardi privilegiati, i conflitti di opinione hanno sempre alla loro radice un conflitto teorico, e pertanto, per giudicare le differenti conclusioni del patologo e del clinico, sarà necessario analizzarne criticamente le rispettive argomentazioni. Nel nostro caso, ci troveremo di fronte ad una serie di domande: le due diagnosi sono ambedue vere, oppure possono essere ambedue false? Oppure, se una diagnosi è vera e una diagnosi è falsa, quale sarà quella vera? E quali saranno gli strumenti o gli argomenti che garantiranno la verità di una delle due diagnosi e la falsità dell’altra? In questo caso, patologo e clinico concordano entrambi sull’esistenza di una arteriosclerosi diffusa ed è verosimile che concordino anche nell’attribuire le alterazioni arteriose al diabete mellito. Un secondo punto di accordo è dato dalla frattura della tibia dx. e dalla ferita infetta che ha provocato la sepsi. Un terzo punto di probabile accordo è dato dal ruolo che il diabete mellito ha giocato nella insorgenza della sepsi. Il dissenso inizia invece sulla presenza di una trombosi venosa profonda alla gamba dx. trombosi che è stata osservata dal patologo e che non è stata invece rilevata (e probabilmente non ricercata) dal clinico. Il patologo poi ha constatato la presenza di un certo numero di microembolie polmonari ed ha concluso che una di queste è stata la causa del dolore precordiale improvviso del paziente e della sua morte. Nel suo complesso, l’interpretazione del decorso, data dall’anatomopatologo, può essere rappresentata come in Figura 6. Frattura della tibia+Ferita infetta della gamba dx Diabete mellito ↓ Immobità ↓ ↓ ↓ Stasi circolatoria Sepsi Arteriosclerosi diffusa ↓ ↓ Trombosi venosa profonda Scompenso diabetico ↓ Micro-embolie polmonari recidivanti ↓ Exitus Fig. 6 Interpretazione del decorso data dall’anatomo-patologo Il clinico, invece, che condivide l’esistenza del diabete dell’arteriosclerosi diffusa, della frattura, della ferita infetta e della sepsi, non possedeva informazioni intorno all’esistenza di una trombosi venosa profonda e ha interpretato il dolore precordiale del paziente come un dolore dovuto a una ischemia cardiaca acuta. Questa ipotesi gli è apparsa del tutto ragionevole in un soggetto diabetico con un’arteriosclerosi diffusa e gli è apparsa anche rafforzata dalla presenza di uno scompenso diabetico, il quale, come è noto, rende più probabile l’insorgenza di fenomeni ischemici cardiaci. Il cli- 604 nico ha eseguito un ECG e ha effettuato un dosaggio della troponina I, che hanno mostrato, rispettivamente, la presenza di una ‘lesione’ e una lieve elevazione di questa sostanza. L’interpretazione esplicativa del clinico, può quindi essere rappresentata come in Figura 7. Frattura+Ferita infetta della tibiadella gamba Dx Diabete mellito ↓ Sepsi ↓ ↓ Scompenso diabetico Arteriosclerosi diffusa ↓ Infarto acuto del miocardio ↓ Exitus Fig. 7 Interpretazione del decorso data dal clinico. Queste due diverse interpretazioni del medesimo caso clinico suggeriscono ora alcune riflessioni epistemologiche, che possono servire da conclusione per questa relazione. La prima considerazione è che in questo caso non ci si trova dinanzi al confronto fra una constatazione fattuale e una ipotesi diagnostica; qui, in realtà, si confrontano, e si scontrano, due interpretazioni esplicative di un evento morboso individuale complesso. Un certo numero di rilievi fattuali è comune ad ambedue le interpretazioni – la frattura, la ferita infetta, il diabete mellito, l’arteriosclerosi diffusa, il dolore precordiale – ma alcuni rilievi non sono comuni: la presenza della trombosi venosa profonda e la presenza di microembolie polmonari fanno parte del resoconto anatomico, mentre le alterazioni elettrocardiografiche fanno parte delle osservazioni effettuate dal clinico prima dell’exitus e l’aumento della Troponina I è pervenuto al medico solo dopo la morte del paziente. In queste circostanze concrete, ambedue le ipotesi esplicative potrebbero corrispondere alla realtà, ma ambedue le ipotesi potrebbero anche essere sbagliate. Le microembolie polmonari potrebbero, infatti, essere state la causa della morte, ma potrebbero anche essersi verificate e non aver provocato il decesso del paziente. E, parimenti, l’ischemia cardiaca e la lesione miocardica potrebbero essere sfociate in un infarto e aver provocato la morte del paziente, ma potrebbero anche non essere state responsabili del decesso. L’esistenza delle alterazioni patologiche attestate dalle osservazioni non fornisce di per sé la prova che quelle alterazioni abbiano provocato la morte del paziente: passare dalla constatazione delle alterazioni alla conclusione che quelle alterazioni abbiano giocato un ruolo causale nella morte del paziente costituisce un non sequitur. È evidente che nella situazione nella quale in questo caso sia l’anatomopatologo che il clinico si trovano, non è possibile concludere con qualche attendibilità in favore dell’una o dell’altra ipotesi esplicativa. Infatti, se sul piano logico una delle due interpretazioni diagnostiche potrebbe Recensione essere vera e l’altra sbagliata, potrebbe anche darsi il caso che fossero entrambe sbagliate: il paziente infatti potrebbe essere deceduto per una terza causa, come uno squilibrio elettrolitico dovuto allo scompenso metabolico. Questo caso mostra con chiarezza come, nelle circostanze reali, in cui vengono condotti sia gli studi clinici che i riscontri autoptici, i medici non possiedono quasi mai tutte le informazioni che sarebbero necessarie per ricostruire con certezza l’intera sequenza patologica che dal primo evento morboso conduce all’exitus. In altre parole, sia la ricostruzione del patologo che quella del clinico sono ricostruzioni congetturali nelle quali, sulla base di un certo numero di informazioni più o meno attendibili e più o meno significative, patologo e clinico tentano di ricostruire nella loro mente gli eventi che si sono succeduti nell’organismo del paziente. Come si vede, in medicina spesso non si tratta di mettere a confronto un’osservazione con una congettura, ma si tratta di mettere a confronto due congetture plausibili e di discutere razionalmente per appurare quale delle due congetture sia più plausibile dell’altra. Mentre in alcuni casi questo obiettivo è facilmente raggiungibile, in altri, esso si rivela particolarmente difficile perché gli elementi fattuali, su cui le interpretazioni diagnostiche del patologo e quelle del clinico vengono fondate, non sono i medesimi e non vi è quindi possibilità di giungere ad una interpretazione condivisa. Come ha ricordato Massimo Baldini, ne ‘Il Nome della Rosa’ il giovane Adso chiede al suo Maestro, Guglielmo di Baskerville, se sia vicino o lontano dalla soluzione dei misteriosi casi accaduti nell’abbazia: “Ci sono vicinissimo” disse Guglielmo “ma non so a quale”. “Quindi non avete una sola risposta alle vostre domande?”. “Adso, se l’avessi insegnerei teologia a Parigi”. “A Parigi hanno sempre la risposta vera?”. “Mai” disse Gugliemo “ma sono molto sicuri dei loro errori” [37]. Note 1. È evidente che, per ragioni di spazio, questa esposizione dell’attuale metodologia della scienza è estremamente semplificata. Chi volesse approfondire tale questione può trovare informazioni più ampie ed approfondite alle voci bibliografiche n. 6, 10, 11, 13, 14, 26, 29, 30, 31, 32, 34, 36. 2. Questa affermazione va presa in senso molto limitato. Infatti, in certe circostanze anche lo sbaglio non può essere evitato, mentre, in altre, può essere conveniente correre il rischio di sbagliare. Bibliografia 1. Favaro A. (1964) Galileo Galilei. G. Barbéra Editore, Firenze 2. Fantini B (2000) La medicina e l’errore. Nuova Civiltà delle Macchine 2:79-111 3. Zimmermann JJ Della esperienza nella medicina. Ed. Schieppatti, Truffi e Fusi, Milano 4. Morgagni Joannis (1722) Baptistae Nova Institutionum Medicarum Idea. Patavii Recensione 5. Foerster A (1887) Manuale di Anatomia Patologica. G. Regina Editore, Napoli 6. Baldini M (1975) Epistemologia contemporanea e clinica Medica. Città di Vita, Firenze 7. Virchow R (1847) Uber die Standpunkte in der wissenschaftlichen Medicin. Archiv fur pathologische Anatomie und Physiologie und fur klinische Medicin 1:3-19 8. Kant I (1994) Critica della ragion pura. Editrice La Scuola, Brescia 9. Bernard C (1994) Introduzione allo studio della medicina sperimentale. Piccin, Padova 10. Popper KR (1969) Problems, Aims, Responsabilities of Science Federations Proceedings 1963; 22:961-972 In: Scienza e filosofia. Problemi e scopi della scienza. Einaudi, Torino 11. Antiseri D (1977) L’interdisciplinarità. Un punto di vista epistemologico. In: Il metodo interdisciplinare nella scuola, nel lavoro, nella politica. Editrice Liviana, Padova 12. Darwin F, Seward AC (1977) More Letters of Charles Darwin. London 1903. In: D. Antiseri (ed.) Epistemologia e didattica delle scienze. Armando, Roma 13. Medawar PB (1971) Induzione e intuizione nel pensiero scientifico. Armando, Roma 14. Popper KR (1975) Conoscenza oggettiva. Armando, Roma 15. Bachelard G (1973) Essai sur la connaissance approchée. Vrin, Parigi 16. Bachelard G (1970) Etudes. Vrin, Parigi 17. Baldini M (2000) Storia ed epistemologia dell’errore. Nuova Civiltà delle Macchine 2:8-20 18. Austoni M, Federspil G (1975) Princìpi di Metodologia Clinica. CEDAM, Padova 19. Poli E (1965) Metodologia medica. Princìpi di logica e pratica clinica. Rizzoli, Milano 20. Gallo V (1976) Metodi ed errori statistici in medicina e biologia. CEDAM, Padova 21. Federspil G, Vettor R (1998) Modi dell’errore clinico e responsabilità medica. MEDIC 6:219-224 22. Ransohoff DF, Feinstein AR (1978) Problems of spectrum and bias in evaluating the efficacy of diagnostic tests. N Engl J Med 299:926-930 23. Colozza GA (1899) L’immaginazione nella scienza. Appunti di psicologia e di pedagogia. Paravia, Torino 24. Baldini M (1993) Errori della medicina e sbagli dei medici. MEDIC 1:53-56 25. Baldini M (2000) Storia ed epistemologia dell’errore. Nuova Civiltà delle Macchine 2:8-20 26. Antiseri D (1996) Trattato di Metodologia delle scienze sociali. UTET-Libreria, Torino 27. Kaufman E (1967) Trattato di Anatomia Patologica speciale. Casa Editrice Francesco Vallardi, Milano 28. Rubin E, Farber JL (1999) Pathology. Lippincott-Raven, Philadelphia 29. Hempel CG (1968) Filosofia delle scienze naturali. Il Mulino, Bologna 30. Popper KR (1968) The Logic of Scientific Discovery. Harper and Row, New York 31. Carnap R (1971) I fondamenti filosofici della fisica. 