Su questo “Numero uno”

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Su questo “Numero uno”
Il dibattito economico oltre i confini
a cura dell'Osservatorio Economico e Finanziario
Area Politiche di Sviluppo
Su questo “Numero uno”:
Sulla economia globale
 Sul FT del 18 novembre, Martin Wolf, nell'articolo “Il contributo corporate
all'eccesso di risparmio” affronta l'eccesso di risparmio delle aziende, causa il
ridursi degli investimenti. Per quali ragioni? Stagnazione secolare,
invecchiamento, globalizzazione, nuove tecnologie ecc. Sta di fatto che buona
parte del risparmio che si aggira per il mondo alla ricerca del rendimento
deriva dal mancato investimento degli utili delle aziende.
 L'editoriale dell'Economist del 14 novembre (titolo: La storia infinita).
Prima l'America, poi l'Europa. Ora la crisi del debito ha raggiunto i mercati
emergenti), con ripercussioni pesanti soprattutto sull'economia europea, più
esposta al raffreddamento della loro domanda. Ma il rischio più grande è la
circolarità della crisi del debito.
 Dal Blog di Joseph Stiglitz del 10 novembre, Stiglitz e Martin Guznam
nell'articolo “Un passo avanti per i debito sovrano” descrivono le recenti
decisioni dell'ONU (a maggioranza col voto contrario dei grandi paesi
principali creditori capeggiati da US e Germania) sui principi per la
ristrutturazione dei debiti sovrani. Il loro giudizio è positivo: per la prima volta
ci sono dei principi su cui la comunità internazionale si è impegnata. Ma
costruire su di essi il sistema sarà più difficile.
 Dal Blog di Marcello Minenna del 20 novembre l'articolo “Gestire
politicamente l'economia: le trappole cinesi” fa una disamina della
situazione in cui versa l'economia della Cian: problemi strutturali e possibili
soluzioni.
 Sulla Big Read del FT 25 novembre, titolo “Corporate tax” si affronta il
tema delle elusioni fiscali delle multinazionali che utilizzano le giurisdizioni
fiscali più convenienti mettendo in atto vere e proprie trattative coi governi o
sfruttando le legislazioni più favorevoli. Con il merger Pfizer/Allergan, da
$160 miliardi, si prevede un risparmio di 21 miliardi di tasse per il gruppo che
dopo la fusione ha stabilito sede legale e fiscale in Irlanda. Il caso dimostra la
sostanziale inefficienza delle nuove regole fiscali definite dall'OCSE su
mandato dei governi del G20 per dare un giro di vite all'elusione fiscale delle
multinazionali.
 Il presidente US Barak Obama interviene, in occasione del G20, con un
articolo sul FT del 13 novembre sulla debole ripresa economica globale.
Titolo: “La voce coraggiosa dell'America, da sola, non può bastare”.
 da New York Times dell'1 dicembre, un articolo riferisce della decisione del
FMI di inserire tra le monete che fanno parte del panel dei diritti speciali di
riserva, il renbimbi (Il fondo monetario internazionale aggiunge il renbimbi
alla lista delle monete di riserva). Questo corrisponde a una fortissima
aspirazione del governi cinese che ci lavora da tempo ma ha anche
implicazioni sulla politica monetaria e finanziaria della Cina.
Sulla economia della EU:
 Su Social Europe Journal del 10 novembre, con un articolo intitolato
“Approfondire la governance economica: i prossimi passi”, Iain Begg
illustra le proposta adottata dalla Commissione Europea il 21 ottobre, sulla
base del Five Presidents Report dello scorso giugno per rafforzare le istruzioni
e le procedure della governance economica. Il potere si concentra ulteriormente
nelle mani delle tecnostrutture europee, con interventi fortemente intrusivi
nella politica economica dei governi nazionali. Ma manca ogni rafforzamento
della legittimità e dell'accountability democratiche.
 Su FT 16 novembre, Wolfgang Munchau l'articolo “La ripresa italiana non
è quello che sembra” polemizza con le affermazioni di Yoram Gutgeld sulla
situazione economica del paese, solleva dubbi preoccupazioni.
 Su SEJ del 9 novembre un interessante intervento di Thorsen Schulten “La
contrattazione collettiva in Grecia dopo il terzo memorandum”:
l'agghiacciante descrizione della cura della troika e sui suoi effetti sulle
condizioni dei lavoratori in Grecia.
 Su SEJ del 30 novembre, Ronald Janssen con un articolo intitolato “Lost in
competition: il fondo monetario internazionale e il dumping salariale
competitivo dell'Eurozona” rende conto di una nota di discussione dello staff
del FMI. Il paper, pur affermando che la stretta salariale in larga parte
dell'Eurozona è pericolosa e deflattiva perché non migliorerà la posizione
competitiva relativa di nessuno mentre taglierà la domanda interna dappertutto,
non rinuncia a sostenere le politiche di svalutazione salariale sostitutiva di
quella monetaria, fin qui portate avanti nell'EU. Janssen ricorda le proposte
politiche della CES.
 Su SEJ del 30 novembre Nouriel Roubini scrive che “L'Europa non è
condannata al collasso”, ma descrive a tinte fosche la situazione in cui versa
l'EU, in particolare sostiene che la minaccia esistenziale viene dalla crisi dei
migranti, con tutto quello che c'è dietro di lei.
 Sul Wall Street Journal del 28 novembre, Marcello Minenna “Le sbagliate
riforme dell'euro approfondiranno la prossima crisi”, affronta e confuta le
nuove proposte tedesche per: nuova agenzia di controllo centralizzata e
indipendente sui bilanci nazionali, introduzione del meccanismo di bail in nelle
prossime emissioni di titoli pubblici, nuove ponderazione del rischio sui titoli
posseduti dalla banche. Evidenzia problemi e rischi.
 Paul De Grauwe sul suo Blog affronta il tema “L'Euro e Shengen: comuni
magagne e soluzioni comuni”, sostenendo che il problema per entrambi è
l'incompiutezza. O si completano, e ci vuole un forte impegno politico o sono
entrambe destinate a rompersi.
Sul clima:
 Editoriale dell'Economist del 28 novembre, “Clear thinking needed” che
sostiene che il riscaldamento globale non può essere affrontato usando la
mentalità e gli strumenti di oggi. Ma bisogna crearne di nuovi.
 Su FT del 18 novembre, Henry Paulson, sull'articolo intitolato “Abbiamo
bisogno di incentivi per salvare il clima - non solo di un accordo” sostiene
che per il cambiamento climatico, servono incentivi alle imprese.
 Su New York Times del 1° dicembre, un articolo riferisce di un report
scientifico di esperti cinesi, nominati dal governo, sui cambiamenti
climatici in Cina che individua grossi rischi: scioglimento dei ghiacci, siccità,
innalzamento dei mari, carenze idriche che potrebbero alimentare conflitti
internazionali alla frontiera dell'Himalaya.
Sulle tecnologie che rivoluzionano il lavoro:
 su SEJ 2 novembre, Steven Hill scrive “Perchè gli 'one-percenters'
beneficeranno della Gig Economy mentre il resto no”. La sua è una visione
molto pessimistica di come risulterà la riorganizzazione capitalistica delle
aziende aiutata dalla piattaforme tecnologiche che consentono lo
spezzettamento e l'outsourcing anche delle attività più professionalizzate e di
come la ricchezza e il reddito tenderanno a concentrarsi ulteriormente, a meno
che non si intervenga per tempo con misure di policy.
 su SEJ 20 novembre, Andrea Boes scrive un articolo intitolato
“Digitalizzazione: nuovi concetti del lavoro stanno rivoluzionando il
mondo del lavoro” in cui descrive, sulla base anche dell'esperienza dell'IBM,
come evolveranno – negativamente i rapporti di lavoro.
 Su SEJ 3 novembre, Simon Deakin scrive “Il Luddismo ai tempi di Uber”
e Jean Pisani-Ferry affronta il problema del cambiamenti dei sistemi di
sicurezza sociale a fronte delle profonde trasformazioni che stanno
intervenendo nell'organizzazione sociale del lavoro. Titolo: “I social benefits
nell'età di Uber”.
 In un breve intervento sul suo Blog il 30 novembre, Robert Reich spiega
“Perchè la sharing economy sta nuocendo ai lavoratori - e cosa si deve
fare”: Tra 5 anni, egli sostiene il 40% degli americani avrà un lavoro non di
tipo dipendente regolare. Tra 10 anni, in queste condizioni ci starà la stragrande
maggioranza. Quindi occorre operare interventi legislativi sulle tipologie
contrattuali e sul welfare.
 “I robots ci arricchiranno e non ci sostituiranno” è la tesi sostenuta in uno
dei pochi interventi ottimisti sull'evoluzione dell'organizzazione della
produzione. L'articolo è comparso sul FT il 21-22 novembre.
Financial Times 18 novembre 2015
Martin Wolf “Il contributo corporate all'eccesso di risparmio (saving glut)”
La nozione di "saving glut" aiuta a spiegare i tassi di interesse reali super-bassi che
stiamo vedendo dalla crisi globale del 2007-09. Ma l'idea di "stagnazione secolare"
suggerisce che questo eccesso era emerso anche prima. Per spiegare perché,
dobbiamo guardare al comportamento del settore corporate.
Quale analisi si adatta allora allo spostamento dell'equilibrio di bilancio tra i
programmi di risparmio e di l'investimento? La risposta comincia con il fatto che le
companies generano un enorme proporzione di investimento. Nelle sei economie a
alto reddito più grandi (US, Giappone, Germania, Francia, UK e Italia), le
corporations hanno contato per una quota tra metà e due terzi dell'investimento lordo
del 2013 (la quota più bassa è quella italiana, la più alta quella giapponese).
Poiché le corporations sono responsabili di tale grande quota di investimento, sono
anche, in termini aggregati, i più grossi utilizzatori del risparmio disponibile, ma gli
stessi guadagni trattenuti da loro stesse sono una grande fonte di risparmio. Perciò in
questi paesi, i profitti corporate hanno generato tra il 40% (Francia) e il 100%
(Giappone) del risparmio lordo (compreso il risparmio estero) disponibile per
l'economia.
In un'economia dinamica, ci si aspetterebbe che le corporations, in termini aggregati,
usino l'eccesso di risparmio di altri settori - soprattutto quello delle famiglie - per
generare sia domanda allegra che offerta crescente. Se tuttavia l'investimento è
debole e i profitti forti, il settore corporate diventerà, stranamente, un finanziatore
netto dell'economia. Il risultato sarà una mistura di deficits fiscali, deficits finanziari
delle famiglie e avanzi delle partite correnti (cioè deficits di conto capitale). In
Giappone i deficits fiscali compensano gli enormi surpluses corporate. In Germania,
un deficit di conto capitale compensa i surpluses corporate e delle famiglie.
Dall'inizio della crisi, i settori corporate delle grandi economie ad alto reddito hanno
avuto surpluses di risparmio rispetto all'investimento, con l'eccezione della Francia. Il
surplus di risparmio delle corporations giapponesi è, sorprendentemente, vicino
all'8% del PIL. I settori corporate hanno pertanto sostanzialmente contribuito al
saving glut. Non è solo un fenomeno post-crisi. Anche nella fase di accumulo della
crisi, i settori corporate hanno avuto surpluses in Giappone, UK e Germania (tranne
che nel 1008) e negli US (tranne che nel 2007 e nel 2008). Un paper della FED nota
che la Grande Recessione è stata in parte responsabile di tali surpluses, ma aggiunge
che anche nei 5 anni prima della crisi, i tassi di investimento corporate "si sono ridotti
al di sotto dei livelli che erano stati previsti dai modelli stimati negli anni precedenti".
La crescita dei surpluses del risparmio corporate è guidata da una combinazione di
profitti forti e investimenti deboli. L?indebolimento dell'investimento è strutturale e
ciclico al tempo stesso. Per di più. l'indebolimento è diffuso. Ciononostante l'eccesso
di risparmio corporate del Giappone è di dimensione unica. Qualsiasi analisi delle
sfide economiche del Giappone che non partono da questo fatto sono essenzialmente
senza valore.
E' inoltre importante non confondere l'eccesso di risparmio corporate rispetto
all'investimento con le accumulazioni, ampiamente notate, di liquidità da parte di
dumping molte companies. Il business può acquisire liquidità non solo accaparrando i
risparmi messi da parte ma anche prendendo prestiti o vendendo assets.
L'osservazione che il surplus strutturale di risparmio sull'investimento sembra sia
emerso nei settori corporate dei grandi paesi ad alto reddito è altamente significativa.
E' significativa per la crescita dell'offerta potenziale perché riflette un investimento
relativamente flebile, ma è significativa anche per la forma della domanda aggregata.
Se il settore corporate ha surplus strutturale di risparmio rispetto all'investimento,
altri dumping settori devono avere deficit strutturali compensativi. Se il governo è in
equilibrio finanziario, sia le famiglie che gli stranieri devono avere questi deficitsdumping. Nell'Eurozona questa logica ha portato a enormi surpluses di partite
correnti (undumping deficit finanziario per gli stranieri). Per l'UK e gli US è
probabile che significhi nuovi deficits delle famiglie - una possibilità pericolosamente
destabilizzante.
Perchè l'investimento corporate è strutturalmente debole? Una ragione è
l'invecchiamento delle società: il rallentamento della crescita potenziale determina
l'abbassamento del livelli dell'investimento necessario.
La globalizzazione è un'altra: motiva la riallocazione dell'investimento dai paesi ad
alto reddito. Un'altra ragione ancora è l'innovazione tecnologica. Buona parte
dell'investimento è oggi nell'IT, il cui prezzo sta collassando: un costante
investimento nominale finanzia la crescita dell'investimento reale. Di nuovo, buona
parte dell'innovazione sembra ridurre la necessità di capitale: si consideri la
sostituzione dei magazzini per retail stores. Un'altra spiegazione potrebbe essere che
il management non è premiato per l'investimento.
Insieme, tutto ciò potrebbe spiegare perché, ad esempio negli US, il rapporto
dell'investimento corporate sui profitti si è significativamente ridotto a partire dal
2000.
Il comportamento del settore corporate solleva anche importanti domande di policy.
La tassazione corporate, per esempio, dovrebbe sicuramente incoraggiare sia
l'investimento che la distribuzione dei profitti. Il modo per ottenere questi obiettivi
congiunti potrebbe essere attraverso tasse più alte sui risparmi messi da parte, insieme
con la piena deducibilità sia degli investimenti che dei dividendi.
Oltre ciò,è stato accettato che, fino a quando il settore corporate ha surpluses
finanziari strutturali, l'equilibrio macroeconomico è probabile che richieda deficits
fiscali. Inoltre, se il settore corporate non riesce a investire i suoi stessi risparmi, i
risparmi nel resto dell'economia sonio destinati ad avere un basso valore marginale.
In un mondo simile, tassi di interesse reali super-bassi e alti prezzi dell'equity non
costituiscono affatto una sorpresa. Sono entrambi prevedibili. Allora finiamo di
lamentarcene.
Economist 14 novembre 2015
“La storia infinita”
Prima l'America, poi l'Europa. Ora la crisi del debito ha raggiunto i mercati
emergenti.
Sono quasi 10 anni da quando la housing bubble americana è scoppiata. Sono sei da
quando l'insolvenza greca ha acceso l'eurocrisi. A legare questi episodi è stata la
rapida crescita del debito seguita da uno scoppio. Una terza puntata delle cronache
del debito si sta svolgendo ora. Questa volta il setting sono i paesi emergenti. Gli
investitori hanno già scaricato gli assets nel mondo in via di sviluppo, ma la piena
agonia della crisi è ancora da venire.
Le crisi del debito nei paesi più poveri non è nulla di nuovo. In qualche modo è meno
drammatica dei defaults e delle rotture monetarie verificatesi negli anni 1980s e
1990s. Oggi i mercati emergenti, in gran parte, hanno tassi di cambio più flessibili e
riserve più grandi e quote più piccole del loro debito in moneta straniera. Cionostante,
la scoppio colpirà la crescita più duramente di quanto la gente si aspetti ora,
indebolendo l'economia mondiale anche con la FED che comincia ad alzare i tassi di
interesse.
Cronaca di un debito annunciato
In tutti e tre i volumi di questa trilogia del debito, il ciclo è cominciato con il fluire di
capitali attraverso le frontiere, l'abbassamento conseguente dei tassi di interesse e
l'incentivo alla crescita del credito. In America un eccesso di risparmio globale, in
gran parte dall'Asia, ha inondato il subprime housing, con risultati disastrosi.
Nell'Eurozona, i parsimoniosi tedeschi hanno aiutato a finanziare il boom
dell'immobiliare irlandese e della spesa pubblica greca.
Quando queste bolle del mondo ricco si sono trasformate in fallimento, spedendo i
tassi di interessi a minimi storici, il flusso di capitali ha cambiato direzione. Il denaro
è fluito dai paesi ricchi a quelli poveri. Ma è stata un'altra baldoria: troppi prestiti,
troppo velocemente e quantità di debito assunto dalle imprese per finanziare progetti
imprudenti o acquisti di asset eccessivamente cari.
Complessivamente, il debito nei paesi emergenti è cresciuto dal 150% del PIL nel
2009 al 195%. Il debito corporate è cresciuto da meno del 50% del PIL a quasi il 75%
del PIL. Il rapporto debito/PIL cinese è cresciuto di quai il 50% negli ultimi 4 anni
dumping
Ora anche questo boom sta giungendo a termine. Il rallentamento della crescita cinese
e i deboli prezzi delle materie prime hanno scurito le prospettive anche con un
dollaro più forte e un approccio di interessi più alti in America argina il flusso di
capitale a buon mercato. Poi arriva il conto. Alcuni cicli del debito finiscono in crisi e
in recessione - testimoniato sia dal la debacle dei subprime e poi dall'agonia
dell'Eurozona. Altre finiscono solo in un rallentamento della crescita, con i borrowers
che smettono di spendere e i lenders che auto-affondano per recuperare. La
dimensione del boom del credito nei mercati emergenti assicura che le conseguenze
faranno male. IN paesi in cui l'indebitamento del settore privato è cresciuto più del
20% del PIL,il passo della crescita del PIL rallenta in media di quasi tre punti
percentuali nei tre anni dopo il picco del borrowing. Ma quanta pena riserva il futuro
dipenderà anche da fattori locali, dalla dimensione dell'aggiustamento del tasso di
cambio che ha già avuto luogo nella dimensione delle riserve dei paesi. Crudelmente,
la maggior parte delle economie emergenti può essere messa in uno di questi tre
gruppi.
Il primo gruppo include quelli per i quali il boom del credito sarà seguito da un
prolungato hangover, non un attacco di cuore. Appartengono a questa categoria quelli
come Singapore e Corea del sud; così, in modo cruciale per l'economia del
mondo,anche la Cina. Ha ancora difese formidabili per proteggerla dall'exodus dei
dumping capitali. Ha un surplus di partite correnti enorme. Le sue riserve di moneta
straniera erano ancora di 3.5 trilioni di dollari ad ottobre, approssimativamente tre
volte il debito estero. I policy makers hanno la possibilità di salvare i borrowers e
mostrano pochi segni di voler sopportare defaults. Nascondere i problemi sotto il
tappeto non te ne libera. Le imprese che devono fallire barcollano; i crediti bidone
aumentano nei bilanci delle banche; un eccesso di capacità nei settori come l'acciaio
portano al dumping negli altri. Tutto ciò mina la crescita, ma fa scendere la minaccia
di una crisi grave.
Per quel rischio, si guardi invece ai paesi della seconda categoria - quelli che
dumping mancano degli stessi mezzi per il salvataggio dei borrowers imprudenti o
che si proteggono dalla fuga dei capitali. Delle economie più grandi, in questa
categoria ne risaltano tre. Il corporate bond market del Brasile è cresciuto di 12 volte
dal 2007. Il suo attuale deficit di conto corrente significa che poggia sul capitale
straniero; la sua dumping paralisi politica e l'inflessibilità fiscale non offrono nulla
per rassicurare gli investitori. Le banche della Malesia hanno perso molte
obbligazioni straniere, e le sue famiglie hanno il più alto rapporto debito/reddito di
tutti gli altri paesi emergenti; il suo ammortizzatore di riserve straniere sembrano
sottili e il suo surplus di conto corrente è prevedibile si restringa. La Turchia combina
un deficit di conto corrente, inflazione alta e debito denominato in moneta estera che
è diventato più oneroso con la svalutazione della lira.
