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Bimestrale edito dalla Libera Compagnia Padana
Anno IV - N. 15 - Gennaio-Febbraio 1998
I Celti:
la prima Padania
Spiritualità
celtica
Padania
e Atlantide
La religiosità
dei Goti
e dei Longobardi
L’origine
dell’identità ligure
15
La Libera
Compagnia
Padana
Quaderni Padani
Casella Postale 792 - Via
Cordusio 4 - 20123 Milano
Direttore Responsabile:
Alberto E. Cantù
Direttore Editoriale:
Gilberto Oneto
Redazione:
Alfredo Croci (caporedattore)
Corrado Galimberti
Gianni Sartori
Alessandro Storti
Alessandro Vitale
Spedizione in abbonamento postale: Art. 2, comma
34, legge 549/95
Stampa: Ala, via V. Veneto
21, 28041 Arona NO
Registrazione: Tribunale di
Verbania: n. 277
Periodico Bimestrale
Anno lV - N. 15 - Gennaio-Febbraio 1998
I «Quaderni Padani» raccolgono interventi di aderenti alla
“Libera Compagnia Padana” ma sono aperti anche a contributi di studiosi ed appassionati di cultura padanista.
Le proposte vanno indirizzate a: La Libera Compagnia Padana.
È tempo di tornare a casa - Brenno
I Celti: la prima Padania - Andrea Mascetti
La religiosità dei Goti
e dei Longobardi - Daniele Bertaggia
Spiritualità celtica - Francesco Predieri
Per un recupero della religiosità
ancestrale - Diego Binelli
L’epopea dei Goti - Sergio Franceschi
Una politica linguistica per la Padania - Mauro Tosco
Padania e Atlantide. Considerazioni sulla scomparsa
della Methamaucensis Civitas - Carlo Frison
I Salassi contro Roma - Joseph Henriet
L’origine dell’identità ligure - Flavio Grisolia
Il pensiero, la parola, la scrittura - Carlo Stagnaro
I nomi della nostra gente
Biblioteca Padana
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È tempo di tornare a casa
U
na primavera di tanti anni fa Belloveso arri- de e le stesse Eresie. A distruggere la rissosa
vava in Padania. La leggenda descrive in unità di questa famiglia sono venuti prima l’ichiave simbolica la fratellanza di sangue deologia nazionalista fatta di deliri massonici e
con i popoli transalpini, il consolidamento di le- di ottuse chiusure, e poi il comunismo e il suo
gami antichi come il mondo e l’appartenenza di carico di odi sanguinari e sadici generati nello
questa terra alla grande tribù europea.
squallore culturale e spirituale delle steppe asiaQuello che è successo da quel lontano Ver sa- tiche.
crum a oggi è noto. Tutta la grande famiglia dei
Grandi guerre e tragedie hanno segnato i fraLiguri, dei Veneti e dei Celti ha dovuto subire, di telli europei trascinandoli in miserie e divisioni.
quà e di là delle Alpi, la stessa schiavitù. È poi L’Europa è stata schiacciata dai “veri barbari”
stata liberata dai fratelli Germani e ha vissuto provenienti dall’Asia, dall’America, dall’Africa e
un lungo periodo di autonomie e di libertà. Da dall’Arabia. Oggi finalmente l’Europa eterna si
tremila anni le Alpi uniscono i popoli con un so- stà svegliando, ha abbattuto le barriere ideologilido intreccio di legami.
Esse sono l’archetipo
delle “montagne” (come dimostra il loro nome antichissimo, forse
Garalditano, che indica
“altezza”), il segno simbolico più forte di unione fra terra e cielo e fra
popoli figli degli stessi
padri.
Sulle Alpi nascono i
tre grandi fiumi d’Europa, il Reno, il Rodano
e il Po che, non a caso,
erano nell’antichità
confusi (o accumunati)
sotto lo stesso nome
mitico di Eridano, in
una tripartizione simbolica che caratterizza
l’intero universo spirituale dei padri Celti e
dei padri dei loro padri.