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Foucar () Department of Pathology, Presbyterian Hospital, 1100 Central SE Albuquerque, New Mexico 87106, USA Introduction Development of the modern sciences is a story of the journey from methods that depended upon occult, divine, or private knowledge to methods that could be taught to and applied consistently by trained individuals. Science, of course, is much more than the application of complex systems of rules. Non-scientific systems such as law, religion and astrology also have complex rules. Science differs from these latter systems both because of method and because of how science approaches detection and response to error. Karl Popper’s insight was that science differs from pseudoscience largely because of science’s ability to respond to error [1]. If methods to identify error are slow, lack sensitivity and specificity, or are otherwise flawed, then science drifts back toward the occult, divine, or private knowledge of quackery. Sick sigma vs. six sigma The number of errors that occur in a process is bound on one side by error-free performance (zero errors), and on the other side by the number of steps in the process. Advanced, heavily automated companies such as Motorola and General Electric have attempted to achieve an error rate of 3.4 per million opportunities to make an error, and this so-called “six sigma” approach to reducing error has achieved the status of a widespread management fad [2]. In contrast, even highly automated heavy industries such as Caterpillar have reported rates of error much higher than “six sigma” [3]. The 606 rates of error in medicine seem to be even higher than those seen in modern heavy industry, and therefore can perhaps be appropriately referred to as “sick sigma” levels of performance. These high levels of error have convinced some powerful groups outside of medicine that those of us in medicine need outside pressure to achieve acceptable rates of error. For example, the Leapfrog project sponsored by General Motors and other major businesses is an attempt to force improvement in the practice of medicine, and politicians are also attempting to safeguard patients [4]. Recensione Predispositional Pathology testing Pathology is progressively moving into the complex area of predispositional testing. The patient is not clinically ill, but a biopsy shows a morphological variation from normal that confers increased risk for the development of clinically apparent malignancy. Predispositional testing is much more complex than pathology’s traditional task of documenting advanced disease states, if for no other reason than error is much more difficult to identify. Some patients at high risk will not develop disease, and some patients at low risk will develop disease. How important is medical error? The publication of the Institute of Medicine (IOM) report To Error is Human precipitated what an AMA News article referred to as a “furious interest” in medical error [5]. During the month of December 1999, there were an unprecedented 12 articles in the New York Times dealing with the topic of medical error. However, contemporary news stories such as the Firestone/Bridgestone tire failures or the President Clinton/Monica Lewinsky scandal received much more press coverage. A follow-up publication from the IOM entitled Crossing the Quality Chasm: A New Health System for the 21st Century again pointed out flaws in the medical delivery system [6]. This latter report received widespread coverage on the day of its release, but interest quickly faded. The public feels that the topic of medical error is very important, but is also beginning to understand that the problem is refractory to quick fixes. What type of activity is Pathology? In order to understand error in the performance of an activity, it is important to establish the nature of that activity. For example, if an error occurs within the confines of science, engineering, or technology, the error can often be detected by weighing, measuring, timing, or making other controlled observations. In contrast, error in law involves factors such as violation of codified rules, violation of rules based on precedent, or decisions overturned by a higher authority in a rigidly hierarchical system. Art differs from both science and law because artistic error is quite vague. If experts declare that the Virgin Mary crafted from elephant dung is great art, then many people will agree. In contrast, declaring the earth to be flat has no effect on the shape of the earth, and declaring that the US Supreme Court is wrong has no effect on the force of the court’s decision. Pathology is currently evolving from an observational science grounded on normative rules, art, and hierarchy. As pathology becomes more and more a basic science of medical tissue analysis, the nature of pathology error will also change. Classification of Pathology error Pathology error can be classified in many different ways. For example, in his studies of medical error, the British psychologist James Reason has concentrated on the psychology of error, classifying it according to various types of cognitive activities [7]. My contention is that understanding error in pathology requires that we start with a broader approach. If cognitive mistakes made by individual pathologists are admixed with errors made by the specialty of pathology, errors made by healthcare delivery systems, and operational errors of clerical and support staff, the result is chaos. A brief overview of different levels of errors follows: – Individual pathologist errors. If the task of the pathologist is to adhere to clearly enumerated norms of diagnostic behavior, errors by the practitioner are simply violations of these norms. When pathology has multiple norms to choose from, such as one might see when pathologists at one institution follow one set of rules and pathologists at another institution follow another, then the specialty is split into schools, much as artists could be either Cubists or Impressionists. When norms become less and less codified or when the individual pathologist acquires more and more autonomy, error becomes progressively more difficult to define. – Specialty of Pathology errors. If best practice applied by the practitioner is flawed, any resulting errors are the fault of the specialty, not the individual. An example would be a classification system promoted for general use even though there is abundant data that its categories cannot be identified with precision. Pathologists should perform autopsies on these failed systems to provide data that could be used to identify classification errors in their early treatable phases, before they metastasize throughout the specialty. – Healthcare system errors. Currently, in the USA, the healthcare system is designed for delivery of advanced technology at dispersed locations that are conveniently near to most patients and also provide revenue to local communities or to established hospitals. No one ever asked pathologists if this was the best way to deliver low Recensione error pathology services, and of course it isn’t. Another example of a feature of the system that promotes pathology error is misallocation of resources. For example, compare the resources available to evaluate the safety and effectiveness of a medication used to treat a disease with the resources available to pathology for assuring that the diagnostic category is precise and accurate. – Operational errors. When errors such as clerical mislabeling occur in a pathology setting, they are operational errors with pathology implications. When the same error occurs at a laundry, it has laundry implications. In general, keeping track of names and numbers is a generic requirement of any business, not a special problem for pathologists. However, the resources devoted to avoiding operational errors should be proportional to the consequences of those errors. Conclusions Some of the variation in pathology diagnoses has a large impact on patient management, suggesting that this variation should be wrung out of the system. This objective can be achieved in a setting where uniformly trained pathologists apply highly sensitive and specific diagnostic criteria. As the diagnostic criteria become less and less reliable, the individuality of the pathologist becomes progressively more important in the use of these criteria. In the worst-case scenario, the image on the slide becomes a Rorschach, telling us more about the pathologist than it tells us about the disease process. References 1. Woodward J, Goodstein D (1996) Conduct, misconduct, and the structure of science. Am Sci 84:479-490 2. Pande PS, Neuman RP, Cavanagh RR (2000) The Six Sigma Way. How GE, Motorola, And Other Top Companies are Honing Their Performance. McGraw-Hill, New York 3. Gordon P (2001) Business file column. Journal Star, Peoria, Ill. Knight-Ridder Tribune Business News. 23 January 2001 (http://www.wsj.com) 4. Martinez B (2001) Leapfrog aims to reduce errors, steer workers toward high-quality. The Asian Wall Street Journal. November 16 (http://www.wsj.com) 5. Prager LO (1999) Report unleashes furious interest in medical errors. American Medical News. 20 December 1999, p 1 6. Richardson WC, Berwick DM, Bisgard JC et al (2001) Crossing the quality chasm. A New Health System for the 21st Century. Institute of Medicine, National Academy Press. Washington, DC 7. Reason J (1990) Performance levels and error types. In: Human error. Cambridge University Press, Cambridge, pp 53-96 607 Errore e responsabilità professionale in Anatomia Patologica S. Fucci () Corte di Appello di Milano, Milano, Italia Nell’accertamento della responsabilità professionale in Anatomia Patologica, pur tenendo conto della specificità di questa disciplina, devono trovare applicazione i principi generali che la giurisprudenza della Corte di Cassazione ha dettato in tema di responsabilità medica. In base a questi principi, per affermare la responsabilità professionale, occorre verificare l’esistenza di un comportamento colposo del medico che ha prodotto un danno, ovvero una lesione al paziente. La responsabilità, dal punto di vista civile o penale, sussiste quindi solo se, in una determinata fattispecie, è possibile riscontrare l’esistenza di un comportamento colposo tenuto dal medico, di un danno subito dal paziente e del nesso di causalità tra questi due elementi della fattispecie. In mancanza di uno di questi elementi, non è possibile invece configurare una responsabilità per malpratica e il comportamento tenuto dal medico potrà eventualmente essere rilevato in sede di addebito disciplinare. Da quanto precede emerge chiaramente che, dal punto di vista giuridico, l’errore incolpevole è irrilevante anche se produttivo di un danno per il paziente, perché non è possibile muovere alcun addebito al professionista che ha agito, sotto ogni profilo, in modo diligente e corretto. La responsabilità del medico per i danni causati al paziente consegue, invece, alla violazione dei doveri inerenti l’attività professionale esercitata in concreto che, per sua natura, implica scrupolosa attenzione e adeguata preparazione professionale. La giurisprudenza ha ripetutamente affermato al riguardo che il medico, nell’adempimento della sua obbligazione relativa alla diagnosi, ovvero alla cura in senso lato del paziente, deve agire nel rispetto di tutte le regole e gli accorgimenti che, nel loro insieme, costituiscono la conoscenza della professione medica. Nel concetto di diligenza professionale la giurisprudenza fa rientrare anche il rispetto delle regole proprie dell’arte medica in generale e di quelle relative alla specifica branca specialistica esercitata dal singolo sanitario. Ciò significa che anche al patologo si richiede di agire con scrupolosa attenzione e adeguata preparazione professionale, attuando le regole tecniche proprie di questa specifica branca del sapere medico. Ne consegue che solo la violazione di queste regole potrà comportare la responsabilità professionale per imperizia del singolo operatore e, quindi, che il prelievo di un reperto biologico e il suo