Il terzo gruppo di paesi consiste in quei mercati emergenti che riusciranno a evitare
problemi seri e hanno già superato il peggio. Dei più grandi, l'India è nelle condizioni
migliori di ogni altra economia emergente e la Russia potrebbe superare le
aspettative. Il rublo ha già avuto un aggiustamento maggiore di ogni altra grande
moneta, e l'economia mostra segni di tentativi di risposta. Anche l'Argentina, un flop
perenne ma con poco debito privato, potrebbe brillare se un riformista vincerà le
elezioni presidenziali questo mese.
A parte tali brillanti spots, tutto il resto punta a un altro pallido anno per l'economia
del mondo. Il FMI prevede una crescita più alta nei mercati emergenti l'anno
prossimo; la lezione dei passati cicli del debito suggerisce che un altro anno di
rallentamento è la cosa più probabile. E la debolezza del mondo in via di sviluppo,
che conta per quasi la metà dell'economia globale (in termini di parità di potere
d'acquisto), conta molto di più di quanto contasse in passato. Una crescita più bassa
nei paesi emergenti colpisce i profitti delle multinazionali e il cash flow per gli
esportatori. I bassi prezzi delle materie prime aiutano gli importatori di petrolio ma
accrescono la pressione sulle miniere indebitate, i trivellatori e i traders, che, tra di
loro, sono debitori di circa tre trilioni di dollari.
Quarto volume?
L'economia europea aperta è la più esposta al raffreddamento della domanda dei
paesi emergenti, ed è per questo che appare probabile un maggiore monetary easing.
Ma il dilemma della policy americana è più acuto. La divergenza nella politica
monetaria tra lei e il resto del mondo porterà pressioni verso l'alto del dollaro,
colpendo esportazioni e guadagni. E ondate di capitale possono possono di nuovo
cercare il consumatore americano come il borrower scelto. Se è così, la crisi del
debito del mondo può tornare a dove è cominciata.
Dal Blog di Joseph Stiglitz 10 novembre 2015
Joseph Stiglitz e Martin Guznam “Un passo avanti per il debito sovrano”
Ogni paese avanzato ha una legge fallimentare, ma non c'è una cornice equivalente
per i sovereign borrowers. Questo vuoto giuridico è importante perché, come
possiamo ora vedere in Grecia e in Puerto Rico, può risucchiare la vita delle nostre
economie.
A settembre, l'ONU ha fatto un grosso passo avanti per riempire tale vuoto,
approvando una serie di principi per la ristrutturazione dei debiti sovrani. I nove
precetti - ossia il diritto sovrano di iniziare una ristrutturazione del debito, l'immunità
sovrana, l'equo trattamento dei creditori, la (super) maggioranza per la
ristrutturazione,la trasparenza, l'imparzialità, la legittimità, la sostenibilità e la buona
fede nei negoziati - formano i rudimenti di un'efficace stato di diritto internazionale.
Il travolgente sostegno per tali principi, con 136 membri dell'ONU che hanno votato
a favore e solo 6 contrai (guidati dagli USA), mostra l'estensione del consenso
globale sulla necessità di risolvere le crisi dei debiti in modo tempestivo. Ma il
prossimo step - un trattato internazionale che stabilisce un regime globale per la
bancarotta cui i paesi sono obbligati - può dimostrarsi più difficile.
Gli ultimi eventi sottolineano i rischi enormi posti dalla mancanza di una quadro per
la ristrutturazione del debito sovrano. La crisi del debito di Puerto Rico non può
essere risolta. In particolare, i tribunali US hanno invalidato la legge fallimentare
nazionale, sentenziando che poiché l'isola è, nei fatti, una colonia US, il suo governo
non aveva l'autorità per mettere in atto una propria legge.
Nel caso dell'Argentina, un altro tribunale US ha permesso a una piccola minoranza
di cosiddetti Vulture funds di danneggiare un processo di ristrutturazione su cui aveva
convenuto il 92.4% dei creditori del paese. Analogamente, in Grecia, l'assenza di un
quadro giuridico internazionale, è stata una importante ragione per la quale i creditori
- la troika composta dalla Commissione Europea, la BCE e il FMI - hanno potuto
imporre politiche che hanno inflitto un danno enorme.
Ma qualche potente attore si fermerebbe ben al di sotto della messa in atto di un
framework giuridico internazionale. L'International Capital Market Association
(ICMA), sostenuta dal FMI e dal tesoro US, suggerisce di cambiare il linguaggio dei
contratti del debito. La pietra angolare di tali proposte è la realizzazione di migliori
clausole per azioni collettive (CACs) che renderebbero vincolanti per tutti gli altri le
proposte di ristrutturazione del debito approvate da una super-maggioranza.
Ma mentre migliori CACs certamente complicherebbero la vita dei vulture funds,
non sono tuttavia una soluzione complessiva. Infatti, il focus su ritocchi ai contratti di
debito lascia irrisolti molti temi critici e in qualche modo conferma le attuali carenze
del sistema - o addirittura peggiora le cose.
Per esempio, una seria questione che resta non affrontata dalla proposta dell'ICMA è
come risolvere conflitti che nascono quando sono emessi i bonds in giurisdizioni
diverse, con diversi quadri giuridici. La legge contrattuale potrebbe funzionare bene
quando c'è solo una classe di holdbonders; ma quando si arriva a bonds emessi in
diverse giurisdizioni e monete, la proposta del'ICMA non riesce a risolvere il difficile
problema della "aggregazione" (come pesare i voti dei diversi pretendenti?)
Inoltre, la proposta dell'ICMA promuove comportamenti collusivi tra i principali
centri finanzia: i solo creditori i cui voti contano per l'attivazione delle CACs
sarebbero quelli che possedevano bonds emessi in un ristretto gruppo di giurisdizioni.
E non fa niente per affrontare la severa disuguaglianza tra i creditori formali e quelli
impliciti (cioè i pensionati e i lavoratori nei confronti dei quali anche i creditori
hanno delle obbligazioni) che non avrebbero voce nella proposta della
ristrutturazione.
Tutti e sei i paesi che hanno votato contro la risoluzione dellONU (US, Canada,
Germania, Israele, Giappone e Regno Unito) hanno una legge fallimentare nazionale
e riconoscono che le CACs non sono sufficienti. Ma tutti rifiutano di accettare che il
fondamento logico per una stato di diritto nazionale - comprese le previsioni per
proteggere i deboli borrowers da creditori potenti e insultanti - si applicano anche a
livello internazionale. Forse questo è perché sono tutti paesi creditori che non hanno
alcuna voglia di sottoporre a restrizione i loro poteri.
Il rispetto dei nove principi approvati dall'ONU è precisamente quello che è mancato
negli ultimi decenni. La ristrutturazione del debito greco del 2012, per esempio, non
ha ripristinato la sostenibilità, come è stato dimostrato dal disperato bisogno di una
nuova ristrutturazione soltanto tre anni dopo. Ed è diventata quasi una norma violare i
principi dell'immunità sovrana e dell'equo trattamento tra i creditori, evidenziata in
modo così chiaro della sentenza del tribunale di New York sul debito argentino. Il
mercato dei credit default swaps ha portato a processi non trasparenti di
ristrutturazione del debito che non ha creato incentivi alle parti di negoziare in buona
fede.
L'ironia è che paesi come gli US obiettano a un quadro legislativo internazionale
perché esso interferisce con la loro sovranità nazionale. Ma il principio più
importante cui la comunità internazionale ha dato il suo assenso è il rispetto per
l'immunità sovrana: ci sono limiti oltre i quali i mercati - e i governi - non possono
andare.
I governi possono essere tentati di scambiare la immunità sovrana per migliori
condizioni di finanziamento nel breve termine a spese di costi maggiori che
graveranno sui loro successori. Nessun governo dovrebbe avere il diritto di
rinunciare all'immunità sovrana, proprio come nessun individuo può vendersi come
schiavo.
La ristrutturazione del debito non è un gioco a somma zero. Il quadro che la governa
determina non solo come è divisa lo torta tra i creditori formali e tra i rivendicanti
formali e informali, ma anche la dimensione della torta stessa. I quadri nazionali per
la bancarotta si sono evoluti perché era controproducente punire con il carcere i
debitori insolventi - un carcerato non può ripagare i suoi debiti. Allo stesso modo,
prendere a calci i paesi debitori quando sono giù, peggiora soltanto i loro problemi:
neppure i paesi in caduta libera possono restituire i loro debiti.
Un sistema che veramente risolve le crisi de debito sovrano deve basarsi su principi
che massimizzino la dimensione della torta e assicurino che sia equamente distribuita.
Abbiamo ora l'impegno della comunità internazionale sui principi; dobbiamo solo
costruire il sistema.
Dal Blog di Marcello Minenna 20 novembre 2015
“Gestire politicamente l'economia: le trappole cinesi”
Dopo 8 mesi di continua contrazione, la forza del manifatturiero cinese è
ufficialmente arenata. La corsa sulle montagne russe dell'estate 2015 con il crollo del
suo mercato e gli improvvisi cambiamenti di policy ha determinato negli uffici
governativi il diffondersi della paura di perdere ulteriori punti di crescita del PIL.
L'ultima stima (probabilmente ottimistica) di un tasso di crescita del 6.9% appare
deludente se confrontato con la crescita a due cifre di qualche anno fa quando la
Cima aveva superato la Germania e il Giappone, minacciando direttamente la
leadership economica US.
La risposta del governo alla crisi è stata di esercitare ancora più controllo
sull'economia, ma nello stato presente è difficile valutare se la sua cura sta
realmente aiutando a consolidare la struttura economica cinese o ne sta indebolendo
le fondamenta. Subito dopo lo shock Lehman nel 2008, Pechino ha reagito con
efficacia, agganciando lo yuan al dollaro US nel Forex market e in tal modo
riducendo le oscillazioni monetarie in una banda molto limitata. Per di più, la People
Bank of China ha iniettato liquidità aggiuntiva nell'economia reale per sostenere gli
investimenti e il settore immobiliare.
Purtroppo, questa abbondante liquidità ha avuto l'effetto avverso di accendere
massive bolle di assets e di permettere investimenti in progetti dubbi o addirittura
disastrosi (ad esempio il casino di Macao e parte del sistema ferroviario ad alta
velocità). Le bolle immobiliari sono destinate a scoppiare e così è avvenuto in Cina.
Per compensare la perdita di ricchezza nominale, la controversa strategia del governo
è stata di gonfiare ulteriormente la bolla dello stock market; dall'ottobre 2014, una
propaganda robusta ha incoraggiato più di 100 milioni di cinesi a investire i loro
risparmi nella borsa valori. Ovviamente gli indici dell'equity sono aumentati (la
borsapawn off di Shanghay ha guadagnato più del 110% in 7 mesi) e alla fine ha
raggiunto il picco, con la conseguente vendita da panico.
La mossa successiva del governo è stata abbastanza shockante: con l'intento di
limitare le perdite e di frenare il panico, la vendita degli assets è diventata
improvvisamente difficile e persino illegale.
Di conseguenza, i nuovi 100 milioni di "smart traders" sono stati costretti a rimanere
“pawn off” bloccati in un bear market, una situazione molto estranea agli standards
del 21esimo secolo. Anche se si è colto l'obiettivo principale di bloccare il crollo dei
mercati e i valori fluttuano oggi intorno ai livelli dell'inizio del 2015, stanno
emergendo altri seri problemi.
Infatti, i macro dati cinesi stanno segnalando una debolezza strutturale: l'export
market (la tradizionale destinazione del manifatturiero) sta rallentando, con una forte
caduta di -3.7% su basi annuali, la domanda interna non sta crescendo e il tasso di
inflazione è consistentemente basso. Sul fronte finanziario dell'economia, il debito
totale (pubblico e privato) ha raggiunto la barcollante cifra del 280% del PIL, con il
credito incagliato o in sofferenza che in un anno ha raggiunto il 35% sui bilanci delle
banche cinesi.
Non c'è da stupirsi che il governo cinese abbia tentato qualcosa di radicale: a metà
agosto la banca centrale ha deciso un riaggancio dello yuan al dollaro, mandando
ondate di shock nei mercati finanziari del mondo. L'obiettivo di tale misura era la
svalutazione della moneta in "modo controllato" al fine di stimolare l'export e
simultaneamente di promuovere lo yuan come riserva monetaria primaria attraverso
negoziati con il FMI per entrare nell'élite club delle monete. Mentre il FMI sta
ancora valutando la richiesta della Cina, la banca centrale cinese sta combattendo per
equilibrare una politica monetaria accomodante (tagli multipli dei tassi di interesse,
riduzione delle riserve minime per le banche cinesi, criteri più flessibili di
accettazione dei collaterali) con il controllo del tasso di cambio in un regime di più
deboli controlli sui capitali.
Lo yuan si sta, nei fatti, svalutando ma non a un tasso rapido, poiché la banca centrale
sta vendendo enormi riserve monetarie straniere per controbilanciare le pressioni al
ribasso sul tasso di cambio. Ma questa strategia ha avuto un costo: il deflusso di
"valute forti" sta avendo un considerevole impatto sulle altre economie, perché il
35% delle riserve straniere della People Bank of China sono Us treasuries. In altre
parole, la Cina sta vendendo quello che la FED ha comprato con il suo Quantitative
Easing, riducendo in parte la liquidità globale con un "QE di direzione inversa".
Questa strategia può funzionare o meno, maggiormente dipendendo dai movimenti
degli altri grandi players dell'economia mondiale, ma sicuramente può avere successo
per un tempo limitato. Sta ora emergendo con chiarezza che l'indebolimento dello
yuan ha colpito le esportazioni dell'Eurozona (soprattutto della Germania),
minacciando in tal modo la ripresa "export driven" immaginata dalla BCE;
probabilmente il driver principale dell'accennato QE2.0 da parte del presidente
Draghi è profondamente radicato nella crisi interna della Cina.
La sfida principale per riaccendere la crescita della Cina è spingere la domanda
interna incoraggiando i consumi privati; questi restano a livelli bassi se confrontati
con quelli dei paesi sviluppati. Un forte segnale in tale direzione è arrivato qualche
giorno fa con l'inversione della politica del figlio unico; forse questa è la direzione
giusta da seguire per la seconda più grande economia del mondo e potrebbe
dimostrare che in qualche caso una forte guida politica è meglio del solo "laissez
faire". Di certo, non sarà facile. Dalle riforme economiche degli anni '80, la Cina ha
avuto considerevole successo nel seguire un sentiero "goldilocks" (che si è dimostrato
esatto) tra l'ortodossia neo-liberista e la pianificazione economica, con enormi
pressioni esterne subite dai lavoratori cinesi e dall'ambiente. Ora il sentiero si è
ristretto, ma realisticamente è il solo che la Cina può sperare di seguire
Financial Times 25 novembre 2015
Big Read “Corporate tax”
Con il merger Pfizer/Allergan da $160 miliardi si prevede un risparmio di 21
miliardi di tasse per il gruppo combinato. Con l'OCSE che sta imprimendo un
giro di vite sull'elusione fiscale, cosa possono fare gli US per chiudere gli
“inversion loopholes” (scappatoie delle tasse corporate)
Un vecchio edificio industriale nel quartiere periferico working-class Clonshaugh di
Dublino è un luogo inaspettato in cui trovare la prova della guerra globale
dell'elusione fiscale corporate. Ma il sito, prova del ruolo centrale dell'Irlanda nel più
grosso scossone nell'industria farmaceutica da una generazione, è un legame cruciale
nel controverso fenomeno delle imposte corporate (tax inversions).
Un edificio bianco, basso, di acciaio e vetro è l'ex quartier generale Di Forest
Laboratories, ora una divisione di Allergan a seguito di una serie di takeovers per
motivi fiscali e di cambiamenti di nome, culminati nel 2014 in un'acquisizione da $25
miliardi. Lunedì la posta in gioco è ulteriormente cresciuta dopo che Allergan ha
convenuto una fusione da $160 miliardi con Pfizer degli US, un accordo che creerà il
gruppo farmaceutico più grande al mondo per vendite.
Allergan – una volta di base negli US – già raccoglie i frutti di essere domiciliato in
un paese low-tax. L'anno scorso ha pagato in Irlanda una aliquota fiscale inferiore al
5%. Se l'accordo Pfitzer-Allergan verrà approvato, potrà usare una inversion – in cui
un'azienda può ridomiciliarsi in una giurisdizione low-tax – per ottenere lo stesso
tasso.
Pfizer è l'ultimo gruppo US che prende questa strada, seguendo i passi, tra gli altri, di
Burger King, di Liberty Global e Medtronic. Ma il premio per essere riuscito a
districarsi dal sistema fiscale US per Pfizer è di gran lungo più grande: la manna di
guadagni superiori a $21 miliardi; l'accesso ai $130 miliardi di guadagni offshore che
ha schermato alle autorità americane; e una riduzione del tasso fiscale dal 25.5%
dello scorso anno a uno tra il 17 e 18% .
Ma se la fusione si dimostra essere un vantaggio per la società nata con la fusione,
metterà anche in difficoltà almeno due governi. La settimana scorsa il Tesoro US ha
annunciato misure deterrenti contro tali inversions, con Jack Lew, segretario del
Tesoro US, che le ha liquidate come “transazioni per eludere le tasse”, mentre
Washington sta ancora cercando di riformare il proprio sistema fiscale.
Dopo poche ore dall'annuncio dell'accordo Pfizer, Hillary Clinton, frontranner per
la nomination presidenziale democratica, ha accusato il gruppo farmaceutico di
evitare la sua “giusta quota” di tasse.
L'Irlanda, già nel mirino di una investigazione EU sull suo regime fiscale, è in una
posizione ancora più scomoda. Nella disperata ricerca di evitare ulteriori indagini
sulle politiche fiscali del suo paese, Michael Noonan, ministro delle finanze
irlandese, dopo l'accordo Pfizer, ha insistito che IDA Ireland, l'agenzia di
investimento interno del paese, non ha incoraggiato le inversioni.
La rabbia, soprattutto in Europa, sulla elusione fiscale corporate, ha innescato
richieste di un giro di vite internazionale per chiudere le scappatoie, migliorare la
trasparenza e restringere l'uso dei paradisi fiscali. Le riforme, disegnate per assicurare
che le tasse siano pagate dove si realizzano i profitti sono state sostenute questo mese
dai leaders del G20 che ha commissionato le proposte all'OCSE.
“La ricreazione è finita” dice Pascal Saint-Amans, dirigente top tax official
dell'OCSE, che si è impegnato a porre fine alla “golden era” del “non paghiamo tasse
da nessuna parte”.
L'attrazione dell'Irlanda
Il giro di vite proposto al G20 ha grosse implicazioni per l'Irlanda e oltre. Il suo
successo nell'attrarre le multinazionali da Pfizer a Apple a Google e Facebook è in
larga parte dovuto a una politica industriale tax driven che è in essere da 50 anni. Il
risultato è stato la creazione di decine di migliaia di posti di lavoro – secondo la
Camera di Commercio US, le società US presenti in Irlanda occupano 140.000
persone. Pfizer è stata una delle prime multinazionali US a porre in essere
un'operazione manifatturiera in Irlanda quando, nel 1969, è arrivata a Ringaskiddy,
allora un tranquillo villaggio di pescatori vicino a Cork ma ora un grande hub
industriale. Per decenni l'Irlanda ha offerto una esenzione fiscale sulle vendite
export. Questa è stato poi sostituita da una tassa corporate del 12.5% - sebbene tale
tassa sia spesso ulteriormente ridotta usando schemi complessi come il notorio
“double irish” che sfrutta le scappatoie delle legislazioni US e irlandese per
consentire lo spostamento dei profitti in paradisi fiscali ancora più convenienti come
le Isole Cayman.