Le Alpi sono anche la
spina dorsale dell’Europa più antica, abitata da
tribù fiere legate dal
sangue degli antenati,
dalle comuni origini e
memorie, dalle lingue,
dai rapporti culturali,
economici e religiosi: lo
stesso Dio, la stessa Fe- “L’incontro dopo la battaglia dello Spurs”. Incisione di Albrecht Dürer
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Quaderni Padani - 1
che e spezzato le catene socialiste e stà ritrovando faticosamente le sue identità e il suo senso di
antica madre di civiltà. Questo suo risveglio non
è facile ed è accompagnato da sofferenze, da forti contrasti fra le mene di burocrati micraniosi e
di tecnocrati invadenti e il sentimento dei suoi
popoli. Si combatte una sanguinosa guerra fra
l’Europa degli stati nazionali, dei finanzieri e dei
poteri forti e quella delle Piccole Patrie, delle
sue cento tribù antiche e fiere.
È un travaglio che stà percorrendo soprattutto
l’Europa vera, la cosiddetta Kerneuropa, quella
che va dai Pirenei, alle selve boeme, dal mare del
Nord alle Alpi. È una terra che ha tre cuori antichi, rappresentati dalla tripartizione di un mitico fiume solo. La sua ricostruzione è però monca: al grande “campo di primavera” sono arrivate o stanno arrivando le tribù del Rodano e del
Reno (ma anche del Danubio, dello Shannon,
dell’Ebro, della Senna e dell’Oder) ma mancano
quelle del Padre Po. Mancano le tribù di Cicno,
di Belloveso, di Antenore e di Alboino. Sono prigioniere di un geis, di un incantesimo maligno
che le tiene legate alle porte dell’inferno, a quelle porte che Brenno, Alarico e i Lanzichenecchi
di Frundsberg non sono riusciti a chiudere definitivamente.
Con i suoi untuosi malefici, menzogne e inganni Roma, l’eterno nemico dell’Allia, del Trasimeno, di Talamone, l’assassina di Vercingetorige, di Pietro e di Dolcino, di Spartaco e di mille
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altri eroi, tiene prigioniere le tribù padane.
La comune casa europea non si fa senza di
noi: liberiamoci e affrettiamoci a tornare a casa!
Rialziamo gli antichi stendardi vittoriosi del
cinghiale, del leone alato e del drago, teniamo in
alto il vessillo di San Giorgio, segno di libertà e
di risurrezione.
È tempo di riportare le nostre tribù al crannog, alla grande costruzione dove si riuniscono
le famiglie, al sacro nemeton dove si prendono
decisioni di saggezza e di libertà.
È tempo di lasciare il mortale abbraccio mediterraneo e di spezzare le catene pelasgiche!
È tempo di tornare fra i nostri fratelli!
È tempo di tornare a casa!
Una antica leggenda popolare dice che Carlo
Magno riposa con i suoi paladini sotto l’Untersberg in attesa di uscire a combattere la battaglia decisiva per la resurrezione e per le libertà
dell’Europa. In altre versioni re Carlo è sostituito da Armin, da Vercingetorige, o da Laurino.
Tutte le edizioni hanno lo stesso significato: lo
spirito eterno e antico della famiglia dei popoli
europei, che si conserva nelle viscere della
Grande Madre e protetto dalle Alpi, aspetta di
uscire a liberare l’Europa dai suoi nemici, dalle
sue divisioni e dalle sue paure. Quel giorno si
avvicina: con i fratelli ci devono essere anche le
schiere di Brenno e di Desiderio, anche le Tribù
della Terra di Mezzo!
Brenno
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I Celti: la prima Padania
di Andrea Mascetti
L’origine dei Celti e l’Urheimat Indoeuropea
“Nei secoli futuri, un’ora verrà
In cui si scoprirà il grande segreto nascosto
dell’oceano
Si ritroverà la potente isola.
Teti, nuovamente, rivelerà questa contrada.
E Thule, oramai, non sarà più
Il paese estremo della Terra”.
Seneca
Gli autori classici considerarono per moltissimo tempo le terre dell’Europa interna come il
paese degli Iperborei, i mitici popoli Scultura risalente al III
del Nord, cultori di riodo di La Tène
Apollo e dell’astro
solare: quei popoli
mitici di cui abbiamo scarne ma affascinanti descrizioni,
altri non erano che
gli Indoeuropei.