esame da parte del patologo può essere ritenuto sbagliato solo se l’operatore ha agito senza applicare le specifiche regole tecniche esistenti al riguardo. Pertanto, non è corretto valutare il comportamento del medico solo alla luce dell’esito 608 sbagliato del processo diagnostico e dell’eventuale conseguente esito negativo delle terapie eseguite in danno del paziente, ma occorre verificare se il patologo ha giustamente eseguito la sua prestazione professionale, applicando correttamente le regole tecniche esistenti al momento in cui ha agito. L’imperizia può essere lieve o grave e, quindi, a seconda dei casi, il medico verserà in colpa professionale lieve o grave; il grado di colpa, peraltro, rileva giuridicamente solo per determinati effetti e, per quel che interessa in questa sede, potrà comportare l’esenzione del medico da responsabilità solo in particolari fattispecie. L’art. 2236 del codice civile, applicabile anche ai medici, stabilisce infatti che il professionista risponde solo per dolo o colpa grave qualora la sua prestazione implichi la soluzione di problemi tecnici di speciale difficoltà. Questa norma, i cui principi possono trovare applicazione anche in sede penale come criterio di valutazione della singola fattispecie, esclude quindi che il medico debba essere chiamato a rispondere per una lieve imperizia, nell’ipotesi in cui ha dovuto affrontare la risoluzione di casi che trascendono la preparazione media, di fattispecie non ancora adeguatamente studiate a livello scientifico o ancora dibattute con riferimento ai metodi diagnostici o curativi da adottare. Negli altri casi, invece, il professionista risponderà anche solo per una lieve imperizia, oltre che per colpa, lieve o grave che sia, riferita ai diversi parametri della negligenza o imprudenza. La problematica della variabilità diagnostica e dell’incertezza del quadro diagnostico deve essere affrontata nell’ambito dei principi sopra brevemente riassunti, tenendo conto del fatto che, oltre alla speciale difficoltà del caso affrontato, rilevano pur sempre le circostanze obiettive in cui il medico si è trovato ad operare e che l’oggettiva incertezza della scienza non può essere correttamente posta a carico del medico, che abbia agito applicando correttamente le regole dell’arte. Non può comunque essere giustificato, in base al tradizionale principio secondo il quale il medico agisce secondo scienza e coscienza, il puro soggettivismo clinico, perché in medicina esistono pur sempre delle regole scientifiche da rispettare nell’esercizio professionale. La magistratura si interessa dell’errore professionale solo dopo che è si è realizzato un evento dannoso per il paziente, che si ipotizza essere stato causato da un comportamento colposo del medico e demanda l’accertamento di questi presupposti, necessari per configurare la responsabilità professionale, a consulenti esperti in materia, scelti in base alla loro affidabilità e capacità che, di norma, si confrontano con quelli nominati dalle parti coinvolte nel giudizio. Il giudizio tecnico del consulente del giudice gioca quindi un ruolo fondamentale nell’accertamento della colpa professionale del singolo sanitario. Le conclusioni sul punto del consulente devono, peraltro, essere congruamente motivate e fondate su corretti accertamenti tecnici. Recensione Anche in sede di contenzioso giudiziario le regole dell’arte medica, condivise e generalmente applicate in un determinato contesto storico per la loro validità scientifica, costituiscono il principale criterio di riferimento per valutare l’appropriatezza della condotta tenuta dal medico nella diagnosi e nella cura del paziente. Quanto più sono precise e condivise queste regole, tanto meno ampia è la discrezionalità del medico nell’applicarle. Pertanto, salvo motivate e giustificate eccezioni, la mancata applicazione delle regole tecniche vigenti, al momento della prestazione professionale, costituisce un rilevante indice di imperizia professionale. Questi principi giuridici generali non possono ovviamente non trovare applicazione anche al settore di competenza propria del patologo. È notorio, infine, che l’errore umano non può essere eliminato in assoluto e che costituisce una risorsa nel momento in cui viene studiato e utilizzato al fine di prevenirne altri. Il timore del medico di essere chiamato a rispondere dei danni conseguenti agli sbagli compiuti può impedire o ritardare una tempestiva analisi extragiudiziaria delle ragioni che hanno condotto all’errore e, quindi, può pregiudicare l’interesse collettivo ad attuare, con sollecitudine, misure preventive in grado di aumentare la sicurezza del sistema sanitario nel suo complesso. D’altra parte l’obbligo di denuncia all’autorità giudiziaria, posto a carico di coloro che si occupano della verifica di qualità delle prestazioni e dei servizi resi nel campo sanitario, finisce oggettivamente con l’incidere negativamente sulla ricerca degli errori e delle relative disfunzioni. Il sistema, peraltro, in conformità con i principi costituzionali in materia, deve garantire adeguata tutela giuridica ed economica al singolo paziente danneggiato da un intervento medico. La dottrina giuridica, proprio sulla base di questi principi, ritiene che non vi può essere autonomia professionale senza responsabilità per le scelte compiute, che in campo sanitario sono nulle clausole di esenzione preventiva da responsabilità e che le regole giuridiche, in tema di responsabilità, hanno, indirettamente, anche una positiva funzione di prevenzione degli errori. Letture consigliate 1. Fucci S, Saracco G, Rizzetto R (2001) Aspetti etico-giuridici del rapporto medico-paziente. Le responsabilità dell’epatologo e del gastroenterologo. Forum Service Editore, Genova 2. Crespi A (1995) I recenti orientamenti giurisprudenziali nell’accertamento della colpa professionale del medico-chirurgo: evoluzione o involuzione? Riv It Med Leg, p 785 3. Portigliatti Barbos M (1996) Le linee Guida nell’esercizio della pratica clinica, Diritto Penale e Processo 7:891 2. Zampi CM, Benucci G, Bacci M (1998) VRQ, obbligo di denuncia ed obbligo di referto: un contrasto insanabile de iure condito; una soluzione necessaria dei iure condendo, Riv It Med Leg, p 677 Recensione Un modello operativo: la verifica di qualità del Pap-Test di screening G.R. Montanari1 () · S. Arnaud2 · E. Berardengo2 D. Campione2 · C. Cozzani2 · F. Parisio2 · L. Viberti2 B. Ghiringhello2 1 Centro di Prevenzione Oncologica, Regione Piemonte, Italia Screening per il cervicocarcinoma, Prevenzione Serena Torino, Italia 2 Il Pap-Test, esame citologico cervico-vaginale, può essere usato come test diagnostico, seppur orientativo, in donne che si recano di propria iniziativa in strutture sanitarie (consultori, ambulatori, ospedali) per una motivazione di salute, che comporta la sua esecuzione nel corso di una visita clinica. Il Pap-Test è, invece, un test orientativo per l’invio o meno a procedure di II° livello (colposcopia), negli screening spontanei per prevenzione oncologica della cervice uterina, in donne asintomatiche che spontaneamente si presentano alle strutture sanitarie. Lo è anche, in campagne di dépistage, in donne invitate a sottoporsi a Pap-Test una tantum e senza una continuità nel tempo del programma e una sua valutazione. Il Pap-Test è soprattutto un test orientativo negli screening organizzati: di qui la necessità che esso sia un test il più possibile dicotomico, cioè negativo con invio alla ripetizione a scadenza programmata, o positivo con invio al secondo livello. Esiste, tuttavia, una fascia grigia che rappresenta il dubbio, da limitare il più possibile. Tale fascia comprende le ASCUS (anomalie squamose di incerto significato) e le AGUS (anomalie ghiandolari di incerto significato). Le ASCUS, secondo il TBS 2001 [1], non devono superare il 5% delle diagnosi citologiche e non essere più del doppio delle diagnosi complessive di lesioni squamose intraepiteliali (SIL). Le AGUS, in un laboratorio-tipo di citologia, devono essere meno del 1% delle diagnosi citologiche. Quindi, le diagnosi di ASCUS-AGUS vanno regolarmente monitorate, anche nel loro valore predittivo positivo. Sono ovviamente da limitare gli errori del Pap-Test, che comportano una diminuzione della sensibilità e della specificità del test con risultati falsi negativi e falsi positivi. Considerazioni etiche ci ricordano che la popolazione convocata agli screening è di donne presumibilmente sane, da non trasformare in malate che non sapevano di esserlo (falsi positivi) [2]. I falsi negativi comportano, oltre ad una falsa rassicurazione in malate che sapranno tardivamente di esserlo, una lievitazione dei costi per i riflessi medico-legali legati all’errata diagnosi [3], nonché una minor adesione allo screening, legata alla pubblicità negativa diffusa dagli organi di stampa che crea sfiducia nelle donne convocate [4]. A tal proposito, secondo Renshaw [5], gli addetti alla citologia ginecologica, nel- 609 l’ultima decade, hanno continuato a tormentarsi per cercare di raggiungere standard di qualità accettabili e fruibili. Tale sforzo è riassumibile nelle questioni: come definire un errore e quali sono le percentuali accettabili di errori individuali o di riferimento. Michael Baum, su The Lancet [6] col titolo: “The uses of error: quality control”, lamenta la scarsità della pratica dell’audit sugli errori commessi in medicina. Nel 1998 [7], un incontro multidisciplinare sul Miglioramento della sicurezza per i pazienti e la riduzione degli errori in Sanità ha trattato “Lo scenario del Pap-Test: la percentuale irriducibile di errore”. Viene riportato un 20% di falsi negativi per singolo Pap-Test, letto in modo tradizionale, non automatizzato. Migliorando prelievo e fissazione, applicando il controllo di qualità di ogni fase della colorazione e lettura del preparato e usando nuove tecnologie, i falsi negativi possono diventare al massimo il 5%, al di sotto del quale non si può andare. Ma il pubblico si aspetta una accuratezza del 100%, pur richiedendo tempi brevi e prezzi così ridotti da indurre il lavoro a cottimo dei citologi e la lettura dei Pap-Test inaffidabile, in nome della produttività. Il controllo di qualità deve affrontare prioritariamente la riproducibilità inter- ed intra-laboratorio delle diagnosi rispetto alla sensibilità e specificità del test. Confronti inter-laboratori della riproducibilità a Torino hanno coinvolto, oltre ai 5 centri torinesi di lettura, il CSPO di Firenze. Con l’invio di un set ad hoc, seguito da una seduta di consensus sui casi discordanti e da un secondo set ad hoc, si è ottenuto un aumento della riproducibilità: la statistica kappa complessiva è aumentata in tre laboratori di oltre il 20% ed è rimasta pressocchè invariata negli altri tre. Un successivo set del Gruppo Italiano Screening Citologico, fatto circolare fra 6 laboratori, ha portato ad un consensus sull’adeguatezza dei preparati (1998-99), eliminando la categoria del TBS “soddisfacente ma limitato”. Nuove tecnologie (citologia in strato sottile, pre-screening e re-screening automatico) possono aumentare riproducibilità, sensibilità e specificità del test, ma con una lievitazione dei costi. Nel Gruppo di Torino, con 6 laboratori di citologia di screening, la riproducibilità è aumentata da quando, quindicinalmente, si tengono – al microscopio multiplo o proiettore – discussioni dei casi incerti. Il Gruppo ha quindi modificato la scheda, ha ridotto al 2.8% gli invii al II° livello (colposcopia), ha costruito un syllabus per i citologi e ha migliorato la riproducibilità inter- ed intra-laboratorio delle diagnosi. La discussione ha dato agli errori una valenza di formazione, pur restando nel campo della morfologia tradizionale. Il Pap-Test è perciò un test diffuso ovunque, con una proporzione irriducibile di falsi negativi, non percepita dal pubblico in genere, ma strumentalizzabile dai media e dagli avvocati. Ne risulta una irragionevole aspettativa di errore zero in un test che si è dimostrato utile, anche se imperfetto. 