La scappatoia di cui hanno beneficiato soprattutto le società tecnologiche, è stata
chiusa dal governo irlandese.
IDA minimizza il ruolo del sistema fiscale. Martin Shanahan, chief executive, dice:
“Ogni decisione di investimento si basa su un certo numero di fattori, il più
importante dei quali è il talento – è dunque qualcosa di più complesso delle sole
tasse”.
Me la società possono comprare tanto talento con i miliardi di dollari che risparmiano
dai loro conti fiscali. Le società farmaceutiche e tecnologiche sono particolarmente
capaci di trarre vantaggio dal sistema fiscale irlandese business-friendly a causa della
facilità con cui possono muovere i brevetti - e i profitti a questi associati - per
medicine inventate all'estero. Più della metà dei brevetti in Irlanda copre invenzioni
fatte fuori dal paese, una proporzione più alta di ogni altro luogo ad eccezione del
Lussemburgo.
La facilità con cui le aziende possono spostare i profitti in paesi low-tax è ora sfidata
dalla stretta sui più di $240 miliardi persi attraverso quella che l'OCSE descrive come
“base erosion and profits shiftings” o Beps. Jim Steward, professore di finanza al
Trinity College di Dublino, dice: “L'Irlanda facilita l'erosione delle basi fiscali dei
paesi offrendo agevolazioni molto vantaggiose alle multinazionali che operano qui,
che altrove non sarebbero permesse”.
Aggiunge, tuttavia, che l'Irlanda non è la peggiore colpevole nell'EU, individuando
nel Lussemburgo e nell'Olanda paradisi fiscali più ampi.
Molti esperti fiscali credono che i paesi resisteranno a fare i cambiamenti più sgraditi,
indulgendo in “mock compliance” (finta adesione) alle mosse dell'OCSE; altri
sceglieranno di prendere le misure. Ci sono già tensioni sul fatto che la politica
fiscale – come in Irlanda – possa essere una fonte di vantaggio competitivo. Krister
Andersson, della Confederazione svedese delle imprese dice: “C'è la percezione che
Beps concerni le imprese. Invece concerne moltissimo i paesi”
Tensioni US
Per gli US, il political gridlock (stallo politico) al Congresso – e l'opposizione di
alcuni al progetto Beps – è una della ragioni per le quali si prevede che la riforma
sostenuta dall'OCSE avrà un impatto limitato. Ma malgrado la rigida opposizione
delle multinazionali, il Tesoro è intento a introdurre misure per aiutare le autorità
fiscali ad accendere la luce su strutture, precedentemente opache, rivelando dove le
società realizzano i loro profitti o dove pagano le tasse.
Molti imprenditori europei sono preoccupati dell'eccezionalismo US – o anche solo
di una parziale adesione all'azione dell'OCSE – perché ritengono che qualunque
intervento non affronterà i “tax black holes” (buchi neri fiscali), i miliardi di dollari
di profitti tassati light nascosti offshore dai gruppi farmaceutici americani e dalla
società tech. Intanto le multinazionali US hanno un incentivo a spingere fino a limite
le loro regole.
Dall'altra parte dell'Atlantico, c'è disagio tra qualche policymaker americano e i chief
executives che insistono che le dispute fiscali fanno semplicemente parte di un più
vasto assalto alle multinazionali US all'estero.
Le società US sono già arrabbiare perché avvertono di essere svantaggiate dal codice
fiscale US che le tassa sui loro guadagni all'estero più di tutti i paesi industrializzati.
Questo ha creato svantaggi competitivi che Ian Read, chief executive officer della
Pfizer, paragona a “combattere con una mano legata dietro la schiena”. I legislatori
hanno cercato di mitigare questa situazione permettendo a qualche multinazionale di
ammassare grandi quantità di liquidità all'estero e basse aliquote fiscali.
Quest'anno, prima di spostare la sua base fiscale in Irlanda, David Pyott, presidente
di Allergan ha detto ai senatori US: “Sono convinto che saremmo dovuti rimanere
una indipendente società americana se non ci fossero gli svantaggi causati la nostro
sistema fiscale corporate non competitivo”. Gruppi come Pfizer che hanno
parcheggiato enormi quantità di introiti offshore fuori dagli US sono considerati
particolarmente esposti alla campagna guidata dall'OCSE. Paul Rayan speaker della
US House of Representatives ha detto il mese scorso: “trilioni di dollari di capitale
americano sono bloccati fuori dagli US e, come risultato, le società americane sono
mirate dai governi desiderosi di ottenere le tasse sui loro guadagni”.
Senza grandi tagli alle aliquote fiscali corporate, Washington non potrà proteggere le
sue multinazionali dall'impatto della riforma Beps, secondo Ian Grinberg, professore
associato di diritto al Law Center della Georgetown University.
Il tesoro US sostiene le nuove misure di trasparenza che pensa scoraggeranno le
aziende a portare i profitti nei paradisi fiscali. Ma ha anche attaccato le azioni
unilaterali di alcuni dei suoi più stretti alleati, in particolare il Regno Unito, che ad
aprile ha introdotto una “diverted profits tax”.
“Gli US sono uno dei perdenti dei negoziati Beps", aggiungendo che: “L'UK
attraverso una efficace diplomazia ha ottenuto risultati per se stesso”.
Chiudere i paradisi
L'OCSE sta anche cercando di limitare la concorrenza fiscale, costringendo paesi
come l'UK a riformare le loro “patent boxes” - agevolazioni fiscali per reddito da
brevetto – sebbene non ne stia fermando la diffusione. Il mese scorso, l'Irlanda è
stata l'ultimo paese ad adottare l'incentivo – offrendo un tasso solo del 6.25% sui
denari guadagnati.
Ma la spinta principale degli sforzi dell'OCSE è di fare smettere le imprese di
scrivere a bilancio i loro profitti nei paradisi fiscali dove non hanno alti dirigenti o
reale sostanza economica.
C'è l'impressione che qualche società stia cominciando a cambiare la propria
pianificazione fiscale. Amazon e Starbucks - entrambi già accusati di elusione fiscale
- hanno annunciato cambiamenti al loro modello di business e ci sono aspettative
che altri seguiranno. Più di un terzo delle multinazionali esaminate dalla Deolitte in
tutta Europa prevedono di rivedere o correggere la loro strategia fiscale
internazionale in risposta alle riforme del G20.
Ironicamente, i freni alla pianificazione fiscale possono finire per aumentare la
concorrenza – con i governi che non vogliono perdere gli investimenti chiudendo le
scappatoie – determinando più tagli nelle aliquote.
La competizione per l'investimento resta intensa in Europa. L'UK sta tagliando la sua
aliquota fiscale corporate preparandosi a stringere le regole fiscali sul debito e sui
brevetti. In Lussemburgo, gli esperti di policy stanno parlando di ridurre la loro
aliquota corporate al 16-20% cercando di impedire le defezioni.
Paul Mousel partner dello studio legale lussemburghese Arent& Medernach dice:
“Speriamo - e penso ce ne siano le ragioni - di poterci trasformare, da ovvi perdenti,
in vincitori”
L'Irlanda sta valutando i rischi di altre riforme come la proposta fatta da Bruxelles di
un sistema pan-europeo. Brian Keega, capo dell'ufficio tasse all'istituto di ragioneria
irlandese, dice che i Beps favoriranno i grandi paesi mentre i più piccoli perderanno
introiti e investimenti. “I Beps sono per loro stessa natura protezionisti”. Ma ci sono
segnali che l'Irlanda non stia perdendo il suo appeal con le multinazionali US. Negli
ultimi mesi, Apple, Pfizer e Facebook hanno creato nuovi posti di lavoro nel paese.
La sua ripresa economica dopo il crollo immobiliare e bancario,è anche largamente
dovuta alle attività delle società straniere. “I proventi fiscali stanno aumentando – lo
scacchiere irlandese ha raccolto 2.5 miliardi di euro in più del previsto nei primi 10
mesi del 2015 e l'80% della fonte è attribuibile a quanto è derivato dalla tassa
corporate.
Se questo continua, l'Irlanda sarà una grande beneficiaria del più ampio giro di vite
sui paradisi fiscali. Tuttavia, il suo ruolo centrale nelle US tax inversions sta facendo
calare un'ombra e c'è ansia sulla risposta americana al controverso accordo di fusione
Pfizer-Allergan.
Peter Vale, leader della Grant Thorton, società irlandese esperta di fisco
internazionale insiste che il paese ha poco da guadagnare dalle inversions che non
portano con sé nessuna garanzia di maggiore occupazione o introiti fiscali. Ma
riconosce che non è questo il modo in cui sono viste.
“Siamo stati contaminati dalla opinione US che l'Irlanda faciliti l'elusione fiscale”
dice.
Financial Times 13 novembre 2015
Barack Obama “La voce coraggiosa dell'America non può essere la sola”
Di fronte a una crisi storica, sette anni fa, il G20 ha agito per invertire una
depressione globale e ricostruire l'economia globale su un sentiero di maggiore
resilienza. Da allora, attraverso questi ed altri sforzi, il G20 ha dimostrato a se stesso
di essere il foro principale per la cooperazione economica internazionale.
La voce dell'America è per un'azione coraggiosa - una posizione rafforzata dalla
nostra stessa performance economica. Il nostro business ha creato 13.5 milioni di
nuovi posti di lavoro, alimentando la serie più lunga di crescita occupazionale nel
settore privato mai registrata, e portando il nostro tasso di disoccupazione sotto al
5%. Dal 2009, abbiamo tagliato il nostro deficit di quasi tre quarti. Le famiglie e il
business americani hanno ridotto i loro debiti e la ripresa della spesa e
dell'investimento ha aiutato a rafforzare l'economia del mondo.
Oggi il G20 ha di fronte un'altra sfida. Se l'economia globale sta crescendo, cresce
tuttavia troppo lentamente. Abbiamo individuato questa sfida già al G20 dell'anno
scorso, e oggi è ancor più pronunciata. Per questo, al summit della settimana
prossima, il mio messaggio sarà chiaro: dobbiamo agire per rafforzare la crescita in
modo da beneficiare tutti i nostri popoli.
Specificatamente, ci sono 5 aree in cui agire.
Primo, i nostri paesi devono attuare una politica fiscale che sostenga la domanda di
breve termine e investa nel nostro futuro. Il recente accordo bipartisan sul bilancio
negli US è un buon passo.
Secondo, i nostri paesi devono agire per migliorare la domanda mettendo più soldi
nelle tasche dei consumatori della classe media che guidano la crescita. Negli US, la
agenda economica per la nostra classe media si propone di fare esattamente questo.
Abbiamo esteso la copertura dell'assistenza sanitaria ad altri 17.6 milioni di cittadini,
tagliato tasse per le famiglie della classe media, e fatto passi per rendere più
accessibili i prezzi dell'università. E continuerò a spingere sul Congresso per
aumentare il minimum wage, investire di più nella scuola e estendere i crediti fiscali
alle famiglie lavoratrici.
Anche gli altri paesi devono agire. La Cina in particolare dovrebbe liberare la sua
classe media accelerando la transizione a una economia guidata dai consumi. Come
ha riconosciuto il presidente Xi Jinping, l''export cinese e la crescita guidata dalle
costruzioni non sono più sostenibili. E dovremmo tutti riconoscere che le tasse che
ricadono troppo pesantemente sul consumo o sulla classe media non farebbero che
rallentare la domanda in un momento in cui il mondo ne ha bisogno.
Terzo, i nostri paesi possono favorire una crescita più inclusiva abbassando le
barriere all'entrata nella forza lavoro. In molti paesi, compreso il mio, i trends di
invecchiamento hanno contribuito a una proporzionale contrazione della popolazione
in età di lavoro. In risposta, il Giappone sta perseguendo politiche per aumentare la
quota di donne nella sua forza lavoro. Alcuni paesi in Europa hanno realizzato
politiche aziendali family friendly per aumentare i loro tassi di partecipazione al al
lavoro e, negli ultimi mesi, hanno accolto centinaia di migliaia di rifugiati nelle loro
società - una risposta umanitaria ma anche un'opportunità economica. Negli US ho
enfatizzato l'importanza della riforma per l'immigrazione, per i congedi retribuiti, per
le politiche di flessibilità nei luoghi di lavoro e per il credito d'imposta che aiuti le
famiglie lavoratrici nella assistenza ai bambini al fine di avere famiglie con due salari
all'interno della forza lavoro.
Quarto, possiamo sostenere una crescita più inclusiva con accordi commerciali di
alto standard che alla fine beneficino la middle class. La Trans Pacific Partnership
aiuterà a generare retribuzioni più alte, luoghi di lavoro più sicuri,concorrenza più
leale e ambiente più pulito - standards che metterò in evidenza durante il mio viaggio
di ritorno dal G20 nelle Filippine e in Malesia.
Quinto, il mondo deve concordare sulla necessità di più investimento pubblico,
specialmente ci sono bassi tassi di interesse. per questo sto spingendo il Congresso
perché crei posti di lavoro per l'oggi e il domani, adottando quest'anno un piano
infrastrutturale di lungo termine.
Inoltre, l'investimento pubblico spesso induce investimento privato. Un'area in cui
l'America deve dimostrare che questo è vero è l'energia pulita. Sei anni fa abbiamo
fatto il più grosso investimento della nostra storia; oggi il settore dell'energia pulita è
in boom e sta attraendo investimento dal business. Un ambizioso accordo a Parigi il
mese prossimo, segnalerà agli investitori che il mondo è fermamente impegnato a un
futuro low-carbon. Questo è specialmente vero in paesi in via di sviluppo come il
Brasile, l'India e l'Indonesia che possono accelerare la prossima fase del loro
sviluppo attraverso un nuovo investimento privato nell'energia pulita.
Da New York Times 1 dicembre 2015
“IL FMI aggiunge il Renbimbi alla lista delle monete di riserva!”
IL Fondo Monetario Internazionale ha approvato lunedì scorso la moneta Cinese
renbimbi come una delle principali monete di riserva del mondo per le banche
centrali, un grande riconoscimento del peso finanziario ed economico crescente del
paese.
La decisione del FMI aiuterà a pavimentare la strada per un un uso più largo del
renbimbi nel commercio e nella finanza, assicurando alla Cina la posizione di potenza
economica globale. Ma introduce anche nuova incertezza nel sistema finanziario e
nell'economia cinese poiché il paese è stato costretto ad allentare molti controlli
monetari per rispettare i requisiti del FMI.
I cambiamenti potrebbero iniettare incertezza nell'economia cinese, poiché larghi
flussi di denaro possono riversarsi nel paese e allontanarsene in base alle sue
prospettive. Questo potrebbe rendere più difficile per la Cina mantenere il suo record
di crescita forte e costante, specie in un momento in cui l'economia sta già
rallentando.
Il FMI comincerà con l'includere la moneta nell'unità di conto del fondo, i cosiddetti
diritti speciali di prelievo, alla fine di settembre. Il renbimbi prenderà il suo posto al
fianco del dollaro, dell'euro, della yen e della sterlina.
Molte banche centrali seguono questo benchmark nella costruzione delle loro
riserve, il risultato sarà pertanto che i paesi potranno iniziare a possedere più
renbimbi. La Cina inoltre acquisirà molta influenza nei salvataggi internazionali
denominati in unità di conto del Fondo, come l'accordo sul debito greco.
La decisione di ricomprendere il renbimbi “è una importante pietra miliare
nell'integrazione dell'economia cinese nel sistema finanziario globale” ha detto in un
comunicato Christine Lagarde, direttore del FMI “è anche il riconoscimento del
progresso fatto dalla autorità cinesi negli anni scorsi per riformare il loro sistema
monetario e finanziario. Continuare e approfondire questi sforzi porterà a un sistema
monetario e finanziario internazionali più robusti che, a loro volta, sosterranno la
crescita e la stabilità della Cina e dell'economia globale".
La leadership cinese ha fatto del raggiungimento da parte del paese del gruppo di
monete una priorità, definendolo in ottobre come una della principali priorità
economiche dei prossimi anni. Il nuovo status del renbimbi “migliorerà il sistema
monetario internazionale e proteggerà la stabilità finanziaria globale” ha detto il
presidente Xi Jinping a metà novembre.
Nei mesi precedenti alla decisione del FMI, la Cina ha agito su più fronti per
assicurarsi che il renbimbi fosse abbracciato in modo più ampio. Lo ha fatto in parte
per rispettare la regola del FMI che una moneta debba essere “liberamente
utilizzabile” prima di potere essere inclusa nel benchmark.
Cina e Gran Bretagna hanno venduto titoli sovrani denominati in renbimbi per la
prima volta a Londra, che è emersa come l'hub per le monete dell'Europa. L'Ungheria
ha annunciato progetti di emissione di propri bonds denominati in renbimbi e la
Ceinex exchange di Francoforte ha cominciato a scambiare bonds basati su renbimbi
bonds. E' cominciata a Shangahai la preparazione di commercio di contratti
petroliferi denominati in renbimbi.
Soprattutto, la Cina ha cominciato a cambiare il modo in cui definisce il valore del
renbimbi ogni mattina. Nel farlo, ha rapidamente svalutato la moneta.
L'ingresso negli speciali diritti di prelievo è principalmente simbolico. Ma i
movimenti più ampi verso una maggiore trasparenza finanziaria e la più facile
commerciabilità avranno effetti di più lungo termine.
Randall S.Krozneer, un ex direttore del Federal Board Reserve che è ora professore di
economia all'Università di Chicago ha detto che la Cina “può fare cambiamenti che
renderanno il renbimbi più attraente per gli investitori internazionali”
Social Europe Journal 10 novembre 2015
Iain Begg* “Approfondire la governance economica: i prossimi passi”
*Iain Begg (professorial researh fellow all'European Institute
Economics)
of the London School of
All'inizio di quest'anno, è stato pubblicato il cosiddetto “Five Presidents Report”,
scritto da Jean.-Claude Juncker, Donald Tusk, Jeroene Dijsselbloem, Mario Draghi e
Martin Shultz, che ha tratteggiato i piani per il rafforzamento dell'unione economica e
monetaria. Questo articolo descrive le proposte adottate il 21 ottobre dalla
Commissione Europea per attuare le raccomandazioni del report. I nuovi piani
mostrano che le riforme dell'Eurozona con un impatto volto decisamente
all'integrazione stanno andando avanti e potrebbe esserci qualche conseguenza per i
tentativi dell'UK di rinegoziare la sua membership nell'EU.
L'UK ha ripetutamente incoraggiato l'Eurozona a integrarsi di più perché la moneta
unica funzioni meglio, mentre, contemporaneamente continua ad agitarsi sui rischi
che l'Eurozona caucus decida su politiche di riforme contrarie agli interessi britannici.
Questa sta ora diventando una delle principali preoccupazioni nei tentativi per
rinegoziare la posizione dell'UK nell'EU.
Sebbene molti critici dell'EU disdegnano la sua apparente incapacità di risolvere la
crisi dell'euro e si lamentano delle lentezze del decision making, la riforma della
governance economica negli ultimi anni è andata ben al di là di quanto questi critici
riescano a vedere. Una roadmap per ulteriori riforme è stata predisposta in quella che
è conosciuta come il “Five presidents report”, pubblicato alla fine di giugno 2015 per
una complessiva revisione. Alcuni, compreso l'ex ministro delle finanze italiano
Fabrizio Saccomanni, hanno lamentato che si sia trattato di un'occasione persa perché
troppi dei temi più complicati, come, ad esempio, il possibile contributo della politica
fiscale possa alla stabilizzazione macroeconomica, avrebbero dovuto essere affrontati
con forza maggiore.
Tuttavia la attuazione del report è ora in progress dopo che le proposte sono state
adottate dalla Commissione il 21 ottobre. Il background è spiegato in una
comunicazione della Commissione che pone cinque aree d'azione, già anticipate dal
presidente Juncker nel discorso sullo stato dell'Unione nel settembre scorso.
La prima iniziativa sarà ridefinire quello che viene chiamato il semestre europeo, il
ciclo economico annuale attraverso cui sono coordinate le politiche economiche. Tale
coordinamento avviene attraverso la valutazione dei piani economici nazionali e
l'emissione di quelle che sono conosciute come raccomandazioni specifiche per i
paesi (CSRs) volte a influenzare il policy making nazionale.
I principali cambiamenti che propone la Commissione al semestre sono il
miglioramento dei collegamenti tra livello nazionale e livello dell'Eurozona,
riconoscendo l'importanza di come evolve l'economia dell'Eurozona nel suo insieme,
e ponendo maggiore attenzione agli effetti sul lavoro e le condizioni sociali. In più, il
documento sostiene il rafforzamento della diffusione delle best practices la possibilità
di più finanziamenti per la “assistenza tecnica” a loro sostegno.
Il secondo, interessante sviluppo, è la formale decisione di creare un European Fiscal
Board. Un elemento delle precedenti riforme della governance era l'insistenza perché
i paesi dell'eurozona creassero un consiglio fiscale indipendente, con l'obiettivo di
agire come cane da guardia sul modo in cui i governi conducono le loro finanze
pubbliche. Nell'UK, l'Office for Budget Responsability adempie a questa funzione.
Il nuovo Board proposto, che è composto da 5 membri, avrà il compito di valutare gli
sviluppi fiscali nell'Eurozona nel suo insieme e - in quello che potrebbe essere uno
sviluppo significativo – facendo da consulenza sulla materia fiscale dell'Eurozona nel
suo insieme. Collaborerà inoltre con i consigli fiscali nazionali e fornirà suggerimenti
ad hoc alla Commissione.
Tre ulteriori misure sono proposte piuttosto che accordi definiti, alcune delle quali è
probabile incontrino resistenza da diversi paesi membri:
Primo, la Commissione vuole vedere la nascita di competitiveness boards in tutti gli
stati membri, sebbene la sua proposta attuale sia la volontarietà per gli stati esterni
all'Eurozona. Questi boards devono sovraintendere alle riforme volte alla crescita
della competitività delle economie e devono essere operativi a metà de 2016. Devono
essere indipendenti dai governi e avere funzione di consulenza piuttosto che
operativa, sebbene il documento accenni a un ruolo più formale in futuro.
La rappresentanza collettiva dell'Eurozona all'interno dei corpi internazionali come il
FMI è la seconda proposta. C'è buon senso in tale proposta nella misura in cui è
abbastanza curioso avere l'euro rappresentato da singoli paesi in alcuni ambienti, ma
dalla BCE in altri. Tuttavia paesi come il Belgio che, per ragioni storiche, hanno uno
stato speciale nel FMI, possono non essere d'accordo a perdere il loro ruolo.
Una terza ambizione è il consolidamento dell'unione bancaria, da costruire sul lancio
dello scorso anno del meccanismo di supervisione unica, guidato dalla BCE e
l'accordo su un approccio comune per le risoluzioni delle banche fallite. Questo
comporterà una pressione per completare l'attuazione delle previsioni per le
risoluzioni bancarie già passate alla legislazione secondaria. La Commissione vuole
anche una soluzione ponte per istituire un fondo creato per sostenere le risoluzioni
bancarie, perché quello esistente, finanziato dai tributi delle banche, avrà bisogno di
tempo fino al 2025 per raggiungere la dimensione voluta. Una proposta molto più
controversa è l'introduzione di una forma di assicurazione dei depositi pan-europea,
ma i dettagli saranno pubblicati solo più in là nel corso dell'anno.
Queste cinque misure sono un inizio perché, a partire dal 2017, i piani per iniziative
di nuova governance si estenderanno a “misure di più ampia portata....per completare
l'architettura economica e istituzionale dell'EMU. Ciò coinvolgerà la condivisione di
più sovranità e solidarietà e sarà accompagnato dal rafforzamento della sorveglianza
democratica”. In particolare, si prevedono nuove proposte sulle politiche di bilancio
comuni e il miglioramento dell'accountability.
Per l'UK questi sviluppi è probabile portino a nuove tensioni sul passo e la direzione
dell'integrazione economica. Solamente l'espressione “condividere più sovranità” farà
drizzare molte penne, ma la preoccupazione più sottile è che l'UK sarà di nuovo ai
margini dei significativi sviluppi che sono accettati non solo dai paesi dell'Eurozona
ma anche da molti, forse i più, dei paesi che non sono nell'euro.
Nel 2011, l'UK era in una minoranza di soli due paesi che si opponevano al fiscal
compact ed ha irritato alcuni dei suoi potenziali alleati rifiutando di prendere parte al
sistema delle quote per la risistemazione dei migranti che attraversano il
Mediterraneo. Anche la Danimarca, che è il solo altro paese con un formale out-put
dall'euro, sembra disposta ad andare avanti con l'unione bancaria e resta da vedere se
altri vorranno partecipare alle nuove misure di integrazione descritte sopra.
In via di principio, il semestre si applica all'UK, sebbene l'unico momento in cui
diventa evidente è quando “Bruxelles” emette le sue CSRs (raccomandazioni per i
singoli paesi): normalmente si alza un coro di lamentele sul fatto che mette il naso in
materie che non devono riguardarlo. All'inizio dell'anno, per esempio, il giudizio
perfettamente ragionevole che il mercato immobiliare dell'UK potrebbe essere
riformato, è stato condannato da diversi politici.
I nuovi piani mostrano che le riforme dell'Eurozona con un impatto decisamente
integrante sta andando avanti e che le decisioni di politica economica saranno sempre
più sull'Eurozona nel suo insieme. Il dilemma per l'UK è se è confortevole rimanere
in un minoranza di non partecipanti , che va restringendosi, in significativi domini
della governance economica. Ci sono inoltre le domande sulle possibili conseguenze
per la rinegoziazione dei termini della partecipazione dell'UK all'EU. All'esterno si
può essere soli.
Financial Times 16 novembre 2015
Wolfgang Munchau “La ripresa italiana non è quello che sembra”
La settimana scorsa, Yoram Gutgeld ha fatto una delle dichiarazioni economiche più
stupefacenti che io abbi ascoltato da lungo tempo. L'adiviser del primo ministro
Matteo Renzi ha detto in un'intervista che nei prossimi 12-24 mesi, l'economia
italiana sarà immune rispetto agli sviluppi globali in conseguenza dei tagli delle tasse
e delle riforme dell'attuale governo. L'idea che un membro del club G7 sia immune
all'economia globale è ridicola. Siamo nel 21esimo secolo. Gutgeld può avere parlato
come spin doctor del primo ministro. Fa parte del suo lavoro. Ma quello che mi
preoccupa è che il governo italiano non è pronto per il momento in cui l'impatto del
rallentamento cinese e dei mercati emergenti colpirà l'Europa. Le cifre preliminari di
venerdì relative al PIL dell'Eurozona mostrano che il rallentamento è cominciato. I
tassi di crescita italiani trimestre su trimestre si sono ridotti dallo 0.4% del primo
trimestre allo 0.3% del secondo, allo 0.2% del terzo.
La capacità italiana di sostenere un salutare tasso di crescita è critica - a causa della
stabilità politica del paese, dei giovani che non hanno speranza di trovare lavoro,
della sostenibilità del debito e in particolare del suo futuro nell'Eurozona. L'euro non
ha portato all'Italia altro che stagnazione. Il PIL reale è oggi allo stesso livello del
momento dell'inizio del 2000, un anno dopo la partenza dell'euro. Il PIL oggi è del
9% sotto il livello pre-crisi all'inizio del 2008.
Se l'Italia non riesce a emergere da questa recessione, è difficile vedere come possa
rimanere nell'Eurozona. A un certo punto può anche accadere che l'interesse
inequivocabile della sua economia sia quello di lasciare e di svalutare. Così quando
chiediamo se la ripresa dell'economia è sostenibile, non stiamo facendo un dialogo
tecnico sull'economia. Stiamo parlando del futuro dell'Italia in Europa.
Tre sono le ragioni del mio scetticismo. La prima è evidente negli ultimi dati di
venerdì sul PIL. Quelli italiani non sono eccezionali.
La seconda ragione è la mancata ristrutturazione delle banche italiane. Lo stock delle
sofferenze e degli incagli in percentuale sul totale è del 10%, vicino al livello di
picco dell'attuale ciclo. Molte delle banche medie e piccole sono in effetti insolventi.
La ripulitura del sistema bancario - dopo la crisi del 2008 e le due successive
recessioni - deve ancora avvenire. Se ci sarà, ora avverrà in un ambiente regolatorio
molto più duro. Dall'anno prossimo le regole EU "bail in" entreranno in vigore.
Allora i salvataggi bancari non saranno operati solo dal governo, ma saranno
bondholders e depositanti che pagheranno per primi (bail in). In questo ambiente,
possiamo avere la sicurezza che banche in condizioni pessime possano continuare a
sostenere la ripresa?
La mia terza preoccupazione sono le scelte fiscali di Renzi. La sua priorità è stata di
assicurare che esse determinino più vincitori che perdenti. Esattamente ciò che fece
Silvio Berlusconi quando era primo ministro. E non è sorprendente che Renzi alla
fine faccia politiche simili. Invece di riformare la pubblica amministrazione o
l'ordinamento giudiziario, ha optato per tagliare le tasse sulla casa. Questo gli
procurerà voti ma non determinerà il cambiamento dell'economia. Lo abbiamo già
visto. Il pericolo di tale strategia è che potrebbe andare orribilmente male se lo shock
economico sarà grande e il settore bancario debole. Con le attuali proiezioni, il
deficit di bilancio annuale 2016 dell'Italia sarà del 2.2-2.4%, a seconda di quanto si
consideri il costo della crisi dei rifugiati.
Non ho obiezioni su alcuna misura tesa a ridurre la presa dell'austerità. Ma se la
recessione avviene in contemporanea con una crisi bancaria, il 2.4% potrebbe
facilmente diventare 3.4% mo 4.4%. A quel punto, la flessibilità si fermerà in modo
molto brusco. L'Italia dovrà di nuovo serrare la politica economica mentre l'economia
rallenta.
Un altro governo "tecnico" non eletto potrebbe entrare in campo. L'Italia non
potrebbe mai scegliere di lasciare l'Eurozona per ragioni politiche. Ma se i calcoli di
Renzi si dimostreranno sbagliati, l'Italia sarà arrivata a un punto in cui diventa
razionale abbandonare l'euro.
Social Europe Journal 9 novembre 2015
Thorsen Schulten “La contrattazione collettiva in Grecia dopo il terzo
memorandum” (sintesi di una relazione a una iniziativa della Fondazione Ebert
tenutasi a Berlino nel settembre scorso)
La radicale ristrutturazione della contrattazione collettiva greca è stata, fin dall'inizio,
una delle richieste fondamentali della troika. Con i primi due memoranda, la Grecia è
stata costretta a convenire su cambiamenti di ampia portata nel quadro giuridico
della contrattazione collettiva che ha portato a un radicale decentramento e
all'eliminazione su vasta scala degli accordi collettivi (multi-employer agreements).
In base al terzo memorandum dell'agosto 2015, lo sviluppo della contrattazione
collettiva greca doverebbe ora essere valutata da una commissione internazionale
composta da esperti indipendenti così come da rappresentanti di organizzazioni
internazionali - comprese le istituzioni della troika, ma anche dall'OIL. Su tale base.
dovrebbero essere decise, alla luce delle "best practices" europee, ulteriori riforme del
sistema contrattuale greco.
Dall'inizio degli anni 1990s, la Grecia ha un complessivo sistema di contrattazione
collettiva con forte contrattazione (multi-empleyer bargaing) a livello nazionale,
settoriale e occupazionale e una copertura contrattuale comparativamente alta (80%9.
A livello nazionale le massime organizzazioni sindacali e imprenditoriali hanno
contrattato un accordo quadro collettivo in cui sono comprese determinate
condizioni minime - compreso il livello di minimum wage nazionale. Su questa base
possono essere contrattati accordi collettivi a livello nazionale o regionale per
particolari branche di gruppi occupazionali. Infine, le aziende potevano concludere
specifici accordi aziendali con i sindacati responsabili.
La struttura del sistema contrattuale greco era strettamente gerarchica secondo il
principio della norma più favorevole,m in modo che gli accordi collettivi a livello più
basso potevano contenere solo previsioni di miglior favore per i lavoratori.
L'estensione degli accordi collettivi era molto ampia, tenendo conto del fatto che
l'economia greca è largamente fatta di aziende piccole e micro. C'era pertanto una
regola erga omnes per il contratto collettivo nazionale generale, in base alla quale
tutte le imprese erano tenute al rispetto di tale accordo. Accordi settoriali e
occupazionali erano, di norma, dichiarati generalmente vincolanti dal Ministero del
lavoro greco, finché coprivano una maggioranza di imprenditori in una rilevante
branca o gruppo occupazionale. A parte ciò, accordi collettivi meno vincolanti
potevano essere dichiarati generalmente vincolanti se ciò era proposta da una delle
due parti contraenti.
La politica della troika, tuttavia, ha seguito l'assunto che la causa principale della
crisi greca era la mancanza di competitività che doveva essere migliorata da una
politica di "svalutazione interna", in particolare attraverso tagli ai salari e ad altri costi
del lavoro. Perciò i cambiamenti nella legge sulla contrattazione collettiva greca
introdotti nell'autunno 2011 comprendono tre punti principali:
- L'abolizione del principio di miglior favore nella gerarchia dei contratti collettivi
in modo che accordi aziendali sono diventati liberi di determinare accordi in pejus
rispetto ai contratti di più alto livello.
- L'abolizione delle regole sull'erga omnes e le estensioni degli accordi collettivi
- La sospensione del monopolio sindacale sulla contrattazione collettiva attraverso il
permesso a rappresentanze non sindacali di concludere accordi aziendali se sostenuti
da almeno tre quinti della forza lavoro·
In più, ulteriori cambiamenti sono stati fatti nel 2012, come la riduzione degli effetti
collaterali degli accordi da sei a tre mesi, così come il taglio legale del 22% del
minimum wage contrattato collettivamente (del 32% per i giovani sotto i 25 anni) e
la decisione che in futuro il minimum wage non deve più essere determinato per
accordo collettivo nazionale ma per legge.
I radicali cambiamenti della legge greca sulla contrattazione collettiva hanno portato
in pratica a una trasformazione altrettanto radicale della contrattazione collettiva. Il
segno più evidente è il declino degli accordi multi-employer. Anche se non sono
disponibili dati ufficiali sull'attuale copertura della contrattazione collettiva, è
probabile che solo una piccola minoranza di datori di lavoro rientra ancora nel campo
di un multi-employer agreement.
Immediatamente dopo l'adozione della riforma della contrattazione collettiva
nell'autunno 2011, per un breve periodo c'è stata una crescita estremamente alta di
accordi aziendali di nuova realizzazione. L'anno successivo tuttavia c'è stata una forte
riduzione del numero di tali accordi e ora le loro dinamiche sono di nuovo a loro
livello pre-crisi. L'aumento degli accordi aziendali appare perciò essere piuttosto un
fenomeno temporaneo che una compensazione permanente del declino degli accorsi
multi-employer.
Il carattere temporaneo dei nuovi accordi aziendali è confermato dalla forma
particolare e dal contenuto di tali accordi. La grande maggioranza dei nuovi accordi
aziendali non è stata conclusa dai sindacati ma da rappresentanze non sindacali di
lavoratori. Secondo una ricerca dell'Università di Patras su un totale di 1.336 accordi
conclusi tra novembre 2011 e dicembre 2013, solo il 30% è stato sottoscritto da
sindacati, mentre il rimanente 70% da rappresentanze non sindacali.
In quasi tutti i nuovi accordi aziendali sono state esercitate le opzioni previste dalla
nuova legge sulla contrattazione collettiva, a partire dalla scomparsa del principio di
miglior favore: in conseguenza, tre quarti degli accordi contengono tagli salariali
mentre i resto contiene il congelamento salariale al livello in essere. Gli aumenti
salariali, al contrario, spiccano per la loro assenza, essendo presenti in un mero 1.5%
di tutti gli accordi.
la ristrutturazione del sistema della contrattazione collettiva greco ha portato a una
radicale decentramento e all'erosione a vasto raggio della contrattazione collettiva.
Dal punto di vista della troika, è stato un successo in quanto ha contribuito ai tagli
salariali in Grecia che, con una contrazione media del 20%, è stata la più severa di
ogni altro paese europeo. Tuttavia, la speranza che ha accompagnato la strategia che
avrebbe portato a una nuova ripresa economica migliorando la competitività da prezzi
non è stata realizzata. I tagli salariali, per contrasto, hanno portato a una drastica
caduta della domanda aggregata e sono serviti solo ad esacerbare la crisi.
In questo background, nell'aprile 2015 il governo di Syriza ha presentato un disegno
di legge sul ripristino della contrattazione collettiva. In essenza, il disegno di legge
reintroduceva il principio del miglior favore nella gerarchia degli accordi collettivi, le
possibilità di estensione degli accordi collettivi e la reintegrazione dei sindacati come
unici attori negoziali a livello aziendale. Nelle aziende senza una rappresentanza
sindacale aziendale di impianto, gli accordi aziendali potevano essere conclusi da
rappresentanti dei sindacati, locali o settoriali. Per di più, il disegno di legge
affermava che, entro la metà del 2016, i tagli al minimum wage sarebbero stati
revocati in due fasi e sarebbe stato ripristinato il minimum wage del 2011. La legge
tuttavia non è stata adottata per la resistenza della troika.
Nel quadro del terzo memorandum, adottato nell'agosto 2015, è stato convenuto che
il governo greco "lancerà ad ottobre 2015 un processo di consultazione guidato da
un gruppo di esperti indipendenti per rivedere alcuni aspetti dell'esistente impianto
del mercato del lavoro, compresi i licenziamenti collettivi, l'azione industriale e la
contrattazione collettiva". Per volere della parte greca, nel processo di consultazione
è stato incluso anche l'OIL. Il governo greco, tuttavia, deve raggiungere un accordo
con la troika sull'insieme della "organizzazione, termini di riferimento e tempi di
conclusione" di tale processo di consultazione così come sul futuri cambiamenti della
legge sulla contrattazione collettiva.
Sostanzialmente, il terzo memorandum sancisce che lo sviluppo futuro del sistema
greco della contrattazione collettiva dovrà "tenere conto delle best practices
internazionali ed europee". Tuttavia, cosa possano essere queste "best practices" con
riferimento alla contrattazione collettiva è estremamente controverso. In passato non solo in Grecia ma in molti paesi europei - la troika non ha fatto mistero che la sua
visione di "best practice" consiste in un sistema contrattuale completamente
decentrato con bassa copertura contrattuale.
Al contrario, il Direttorato generale per l'occupazione della Commissione Europea ad
esempio, nel suo recente Report sulle relazioni industriali, ha di nuovo espressamente
asserito che sono stati i paesi europei con le relazioni industriali e la contrattazione
collettiva più sviluppate e comprensive che hanno attraversato la crisi nel modo
migliore. Nell'impianto del previsto processo di consultazione è pertanto di non poca
importanza se la Commissione Europea è rappresentata dalla DG Affari economici e
finanziari, dall'orientamento più neo-liberista o dalla DG per l'occupazione, che su
questo tema dovrebbe in realtà assumere la guida.
Un ruolo importante apparterrà anche all'OIL che è favorevole a un sistema
contrattuale collettivo comprensivo e ad alta copertura. L'OIL già ha lamentato il
fatto che i cambiamenti legislativi imposti dalla troika hanno portato a un
significativo indebolimento della contrattazione collettiva greca.
La prossima discussione sul futuro del sistema contrattuale greco promette perciò di
essere controversa. Con la partecipazione della troika da un lato e l'OIL dall'altro, la
discussione non sarà confinata alla sola Grecia ma sarà internazionale, con un impatto
anche su altri paesi europei. In questo background, il sindacato europeo dovrà essere
coinvolto nella discussione e dovrà dare sostegno alla parte greca nel suo tentativo
di ripristinare il sistema contrattuale collettivo.