610 Bibliografia 1. NCI Bethesda System 2001. (2001) Bethesda System 2001 Workshop. National Cancer Institute, Natcher Center, April 30 – May 2 2. Bouvier P, Doucet H, Jeanneret O, Raymond L, Strasser T, (1994) Aspects étiques du dépistage: réflexions à partir de l’example du cancer du sein. Cahiers médico-sociaux. Ed. Médicine et Hygiène, Genève, Suisse 3. Frable WJ, Austin RM, Greening SE, Collins RJ, Hillman RL, Kobler TP, Koss LG, Mitchell H, Perey R, Rosenthal DL, Sidoti MS, Somrak TM (1998) Medicolegal affairs. International Academy of Cytology Task Force summary. Diagnostic cytology toward the 21st century: an international expert conference and tutorial. Acta Cytol 42:76-119 4. Steadman L, Field S, Rutter DR (1999) Attendance at cancer screening in the wake of widespread adverse publicity surrounding test results. J Med Screen 6:40-41 5. Renshaw A (2001) Measuring and Reporting Errors in Surgical Pathology. Lessons From Gynecologic Cytology. Am J Clin Pathol 115:338-341 6. Baum M (2001) The uses of error: quality control. The Lancet 357:1007 7. Kaminsky DB, Austin RM, Luff RD, Smith NJ, Armenti CA (1999) Irreducible error rate: the Pap Smear scenario. In: Proceeding of enhancing patient safety and reducing errors in health care. The National Patient Safety Foundation, Chicago, Illinois L’errore in aviazione: insegnamenti e strategie F.M. Patono () Alitalia Human Factor Department, Roma, Italia Si ipotizzano 98.000 decessi annui, nel sistema sanitario americano, per errore medico; con un costo di 9 bilioni di dollari (U.S. Institute of Medicine). In Italia, siamo a 30.000 decessi. Cifre colossali. A questo punto sorge spontanea una domanda: com’è possibile che un professionista, qual’è un medico, che ha seguito un iter formativo lungo e complesso, che ha affrontato un tirocinio di svariati anni, che opera in una struttura dotata di strumenti diagnostici e di intervento all’avanguardia, possa commettere errori che portano al decesso del proprio assistito? È perciò importante stabilire perché ha sbagliato e non chi ha sbagliato. Analizziamo i punti che rendono il mondo medico assimilabile a quello aeronautico: - Aviazione: cabina di pilotaggio, piloti, assistenti di volo, controllori del traffico aereo, tecnici di scalo e manutenzione. Recensione - Medicina: sala operatoria, medici, infermieri di sala, anatomo patologi, tecnici di laboratorio, personale di corsia. Possiamo assumere che la cabina di pilotaggio sia equivalente alla sala operatoria in quanto sono modelli simili nei processi e nelle funzioni; in entrambi, il personale svolge professioni molto “forti”; esistono regole, procedure, imprevisti da affrontare; in entrambi, si lavora in team e si ha un identico obiettivo: sviluppare sicurezza. L’errore, come riconoscerlo S. Agostino diceva: “Errare humanum est”, affermazione valida per tutti. Definiamo quindi l’errore: tutte quelle occasioni in cui una sequenza pianificata di attività fisica o mentale non raggiunge i risultati desiderati e questi insuccessi non sono attribuibili al caso. Ne deriva che ogni sistema, per complesso e protetto che sia, essendo frutto dell’elaborazione umana o di una partecipazione attiva a vari livelli di esseri umani, è soggetto ad errore. L’errore è quindi una componente attiva di ogni processo ed è presente in ogni sistema. Gli elementi coinvolti nella produzione dell’errore sono: 1. la natura del compito da svolgere e le sue circostanze ambientali (difficoltà del compito); 2. i meccanismi che governano la prestazione umana; 3. la natura dell’individuo. L’incidente aereo, l’intervento medico non riuscito, la diagnosi errata non sono frutto di una sola causa, ma di più cause, che in tempi successivi, concorrono concatenandosi e combinandosi tra loro. In aviazione il 70% dei primary cause factor, concorrenti in un incidente, sono riconducibili a fattori umani legati all’equipaggio; in campo medico, data la particolare natura del compito, si ritiene che la percentuale sia ancora più elevata. È quindi sull’uomo che si deve lavorare. L’essere umano elabora delle proposte strutturali secondo due modalità: 1. schematica: elaborazione automatica od inconscia, avviene per applicazione di modelli interiorizzati; è rapida, agisce in parallelo con altri processi mentali, è senza sforzo cosciente; 2. attenzionale: elaborazione controllata o cosciente, esegue una rielaborazione degli elementi informazionali trasformandoli, estendendoli, ricombinandoli; è lenta, limitata, sequenziale (non agisce in parallelo ad altri processi mentali), comporta sforzo ed è quindi limitata nel tempo. Le attività cognitive sono guidate da un’interazione tra le due modalità descritte, ognuna delle quali sfrutta differenti livelli di prestazione umana: 1. schematica: abilità superapprese (skill) e regole (rule); 2. attenzionale: abilità di valutazione e giudizio (knowledge), la più complessa e difficile. Recensione Ad ogni abilità corrisponde una forma di errore: – skill: errori di coordinamento, di spazio e di forza (slip); – rule: classificazione inadeguata dell’evento con conseguente applicazione di regole errate o recupero errato di procedure (mistake, lapse); – knowledge: errori per limitazione delle risorse (razionalità limitata), per conoscenza errata o incompleta (mistakes). In sintesi: – slip: azione motoria, differisce dall’intenzione (esecuzione errata di un’azione); – lapse: azione, differisce dall’intenzione, si riferisce alla memoria (esecuzione errata per dimenticanza della sequenza corretta); – mistake: l’intenzione non è appropriata all’evento a seguito di un errato processo di valutazione e giudizio. Sono gli errori più elusivi, meno evidenti, più complessi e meno capiti. Possiamo quindi affermare che la conoscenza e l’errore hanno le stesse origini, solo il successo distingue una dall’altra (Mach). Esiste un’altra classificazione degli errori: – errori attivi (active failure): i cui esiti si manifestano immediatamente; sono associati fondamentalmente all’attività svolta dall’operatore (il pilota nel pilotare, il medico nel diagnosticare); – errori latenti (latent failure): possono rimanere inattivi per lungo periodo e manifestarsi solo in concomitanza con altri fattori; sono prodotti per lo più da coloro che sono lontani da “interfacce” di controllo (manager, progettisti, responsabili sanitari). Questi ultimi rappresentano un aspetto recente dell’analisi dell’errore, frutto degli studi conseguenti ai grandi disastri di Chernobil, Severo, Bhopal, Challenger, etc., da cui è scaturito che nei sistemi dotati di difese, raramente, se non mai, gli incidenti sono causati da un fattore unico, umano o meccanico che sia; derivano invece dalla concatenazione imprevista e spesso imprevedibile di molti eventi diversi, ciascuno dei quali necessario, ma singolarmente insufficiente. Possiamo considerare l’errore latente come un “patogeno residente”, che in presenza di fattori contributivi dà via ai suoi processi degenerativi. Le decisioni fallibili sono una parte inevitabile dei processi relativi al progetto e alla gestione. Il problema non è quello di trovare un modo per prevenirle, quanto di assicurare che le loro conseguenze avverse siano prontamente rilevate e annullate. Mentre si possono prevedere strumenti di sicurezza, elaborati in campo ingegneristico, contro gli errori umani e meccanici, non esiste difesa contro gli errori latenti connessi alla sfera organizzativa e manageriale o alla loro congiunzione avversa con elementi scatenanti. Ne scaturisce un sistema a “gruviera” per effetto dei patogeni residenti, che si annidano anche nelle barriere protettive poste a difesa del sistema, (ad esempio, le incomprensioni di procedure stabilite) (Fig. 1). 611 Fig. 1 Sistema a “gruviera” degli errori latenti. Quando avviene l’incidente? Quando, per una serie di fattori contributivi, tutti i patogeni residenti sono allineati determinando un buco complessivo nel sistema (Fig. 2). Fig. 2 L’incidente in un sistema a “gruviera” degli errori latenti. Come prevenire l’errore La prevenzione avviene attraverso ricerche condotte sul sistema che si sta analizzando, basato su un’ampia raccolta e catalogazione di dati. In aviazione, inizialmente, esistevano solo i mandatory reporting system (MRS), formulari da redigersi in conseguenza di un evento. Più di recente si sono introdotti i voluntary reporting system (VRS). Il MRS è obbligatorio, legato all’evento negativo manifestatosi, compilato dal protagonista, è circostanziato all’accaduto, non è divulgabile per prevenzione essendo riconducibile all’estensore. Da luogo a un rapporto redatto in chiave difensiva, teso a dimostrare l’aderenza del com- 612 portamento tenuto alle procedure e alle regole in vigore. Il VRS è redatto su base volontaria, non necessariamente legato a eventi noti, è redigibile da chiunque, è riservato (anonimo), analizza solitamente in maniera ampia l’evento e il sistema a contorno, è divulgabile per prevenzione. Non induce atteggiamento difensivo, anzi vuole rendere nota una deficienza nel sistema o nelle procedure. I VRS si sono dimostrati così efficaci per l’analisi del sistema aeronautico, che l’Ente Federale aeronautico Statunitense (FAA) ha incaricato la NASA di diventare l’organo ufficiale di raccolta e analisi dati. Il programma ha preso il nome di Aviation Safety Reporting System (ASRS) e rappresenta la finestra più trasparente per accedere al mondo aeronautico. Da essi scaturisce la rappresentazione grafica del fenomeno errore che appare in Figura 3. Recensione – analizzare i dati e identificare le cause degli eventi, in funzione di indicatori di sicurezza; – poter intervenire sul sistema per correggerlo; È inoltre basilare che l’Ente preposto alla raccolta dati: – sia indipendente dai poteri forti del sistema: politico, industriale, di categoria; – dia luogo a gruppi di analisi interdisciplinari composti non solo da esperti del settore di lavoro, ma anche psicologi, ingegneri cognitivi, esperti human factor; – individui incidenti vincolanti su cui sviluppare analisi di riferimento; – conduca analisi specifiche sui quasi incidenti e sugli eventi di pericolo, permettendo così l’analisi dell’evoluzione dinamica dei processi e il necessario feed-back. Come gestire l’errore Fig. 3 Rappresentazione grafica del fenomeno errore basata sull’analisi dei dati dell’ASRS. Gli Accident sono conosciuti e analizzati, gli Incident assieme agli Hazard (quasi incidenti) sono solo parzialmente noti al sistema. Gli errori, se non fosse per gli ASRS, sarebbero totalmente sconosciuti. Questo strumento di raccolta dati, con altri che sono seguiti, ha consentito agli psicologi cognitivisti di