Social Europe Journal 30 novembre 2015
Ronald Janssen “Lost in contraddiction: il fondo monetario internazionale e il
dumping salariale competitivo nell'Eurozona”
Una nota di discussione dello staff recentemente pubblicata dal FMI affronta
l'argomento che la stretta salariale in larga parte dell'Eurozona è pericolosa e
deflattiva poiché non migliorerà la posizione competitiva relativa di nessuno mentre
taglierà la domanda interna ovunque. Poiché il FMI è stato sempre un convinto
sostenitore dell'esperimento in corso nell'Eurozona, di sostituzione della svalutazione
monetaria con quella salariale, vale la pena dare un'occhiata più da vicino al suo
lavoro.
Il FMI basa la sua scoperta su una simulazione per la quale la crescita salariale
nominale di un gruppo di 5 paesi che rappresentano un peso economico pari al 30%
dell'Eurozona (Grecia, Italia, Spagna, Portogallo e Irlanda) si è ridotta del 2% negli
ultimi 2 anni. Cosa importante, tale simulazione è portata avanti in base all'assunto
che la BCE ha le mani legate per quanto riguarda il taglio degli interessi perché questi
sono già vicini a zero. E anche in base all'assunto che la crescita retributiva più bassa
è stata pienamente trasmessa ai prezzi nazionali, il che implica assenza di tagli alle
retribuzioni reali.
Il FMI non sottolinea gli effetti negativi e i pericoli di una svalutazione retributiva
operata su base comune. L'impatto della moderazione salariale (2%) in tutti e 5 i
paesi colpiti dalla crisi sul livello complessivo dell'attività economica dell'Eurozona
è negativo. Il PIL dell'area è dello 0.5% inferiore al livello che altrimenti ci sarebbe
stato. Intanto l'inflazione è spinta verso il basso di un ulteriore punto percentuale.
L'ultimo numero rappresenta la differenza tra la bassa inflazione e la completa
deflazione, ma il quantitative easing può sistemare le cose.
Il FMI tuttavia non si arrende facilmente e tenta di salvare il suo tradizionale
messaggio politico per il quale, anche se è intrapreso da più stati membri nello stesso
momento, il dumping salariale resta ancora una cosa buona. Per farlo, il FMI invoca
la politica alternativa di QE . Se non è possibile per la politica monetaria tagliare i
tassi di interesse a breve, allora la BCE dovrebbe riconcentrare la sua macchina
stampa-denaro nell'acquisto di bonds a più lungo termine, in modo che i tassi di
interesse di lungo termine possano essere ulteriormente abbassati. Il paper del FMI
procede poi a fare una ulteriore simulazione per la quale la politica di QE della BCE
abbassa i tassi di interesse a lungo termine di 50 punti base.
Il FMI dimostra come cambiano i risultati. Nello scenario che combina la
moderazione salariale del 2% delle quattro economie in crisi con il QE della BCE, il
risultato economico complessivo dell'Eurozona aumenterebbe lievemente (circa dello
0.5% del PIL), mentre l'inflazione nel medio periodo non calerebbe.
In termini di composizione regionale il resto dell'Eurozona (al di fuori dei 5 paesi)
starebbe ancora perdendo attività economica (-0.4% del PIL) mentre i 5 paesi colpiti
dalla crisi guadagnerebbero significativamente aumentando il PIL del 2%.
Quest'ultima cifra permette al FMI di rimanere fermo sulla visione che, dato che la
BCE continuerà con il QE, strizzare le paghe resta ancora il modo giusto per uscire
dalla crisi per le economie oppresse dal debito dell'Eurozona. Se questo poi
determina un lieve arretramento nelle altre economie dell'Eurozona (che tuttavia
stanno andando abbastanza bene!), pazienza.
Il Quantitative Easing non è la pallottola magica che il FMI pretende sia.
Il QE è fondamentalmente una politica in cui la BCE pompa il denaro che sta
stampando nella economia attraverso massicci acquisti di assets finanziari come i
bonds sovrani e anche i bonds privati e, in qualche caso, anche capitale. La speranza,
fondamentalmente, è che questo extra (e spesso enorme!) volume di denaro sarà
usato, in un modo o nell'altro, da famiglie e aziende per consumare o investire.
Tuttavia, che l'operazione stampa denaro riesca a riaccendere la domanda aggregata
dipende da quello che in realtà fanno coloro che possiedono gli assets finanziari con
il nuovo denaro che ricevano in cambio. Le banche, per esempio, possono trovare
piuttosto difficile prestare questo denaro extra se le famiglie e le aziende sono già
altamente indebitate e perciò riluttanti a prendere nuovi prestiti. E mentre le famiglie
ricche (che possiedono il grosso degli assets finanziari) guadagneranno molto più
valore vendendo il loro portafoglio di bonds e assets a un prezzo più alto di quello
che lo avevano originariamente pagato, ci sono scarse possibilità che questa liquidità
sia realmente spesa in beni e servizi poiché la propensione al consumo del 1% fino al
10% delle famiglie più ricche è molto più bassa di quella media.
Il FMI è certo consapevole delle difficoltà che ci sono nel trasmettere il denaro
aggiuntivo iniettato nella nuova domanda usando i mercati degli assets. Tuttavia
nasconde questa consapevolezza in una nota a margine (numero 28).
Vale la pena riconoscere anche che non è neppure chiara la prova dell'effetto delle
politiche non convenzionali sul risultato economico. Chung e altri (2012) concludono
che gli acquisti di assets da parte della Federal Reserve....non hanno evitato che il
vincolo dei zero lower bonds non abbia avuto effetti avversi di prim'ordine sulla
attività reale e sull'inflazione.
C'è tuttavia un modo per assicurare che il denaro stampato dalla banca centrale
finisca effettivamente in più domanda aggregata. Se il nuovo denaro che la BCE
stampa è usato per finanziare direttamente un aumento dei deficits pubblici e della
spesa pubblica, preferibilmente in investimenti pubblici, allora
l'impatto sulla
domanda aggregata è pienamente assicurato.
Purtroppo questa strada è fermamente preclusa nell'Eurozona. Il primo problema è
che alla BCE è esplicitamente proibito dal trattato europeo di finanziare direttamente
i deficits pubblici. Questo obbligo giuridico potrebbe forse essere aggirato dalla BCE
se acquistasse immediatamente da un intermediario finanziario sul mercato
secondario bonds sovrani di nuova emissione. In questo caso, tuttavia, tutte le regole
fiscali messe in atto dall'Europa, dal Patto di Stabilità al Fiscal Compact entrerebbero
in funzione e trasformerebbero l'azione della BCE in un progetto destinato al
fallimento. La struttura fiscale europea si è sempre basata sul taglio del deficit e mai
sulla iniezione di domanda aggregata determinata da un aumento della spesa in
deficit. La simulazione del FMI resta silente su: un rilancio congiunto delle
retribuzioni migliorerebbe la crescita e ripristinerebbe la stabilità dei prezzi.
Infine, il paper del FMI continua a promuovere una politica salariale deflattiva in
larga parte dell'Eurozona. Dato che l'economia dell'Eurozona stessa è già molto
vicina all'orlo della deflazione e dati i problemi relativi all'attuazione di politiche non
convenzionali come il QE, il FMI prescrive dunque una politica che sa non avrà
alcuna possibilità di successo.
Qual'è l'alternativa? Qui, il FMI stesso (probabilmente inconsapevolmente) offre
indirettamente la prova che contraddice il suo consiglio politico sulla moderazione
salariale deflattiva.
Infatti un altro scenario esplorato nel paper del FMI è quello che accade nei 5 paesi in
crisi quando la moderazione salariale del 2% non è limitata ad essi ma è applicata
all'intera Eurozona e questo, di nuovo, nel quadro attuale di tassi di interesse che già
sono a zero. Emerge che il risultato è devastante. I cinque paesi in crisi vedrebbero
una riduzione dell'1% del PIL e, con l'inflazione in riduzione del 2%, sarebbero
intrappolati nella deflazione. La ragione è ancora il bound zero lower. Se il passo
dell'inflazione scende mentre i tassi di interesse nominali restano allo stesso livello,
allora i tassi di interesse reali aumentano e scendono (in modo durevole) le domanda
e l'investimento.
Questo scenario dà un chiaro accenno su cosa avverrebbe se, come sta chiedendo la
CES, le retribuzioni fossero aumentate in modo concertato tra tutti i paesi
dell'Eurozona. In questo caso, nessuno stato membro perderebbe competitività
relativamente a un altro perché tutti aumenterebbero le retribuzioni.
Inoltre, con l'inflazione ben al di sotto dell'obiettivo di stabilità dei prezzi della BCE,
questa non ha alcuna ragione di premere il grilletto sui tassi di interesse per
ripristinare l'inflazione, soffocando di nuovo la crescita e disciplinando le
retribuzioni. Tuttavia, se l'inflazione sale e la BCE non aumenta i tassi di interesse
nominali, allora i tassi reali scendono e la domanda aggregata cresce.
In altre parole, le forze in funzione sono esattamente l'inverso dello scenario del FMI
sotto il quale tutti i membri dell'Eurozona moderano le loro politiche salariale. Si
possono pertanto prevedere risultati inversi ai risultati descritti nel paper. Il risultato
economico nei paesi in crisi non diminuirebbe ma crescerebbe dell'1%. E l'inflazione
sarebbe sollevata da (sotto) zero a un tasso vicino all'obiettivo di stabilità dei prezzi
della BCE.
La domanda pertanto è perché il FMI, invece di inventare tutti gli argomenti, possibili
e impossibili al fine di continuare con il pericoloso esperimento della svalutazione
salariale, non esplora ulteriormente l'ipotesi positiva di ricostruire istituzioni e
dinamiche salariali in tutta l'Eurozona? Che sia una questione di cecità ideologica?
Social Europe Journal 30 novembre 2015
Nouriel Roubini “L'Europa è condannata al collasso?”
Sono in un tour europeo di due settimane in un momento in cui si potrebbe essere o
molto pessimisti o costruttivamente ottimisti sulle prospettive europee. Prima le
cattive notizie: Parigi è trista se non depressa dopo gli attacchi terroristi dell'inizio del
mese. La crescita economica in Francia resta anemica, i disoccupati e i molti
musulmani sono maldisposti e l'estrema destra di Marine Le Pen è probabile vada
bene alle prossime elezioni regionali. A Bruxelles, semi-deserta e segregata a causa
del rischio di attacchi terroristi, le istituzione EU devono ancora escogitare una
strategia unificata per gestire il flusso dei migranti e dei rifugiati, per affrontare
l'instabilità e la violenza nell'immediato vicinato europeo.
Fuori dall'Eurozona, a Londra c'è preoccupazione sugli effetti di ricaduta finanziari
ed economici dell'unione monetaria. E la crisi dei migranti e i recenti attacchi
terroristici significano che il referendum sulla permanenza nell'EU - che si terrà
probabilmente l'anno prossimo - potrebbe portare l'UK a uscire. Seguirebbe la rottura
dello stesso UK perché la brexit porterebbe gli scozzesi a dichiarare l'indipendenza.
Intanto a Berlino, la leadership della cancelliera Merkel è sottoposta a pressione
crescente. La sua decisione di tenere la Grecia nell'Eurozona, la sua scelta, coraggiosa
ma impopolare, di fare entrare quest'anno un milione di rifugiati, lo scandalo
Volkswagen e l'affievolirsi della crescita economica (dovuto alla recessione cinese e
dei mercati emergenti) la hanno esposta alla critica del suo stesso partito. Francoforte
è una città divisa sulla policy: la Bundesbank continua a opporsi al Quantitative
Easing e alla politica dei tassi negativi, mentre la BCE è pronta a fare anche di più.
Ma i parsimoniosi risparmiatori tedeschi - famiglie, banche e compagnie di
assicurazione - sono furiosi contro le politiche della banca centrale europea che tassa
loro (e gli dei paesi core dell'Eurozona) per sussidiare i debitori della periferia
dell'Eurozona, accusati di essere sconsiderati spendaccioni.
In questo ambiente, non è a portata di mano quella unione economica, bancaria,
fiscale e politica piena, che sarebbe necessaria a una unione monetaria stabile:
“l'Eurozona core” si oppone a maggiore solidarietà e condivisione del rischio nonché
a una integrazione più rapida. E i partiti populisti, di destra e di sinistra - anti-EU,
anti-euro, anti-migranti, anti-mercato - stanno rafforzandosi in tutta Europa.
Ma di tutti i problemi che l'Europa ha di fronte, è la crisi dei migranti quella che
potrebbe diventare esistenziale. Nel Medio oriente, in Africa del Nord, nella regione
che si estende dal Sahel al Corno d'Africa ci sono 20 milioni di sfollati; guerre civili,
violenza e fallimenti di stati stanno diventando la norma. Se l'Europa ha difficoltà ad
assorbire un milione di rifugiati, come potrà gestirne 20 milioni? A meno che non
difenda le sue frontiere esterne, Shengen collasserà e torneranno le frontiere interne,
mettendo fine alla libertà di movimento - un principio chiave dell'integrazione
europea - all'interno della maggior parte dell'EU. Ma la soluzione proposta da
qualcuno -chiudere le porte ai rifugiati - peggiorerebbe soltanto il problema
destabilizzando paesi come la Turchia, il Libano e la Giordania che ne hanno già
assorbiti milioni. E pagare la Turchia e gli altri per tenersi i rifugiati sarebbe costoso e
insostenibile.
Il problemi del medio oriente più largo (inclusi Afghanistan e Pakistan) e dell'Africa
non possono essere risolti solo con mezzi militari e diplomatici. I fattori che guidano
questi ed altri conflitti peggioreranno: il cambiamento climatico sta accelerando la
desertificazione ed esaurendo le risorse idriche con effetti disastrosi sull'agricoltura e
le altre attività economiche e questo innescherà la violenza attraverso gli sfaldamenti
religiosi, etnici, sociali ecc. Niente meno che l'esborso di risorse finanziarie, tipo un
massivo Piano Marshall, soprattutto per ricostruire il Medio oriente, assicurerà una
stabilità di lungo termine. L'Europa saprà e vorrò accollarsi la sua quota?
Se non si troveranno le soluzioni economiche, alla fine i conflitti di queste regioni
destabilizzeranno l'Europa con milioni di disperati senza speranza che tenderanno a
radicalizzarsi e ad accusare l'occidente della loro miseria. Anche con un improbabile
muro intorno all'Europa, molti troverebbero una strada per entrare - e alcuni
continueranno per i decenni a venire a terrorizzare l'Europa. Per questo alcuni
commentatori, infiammando le tensioni, parlano di barbari alle porte e paragonano la
situazione europea alla fine dell'Impero Romano.
Ma l'Europa non è condannata al collasso. Le crisi attuali potrebbero portare a una
maggiore solidarietà, una maggiore condivisione del rischio, una ulteriore
integrazione istituzionale. La Germania potrebbe assorbire i rifugiati (sebbene non a
un ritmo di un milione all'anno). La Francia e la Germania potrebbero provvedere a
pagare per gli interventi militari contro lo stato islamico. Tutta l'Europa e il resto del
mondo - gli US e i paesi ricchi del Golfo - potrebbero fornire molto denaro per il
supporto ai rifugiati e al fine di finanziare gli stati falliti e di provvedere opportunità
economiche a centinaia di milioni di musulmani e africani.
Queste scelte sarebbero fiscalmente onerose per l'Europa e il mondo - e gli attuali
targets fiscali dovrebbero essere adeguati nell'Eurozona e nel resto del mondo.
L'alternativa però sarebbe il caos globale o, come ha avvertito papa Francesco l'inizio della III guerra mondiale.
E c'è la luce in fondo al tunnel per l'Eurozona. E' in corso una ripresa ciclica,
sostenuta per i prossimi anni da un monetary easing e da regole fiscali sempre più
flessibili. Una maggiore condivisione del rischio comincerà nel settore bancario (con
la prossima assicurazione sui depositi di dimensione europea) e alla fine saranno
adottate proposte più ambiziose per l'unione fiscale. Le riforme strutturali -sebbene
lentamente - continueranno e aumenteranno gradualmente le crescita potenziale e
reale.
In Europa le crisi - anche se lentamente - hanno portato a maggiore integrazione e
risk sharing. Oggi, il rischio di sopravvivenza sia per l'Eurozona (a partire dalla
Grecia) che per la stessa EU (a partire dalla brexit), porterà leaders illuminati a
sostenere il percorso verso una unificazione più profonda. In un mondo in cui
esistono e sono in crescita grandi potenze (US, Cina, India) e potenze revisioniste più
deboli (Russia e Iran), un'Europa divisa è un nano geopolitico.
Per fortuna, leaders illuminati a Berlino - ce ne sono diversi, malgrado la percezione
del contrario - sanno che il futuro della Germania dipende da un'Europa forte e
integrata. Essi, insieme agli altri leaders europei, comprendono che questo richiederà
forme appropriate di solidarietà, compresa una politica estera unificata, che possa
affrontare i problemi del vicinato europeo.
Ma la solidarietà comincia in casa. E significa respingere i barbari populisti e
nazionalisti all'interno, sostenendo la domanda aggregata e le riforme pro-crescita che
assicurino una ripresa più resiliente dei posti di lavoro e dei redditi.
Wall Street Journal 28 novembre 2015
Marcello Minenna “Le sbagliate riforme dell'euro approfondiranno la prossima
crisi”
Sono passati alcuni mesi dall'ultima crisi acuta dell'eurozona e i recenti sviluppi ad
Atene e Lisbona dimostrano che la moneta non è mai stata torppo lontana dalla zona
pericolo. Sono soprattutto i policy makers tedeschi che stanno sviluppando proposte
intese a stabilizzare il blocco nel più lungo termine. Il rischio tuttavia è che le misure
ora introdotte per favorire la stabilità potrebbero innescare una nuova e diversa crisi
in futuro.
I piani tedeschi, lanciati prima sui giornali e sottoposti “in modo non ufficiale” ai
ministri delle finanze dell'eurozona a settembre, si concentrano su tre punti.
L'eurozona creerebbe un nuovo, indipendente cane da guardia fiscale con maggiori
poteri e meno discrezionalità della Commissione Europea nel fare rispettare deficit
fiscali non superiori al 3% del PIL. Berlino poi introdurrebbe un meccanismo di “bail
in” per i creditori dei titoli pubblici di nuova emissione. E infine le banche sarebbero
assoggettate a nuove ponderazioni del rischio sui titoli pubblici posseduti.
Questi piani possono suonare affascinanti a qualcuno, ma i problemi abbondano. Si
consideri la proposta di un'agenzia fiscale indipendente, un'idea lanciata già da
qualche mese. La preoccupazione è che la Commissione Europea, che ha attualmente
il compito di monitorare i bilanci dell'eurozona è troppo prona alla pressione politica
e troppo disponilbile alla longanimità quando un governo supera il limite.
Ma l'idea di un'agenzia indipendente creerebbe un nuovo centro di potere, al di fuori
della sfera dell'influenza politica e protetta da ogni processo negoziale. Questo
eliminerebbe ogni spazio di manovra durante una crisi e denota una sfiducia nel
normale funzionamento delle istituzioni europee. Il risultato sarebbe una nuova
governance centralizzata ma meno rappresentativa.
Sarebbe tuttavia di gran lunga più significativa la proposta di un meccanismo di bail
in per i titoli sovrani dell'eurozona. Questo introdurrebbe nelle emissioni di bonds
una automatica estensione delle scadenze di almeno tre anni ogni volta che il
governo emittente richieda formalmente aiuto finanziario dal fondo di salvataggio
dell'eurozona – introducendo il rischio di una interruzione delle restituzioni durante
la durata tipica – tre anni – di un tale programma di salvataggio. Per di più, se dopo i
tre anni del programma i problemi permangono, tali bonds potrbbero essere
ristrutturati con poco spazio per le obiezioni da parte del creditore.
L'obiettivo è evitare che l'ESM (European Stability Mechanism), il fondo di
salvataggio, debba sovvenzionare la restituzione dei debiti pre-crisi durante un
programma di salvataggio. Si suppone inoltre che questa previsione crei migliori
incentivi a riconoscere ed evitare prestiti insostenibili. I rischi più alti associati ai
bonds emessi dai governi big-spending, sotto questi termini, aumenterebbero i
rendimenti, un segnale chiaro sia per i prestatori che per i creditori. Il problema più
grosso qui è che si cementerebbe la differenza tra i tassi di interesse per i titoli
sovrani all'interno dell'eurozona. Tale divergenza, o spread, è visto da molto tempo
come un problema da superare. Tende a erodere la competitività dei paesi colpiti
perchè i costi di rifinanziamento più alti per i governi si trasferiscono rapidamente,
via sistemi bancari nazionali, alle imprese e ai consumatori. Più alti costi di
finanziamento si traducono in tassi di inflazione più alti e in tassi di esportazione più
deboli, peggiorando in tal modo gli squilibri dei paesi in difficoltà all'interno
dell'eurozona.
Nel tempo, i policy makers tedeschi sono arrivati a tollerare come inevitabili tali
differenze nei tassi all'interno dell'eurozona. Ora li stanno addirittura sposando come
risultato desiderabile. Un obiettivo del meccanismo bail in sarebbe l'aumento della
spread tra tasso di interesse tedesco e quelli delle economie più piccole e rischiose.
Ma aumentando i costi di rifinanziamento dei membri dell'eurozona più piccoli e
rischiosi, le nuove regole renderebbero più probabili le crisi, a prescindere dal livello
di rettitudine fiscale che questi paesi cercano di realizzare. Paesi meno rischiosi
soffrirebbero meno, poichè i rendimenti crescerebbero di più nei paesi che hanno
maggiore probabilità di richiedere il supporto dell'ESM. Ma i tassi aumenterebbero
anche per i paesi fiscalmente responsabili, poichè tale meccanismo trasferirebbe i
rischi dall'ESM ai detentori di bonds. In pratica, questo ridurrebbe i benefici della
moderazione fiscale.
La terza proposta tedesca, quella di aggiustare la ponderazione del rischio dei titoli
sovrani nei bilanci delle banche esacerberebbe il problema. La speranza è di sostenere
la stabilità finanziaria costringendo le banche a riconoscere, nella valutazione del loro
capitale di riserva, che alcuni bonds sovrani sono più rischiosi di altri. In pratica
questo amplificherebbe gli spreads che stanno già allargandosi poichè le banche, per
evitare di dovere avere più capitale contro bonds più rischiosi, svendono i titoli
pubblici più rischiosi deprimendo ulteriormente i loro prezzi e aumentando i
rendimenti.
Berlino sta rispondendo alla richiesta politica dei contribuenti tedeschi di essere
sganciati da futuri salvataggi. Ma i policy makers devono evitare sia di creare le
condizioni per la prossima crisi che di creare tensioni politiche quando
inevitabilmente la Germania beneficerà dell'allargamento degli spreads tra i bonds
mentre gli altri membri dell'eurozona subiranno. Tale “riforma” si dimostrerebbe
destabilizzante tanto quanto lo status quo per la moneta unica.
Dal BLOG di Paul De Grauwe* (*dello LSE's European Institute)
“L'Euro e Shengen: comuni magagne e soluzioni comuni”
Cosa hanno in comune l'Euro e Shengen? Entrambi sono progetti che hanno lo stesso
difetto: sono un business incompleto. E pertanto corrono il rischio di rompersi.
L'Eurozona è una unione monetaria con una moneta, l'Euro che circola nell'unione ed
è gestito da una banca centrale, la BCE. Che c'è di sbagliato in questo, si potrebbe
chiedere?
Il problema fondamentale dell'eurozona è che i governi nazionali hanno bilanci propri
e emettonono obbligazioni proprie. Quando scoppia una recessione, il sistema entra
nei guai. Durante una recessioe i deficit di bilancio pubblico aumentano
automaticamente. I paesi che sono colpiti più duramente dalla recessione mostrano
deficits più ampi e il debito aumenta. I mercati finanziari che sono pienamente
integrati in una unione monetaria sono in agguato, pronti a colpire quando vedono
segnali di debolezza. I paesi colpiti più duramente dalla recessione sperientano “stop
improvvisi”: gli investitori vendono massicciamente i titoli pubblici, aumentando i
tassi di interesse e spingendo nell'illiquidità questi paesi. Gli altri paesi nel sistema ne
profittano, poichè gli investitori in cerca di un rifugio comprano i titoli di questi
paesi. Perciò, durante una recessione, i liberi movimenti di capitale destabilizzano
l'eurozona e spingono i paesi più deboli nel “cattivo equilibrio” di una recessione
anche più profonda e di un aumento della disoccupazione.
Che dire di Shengen? Come l'Eurozona è un progetto incompiuto. I residenti dell'area
Shengen si muovono liberamente al suo interno. Il problema è che gli architetti di
tale area hanno dimeticato di integrare i servizi di polizia e di intelligence. Inoltre,
hanno dimenticato di trasferire l'autorità di controllare le frontiere esterne a un corpo
europeo.
Ne è conseguito che è sorto un problema nell'area Shengen simile a quanto avviene
nell'eurozona. Le gangs criminali si muovono liberamente all'interno dell'area.
Commettono furti in paese e scappano in un altro. Al contrario, le forze di polizia
devono fermarsi alle frontiere. I terroristi hanno pianificato da Bruxelles come
attaccare a Parigi e sfuggire ai radar delle forze di polizia e di intelligence nazionali.
Queste ultime non sono integrate e non possono più garantire la sicurezza dei loro
cittadini.
Il pericolo delle unioni non completate è che esse si disintegreranno. Senza una
unione fiscale i liberi movimenti di capitale creeranno grande instabilità quando la
prossima recessione colpirà l'eurozona. Nel lungo periodo, i governi che non possono
più garantire un minimo di stabilità economica ai loro cittadini saranno tentati di
abbandonare l'eurozona.
In assenza di integrazione dei servizi di polizia e di intelligence, gli stati nazione nella
zona Shengen non potranno più prendersi cura della sicurezza dei loro cittadini e,
anche per questo motivo, saranno tentati di uscire dalla zona. Infatti questo sta già
accadendo oggi.
La scelta che abbiamo di fronte è semplice. Se vogliamo tenere l'euro, dovremo
creare l'unione fiscale. Questo implica che una significativa porzione dei bilanci
nazionali e dei debiti pubblici nazionali dovrà essere centralizzata. Un formidabile
trasferimento di sovranità dagli stati nazione alle istituzioni europee. Se vogliamo
preservare l'area Shengen dovremo integrare le forze di polizia e l'intelligence
creando nel contempo un controllo congiunto alle frontiere esterne. L'incapacità di
integrarli condannerà entrambi i progetti, sia l'eurozona che Shengen.
L'Eurozona e l'area Shengen hanno fondamentalmente indebolito i governi nazionali
mentre non è stato messo in atto nulla a livello europeo per riequilibrare questa
perdita di potere degli stati nazione. L'Euro e Shengen possono essere salvati solo se
creiamo istituzioni europee che possono fare quello che i governi nazionali non
possono più fare, cioè assicurare la stabilità economica e la sicurezza dei cittadini
d'Europa.
Economist 28 novembre 2015
“E' necessario un pensiero chiaro.
Il riscaldamento globale non può affrontato usando le mentalità e gli strumenti
di oggi. Bisogna perciò crearne di nuovi”
In qualche modo, i colloqui di Parigi sul clima mostreranno i leaders del mondo al
loro meglio. Facendo un break dai temi pressanti come le minacce terroriste e le
economie in difficoltà, cercheranno di scongiurare una crisi che porrà i suoi rischi più
gravi molto tempo dopo che loro avranno lasciato la loro carica. E' l'opposto del
pensiero miope che, si dice spesso, affligga i politici. Un peccato, allora, che i
politici si siano posti un compito impossibile e che, per lo più, lo affrontino nel modo
sbagliato.
Che il cambiamento climatico sia in corso, che sia largamente ad opera dell'uomo e
che sia enormemente dannoso sono tutte cose difficilmente negabili (sebbene i
candidati presidenziali repubblicani cercano di farlo normalmente). Quest'anno sarà
certamente il più caldo dal 1880, quando sono cominciati i rilievi della NASA. Se è
così, il 2015 romperà un record raggiunto soltanto nel 2014. Fino ad ora, ogni
singolo anno di questo decennio è stato più caldo di ogni singolo anno prima del
1998.
Le turbine a vento e i pannelli solari che si stanno diffondendo in tutta Europa,
America e Cina non riescono a contenere le emissioni di anidride carbonica. Dal
cambiamento di secolo, l'energia globale è diventata più e non meno carbonintensive. Il carbone fornisce oggi il 41% dell'elettricità del mondo e il 29%
dell'energia del mondo - una quota maggiore di ogni altro momento almeno da 40
anni. La concentrazione atmosferica di anidrite carbonica è del 40% più alta di
quanto fosse all'inizio della rivoluzione industriale.
Un terribile due
I presidenti e i primi ministri che si riuniscono a Parigi insisteranno che il
riscaldamento globale deve essere fermato prima che la temperatura del mondo
cresca di 2° rispetto ai giorni pre-industriali. Questo dicono da anni ma, considerando
la velocità del cambiamento climatico, questo obiettivo è irrealistico quanto
arbitrario. Se le emissioni annuali di gas serra restano al livello attuale, entrerà in
atmosfera inquinamento a sufficienza per riscaldare il mondo di due gradi centigradi
in soli 30 anni. I verdi dicono che il target è un punto di riferimento – che è utile
perché ispira azione, e l'azione, una volta avviata, ispirerà ancora più azione in un
circolo virtuoso. Se solo i leaders del mondo irrigidiranno le loro schiene e
prometteranno ancora più energia verde, essi sostengono, il disastro potrebbe essere
evitato. Ma questo sottovaluta in modo drastico la sfida. Le parti del pianeta che
sono diventate ricche lo hanno fatto spillando una grande provvista di energia fossile
con slancio incosciente anche se comprensibile. Per il resto del mondo che si unirà a
loro nel corso del prossimo secolo – così come per tutti gli abitanti non umani del
pianeta – fiorire nei secoli a venire richiederà molto di più che una sola sia pur grande
espansione delle esistenti tecnologie rinnovabili.
Il mondo e i suoi leaders hanno bisogno di più ambizione e più realismo. L'ambizione
richiede che aumentino le opzioni disponibili. I generosi sussidi perpetuano le
tecnologie low-carbon oggi disponibili; l'obiettivo dovrebbe essere inaugurare quelle
di domani. Purtroppo, le compagnie energetiche (a differenza per esempio delle
aziende farmaceutiche o automobilistiche) vedono l'investimento nelle tecnologie
radicalmente nuove come una prospettiva povera e i governi sono stati deboli nel
recuperare il gioco. Sun vasto impegno ad aumentare e diversificare la spesa per
R&D sulle tecnologie energetiche sarebbe più positivo di più o meno tutto quello che
Parigi potrebbe offrire.
Sarebbe costoso. Ma si ricordino tre cose. Una è che spendere denaro per ridurre
rischi gravi è ragionevole. La seconda è che alcune delle attuali politiche sul clima
costano molto di più di una grossa espansione del portafoglio per la ricerca e
rendono piuttosto di meno. I sussidi che hanno creato migliaia di impianti eolici e
solari hanno ottenuto solo poco a costo elevato. Altri sussidi verdi, come alcuni di
quelli per il bio-carburante hanno in realtà fatto danno. C'è un sacco di soldi da
risparmiare.
Una terza cosa è che una delle misure migliori contro il cambiamento climatico
produce denaro. Prezzi del carbone ben costruiti possono favorire l'energia verde,
incoraggiare il risparmio energetico e sopprimere l'energia fossile molto più
efficientemente dei sussidi per le rinnovabili. Pochi luoghi coraggiosi hanno
sostenuto la definizione di tali prezzi attraverso le tasse sul carbone:l'ultima è
l'Alberta in Canada. La maggior parte dei paesi che hanno cercato di fissare il prezzo
del carbone hanno invece emesso permessi di inquinamento scambiabili invariabilmente troppi, con il risultato che il prezzo è troppo basso per cambiare i
comportamenti. Idealmente tali paesi dovrebbero ammettere il loro errore e
cominciare a tassare. Se non ci riuscissero, dovrebbero mantenere i loro schemi di
emission-trading ma aggiungendo un prezzo base, aumentandolo fortemente.
La nuova agenda per la ricerca deve contrastare le deficienze delle rinnovabili.
Sebbene in particolare il solare è diventato molto più economico,nuovi materiali,
manifatture e tecnologie di assemblaggio potrebbero renderlo ancora meno caro.
Servono modi migliori di immagazzinaggio dell'energia – in modo che il solare e
l'eolico possano essere usati, per esempio, nelle ancora fredde sere invernali quando
la richiesta europea di elettricità raggiunge il picco. Così ci sono modi migliori di
portarla da A a B, sia attraverso reti più grandi o nella forma dei nuovi combustibili
sintetizzati, La biotecnologia potrebbe produrre insetti fotosintentici che pompino
fuori molto carburante utilizzabile? Nessuno lo sa. Varrebbe la pena spenderci un po'
di miliardi per scoprirlo.
Né le ambizioni per la ricerca dovrebbero essere limitata alle sole rinnovabili. Ci
sono altre forme di energia fossil-fuel-free, come il nucleare. L'innovazione
nell'energia nucleare non è facile; tali impianti energetici sono pericolosi e hanno
bisogno di regole vigili e indipendenti; sono impopolari e attualmente molto costosi.
Ma una civilizzazione che guarda ai prossimi decenni o più non può escludere nuove
forme di nucleare dall'agenda della ricerca.
Viverci insieme
Una innovazione radicale è la chiave per ridurre le emissioni nel medio e lungo
termine, ma non fermerà, nel frattempo, il peggioramento del cambiamento climatico.
E qui entra in campo il realismo: molte persone dovranno adattarsi a una terra più
calda e alcuni avranno bisogno di aiuto.
I paesi più ricchi (compresa la Cina) hanno promesso $100 miliardi all'anno per
aiutare i più poveri. La difficoltà è che non è chiaro cosa conta ai fini del totale e a
cosa serve il denaro. Se la conferenza sul clima di Parigi finirà nel rancore, questa
sarà probabilmente la causa. La priorità dovrebbe essere la ricerca sulle colture che
possono sopravvivere in climi estremi, una migliore situazione sanitaria e assistenza
alla salute per rendere i poveri più resilienti agli shocks climatici; ed energia più a
buon mercato, sia essa verde o no. I poveri hanno bisogno di tutte queste cose più di
regali di tecnologie green-power che persino l'occidente considera troppo costose.
Il filo conclusivo del novo pensiero dovrebbe essere la ricerca per raffreddare
artificialmente la terra. I modelli climatici suggeriscono che il riscaldamento globale
potrebbe essere rallentato spruzzando particelle nella stratosfera o usando cristalli di
sale che renderebbero le nubi più bianche e meglio riflettenti la luce solare. Nessuno
sa se tali progetti di “geo-ingegneria” possono essere costruiti in modo gli esistenti
rischi climatici non vengano sostituiti da rischi peggiori. Ma questa è una ragione per
la ricerca e la discussione, non per cercare un'altra strada. La geo-ingegneria non
sostituisce il taglio delle emissioni di gas serra (ad esempio non impedisce alla
anidride carbonica di cambiare la chimica degli oceani). Ma metterle al band come
chiedono molti verdi è stupido.
In breve: pensare i cappelli dovrebbe sostituire i cilici e il pragmatismo dovrebbe
sostituire la teologia verde. Il clima sta cambiando a causa di invenzioni straordinarie
come le turbine a vapore e il motore a combustione interna. Il modo migliore di farvi
fronte è continuare a inventare.
Financial Times 18 novembre 2015
Henry Paulson* “Abbiamo bisogno di incentivi per salvare il clima - non solo di
un accordo”
*Henry Paulson (ex segretario del tesoro US)
Se, come ora sembra probabile, i leaders del mondo raggiungeranno un accordo sul
cambiamento climatico quando si incontreranno a Parigi alla fine del mese, avranno
fatto un passo importante verso la protezione del nostro pianeta. Ma questa sarà solo
una partenza. Per fare un progresso vero nel cambiamento climatico abbiamo bisogno
di nuove strutture economiche e di nuova tecnologia.
Questo ha un prezzo;i paesi in via di sviluppo in particolare dovranno equilibrare il
costo della pulizia ambientale con la necessità di una crescita continua. Ma porterà
anche benefici, creando nuove e più sostenibili fonti di prosperità. E, come spesso nei
casi in cui il progresso dipende da investimento anticipato, la chiave è in mano alla
finanza.
La green finance non dovrebbe essere un'altra forma di aiuto che le nazioni ricchi
daranno ai paesi più poveri. Né può essere un project financing statale mascherato.
Invece, il focus dovrebbe essere sullo sfruttamento dei principi di mercato per attrarre
capitale privato in modo che le tecnologie possano essere commercializzate e il
financing spostato dalle industrie inquinanti che poggiano sulla distruzione
ambientale senza pagare per essa.
La richiesta trasformazione nel sistema finanziario non sarà facile. Sarà
particolarmente difficile per i paesi in via di sviluppo che mancano di maturi e
profondi mercati di capitale come quelli dei paesi avanzati, tipo US.
Ci sono precedenti incoraggianti. Il governo cinese, con l'ONU, ha avanzato proposte
per allineare il suo sistema finanziario con la crescita low-carbon. Ha chiesto la
creazione di nuove istituzioni per fare credito con specifici obiettivi ambientali, che
abbasserebbero il costo del finanziamento per i progetti verdi. Se questo è un passo
positivo, quello che resta da fare è molto di più.
Il tema non la scarsità di capitale. E' piuttosto che capitale abbondante ha bisogno di
essere allocato nei settori low-carbon che possono generare anche nuove fonti di
crescita economica e creare nuova occupazione.
L'opportunità di dispiegare capitale privato in Cina per questi obiettivi è enorme.
Solo per fare un esempio, nel 2011, i fabbricati hanno costituito circa il 30% dei
consumi energetici cinesi. Il problema va oltre la Cina. L'umanità nei prossimi
decenni crescerà di altri 2-3 miliardi di persone - e la maggior parte di questa crescita
sarà assorbita dalle città. Molti dei paesi che vedranno una crescita della popolazione
urbana sono in via di sviluppo e mancano di appropriasti sistemi di finanza
municipale per finanziare lo sviluppo urbano. Per questo anche il settore pubblico ha
da svolgere un ruolo.
La spesa pubblica dovrebbe puntare a colpire oltre al suo peso sfruttando il capitale
privato ad ogni dollaro speso. Le politiche di governo possono anche accelerare il
processo di cambiamento nelle pratiche di finanziamento e di investimento.
La finanza verde e le scelte di policy differiranno tra le nazioni. Alcune opteranno per
mettere un prezzo sul carbone. Altre per diverse combinazioni e sussidi - e
regolamentazioni.
Qualunque sia il mix di policy, dovrebbe essere ancorato a incentivi al mercato per
incoraggiare le istituzioni finanziarie, gli investitori, i lenders a tenere conto delle
esternalità, come le emissioni, quando valutano i progetti e il business.
Queste idee hanno già fatto qualche incursione, come l'emersione di networks di
investitori e gli impegni assunti da diverse istituzioni finanziarie europee agli Equator
principles, un impianto per la gestione del rischio ambientale. Ma per avere un
impatto sulle emissioni di carbone, tali concetti di green financing devono essere
adottati in modo ampio. Per questo, con la Cina che assume quest'anno la leadership
del G20, c'è l'opportunità per il gruppo di adottare come nuova agenda il green
financing e di creare modelli pratici per il mondo in via di sviluppo.
I mercati globali dei capitali sono forze potenti. Diretti con proprietà possono
alleviare il peso dei governi e aprire un futuro economico sostenibile.
New York Times 1 dicembre 2015
Un report cinese sul riscaldamento scopre molti grossi rischi
“Lo scioglimento dei ghiacciai, la siccità e l'innalzamento dei mari potrebbero
alimentare il conflitto internazionale”
L'innalzamento del mare che assedia le zone costiere vitali per l'economia cinese.