sviluppare un nuovo approccio nell’analisi del fattore errore: non più descrizione fenomenica degli stessi, che non consente di riferire gli errori alle differenti strutture e meccanismi cognitivi (visione statica del sistema), bensì, partendo dalla considerazione che i processi operanti all’interno del sistema cognitivo si diversificano in funzione del controllo attentivo cui sono soggetti, si può pervenire ad una descrizione delle forme e dei tipi di errori, facendo riferimento al processo che li ha prodotti (visione dinamica del sistema). È quindi indispensabile se si vuole parlare di prevenzione: – creare un sistema di raccolta dati confidenziale e non punitivo; – che chi raccoglie i dati sia credibile (ad esempio, la NASA); Essendo irrealistico pensare di poter prevedere tutti gli errori che si possono generare, ci si è indirizzati verso obiettivi che avessero come denominatore comune la tolleranza degli errori. Da qui, la necessità di educare gli operatori, particolarmente esposti agli errori “attivi”, a essere consapevoli della fallibilità che sempre accompagna l’azione umana. Qui si arriva a uno dei grandi problemi che affligge la sanità: – manca in campo medico la cultura dell’errore; – il personale dirigente, medico e paramedico non è addestrato a comprendere, ricercare, accettare e gestire la propria fallibilità; – gli studenti non sono educati all’errore. L’iter per arrivare a esercitare la professione medica è lungo e selettivo, naturale che l’aspirante medico sia fortemente motivato, consapevole dei propri mezzi, dotato di elevata autostima. Queste doti, essenziali per l’iter formativo, possono diventare “pericolose” nell’esercizio della professione, se non controbilanciate da una appropriata cultura della fallibilità dell’uomo, in quanto danno vita a soggetti psicologicamente poco adatti a prevenire l’errore, in quanto questa realtà non appartiene alla propria sfera culturale. È quindi necessario formare culturalmente il personale medico alla fallibilità umana. I costi derivanti vanno affrontati passando dal concetto: “quanto costa fare sicurezza?” a “quanto costa non fare sicurezza?” Nove bilioni di dollari solo negli U.S.A. Quante vite risparmiate se solo una parte di questa cifra venisse spesa preventivamente per rendere più sicuro il sistema sanitario, piuttosto che a posteriori per risarcire gli eredi! Si dovranno sviluppare iter addestrativi comprendenti: – addestramento: per incidere sugli errori legati alle abilità skill e rule attraverso sistemi di simulazione informatizzata; – formazione: protesa a diffondere la cultura della fallibilità umana, del suo manifestarsi, della gestione. Recensione A livello di pensiero astratto, gli errori possono aiutare i soggetti facenti parte del sistema a discriminare i processi metacognitivi che funzionano da quelli che non funzionano e a sviluppare e sostenere un approccio attivo ed esplorativo del sistema. In conclusione, vediamo quali benefici questo mutamento culturale, accompagnato da una crescita tecnologica del sistema, anch’essa protesa alla prevenzione dell’errore, ha prodotto in campo aeronautico: nel 1960, circa 35 incidenti ogni milione di decolli; nel 2000, circa 0,97 incidenti ogni milione di decolli. E nonostante questo indubbio successo, la spesa mondiale annua stanziata per nuovi programmi di ricerca e formazione, dedicati al fattore sicurezza, aumenta costantemente, convinti che il sistema sia ancora migliorabile. Lettura consilgliata Reason J. Errore Umano, Editrice il Mulino, Bologna L’errore in medicina: conseguenze e prevenzioni N. Sicolo () · C. Martini · R. Mioni · P. Maffei C. Scandellari Dipartimento di Scienze Mediche e Chirurgiche, Clinica Medica 3 Azienda Ospedale, Università di Padova, Padova, Italia Introduzione In questo intervento gli Autori si propongono di: a) analizzare la rilevanza delle situazioni potenzialmente suscettibili di provocare contenziosi per malpractice; per tale motivo il termine “errore” non terrà conto della classica distinzione tra “errore metodologico” e “sbaglio”, dipendente da difettoso comportamento del medico; b) discutere le vie atte a minimizzare le occasioni d’errore, minimizzazione che presuppone la possibilità di riconoscere oggettivamente l’eventuale errore commesso; c) valutare la possibilità di utilizzare il riscontro autoptico come gold standard per il riconoscimento dell’errore stesso. La pratica clinica è, senza dubbio, una delle attività professionali più difficili fra quelle esercitate dall’uomo e l’errore ne rappresenta un aspetto intrinseco ineludibile. Comunemente, si pensa che l’errore in medicina appartenga al passato, quando sembrava naturale poter sbagliare, date le 613 limitate conoscenze scientifiche e tecnologiche. Ora che lo sviluppo scientifico e tecnologico ha aumentato enormemente le possibilità diagnostiche e terapeutiche, l’opinione comune non ammette che il medico, con tali sofisticate risorse a disposizione, possa continuare a sbagliare. In realtà, invece, va considerato che per sé “La medicina è un sapere incerto ed in perenne divenire, come tutto il sapere scientifico”, ne consegue che “tutta la medicina clinica è dominata dalla probabilità. Il medico quindi ha a che fare con valutazioni probabilistiche e per tale motivo è sempre esposto alla possibilità di sbagliare” [1]. D’altronde il medico, ancor più nei tempi attuali rispetto a quelli del passato, è, come già diceva il clinico elvetico Zimmerman nel XVIII secolo, “...uno scienziato che non può accontentarsi di conoscere, ma che deve comunque anche agire, e che deve prendere decisioni in condizioni di incertezze” [citato in 1]. Diversamente dalle altre professioni tuttavia, lo sbaglio del medico è giustamente oggetto di particolare attenzione da parte della società e degli organi di informazione, se non altro per le possibili serie conseguenze per l’incolumità dei pazienti. L’argomento è quindi di estrema delicatezza e importanza per l’intera società, per il quale non appaiono opportuni né atteggiamenti riduttivi o superficiali né tanto meno informazioni “scandalistiche”. Da sempre i medici hanno riflettuto sugli errori, soprattutto al fine di trarne gli insegnamenti necessari a non ripeterli. Tuttavia, lo scenario nel quale il medico, come professionista della salute, attualmente opera, sta divenendo di giorno in giorno sempre più complesso e paradossale. Se, infatti, anche in virtù del progresso scientifico e tecnologico della scienza medica, si registra, soprattutto nelle popolazioni delle società economicamente più sviluppate, un prolungamento della vita media, paradossalmente questo successo si sta ritorcendo come un “boomerang” contro la stessa professione medica, la quale si trova a dover fronteggiare un’inarrestabile crescita quantitativa e qualitativa di bisogni di salute da parte della popolazione, cui non corrisponde una parallela e altrettanto veloce crescita delle risorse impegnate dai vari Stati, nei programmi sanitari nazionali. La forbice tra richieste di salute e risorse pubbliche disponibili si sta sempre più allargando. Il fenomeno, a tutti noto come crisi dello “stato sociale”, richiede necessariamente una ricerca di vie e di strumenti volti ad ottenere un’ottimizzazione delle prestazioni sanitarie e degli investimenti, basata da un lato sull’avvio di una educazione continua del professionista medico (ECM) e dall’altro sulla ricerca di priorità nell’allocazione delle risorse. Per quanto riguarda l’aggiornamento, il medico, in quanto professionista, da sempre ha lavorato e studiato per il miglioramento delle proprie decisioni. Ciononostante, non sarà mai possibile raggiungere l’infallibilità: ed infatti ancora agli inizi del secolo il clinico medico Augusto Murri [2] riconosceva che “la pretesa di non errare è un’idea da matti”. Purtroppo, al contrario di quanto la gente pensa, lo sviluppo scientifico non è sufficiente a eliminare la possibilità 614 di commettere errori. A dimostrazione di ciò, da una analisi della letteratura anglosassone relativa agli “errori” o “adverse event”, come vengono chiamati dagli inglesi, occorsi durante il periodo di ricovero in Ospedale, emerge il dato che tali “inconvenienti” sono, non solo ancora presenti, ma paradossalmente in continuo aumento [3, 4, 5, 6]. Le conseguenze Analogamente a quanto presente nel mondo anglosassone e statunitense in particolare, anche in Italia si sta assistendo ad una inarrestabile crescita del numero delle cause legali per malpractice medica e il fenomeno appare ancora sottostimato rispetto alle dimensioni e alle percentuali degli “errori”. Gli Autori di una ricerca comparsa sul Lancet [4] trovano che su 1047 pazienti, ricoverati durante i 9 mesi dello studio in tre strutture assistenziali di un Ospedale di Insegnamento, ben 480 (45.8%) avevano subito un adverse event e in 185 (17.7%), si trattava di un adverse event di non lieve entità. Ebbene, a fronte di tali dati, i ricorsi per richieste di rimborsi furono solo 13 (1.2%) il che, se da un lato fa intravedere una certa capacità da parte del pubblico di comprendere le difficoltà della professione medica e della possibilità di eventi collaterali non voluti, dall’altro rende evidente quanto sia ampio il mercato potenziale dei procedimenti per malpractice medica. Sintomatica di tale tendenza è una recente analisi dell’Associazione delle Compagnie Assicuratrici (ANIA) [5] che fa rilevare come, nel 1995, la raccolta premi per la Responsabilità Civile Medica (RCM) è risultata di 180 miliardi, mentre i sinistri rimborsati costituivano il doppio (360 miliardi). Il dato più allarmante però è rappresentato dal fatto che, nell’anno successivo, ad un aumento dei premi pari a 250 miliardi, corrispondeva un risarcimento tre volte superiore, pari cioè a 750 miliardi e, mentre il premio della RCM riscosso dalle Compagnie rappresentava l’8.3% dell’intero introito assicurativo, il rimborso pagato per malpractice costituiva il 23% della quota pagata dalle Assicurazioni quale indennizzo. In pratica, alle Assicurazioni, le polizze dei medici costano mediamente dal doppio al triplo di quanto rendono. Tale trend di progressivo e vertiginoso aumento delle perdite portava a prospettare o un ritiro di un certo numero di compagnie da questa branca della RC o un congruo aumento dei premi. Purtroppo, in Italia, non risulta esistere un osservatorio nazionale che permetta di quantificare il fenomeno degli errori medici e dei relativi ricorsi da parte dei pazienti all’istanza giudiziaria, per ottenere il risarcimento per presunti danni. Se tuttavia si prende, come indicatore indiretto del fenomeno e del malessere della categoria, il numero dei provvedimenti disciplinari e le radiazioni dall’Albo dell’Ordine Professionale, possiamo registrare come, nel breve tempo del quadriennio 1991-1994, i primi si siano Recensione quadruplicati e le seconde sono passate da 1 a 53 [5]. Il medico, di fronte a questa realtà, si sente spesso solo e stretto in una morsa, il cui rischio è rappresentato da un atteggiamento e un conseguente comportamento di “arroccamento” professionale e culturale, che lo porta verso una prassi diagnostico-terapeutica sicuramente molto più attenta e approfondita, ma anche molto più prudente e ridondante, in quanto mirata primariamente alla tutela della propria responsabilità e, solo in seconda istanza, alle esigenze