Possenti infrastrutture, come la diga della tre gole e la ferrovia del Tibet, indebolite
dalla piogge violente e dallo scioglimento della terra gelata. E alle frontiere
dell'Himalaya il rischio nei prossimi decenni di un conflitto internazionale
sull'inaridimento delle forniture di acqua dovuta al ritiro dei ghiacciai.
Questi e altri scenari sono stati fatti dall'ultima valutazione scientifica del governo
cinese sul riscaldamento globale, resa pubblica prima dei negoziati di Parigi per un
nuovo accordo sul cambiamento climatico.
“C'è una crescente consapevolezza della gravità dei problemi” ha detto in
un'intervista Zhang Haibin, professore dell'Università di Pechino che era tra i 550
esperti che hanno preparato questo report. Ha notato un cambiamento dalla prima
valutazione di questo tipo fatta 9 anni fa. “Dal primo, al secondo, al terzo di questi
rapporti, l'impatto negativo del cambiamento climatico sulla Cina è evidente in
misura crescente”.
Il nuovo report è stato recentemente messo in vendita al pubblico dopo il suo rilascio
dal Ministero della scienza e della tecnologia ed è disponibile solo in cinese.
Presenta il riscaldamento globale come problematico per la Cina da due fronti: gli
azzardi ambientali e la risposta internazionale.
La Cina è sempre più vulnerabile agli effetti del cambiamento climatico, specie
dall'innalzamento dei mari e dal cambiamento del modello delle piogge e delle nevi.
E rischia crescenti pressioni internazionali per tagliare il suo inquinamento da gas
serra che è di gran lunga la più forte di ogni altro paese, almeno il doppio del secondo
paese più inquinante, gli US.
Per parare queste richieste internazionali, uno sezione del report spinge Pechino a
maggiore flessibilità nei negoziati, nei quali il duplice status della Cina come enorme
economia in sviluppo e più grande inquinatore ha generato frizioni con l'EU, gli US e
altri paesi che vogliono impegni più fermi su quando cominceranno a ridursi le
emissioni di gas serra.
“Nuovi arrangiamenti nella governance globale sul clima sono inevitabili” dice il
report. “La Cina dovrebbe confrontare la vaghezza del suo ruolo e cambiare”.
Gli ultimi colloqui sono cominciati lunedì a Parigi e il presidente della Cina Xi
Jinping era tra i leaders all'apertura. Xi ribadirà la vecchia posizione della Cina che è
ancora un paese povero in crescita, significando che non dovrebbe avere
responsabilità per i tetti quantitativi ai gas serra che si applicano alle economie
ricche, ha detto venerdì il ministro degli esteri cinsi. Ma una sezione del nuovo report
suggerisce che la Cina dovrà adattarsi alle nuove richieste.
"C'è una tendenza inevitabile per tutti i paesi a partecipare ai tagli delle emissioni e
per i principali paesi in sviluppo di sostenere maggiori responsabilità sulla riduzione
di emissioni" ha detto il report. "La Cina deve prepararsi".
Lo studio di 900 pagine "Il terzo Report di valutazione nazionale sul cambiamento
climatico" non è la somma delle politiche governative; piuttosto è il distillato delle
ultime opzioni scientifiche e di policy fatte da esperti nominati dallo stato. Alcuni di
loro lo hanno paragonato al Panel intergovernativo dell'ONU sul cambiamento
climatico che riassume gli avanzamenti nella ricerca scientifica e le loro implicazioni
con autori che talvolta si contraddicono tra di loro. "E' un importante contributo al
dibattito e al processo di costruzione del consenso" ha detto Qi Ye, professore di
politica e management ambientale alla Tsinghua University di Pechino che ha
contribuito al report. "A tale proposito, contribuisce, anche se indirettamente, al
processo di policy making.
Il report riconosce che ci sono opinioni diverse tra i policy advisers a proposito del
numero di anni in cui le missioni in Cina continueranno a crescere prima di
stabilizzarsi.
He Jiankun, un professore della Tsinghua University che è stato un senior author del
report, ha detto che spera che il governo assumerà le proposte che vi sono contenute
per limiti fermi al consumo di carbone e all'inquinamento da diossido di carbonio a
partire dall'anno prossimo, al fine di aprire la strada a un pico delle emissioni prima
del 2030, data proposta dal governo.
Gli attuali obiettivi cinesi cercano di ridurre l'inquinamento da diossido di carbonio
rilasciato per ogni unità di crescita economica. Questo significa che le emissioni
cresceranno ancora ma più lentamente dell'economia e non c'è alcun limite massimo
a tali emissioni. "E' precisamente a causa delle incertezze che abbiamo bisogno di
controlli" ha detto He. "Senza un obiettivo,le nostre future emissioni potrebbero
addirittura crescere".
Ma anche se la Cina e le altre grandi potenze concordano tagli vincolanti ai gas serra,
gli effetti sul cambiamento climatico già ci sono nell'ambiente. Il report urge più
spesa per prepararsi a fronteggiare le sempre più frequenti ed estreme siccità,
alluvioni e ondate di calore.
L'aumento del livello dei mari è tra le minacce che ricevono maggiore attenzione nel
report. Con lo scioglimento dei ghiacci polari e l'aumento delle temperature degli
oceani, i mari in tutto il mondo stanno crescendo, ma i cambiamenti sono irregolari e
le acque delle coste cinesi sono cresciute più rapidamente della media globale, dice il
report. "Il cambiamento climatico esporrà gli insediamenti urbani lungo le coste più
di ogni altra area in tutta la nazione ai colpi del cambiamento climatico" dice "alcune
città possono persino correre il rischio di enormi disastri difficili da prevedere".
Mentre c'è molto dibattito sulla dimensione delle crescite future, il report cita
proiezioni che, prevedono la possibilità che, per la fine del secolo, il mare della Cina
orientale potrebbe aumentare tra i 40 e i 60 centimetri a confronto delle medie del
20esimo secolo, esponendo città come Shanghai e aree circostanti a maree di
inondazioni e a grandi danni da tempeste e tifoni. Alcune proiezioni sono persino più
alte.
"Tutte le infrastrutture costruite sulla costa sono potenzialmente vulnerabili" ha detto
in una intervista telefonica Isabel Hilton, editore di Chinadialogue, un website per
notizie e discussioni sulle sfide ambientali del paese. "Qui c'è una enorme quantità di
PIL"
La Cina interna sperimenterà cambiamenti maggiori nelle precipitazioni di pioggia e
di neve che riformerà l'agricoltura. Sebbene il riscaldamento globale può evocare
immagini di desertificazioni, l'aumento delle temperature può anche significare che
l'aria assorbe più umidità, che è poi probabile venga scaricata in piogge sempre più
irregolari, specie nel nord della Cina. Soprattutto, il report dice che le risorse idriche
cinesi, già indebolite, potrebbero ridursi del 5% entro la metà del secolo a causa del
cambiamento climatico.
Questo richiederà grandi cambiamenti nell'agricoltura, e potrebbe danneggiare la
Diga delle tre gole, una delle più grandi al mondo, dice il report. Il cambiamento
delle precipitazioni di pioggia, alla fine significherà che la diga sopporterà carenze
più frequenti nelle stagioni secche e inondazioni più intense nelle stagioni umide.
Questo sarà "estremamente dannoso per la gestione del serbatoio, la sicurezza della
diga e le prevenzione delle alluvioni" dice il report.
In tutto il Tibet e nelle altre regioni di altitudine della Cina occidentale, i ghiacciai si
sono ritirati,così il permafrost, lo strato di terra, sotto la superficie, che resta gelata
tutto l'anno.
Le 710 mila miglia di linea ferroviaria cinese sul Plateau tibetano è già sconvolta dal
terreno ammorbidito e instabile che causa deformazioni della linea. Il passo del
riscaldamento minaccia di sorpassare i rimedi tecnologici, dice il report.
I rischi che questi cambiamenti determinano per la Cina non sono solo ambientali o
economici. Una sezione del report è dedicata alle implicazioni sulla sicurezza
nazionale. L'aumento delle temperature accelererà prima lo scioglimento dei
ghiacciai, aumentando la portata dei fiumi, ma a partire da circa metà secolo, queste
portate potrebbero sfumare, ha detto Zhang della Peking University, che ha
contribuito alla stesura di questa sezione del report, portando a scontri di frontiera
sulle risorse idriche.
Social Europe Journal 2 novembre 2015
Steven Hill* “Perchè gli 'one-percenters' beneficeranno della Gig Economy
mentre il resto no”
*Steven Hill (senior fellow alla New America Foundation; autore del libro "perchè la Uber
economy e il capitalismo senza controllo stanno fottendo i lavoratori americani)
E' difficile sapere cosa porterà il futuro, ma al momento penso che lo scenario in
assoluto più realistico sia che il lavoro sarà spezzettato in compiti sempre più piccoli
e in gigs/microgigs/nanogigs ( quello che viene definito task T segmentato in T1, T2,
T3...Tn)
e
allora
molti
di
questi
compiti
saranno
affidati
all'automazione/robot/algoritmi - non umani. Il ruolo umano può essere ridotto solo
a premere il bottone per fare partire il robot. Sarà un lavoro servile, dequalificato e
pagato poco. Sempre più lavoratori saranno ridotti a ruolo servile.
In un certo senso, le aziende della gig economy come TaskRabbit, CrowdFlower,
Elance-Upwork, Freelancer.com, Guru, Zaarley, Fiverr ed altri stanno facendo i
pionieri nel brokeraggio di app-driven labor jobs che impegnano a contratto
lavoratori che si mettono all'asta al massimo ribasso e che ottengono lavori e
remunerazioni sempre più ridotti. Molti freelancers saranno braccianti mal pagati che
offrono i loro servizi in una nuda competizione che nette gli uni contro gli altri.
Questo determinerà un'enorme, inimmaginabile crescita della produttività, e, in
passato, tale crescita ha portato a una maggiore prosperità per tutti. Che avverrà
questa volta? Chi prenderà i benefici di questa enorme, inimmaginabile crescita della
produttività? Sarà una manciata di "Masters of Universe", cioè capi imprenditori e
investitori? I guadagni saranno largamente distribuiti al pubblico in genere? Nessuna
palla di vetro ci può dare la risposta, ma sappiamo che negli ultimi decenni,
l'economia si è ristrutturata in modo che i ricchi guadagni della crescita della
produttività e delle nuove tecnologie sono finiti nelle tasche di una minoranza sempre
più piccola: gli "one-percenters". Sappiamo anche che c'è stata una stagnazione
salariale malgrado considerevoli aumenti dei profitti corporate. Così la storia recente
della nostra nazione dimostra, anche troppo vividamente, che al pubblico in generale
non è garantito in alcun modo di trarre beneficio dall'innovazione tecnologica e dai
guadagni di produttività. Semmai il contrario.
La risposta al quesito è dunque politica. Dipende grandemente dalla politica e dalle
politiche perseguite durante l'interregno, prima che la nostra società cominci ad
avvicinarsi all'orlo di questo futuro molto incerto. L'inizio si sta per avvicinare, come
una cometa gigante di un'altra galassia, più rapidamente di quanto si rendano conto
l'opinione pubblica e i politici. Stiamo andando a scontrarcisi frontalmente.
Social Europe Journal 20 novembre 2015
Andrea Boes* “Digitalizzazione: nuovi concetti del lavoro stanno rivoluzionando
il mondo del lavoro”
*Andrea Boes (membro del board dell'Institute for Social Science Research (ISF) e insegnante
alla Techinical University Darmstadt)
Nuovi fenomeni come il cloud working (lavoro remoto; attraverso piattaforme
tecnologiche che mettono in relazione i free lancers con le richieste delle aziende) e il
crowd sourcing (affidamento ad esterni tramite piattaforme web di realizzazione di
progetti, di analisi e raccolta dati, di informazione ecc) stanno guadagnando terreno,
segnalando che la digitalizzazione sta rivoluzionando la società e l'economia. Da un
lato sembra che promettano nuove flessibilità e nuove libertà, maggiore efficienza e
riduzione dei costi. Dall'altro lato, sembra incombere una "Amazonization" del lavoro
e l'emergere di un nuovo precariato di peones digitali mediati da piattaforme come
Maechanical Turk o Clickworker. Tale processo crea nuove sfide per le politiche del
lavoro ( vedi per esempio Schroder e Schwemmle 2014, Benner 2015).
Al fine di comprendere i radicali cambiamenti indotti dalla digitalizzazione nel
mondo del lavoro, è necessario guardare all'emergere di un nuovo spazio di
informazione globale, come un'arena per l'azione societaria fruibile da un numero
crescente di attori - e guardare a come aziende come l'IBM la usino strategicamente
per ridisegnare radicalmente i loro processi produttivi.
La forme più diverse dell'utilizzo privato avvengono all'interno di questo spazio: il
consumo, la condivisione di informazioni, gli scambi di comunicazioni, la
coltivazione di contatti e anche varie forme di lavoro societario. I contributi
individuali di questi numerosi e vari attori all'interno in funzione dello spazio
dell'informazione, i loro profili e i dati, i loro pacchetti di lavoro, il know how e le
forze produttive - tutto ciò è riconosciuto sempre di più dalle imprese come
potenziale fonte di valore e quindi da sviluppare e sfruttare.
Perciò lo spazio dell'informazione diventa il punto di partenza per un enorme balzo
nelle forze produttive. Intanto le aziende hanno compreso il suo significato strategico:
attraverso lo spazio dell'informazione possono superare i loro limiti fisici, calibrare
con flessibilità i loro processi produttivi e, last but not least, sfruttare e integrare i
contributi dallo "outside" come richiesto senza obbligazioni vincolanti per la stessa
azienda. In questo modo le società stanno cominciando a prendere lavoro societario e
attività private dai loro contesti non-capitalisti per sfruttarli per i propri processi di
valore aggiunto e anche per creare una relazione concorrenziale tra di loro e il lavoro
dei dipendenti regolari. Questo sviluppo marca la partenza di una nuova fase storica
dell'esproprio capitalista. (per questo concetto vedi Dorre 2012).
Le imprese stanno reinventando se stesse: L'esempio dell'IBM
Cosa significa tutto ciò in pratica? Un buon esempio è l'IBM e la sua strategia
imprenditoriale "Generation Open (GenO) (uno studio dettagliato con esempi di tale
strategia su Boes e altri 2015. La strategia Generation Open sta per un tentativo
molto sofisticato di inserire il crowd sourcing in un concetto olistico di produzione
che combina i principi dello "esproprio esterno", cioè dell'appropriazione del lavoro
dall'esterno dell'impresa e di "esproprio interno" attuato con i mezzi di una radicale
riorganizzazione del lavoro all'interno dell'impresa che segue il modello delle
comunità. Perciò IBM combina "inside" e "outside" come elementi complementari di
un sistema olistico, tenuto insieme nel "cloud".
Così il crowd sourcing come praticato dall'IBM è parte di una strategia generale di
cloud working. Questo a sua volta è originato da una reinvenzione della società dopo
il declino del computer centrale, in termini sia di modello di business che di
organizzazione del lavoro. Dopo l'introduzione di nuovi concetti di menagement e di
agili metodi nello sviluppo del software e dopo che la società si era aperta alla
comunità circostante - i cambiamenti sono stati sintetizzati sotto l'etichetta di una
"impresa globalmente integrata" - GenO e il cloud working sono l'importante
sviluppo ulteriore del modello disegnato per portare l'IBM nel futuro digitale.
Lo "esproprio esterno" - che consente l'accesso dell'IBM a risorse esterne alla sfera
del lavoro capitalistico retribuito e di raggiungere innovazioni potenziali oltre le
proprie frontiere - è realizzato attraverso il portale dell'IBM "Liquid"; è effettuato in
cooperazione strategica con la piattaforma crowd sourcing "TopCoder". Liquid non
affronta il crowd (la moltitudine) nel suo insieme ma solo un gruppo di freelancers
identificabili. Questi sono a disposizione dell'IBM per portare avanti pacchetti di
lavoro compartimezzato e sono pagati se il risultato del lavoro è presentato e
accettato all'interno di uno spazio temporale definito.
In teoria tuttavia sarebbe possibile assumere ogni singolo sviluppatore di software nel
mondo, senza dovere ricorrere a un contratto di lavoro e integrare tali sviluppatori
nei processi di produzione interni attraverso la spazio dell'informazione.
Inoltre l'IBM sta attualmente ristrutturando i propri processi di produzione interni in
modo considerevolmente consistente.
Il blueprint per questo processo di ristrutturazione va cercato nelle comunità Open
Sources con il loro nuovi metodi di sviluppo del software all'interno di teams
distribuiti in modo globale, applicando una trasparente organizzazione del lavoro e
vivendo una cultura speciale di collaborazione e comunicazione. Attraverso una
"Blue Community" in house, viene ottimizzata la connessione/interazione tra una
grande "people cloud" all'esterno e quelli all'interno.
Dentro la "Blue Community", sono usati strumenti e processi per regolare e
controllare il suo lavoro. Così il "Concetto di Team Razionale" fornisce la base IT
per la divisione del lavoro nello sviluppo del software mentre l'ambiente per la
comunicazione e la collaborazione"IBM Connections" cura il regolare scambio di
conoscenze. La direzione standardizzata del lavoro offre anche nuove possibilità di
controllo. Una "Blue Card" dove sono registrati "Blue Points" documenta la
reputazione digitale di ogni singolo sviluppatore. Questo status è permanentemente
tenuto aggiornato da strumenti analitici. Così i dipendenti si trovano in un
radicalizzato "sistema di esame permanente".
Una nuova industrializzazione del lavoro della conoscenza
Per riassumere: in pratica, lo spazio dell'informazione come nuovo "spazio della
produzione" permette un lavoro distribuito, standardizzato e globalmente
sincronizzato che viene perennemente monitorato. Questo è il precursore di una
nuova industrializzazione del lavoro della conoscenza - e un sistema che trasforma
sempre di più le attività altamente professionalizzate in lavoro salariato fungibile. La
loro fungibilità e trasparenza e quindi un nuovo tipo di industrializzazione sono la
precondizione per massimizzare l'interazione tra "outside" e "inside" e per la
permeabilità tra le due sfere. Questo è il centro del processo dello "esproprio interno".
Gli espropri, esterno e interno, sono messi insieme nello spazio dell'informazione,
formando un sistema olistico - e, come conseguenza inevitabile, è ricostituito il
lavoro societario.
La grande sfida per la società
Questo sviluppo implica grandi sfide per le politiche sociali. Integrando le nuove
forme di lavoro societario nei processi produttivi, le aziende le stanno convertendo in
lavoro salariato de facto ma senza confermare la legislazione sul lavoro. Piuttosto
esse gestiscono queste relazioni di lavoro secondo il codice civile, incitando in tal
modo la concorrenza tra di loro e l'occupazione protetta da un regolare sistema di
lavoro salariatoPer converso, la situazione competitiva tra dipendenti regolari e lavoratori nello
spazio dell'informazione esercita pressione sui dipendenti e le loro condizioni di
lavoro regolate. C'è il pericolo che la pressione impatterà non solo sui singoli
lavoratori ma sull'intero sistema del lavoro regolato e anche oltre, più a valle, sulle
istituzioni come i sistemi di sicurezza sociale. Questo potrebbe non costituire un
problema per le singole aziende ma è certo un problema per la società nel suo
insieme.
Social Europe Journal 3 novembre 2015
Simon Deakin* “Il luddismo al tempo di Uber”
*Simon Deakin (prof. di diritto all'Università di Cambridge. Fa parte del gruppo di esperti
dell'istituto di ricerca del sindacato europeo)
Una risposta comune all'ondata di proteste su Uber è che gli oppositori sono
"luddisti". L'implicazione è che la resistenza alle nuove tecnologie oggi si dimostrerà
futile, proprio come lo è stata nel 19esimo secolo, quando i luddisti originali non
furono in grado di evitare la crescita delle industrie. Questa visione equivoca su
quello che ha rappresentato il luddismo e non riesce a vedere come e perché il suo
esempio sia ancora rilevante.