del paziente. La “medicina difensiva”, come negli USA viene definito tale comportamento professionale, sta muovendo i primi passi anche in Italia e sempre più sta entrando nell’atteggiamento del medico. A spingere ulteriormente il medico verso tale direzione concorre anche una procedura Assicurativa che, se dal punto di vista processuale, sembra ineccepibile, dal punto di vista umano e professionale, provoca negli interessati qualche disillusione. Infatti, la lungaggine della giustizia “civile”, induce sovente i ricorrenti a pensare di essere stati vittima di una malpractice medica e a perseguire quindi la via “penale”. Di fronte a tale evenienza, le Compagnie Assicuratrici, che tutelano gli interessi del professionista o delle Aziende Ospedaliere, provvedono di norma automaticamente e autonomamente, anche in assenza di valutazioni sui fatti e sulla legittimità delle accuse, a liquidare la parte “civile”. Se da un lato, come loro sostengono, questo non implica nessun riconoscimento di colpa e semmai facilita lo svolgimento del successivo procedimento penale, appare comunque lecito chiedersi quanto questo automatismo nei risarcimenti non incentivi il fenomeno stesso. Inoltre, nel caso in cui il processo penale scagionasse completamente il professionista, qual è il destino del rimborso già effettuato? La prevenzione La prevenzione di un qualsiasi evento, e in questo caso degli errori e degli sbagli medici, presuppone la disponibilità di mezzi per il loro riconoscimento anche al fine di valutarne la tipologia e l’andamento epidemiologico. Considerando che gli errori in Medicina sono stati presenti sin dalla nascita della professione, sembrerebbe naturale pensare che su di essi vi sia una ricca documentazione con classificazioni varie, quale strumento indispensabile per una sistematizzazione degli stessi. In realtà, forse per un’oggettiva intrinseca difficoltà o forse per il timore delle conseguenze che una tale cultura poteva indurre, scarsi sono gli studi sugli errori in clinica. Per tale motivo, il tentativo fatto da Federspil e Scandellari di proporre una classificazione che raggruppi gli errori in 3 grandi categorie (errori di osservazione e di registrazione dei fenomeni; errori nel procedimento razionale della diagnosi; errori nel procedimento terapeutico) assume particolare importanza in quanto punto di partenza per quel- Recensione la disciplina clinica che sta muovendo in Italia i primi passi e che è nota come “pedagogia dell’errore” [1]. In realtà, l’utilità della “pedagogia dell’errore” per la formazione del medico, ha sostenitori molto illustri, vissuti anche in tempi più antichi di quanto si pensi, e, proprio nello Studio di Padova, G.B. Morgagni il 17 Marzo 1712 [6], nell’orazione inaugurale al corso di “Teorica Ordinaria della Medicina”, rivolgendosi al corpo docente e agli studenti diceva: “...dirò poi quali siano le prime nozioni che vorrei fossero i maestri ad impartire ai discepoli. In breve, esse sono queste: togliere dall’animo degli alunni le false opinioni dell’ignoranza e i pregiudizi: svelare gli inganni dei sensi e illustrare i più comuni e noti errori per metterli in guardia da essi per il futuro che non è vergognoso per l’uomo ammettere di essersi ingannato, ma lo è non ammetterlo quando si viene ammoniti dall’errore”. Agli inizi del secolo, Augusto Murri [7] riprendeva la raccomandazione di Morgagni, riconoscendo che “...la pretesa di non errare è un’idea da matti” e affermando che “...la critica è la più fondamentale dote dello spirito perché la più efficace profilassi dell’errore”. Dunque, il riconoscimento degli errori stessi, ma soprattutto il ragionamento critico, rappresentano la più efficace profilassi verso l’errore e quindi il mezzo più potente per il miglioramento della qualità della prestazione medica. La pedagogia dell’errore in medicina appare quindi quanto mai di attualità in un tempo, come l’attuale, nel quale la qualità della prestazione medica si sta giustamente imponendo all’attenzione sia degli operatori sanitari che del grande pubblico. Ne è una ulteriore dimostrazione il richiamo fatto dagli Autori della recente pubblicazione comparsa sul Lancet e dedicata a tale argomento, che, riprendendo quanto detto da Morgagni, oltre due secoli fa, afferma: “Analyses of adverse events ........may provide the starting point for proactive error-prevention, thus improving clinical teaching and the quality of care.” [7]. Alla pedagogia dell’errore tuttavia, per quanto da tempo e più parti sollecitata ed invocata, viene dedicata una scarsissima attenzione, come lo dimostra il fatto che nella formazione di base essa sia latitante. Eppure, la possibilità e il timore d’errare rappresenta il primo sentimento che qualsiasi neo-medico prova nel momento della sua prima decisione professionale. Il risultato è che vi giunge emotivamente e logicamente impreparato, il che potrebbe forse aumentare ancor più la possibilità di errare. Nei processi formativi di base, oltre agli elementi culturali professionalizzanti, dovrebbero essere previsti quindi quelli metodologici, orientati prevalentemente al riconoscimento dell’errore e soprattutto ai meccanismi logici che l’hanno indotto. In altre parole, si dovrebbe sviluppare la capacità di indagare il singolo caso clinico, oggetto dell’errore, con lo stesso occhio dell’investigatore Sherlock Holmes [8]. In effetti, allo studente dovrebbe essere insegnato che il procedimento clinico, sovente paragonato a quello dell’investigatore poliziesco, non deve limitarsi alla 615 raccolta degli indizi su cui razionalmente ricostruire la diagnosi, quanto a trarre le informazioni che gli indizi, in campo medico i sintomi, portano con sé. In altri termini, non basta che lo studente riconosca un’onda elettrocardiografica anomala o annoti la presenza di un’iposideremia. Egli deve finire per riuscire a valutare il significato che il sintomo può avere in quel malato e, ancor più importante, le possibilità che quell’indizio possa trarlo in inganno, prospettandogli una falsa pista e inducendolo in errore. Solo con un simile allenamento logico lo studente potrà, nella futura professione medica, prevenire molti errori e, nel caso venissero commessi, imparare da essi. La pedagogia dell’errore, utile nella formazione di base, diviene essenziale per i professionisti già in attività da anni, che si presume abbiano ormai superato il timore, quanto meno a livello emotivo, dell’errore clinico. Non esistono purtroppo studi che mostrino l’andamento epidemiologico dell’errore clinico in relazione all’esperienza professionale; tuttavia, anche se questa può rappresentare una certa garanzia, non vi può essere la matematica certezza di non errare. L’analisi dell’”errore”, come strumento di “formazione permanente” o di “ricerca clinica avanzata”, rappresenta quindi una scelta sia strategica che culturale. In effetti, il clinico, nella sua quotidiana attività, si deve destreggiare tra le incertezze delle teorie e la variabilità individuale delle manifestazioni cliniche. Le sue diagnosi sono e saranno inevitabilmente e ineludibilmente minate da una certa percentuale di verità e di errore, e quindi, pur tenendo presenti i limiti epistemologici sopraddetti, resta la necessità di sottoporre la diagnosi a controlli qualitativi simili a quelli adottati nel settore dell’industria manifatturiera, dove storicamente è nato, agli inizi del ’900, il concetto del controllo sistematico di qualità. Quest’ultima, anch’essa concettualmente in continua evoluzione, può essere analizzata sia attraverso il controllo del “processo” produttivo che del “prodotto” ottenuto al termine dello stesso (collaudo). Quanto al primo livello, quello del controllo del processo, l’intrinseca complessità del procedimento diagnostico richiede un’accurata analisi preliminare dei singoli passaggi metodologici. A questo proposito, non sembra fuori luogo ricordare quanto sempre Murri [citato in 9] affermava “... quanto più la critica dei fatti e del giudizio è pertinace, quanto più il dubbio è insistente e molteplice, quanto più l’assenso della ragione è difficile e acuto, tanto più è valoroso il medico, tanto più raro diventa l’errore nella diagnosi”. Secondo il clinico bolognese, quindi, la qualità del medico è certificata dalla rigorosità del procedimento logico adottato. Tanto più valido risulterà il medico, quanto più è abile nel “riconoscere” nel singolo malato quei “fatti” che, pur camuffati dalle peculiarità del particolare paziente, rappresentano gli elementi indiziari delle malattie sui quali formulare le corrette ipotesi diagnostiche, analoghe, in ambito investigativo, all’individuazione degli indiziati. Successivamente, le ipotesi così avanzate vengono sottoposte al controllo, reso possibile dalla raccolta di altri “fatti”, che in cli- 616 nica sono rappresentati dai risultati dei test chimici e strumentali e, nel mondo investigativo, dal riscontro della validità degli alibi forniti. Da molti autori viene attualmente affermato che il clinico, si comporterebbe, dal punto di vista metodologico, come uno scienziato si comporta nella ricerca “pura”, cioè non applicata come è la clinica. [10]. Avanzerebbe cioè nella conoscenza mettendo sistematicamente alla prova le ipotesi diagnostiche formulate, eliminando via via quelle che risultano falsificate in base alle conoscenze del momento. Quanto resta da questa operazione di falsificazione o confutazione logica delle ipotesi, verrebbe a costituire la “vera diagnosi clinica” di quel particolare soggetto, in quel momento storico. La possibilità di utilizzare in clinica la procedura, qui esemplificata, era stata sostenuta anche dal Murri, che ha affermato che il clinico, al letto del paziente, deve “...escogitare tutte le ipotesi possibili e successivamente procedere all’eliminazione di quelle che non reggono l’urto con l’esperienza” [citato in 11]. Con tale procedura metodologica “scientifica” il clinico, pur non raggiungendo la verità assoluta, dovrebbe riuscire a ridurre al massimo, relativamente al singolo paziente e alle conoscenze teoriche del momento, la percentuale di errore presente nella sua diagnosi clinica. Secondo altri autori [12], tuttavia, in molte occasioni il clinico utilizza anche altre strategie diagnostiche, in particolare quella della “conferma probabilistica” dell’ipotesi e, soprattutto (ma non solo) in questa attività diagnostica, un ruolo fondamentale gioca l’abilità personale del professionista, cui contribuiscono non solo gli insegnamenti clinici e i successivi aggiornamenti scientifici, ma altresì doti naturali e una solida esperienza professionale, tutte caratteristiche individuali che rendono l’operato del medico clinico più simile a quello di un artigiano che a quello di uno scienziato [13]. Nonostante la complessità e la variabilità ora delineata del procedimento clinico, i moderni studi di metodologia clinica, hanno permesso di progredire notevolmente verso una rigorosa analisi qualitativa del “processo”: resta da vedere, ora, se sia possibile anche analizzare la qualità del “prodotto” di tale processo. Vale a dire: esiste un modo per “collaudare” la diagnosi clinica? Esistono in clinica degli “indicatori” diretti o indiretti della bontà diagnostica? Per il “collaudo” della diagnosi formulata, l’andamento clinico del paziente, cioè il criterio “ex iuvantibus”, è, fra