I luddisti sono spesso caratterizzati come "distruttori di macchine" ma erano qualcosa
di più di questo. Il movimento luddista che ha raggiunto il suo apice nel 1811-12 è
stato quasi l'ultimo atto di resistenza a un processo di cambiamento economico e
istituzionale che era cominciato circa 150 anni prima. Questo processo ha visto il
declino progressivo della "moral economy", centrata sul modello di produzione della
gilda e la sua sostituzione con una forma di capitalismo industriale in cui la linea di
divisione tra capitale e lavoro - "masters e i servants" - era chiaro a tutti. Questa
trasformazione è stata distruttiva delle relazioni sociali che prima di allora erano
sembrate stabili e sicure.
Le gilde erano associazioni di produttori che svolgevano funzioni che oggi
definiremmo formazione e licenze. Tipicamente, una gilda regolava l'ingresso in un
commercio e definiva gli standards minimi di qualità. Inoltre controllava la
concorrenza scorretta. Le gilde erano gerarchiche nel senso che il potere era investito
da una classe di insiders il cui status derivava dalla loro esperienza e dello stare nel
commercio. Le gilde erano esclusive, ponendo barriere all'ingresso che escludevano
gli outsiders. Al tempo stesso, erano un'importante fonte di capitale sociale.
Preservavano il valore della conoscenza e delle professionalità. Radicavano le
imprese industriali nelle loro comunità locali e aiutavano a creare beni pubblici in un
periodo di urbanizzazione crescente.
Le gilde non erano capitaliste. Per occupare altri e commerciare all'interno di una
occupazione o di una professione regolata, un produttore doveva avere prima servito
come apprendista e in tal modo acquisito il diritto a entrare nella gilda. I mercanti e i
finanzieri erano tenuti a distanza. Sottostante tali pratiche, c'era l'idea che il
"mistero" del commercio - le competenze e la conoscenza necessarie a praticarlo erano un tipo di diritto di proprietà che investiva nei membri della gilda, sotto la
protezione della legge.
Negli ultimi decenni del 17esimo secolo, i casi di sfida ai privilegi delle gilde
cominciarono ad andare di fronte ai tribunali inglesi. Spesso erano portati da mercanti
che operavano come intermediari, tra i produttori basati sulla gilda e i crescenti
mercati dei consumatori a casa e all'estero e fornivano la finanza ai networks di
piccole imprese. Questi mercanti-capitalisti agivano in via di principio illegalmente
se non facevano parte di una gilda. Come sostenne un avvocato, in un caso guida del
1689, "a chi non usa egli stesso un mistero è proibito occupare altri in quello
specifico commercio". La corte fu d'accordo e confermò la multa contro il mercante.
Tuttavia, nel caso ci fu un giudice dissenziente il quale pensò che la legge, risalente
al secolo precedente, fosse arcaica e neppure necessaria, poiché la soluzione alla
produzione al di sotto dello standard è nel mercato: "non c'è punizione maggiore per
il venditore dell'esposizione alla vendita di merci mal fatte, perché significa che non
ne venderà mai altre".
Cominciò così una lenta reinterpretazione degli statuti cui le gilde facevano
riferimento per protezione. All'inizio del 19esimo secolo, queste leggi erano ormai
lettera morta. Non furono abrogate prima del 1815, ma già prima di allora i tribunali
si rifiutavano di applicarle. E ciò perché, come disse un giudice anziano, era
impensabile che i proprietari di mulini che erano tra "le prime famiglie di questo
regno" fossero obbligati a svolgere regolare apprendistato" come condizione per fare
affari.
Questo giudizio fu emesso nel 1811, lo stesso anno dell'inizio delle proteste luddiste
che cominciarono in risposta al rifiuto dei magistrati di incriminare gli imprenditori
della maglieria nel Nottingamshire perché non avevano applicato il consueto
minimum wage. Potremmo concludere dalla storia del luddismo che c'è molto poco
di nuovo nel conflitto in corso tra Uber e i suoi oppositori. Ora, come allora, la
tecnologia fornisce l'occasione di distruzione di una relazione economica consolidata.
In più, negli anni 1820s, c'era in gioco ben più della protezione di interessi costituiti.
Le gilde aiutavano a preservare la conoscenza da cui dipendevano le prime forme di
produzione industriale. Radicavano le relazioni economiche in una serie più ampia di
diritti e obbligazioni comuni. Il luddismo è stato il tentativo di mantenere questa rete
di relazioni reciproche. La resistenza a Uber solleva questioni simili sulla
responsabilità di impresa e la capacità della legge di tassarla e regolarla.
La lezione del luddismo della resistenza alle nuove tecnologie è destinata a fallire? I
luddisti non potevano impedire la nascita di forme di produzione capitaliste. I
lavoratori persero il controllo sui processi della conoscenza della produzione e
furono assoggettati alla disciplina della fabbrica. Il modello della gilda non poteva
competere con la produzione di massa, che faceva manufatti disponibili a basso costo
per un range molto più ampio di consumatori rispetto a prima. La gilda è
sopravvissuta solo come cimelio cerimoniale.
Ma il luddismo ha avuto una eredità più positiva e duratura. Le relazioni di lavoro
che sono emerse dopo il collasso delle gilde sono diventate il fondamento per un
nuovo contratto sociale. Una generazione dopo la sconfitta del luddismo, il
commercio della maglieria dell'est Midlands è diventato il primo a definire un
contratto collettivo tra datori di lavoro e sindacati. Nel corso del secolo successivo,
sono state realizzate le istituzioni del welfare per reinventare la sicurezza economica
nell'età industriale. Queste istituzioni sono oggi minacciate. La tecnologia ha
permesso ai datori di lavoro di realizzare nuove forme di controllo sul processo
lavorativo e questo sta portando alla precarizzazione (casualization) delle precedenti
forme di lavoro stabili. Questo processo tuttavia, non è inevitabile come sembra. Nel
caso del luddismo, la protesta sociale ha aiutato a innescare una risposta alle
tecnologie distruttive che, alla fine, ha portato a un compromesso difficile tra capitale
e lavoro, ma tuttavia un compromesso. Non c'è una legge di ferro del capitalismo
che detta che il cambiamento tecnologico porti all'impoverimento.
Uber è un'impresa capitalistica che beneficia del sostegno fornito dal sistema legale
all'imprenditorialità. Il valore economico della tecnologia Uber sarebbe vicino a zero
senza la protezione fornita da una legge sulla proprietà intellettuale. Gli azionisti di
Uber possono permettersi di assumere rischi economici perché sono protetti dalla
istituzione legale della responsabilità limitata. Gli stati democratici che osservano il
principio di legalità sono la migliore protezione che hanno le imprese contro la
corruzione e la predazione. Per questo i tribunali e i parlamenti di questi stati sono
ben lungi dall'essere senza potere di fronte agli interessi corporate.
Non è affatto ovvio che imprese come Uber che entrano in un mercato esistente
debbano essere esentate dalle regole e i regolamenti che si applicano ai vecchi.
Queste regole, generalmente, riguardano scambi che sono il risultato della
contrattazione politica e riflettono compromessi complessi. I tassisti di Londra
godono certamente di un diritto di monopolio in cambio dell'accettazione di regole
intese a proteggere il pubblico. L'arrivo di Uber può essere il catalizzatore della
rivalutazione di tali regolazioni ma non c'è alcun motivo di esentare Uber dal
controllo democratico solo perché una drive app non è esattamente la stessa cosa di
un tassametro. Se la tecnologia evolve, può farlo anche la legge.
Il luddismo è stato la risposta all'incapacità dei tribunali di difendere interessi
economici che la legge sembrava volere proteggere. Perciò la lezione finale della
storia è che quando i tribunali si limitano a proteggere i diritti dei ricchi e potenti,
spesso si determinano violenza e disordine.
Social Europe Journal 3 novembre 2015
Jean Pisani-Ferry* “I benefici sociali nell'età di Uber “
*Jean Pisani-Ferry (prof. Hertie School of Governance Berlino. Attualmente commissario
generale del governo francese per il policy planning)
Quando si arriva al compenso, l'azienda per cui lavori conta di più di quanto tu sia
bravo o di cosa tu faccia. Nel 2013, il lavoratore medio della Goldman Sachs
guadagnava $383.000 - molto di più di quanto un dipendente con le migliori
performances nella maggior parte delle aziende può permettersi di portare a casa.
Le differenze salariali tra le aziende sono considerevoli. Una ricerca di Jason Furman,
top economi adviser del presidente Obama, e di Peter Orszag, ex direttore del budget
di Obama, ha trovato che la crescita dei differenziali retributivi sono la prima causa
dell'allargamento delle disuguaglianze negli anni recenti negli US. Nell'aumento
della disuguaglianza complessiva, contano di più delle differenze all'interno delle
aziende o del reddito da capitale.
All'altro limite dello spettro, molti partecipanti alla forza lavoro hanno contratti
temporanei, lavorano in piccole imprese o sono lavoratori autonomi. Alcuni
combinano diversi lavori nello stesso tempo. Se, come molti si aspettano,si sviluppa
la cosiddetta sharing economy, il loro numero è destinato a crescere. Questi
lavoratori non beneficiano della sicurezza sul lavoro e generalmente guadagnano
molto di meno.
I paesi emergenti offrono un esempio di sfacciata disuguaglianza tra i lavoratori nel
settore formale - companies come Petrobas in Brasile o Infosys in India -e i lavoratori
dell'economia informale. Ma anche nelle economie avanzate, dove la protezione
sociale è di ampio respiro, l'accesso ai benefici è ben lungi dall'essere uguale. I
dipendenti di aziende grandi e profittevoli tendono a godere di migliore copertura
sanitaria, pensioni più generose e più facile accesso alla formazione. Inoltre, alcuni
benefici - ad esempio il congedo parentale - sono condizionati all'anzianità all'interno
dell'impresa.
Questi sono fatti inquietanti. Talento e sforzo dovrebbero essere premiati, ma due
persone con pari capacità e dedizione non dovrebbero essere trattate in modo diverso
solo perché a una capita di essere un insider, con un lavoro sicuro in una grande
company di successo.
Tali differenze sono discutibili non solo in termini di giustizia; sono anche
economicamente inefficienti, perché tendono a limitare la mobilità del lavoro fra
imprese e settori. I dipendenti ci pensano due volte prima di lasciare un'azienda se la
conseguenza è che perderebbero significativi vantaggi. Questo impedisce incontri
potenzialmente positivi tra skills necessari agli imprenditori e le disponibilità
dell'offerta. Inoltre rende eccessivamente difficile alle piccole imprese assumere
talenti di prima classe.
La politica pubblica non dovrebbe impedire che le imprese di successo paghino di più
e offrano migliori condizioni di lavoro. Ma dovrebbe assicurare che tutti i
partecipanti alla forza lavoro, qualunque sia il loro status, godano di uguale accesso
ai benefici essenziali; e questo dovrebbe essere finalizzato a minimizzare le perdite
che impediscono la mobilità tra le diverse imprese, settori e tipi di occupazione.
La Healt Care Reform di Obama (riforma sanitaria) è stato un passo importante a
riguardo. Ma le riforme del welfare sociale dovrebbero andare molto più avanti. Per
ragioni di giustizia e di efficienza, i diritti e i benefici dovrebbero essere legati
all'individuo e non alle imprese o allo status di occupazione e dovrebbero essere
pienamente portabili attraverso i diversi lavori.
Per armonizzare il suo sistema di welfare sociale al cambiamento intervenuto in
economia e ridurre la disuguaglianza tra gli individui, la Francia sta attualmente
considerando un sistema di cosiddetti Individual Activity Accounts (IAAs). La mia
collega Selma Mahfouz ha presieduto il comitato che ha preparato il libro bianco per
questo sistema.
Social Europe Journal 30 novembre 2015
Robert Reich “Perchè la sharing economy sta nuocendo ai lavoratori - e cosa si
deve fare”
In questa stagione è particolarmente appropriato riconoscere quanti americani non
hanno un lavoro stabile. La cosiddetta "share economy" include contractors
indipendenti, i lavoratori temporanei e i lavoratori autonomi, i part-timers e i free
lancers e free agents. Si stima che tra 5 anni più del 40% della forza lavoro americana
starà in tali forme di lavoro incerte; in un decennio la maggior parte di noi.
Già due terzi dei lavoratori americani vivono di busta paga in busta paga. Questo
trend sta spostando tutti i rischi economici sui lavoratori. Una contrazione della
domanda o un improvviso cambiamento dei bisogni dei consumatori o un infortunio
o una malattia personale, possono rendere impossibile pagare i conti. Elimina le
protezioni del lavoro come il minimum wage, la sicurezza dei lavoratori, il congedo
familiare o medico e il lavoro straordinario. E mette fine alla assicurazione finanziata
dal datore di lavoro - la social security, il risarcimento dei lavoratori, i trattamenti di
disoccupazione e l'assicurazione sanitaria garantita dal datore di lavoro in base
all'Affordable Care Act.
Nessuno stupore, se in base ai sondaggi quasi un quarto dei lavoratori americani è
preoccupato che in futuro non guadagnerà a sufficienza. Una percentuale molto più
alta del 15% di dieci anni fa. Tale incertezza può creare grandi difficoltà anche alle
famiglie. Secondo una nuova ricerca, i figli di genitori che lavorano in orari
imprevedibili e fuori delle ore lavorative quotidiane standard è probabile avranno
minori skills di conoscenza e più problemi comportamentali.
Che fare?
I tribunali sono sommersi di cause di lavoro sulla sbagliata classificazione dei
dipendenti come "indipendent contractors", determinando una profusione di criteri e
di definizioni. Dovremmo invece puntare alla semplicità: chiunque paghi più della
metà di un reddito di qualcuno o gli fornisca più della metà delle ore lavorative
dovrebbe essere responsabile di tutte le protezioni e della assicurazioni cui un
lavoratore abbia titolo.
In più, per ripristinare qualche certezza nelle vite delle persone, dobbiamo spostarci
dalla assicurazione sulla disoccupazione verso l'assicurazione di un reddito. Diciamo,
per esempio, che se il tuo reddito mensile è del 50% inferiore al reddito medio
mensile che hai ricevuto da tutti i tuoi lavori nei precedenti 5 anni,con l'assicurazione
sul reddito, riceverai automaticamente metà della differenza per il periodo di un anno.
E' possibile avere un'economia flessibile e provvedere anche ai lavoratori qualche
livello minimo di sicurezza. Una società decente non richiede niente di meno.
Financial Times 21-22 novembre 2015
David Willetts* “I robots ci arricchiranno e non ci sostituiranno”
*David Willetts (presidente esecutivo della Resolution Foundation)
Martin Ford, nel libro "The rise of the Robots" (vincitore del premio FT/McKinsey
business book of the year) dice che i robots stanno venendo a prendersi i nostri lavori.
Andy Haldane, economista capo della Bank of England ha avvertito, la settimana
scorsa, che, a causa dell'automazione, sono a rischio 15 milioni di posti di lavoro in
Gran Bretagna. L'intelligenza artificiale sta per prendere il sopravvento? Non ne sono
certo.
L'innovazione è sempre una minaccia per gli incumbents; si guardi alla gara tra
costruttori di auto per produrre auto senza autista prima che Google scriva il software
per il computer a quattro ruote. L'elettricità ha fatto esplodere la seconda rivoluzione
industriale, distruggendo posti di lavoro divenuti superflui nelle industrie e lasciando
i lavoratori con skills superati.
Era duro essere un fabbro ferraio nel 1920, dopo il perfezionamento della scienza
dell'arco elettrico e delle tecniche della produzione di massa. Gli skills che erano
stati costruiti nel corso di lunghi anni di duro lavoro erano diventati cose senza
valore.
Questa è una delle ragioni per cui i laureati godono di una crescita di lungo termine
nei guadagni superiore a quella degli apprendisti - sono più capaci di cavalcare le
onde del cambiamento tecnologico.
Si diceva che le città industriali erano cresciute intorno a campi di carbone o a
forniture d'acqua che sostenessero le macchine - solo per declinare quando le
macchine stesse venivano superate. Ora invece i gruppi si raccolgono intorno alle
Università e ai centri di ricerca.
Ma, mentre i robots e l'automazione creeranno problemi per particolari industrie e per
le persone che ci lavorano, l'economia nel suo insieme potrà adattarsi. Non mi
attendo che ci allontaniamo dal sentiero dell'industrializzazione in cui i lavori
cambiano radicalmente e i vecchi scompaiono, ma il numero delle persone che
lavorano crescerà. Gli avanzamenti tecnologici portano straordinari benefici ai
consumatori, con le merci che diventano meno costose e la creazione di nuovi
prodotti che non si potevano presagire.
I desideri umani sono infiniti; la mancanza di cose che solo qualche decennio fa non
erano ancora state inventate, basta a farci sentire poveri. Se non altro, la gente
pagherà sempre per interagire con altri esseri umani.
Il cinema non ha ucciso il teatro; l'accesso facile alla musica registrata ha solo
aumentato il prezzo che le persone pagano per assistere a un concerto live. La IT
revolution ha distrutto industrie ma non è stata distruttrice di posti di lavoro.
Una delle ragioni della paranoia dei robots negli US è che le imprese stanno
prendendo una fetta più grande della torta economica,a spese dei lavoratori, in un
momento in cui si sta riducendo la partecipazione al mercato del lavoro.
Ma molto di tutto ciò dipende dai fallimenti della politica americana che non devono
essere replicati altrove. L'America è stata una leader del mondo nella formazione
della sua forza lavoro ma ora in Gran Bretagna c'è una tasso superiore di laureati. Dal
1999 la proporzione dei partecipanti al mercato del lavoro tra i 25 e i 54 anni è
aumentata del 3% nell'UK mentre negli US si è ridotta di una misura uguale.
Nell'UK , negli anni 2000, la disuguaglianza salariale non si è ampliata, anzi, dopo il
crollo, si è addirittura ridotta; negli US sta aumentando. Il problema britannico non è
che la tecnologia si sta muovendo troppo svelta: è semmai che le nostre invenzioni
non raggiungono il mercato abbastanza rapidamente.
Abbiamo bisogno di un sostenuto investimento pubblico per spingere tecnologie
dirompenti, come l'automazione e i robots. Non è la stessa cosa che il sostegno old
fashioned degli incumbents; davvero, le tecnologie in questione sono una sfida alle
aziende esistenti. E negli US c'è molto più sostegno statale e federale per la
commercializzazione delle nuove tecnologie multiuso. La Gran Bretagna deve tenersi
al passo.
Il problema che fronteggiano le principali economie non è che i robots faranno tutti i
lavori; è che non potranno assumerli abbastanza velocemente mentre i lavoratori
vanno in pensione.
Il Giappone, con la sua combinazione di bassa natalità e opposizione
all'immigrazione, è da molto tempo un inventore leader dei robots.
Sono pionieri nelle tecnologie assistenziali per gli anziani - dagli esoscheletri per
aiutare le persone fragili ad alzarsi e muoversi ai robots di servizio che tengono loro
compagnia.
Il settore dell'assistenza in Gran Bretagna sta lottando con un programmato aumento
del minimum wage per i lavoratori over 25. Potrebbe invece rivolgersi a avanzamenti
tecnologici innovativi per aiutare ad abbattere i costi. Ci sono ancora molte
discussioni politiche che assumono la tecnologia come fissa. Anche l'industria è stata
troppo lenta ad adattarsi. Poiché pensiamo ai robots come macchine, il nostro
convenzionale modello di sicurezza in fabbrica è di tenere gli umani ben lontani da
loro.
Ma il loro potenziale sarà veramente liberato solo quando saranno usati in modo
molto più flessibile - in modo che le persone li pensino quasi come colleghi.
Posso solo immaginare un futuro in cui il dibattito di politica pubblica principale è
come distribuire i proventi dai robots ai cittadini in modo che possano godere di una
vita di tempo libero. Sarebbe piuttosto come Time Machine di HG Wells - eccetto che
il proletariato consisterebbe interamente di robots cosicché gli umani godrebbero
della vita stravagante e spensierata della élite.
Il problema che abbiamo oggi davanti è l'opposto. Abbiamo più lavoro da fare di
quanto le persone facciano. I robots sono la risposta - non la minaccia.