gli indicatori indiretti, forse il più noto per la sua facile comprensione e intuizione, tuttavia, la sua soggettività e la sua stessa fragilità logica (essendo viziato dalla cosiddetta fallacia dell’affermazione del conseguente [14]) lo rende poco affidabile come parametro di assoluto riferimento per stabilire un “gold standard” dell’esattezza della diagnosi. Uno strumento migliore, a tal fine, sembra essere costituito dalla possibilità di confrontare la diagnosi clinica con la diagnosi ottenuta sullo stesso soggetto con una procedura diversa, quale il riscontro autoptico (diagnosi autoptica). Ovviamente tale analisi è possibile solo nei casi clinici che giun- Recensione gono all’obitus; purtuttavia, anche se su un campione limitato, le caratteristiche della valutazione diretta, attraverso la dissezione cadaverica, hanno stroricamente offerto documenti e informazioni preziosissimi per lo sviluppo della scienza medica e della clinica. Il controllo autoptico come “Gold Standard” per l’esattezza della diagnosi clinica Agli inizi della sua autonomizzazione rispetto alla clinica, l’Anatomia Patologica, per la caratteristica funzione conoscitiva e di controllo della qualità clinica, aveva determinato, per stessa ammissione dei clinici, un significativo miglioramento della clinica soprattutto, laddove, il curante presenziava al riscontro autoptico. Col tempo, la richiesta da parte dei clinici del riscontro autoptico dei pazienti deceduti, è diventata sempre più discrezionale, rendendo sempre più occasionale il confronto della “realtà” clinica con quella anatomo-patologica. Si è quindi giunti ai tempi odierni in cui, salvo qualche non frequente eccezione, le due figure lavorano separatamente giungendo talora a dualismi conflittuali. Non è infrequente infatti che il clinico veda nel patologo più un “giudice” che un alleato, e che, dal canto suo, il patologo, ritenendo la sua “verità” non discutibile in via di principio, consideri di poter emettere un “verdetto” inappellabile, men che meno da parte del clinico. Questi atteggiamenti contribuiscono ulteriormente ad accelerare la progressiva diminuzione dell’abitudine di richiedere il riscontro autoptico, la cui eventuale soppressione totale, a nostro avviso, non sarà priva di conseguenze negative sul miglioramento delle conoscenze cliniche e quindi per la salute degli utenti. In effetti, molti medici, e soprattutto il pubblico che spesso si oppone con ogni pressione possibile all’esecuzione del riscontro autoptico sui propri congiunti, ritengono che tale metodica sia ormai superata e non più in grado di offrire informazioni utili al clinico o al ricercatore, in quanto soppiantata dalla biologia molecolare e/o dalle metodiche di “imaging” sempre più sofisticate. E forse a tali atteggiamenti, non solo diffusi, ma anche non contrastati dalla stessa classe medica, può in parte essere attribuita la progressiva riduzione, osservata negli ultimi decenni, della pratica del riscontro autoptico nei pazienti deceduti nelle varie strutture ospedaliere del mondo, a tal punto che nei paesi anglosassoni l’andamento sta raggiungendo livelli preoccupanti e i pathologists negli USA sono una specie professionale in estinzione [15, 16]. Anche se con percentuali diverse, il fenomeno è presente anche in Italia, con un trend negativo così diffuso e costante che Trieste, città che negli ultimi anni ha registrato un fenomeno inverso, viene comunemente riportata tra i patologi come “anomalia di Trieste” [17]. Numerosi sono i motivi del decremento, tuttavia spesso ricorre l’opinione, Recensione secondo la quale, il riscontro autoptico avrebbe fatto il suo tempo e nulla potrebbe dire di più di quanto la moderna tecnologia già permette di mostrare in vita. È chiaro che tale atteggiamento viene a presupporre che l’attuale qualità della diagnosi clinica è a tal punto di perfezione da rendere superfluo il controllo autoptico. Ma se ciò fosse vero, la discrepanza tra le due diagnosi avrebbe dovuto col tempo diminuire, se non addirittura annullarsi. In realtà, negli studi condotti a tal proposito, si riporta che tale discrepanza non è per nulla cambiata, rimanendo pressoché invariata negli ultimi 50 anni [18]. Quest’ultimo rilievo pone un ulteriore interrogativo: si dovrebbe dedurre da esso, che i clinici odierni, pur in condizioni tecnologiche più favorevoli, non avrebbero migliorato le loro performances? In realtà, tale staticità sul contrasto tra diagnosi clinica e diagnosi autoptica può essere spiegata in modi diversi. L’evoluzione delle conoscenze mediche ha di fatto modificato le classificazioni nosologiche, rendendole più analitiche e articolate. In virtù di questo, ad esempio, la diagnosi di “adenoma ipofisario”, ritenuta esauriente 50 anni fa, non è attualmente più accettata, se non corredata dal tipo istologico o immunoistochimico o dal tipo di attività funzionale o sensibilità terapeutica (adenoma ipofisario PRL-secernente, resistente ai dopaminoagonisti). Il bersaglio diagnostico, in altre parole, è divenuto col tempo sempre più piccolo e, come conseguenza, di più difficile centramento. L’insuccesso, in questo caso, può essere attribuito non esclusivamente all’imperizia dell’arciere, ma anche al rimpicciolimento del bersaglio. Ma è solo questa l’unica spiegazione? In realtà, può essere avanzata un’altra considerazione che deriva dalla constatazione che la discrepanza tra la diagnosi clinica e quella autoptica varia, non solo in funzione del tipo di patologia, minima per quella neoplastica e massima per quella metabolica e digestiva, ma anche per la durata della degenza e soprattutto per l’età del caso esaminato [18]. In altre parole, a parità di malattia, la discrepanza tra le due diagnosi è tanto più ampia quanto più anziano è il paziente esaminato [19]. Tale fenomeno, secondo Silvestri [17], è spiegato dal fatto che la senescenza è essa stessa una malattia e, come tale, si sovrappone e confonde il quadro clinico specifico delle malattie che interessano la persona senescente, rendendone difficile l’identificazione. Un esempio per tutti: l’ipertiroideo giovane lamenta e presenta un quadro clinico (calo ponderale, ipersudorazione, cardiopalmo, astenia, nervosismo, etc.) che difficilmente si discosta dal modello di malattia descritto sui libri. La stessa malattia, nel soggetto senescente, può essere facilmente misconosciuta, manifestandosi frequentemente con il solo disturbo del ritmo cardiaco, che, data l’età, potrebbe essere più facilmente interpretabile nell’ambito di una cardiopatia ischemica. Ebbene, gli studi che riportano la persistenza della discrepanza tra diagnosi clinica ed autoptica si riferiscono ad una popolazione significativamente più senescente di quella di 50 anni fa. Lo sviluppo della scienza medica, avendo con i suoi successi determinato un prolungamento della vita della popola- 617 zione, ha di fatto selezionato una popolazione di senescenti che presentano quadri clinici sempre più diversi dai modelli ideali, sia in virtù della loro età che della polipatologia frequentemente presente in questa età. Se la polipatologia può ingannare il clinico, impedendogli di riconoscere in vita un quadro patologico mascherato da altre affezioni, ciò può avvenire, se viene a mancare la collaborazione tra clinico ed anatomopatologo, anche durante il riscontro autoptico, poiché lo scoprire in un cadavere alterazioni appariscenti, sufficienti a chiarire la causa di morte del paziente, potrebbe indurre il settore a considerare esaurita la ricerca della presenza di altre lesioni determinanti il giudizio diagnostico del clinico. Va infine considerato il fatto che molte patologie di natura funzionale possono condizionare in modo determinante il giudizio clinico, pur senza determinare modificazioni organiche rilevabili sul piano autoptico. La convinzione, quindi, che il riscontro autoptico possa fornire sempre l’“evidenza” conclusiva della vicenda morbosa di un paziente deve essere anch’essa accolta con riserve e con limitazioni. In ogni caso, va considerato che solo da un confronto tra le informazioni ottenute dallo stesso riscontro autoptico e le ipotesi diagnostiche del clinico – confronto nel quale né le une né gli altri hanno diritto di assolutezza – è possibile pervenire a conclusioni “controllate” e affidabili. Nonostante il fatto che neppure il riscontro autoptico può rappresentare a nostro avviso il “Gold Standard” della diagnosi clinica, rimane sempre viva ed attuale la necessità di reintrodurne sistematicamente l’usanza. A tale proposito, la Scuola Triestina è estremamente categorica, in quanto sostiene che “Autopsies are useful to all those who are old now, and even more to those who will be old in the future, including ourselves. We certainly agree with those stating that the only meaningful autopsy rate would be 100 %” [17]. Conclusioni La ricerca della qualità nella diagnosi clinica, attraverso una sua validazione con quella autoptica, potrebbe sembrare la riproposizione di un’antica ricetta. Peraltro, nel mondo moderno, il riscontro autoptico può essere analizzato da molteplici punti di vista. Vi sono problemi etici, religiosi, sociali, economici, politici che rendono l’argomento di non facile trattazione. Se tuttavia lo si analizza solo dal punto di vista della sua validità, quale controllo della qualità clinica, si assiste ad uno strano paradosso. Tuttora, molti medici, pur riconoscendone la validità, “paradossalmente” ne rifuggono l’usanza. Questo trend, altro paradosso, coincide con una sempre maggior richiesta e ricerca di qualità nel mondo sanitario. Si impostano progetti di qualità, se ne ricercano indicatori validi, ma contemporaneamente, nessun cenno viene fatto alla necessità di sottoporre la diagnosi clinica al Recensione 618 sistematico controllo di qualità. I clinici, per problemi di budget, vengono valutati e incentivati più per le performances quantitative che non per la qualità delle stesse. È innegabile che l’analisi qualitativa, nel settore medico, non è una cosa facile, ma laddove alcuni strumenti, quali il riscontro autoptico, pur con i suoi limiti, sono in grado di fornire una certa validazione della diagnosi clinica, non si vede il motivo perché questi non vengano utilizzati sistematicamente. L’entità della concordanza diagnostica potrebbe sicuramente rappresentare un indicatore oggettivo per parametrare la qualità delle perfomances sanitarie e soprattutto costituire un indicatore di maggior garanzia per l’utente. La struttura ospedaliera, con una tale attività, potrebbe più facilmente essere accreditata da parte del servizio sanitario o dalle eventuali compagnie d’assicurazione. Lo stesso dovrebbe valere per le strutture assistenziali private. Al di là di queste moderne e giuste applicazioni, resta comunque valida la primitiva indicazione del riscontro autoptico come strumento di “autoformazione clinica”. La verifica, al tavolo autoptico, delle ipotesi avanzate e anticipate dal clinico rappresenta un controllo interno con ricadute pedagogiche e professionali attualmente insostituibili. La costante e sistematica abitudine del clinico a procedere e presenziare al riscontro autoptico dei casi da lui seguiti e giunti al decesso, anche se non fornirà la garanzia della futura infallibilità, indurrà inevitabilmente una riflessione critica sui punti di discordanza. In ultima analisi, l’individuazione degli errori clinici, siano essi errori veri e propri o “sbagli”, e l’analisi del percorso logico o delle circostanze contingenti, che hanno condotto ad essi, resta ancora uno degli strumenti più efficaci per far progredire le conoscenze del clinico, con conseguente miglioramento delle sue prestazioni professionali. 8. 9. 10. 11. 12. 13. 14. 15. 16. 17. 18. 19. della nascita, a cura di L. Premuda. La Garangola Editrice, Padova Baldini M (1995) Conan Doyle: gli aforismi di Sherlock Holmes. Newton Compton Ed Scandellari C (1996) Augusto Murri, Clinico Medico. 15-31; In: Morresi R (ed) Atti della Giornata di Studio “Augusto Murri medico ed epistemologo”. 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Le strategie aziendali per la prevenzione e gestione di tali eventi oscillano tra Sistemi Qualità e Sistemi di Controllo. L’errore con output “naturale” del processo produttivo appartiene alla sfera degli eventi patologici e determina una ridefinizione del processo produt- Recensione tivo (rappresenta una delle motivazioni all’adozione del BPR, Business Process Rengeneering). In questa sede, affronteremo solo l’errore come evento di natura accidentale. La categoria di rischio, aziendalmente attribuita a questo tipo di eventi, è il rischio puro. Ad essa concorrono eventi di natura accidentale, dolosa e naturale. Le aziende vivono (e muoiono) della corretta gestione di rischi competitivi/strategici, ma devono controllare, come altro elemento di sopravvivenza, anche i rischi puri. Il manifestarsi di uno degli eventi ascrivibili alla categoria dei rischi puri determina, a differenza dei rischi strategici e competitivi, il concretizzarsi di sola “perdita” per l’azienda. La cultura aziendale sui rischi puri si fonda su due discipline: Risk Management (R.M.), Gestione e Controllo del Rischio e Audit, Definizione e Gestione dei Controlli di Revisione. Sul R.M. – di origine e tradizione anglosassone – si fondano gran parte degli studi assicurativi e costituisce, tra l’altro, il fondamento della nuova impostazione delle più conosciute normative europee in materia di sicurezza del lavoro. L’elemento “assenza/carenza di dati”, fondamentale per fondare qualsiasi strategia di misurazione e gestione del rischio di tipo statistico sull’errore, anche in anatomia patologica, sconta probabilmente gli effetti della riservatezza/negazione, che nelle organizzazioni si riserva a questo tipo di eventi, e della mancanza di una cultura che tende (tendeva) ad attribuire gli effetti e le conseguenze economiche dell’errore ad altre categorie del “bilancio” aziendale. Per questi motivi, nella stima dell’evento correttamente e preventivamente individuato all’interno dei processi aziendali, come possibile “esito non desiderato” della “produzione”, si utilizzano valutazioni di tipo soggettivistico, svolte con metodologie consolidate e collaudate, che per dottrina individuano nello stesso soggetto/gruppo che è proprietario/responsabile del processo – opportunamente guidato e addestrato – il soggetto più idoneo cui affidare la fase di individuazione e stima dei rischi e dei possibili errori insistenti su un processo. La stima può/deve tenere conto di tutti gli eventi indispensabili alla correttezza dell’analisi quali, in particolare, i quasi-incidenti (si definiscono quasi-incidenti gli eventi verificatisi in un processo il cui potenziale danno/effetto non si sia realizzato per circostanze fortunate ed eccezionali) e può essere finalizzata all’individuazione di Key Performance Indicator (KPI) predittivi – indicatori che consentono di monitorare le cause/fattori di rischio (umano, organizzativo, tecnico, etc.) prima che si manifestino attraverso gli eventi – o KPI di misurazione, tesi a fornire quegli elementi utili di misurazione del fenomeno in termini di frequenza e gravità, di cui si lamentava sopra l’assenza. A tal fine, la recente introduzione di strumenti di Audit Management, in grado di valutare i sistemi di controllo interni nelle modalità di gestione di rischi qualitativi e di rischi puri (metodologie in grado di “pesare” efficacia e valore dei controlli in essere attraverso parametri strutturati e con riferimento alla rilevanza dei rischi individuati) consente agli operatori di usufruire di strumenti sofi- 619 sticati, in grado di guidare nelle scelte di implementazione del sistema di prevenzione e controllo, fino all’individuazione dei costi-benefici derivanti dall’adozione di più idonei strumenti/procedure, e stabilirne le relative priorità (elemento fondamentale in contesti di risorse limitate quali la sanità). L’istituzione di miglioramenti ai processi e/o punti di controllo e l’adeguatezza dei KPI individuati devono essere costantemente oggetto di valutazione/rivalutazione, alla luce delle innovazioni intervenute sul processo e/o di ulteriori rischi individuati od eventi verificatisi. Tra Risk Manager e Auditor si stanno tuttavia sviluppando sempre maggiori forme di collaborazione nell’individuazione, valutazione e misurazione, definizione delle strategie di prevenzione e protezione (la prima categoria tende ad agire sulla frequenza dell’evento, la seconda sul contenimento degli effetti dello stesso collegati direttamente o indirettamente al suo manifestarsi). La sofisticazione degli strumenti a disposizione dell’operatore nella “lotta all’errore” si arricchisce infine degli strumenti di Crisis Management, in grado di neutralizzare e contenere (oltre che prevedere) gli effetti tecnici/psicologici/relazionali e di comunicazione che investono persone e organizzazioni colpite da eventi accidentali. Le strategie di gestione Abbiamo appena esaminato velocemente le strategie e gli strumenti che le imprese utilizzano per prevenire errori e altri tipi di eventi temuti. Esistono diverse tipologie di errori, suddivise in: – errori organizzativi; – errori di comunicazione; – errori di esecuzione. L’errore ha comunque l’effetto di porre in crisi il professionista, il gruppo di lavoro e le relazioni fra i componenti il gruppo e in generale l’organizzazione sotto il profilo economico (salvo la piena attivabilità di coperture assicurative che comunque non coprono mai, o quasi, i danni indiretti collegati all’evento) e di immagine. L’effetto immagine/reputazione va considerato con attenzione, non solo verso l’esterno, ma anche verso l’interno. L’osservazione di questi fenomeni nel tempo ha rilevato, ad esempio, in coincidenza del verificarsi di errori di “evidenza pubblica”, l’inasprirsi della conflittualità sindacale. Per quanto riguarda gli effetti/reazioni del singolo e del gruppo di lavoro di fronte all’errore si rinvia, come stimolo, al punto di vista “provocatorio” che fa riferimento agli studi longitudinali della psicologia sociale, svolti negli Stati Uniti alla fine degli anni ottanta da A. Bandura sul “Disimpegno morale”: giustificazione morale, etichettamento eufemistico, confronto vantaggioso, dislocamento delle responsabilità, diffusione della responsabilità, distorsione delle conseguenze, de-umanizzazione della vittima, attribuzione 620 della colpa alla vittima. Si utilizza questo riferimento di lettura e interpretazione degli eventi, ritenendo che non si possa parlare di errore senza far riferimento al “danno” che ne consegue: un danno per l’Amministrazione, un danno per l’organizzazione, per gli autori e per i familiari della vittima. L’errore e\o danno significa che, esiste una disfunzionalità all’interno del sistema. L’errore, come errore di comunicazione, va analizzato con un’ottica “sistemico-relazionale”con l’obiettivo, attraverso questa chiave di lettura, di individuare delle strategie di superamento e|o di correzione. L’errore, secondo l’ottica sistemica è sempre un errore di comunicazione, nel senso più ampio del termine, e, trattandolo come tale, è possibile recuperarlo nei suoi effetti pragmatici, per riportarlo all’interno del sistema in cui si è verificato per poterlo “toccare”, elaborare e riconsegnare al gruppo di lavoro per il suo superamento: si “tocca” l’errore per conoscerlo. La gestione degli impatti organizzativi derivanti dal verificarsi degli errori, da inquadrarsi nell’area degli strumenti mirati alla protezione aziendale, volta cioè a contenere/comprimere gli effetti dell’evento verificatosi (come, ad esempio, la polizza assicurativa per le conseguenze economiche), è affidata al Crisis Management. La gestione delle crisi aziendali, intesa come disciplina oggetto di studi e modelli organizzativi, ha anch’essa origine anglosassone. I primi studi, attivati in seguito al verificarsi di casi che sono entrati nella storia industriale (ad esempio, caso Tylenol), sono stati fortemente incentrati sugli effetti relazionali, ma soprattutto sulla comunicazione aziendale nelle situazioni di crisi. Il legame tra visibilità dell’errore e effetti di immagine (e necessità di gestione degli stessi) è evidente. Al contrario, per relazione, si veda quanto già precisato in tema di quasi-incidenti. L’approccio è ancora una volta di tipo prevenzionale, fondato su tecniche di self/risk assessment, e può ricomprendere tecniche particolari, quali l’analisi di scenario (intesa come previsione della situazione organizzativa aziendale, dell’attenzione posta dall’utenza e dai media conseguenti alle diverse tipologie di evento). Le metodologie pre- Recensione vedono che l’analisi venga condotta da un gruppo di lavoro specializzato nei diversi profili che entrano in gioco in caso di crisi. Tale gruppo probabilmente coinciderà con il gruppo che sarà attivato, in caso di crisi, per la sua gestione. Il gruppo può essere opportunamente integrato di risorse esterne, anticipatamente individuate, reperibili ed istruite. L’attenzione viene posta in particolare sui seguenti aspetti: – previsione degli eventi possibili e installazione di indicatori di anomalia o “segnali deboli” (elementi che segnalano con anticipo adeguato il verificarsi di una crisi o delle circostanze, se i dati passati disponibili lo consentono, che in passato hanno preceduto/determinato situazioni di crisi); – attivazione dell’unità di crisi (processi organizzativi ed operativi di “allerta”); – definizione degli interventi tecnici per il ripristino/riallineamento del processo; – definizione delle strategie legali; – definizione delle strategie di comunicazione. Un’analisi da noi condotta sulle resistenze di piccole e medie imprese all’adozione di strumenti di Crisis Management ha evidenziato come sia infondato ritenere che la dimensione dell’organizzazione sia un elemento chiave della rischiosità dei processi aziendali. A tal fine, il nostro gruppo di lavoro ritiene spesso utile proporre e adottare, per motivi di costi, politiche e strumenti di Crisis Management in più fasi: formazione risorse, informazioni sulle risorse critiche, eventi possibili, sensori, piano, aiuti esterni, comunicazione del piano e addestramento delle risorse, riavvio del processo con l’individuazione di un altro evento possibile e dei relativi sensori, etc.. In ogni caso, l’esperienza sul campo ha dimostrato che l’istituzione del gruppo di lavoro, indipendentemente dal fatto, che non auguriamo mai, di dover verificare in concreto le competenze acquisite dallo stesso e gli strumenti predisposti, ha generato benefici significativi, nella struttura, sulla sensibilità al rischio/errore e al suo controllo.