Anche i Celti, i
nostri più antichi
antenati, sono un
popolo indoeuropeo;
con questa definizione intendiamo
collocare questa nobile e guerriera etnia, nel quadro di
quei popoli che parlavano una lingua
indoeuropea e che
avevano una medesima origine.
Più precisamente,
riprendendo le tesi
del Dumézil, si vuole indicare quell’insieme di popolazioni, disseminate dall’India all’Europa
che, seppur dissimili
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per altri versi, utilizzano tuttavia un vocabolario
comune, conoscono grammatiche omologhe nei
principi, obbediscono a leggi sintattiche affini e
che si caratterizzano per un pensiero, una cultura e, più in generale, per una Weltanschauung
del tutto originale rispetto agli altri popoli conosciuti.
Quello che sta alla base del mondo indoeuropeo è una vera e propria ideologia, e secondo tale ideologia - scrive il Dumézil - la società così
come il mondo e, nel mondo, molti meccanismi
particolari possono vivere o svolgere il loro
compito, durare, solo in base alla collaborazione
armoniosa di tre
secolo a.C., tipica del pe- forze - si è proposto
il termine “funzioni” - gerarchizzate:
la potenza magica e
giuridica (generalmente in rapporto a
sacerdoti, saggi o
capi), la forza fisica
(usata soprattutto
nella lotta), la fecondità (con tutti i
tipi di condizioni e
di conseguenze relativi: abbondanza di
beni e di uomini,
prosperità pacifica
ed anche piacere,
voluttà e molte altre
cose).
La patria originale
degli Indoeuropei
(Urheimat) è stata
collocata, a seconda
dei tempi e degli
studiosi, talvolta all’estremo nord, corrispondente all’attuale area polare (da
cui le leggende su
Thule e sulla patria
mitica dei guerrieriQuaderni Padani - 3
dei indoeuropei venuti da un luogo “privo di
notte per sei mesi”) e talvolta in un’area corrispondente all’attuale centro-sud della Russia.
I Celti, dopo essersi distaccati da questa “patria arcaica”, e dopo essersi definiti come etnia
specifica e separata dagli altri ceppi indoeuropei,
si collocano stabilmente in un’area corrispondente all’attuale Germania centrale.
Ad un certo punto della loro storia, alcune
compagini etniche celtiche abbandonano anche
questi territori, spingendosi ad ovest e a sud, e
raggiungendo l’area francese e quella alpino-padana. E’ interessante notare come oggi, parlando di Celti, vengano in mente paesi come la Scozia, l’Irlanda o il Galles i quali, seppur conservano una eredità celtica ancora fortissima grazie
alla loro lontananza dal continente, furono gli
ultimi lembi di terra europea a essere abitati da
etnie celtiche.
La prima storia dei Celti coincide invece con
quel territorio che riconprende il centro Europa, di qua e di là delle Alpi; una storia per molti
versi ancora avvolta nella leggenda e nelle nebbie di epoche eroiche, nelle quali si forgiò, nei
miti del Sangue e della Terra, la nostra gente e
la nostra vicenda di uomini e di popoli.
Quando arrivano i Celti in Padania
“Sempre e ovunque, si trovano pronti ad affrontare il pericolo, anche se non hanno per protezione che la loro forza e il loro coraggio”
Strabone
(a proposito dei Celti)
Fino a qualche tempo fa la questione relativa
alla data di arrivo dei Celti in Padania era ancora
molto dibattuta a causa di una “doppia cronologia”: da una parte abbiamo gli storici Dionigi di
Alicarnasso e Appiano che attribuiscono la conquista di Roma del 390 a.C. ai primi Celti arrivati in Italia, collocando quindi la discesa celtica
in Padania tra la fine del V secolo e gli inizi del
IV.
Dall’altra abbiamo invece la testimonianza
dell’attendibilissimo storico romano Tito Livio
che nel I secolo d.C. compilò un’imponente opera sulla storia di Roma dall’epoca della sua mitica fondazione fino ai suoi giorni, dove afferma
che la prima discesa in Padania di popolazioni
celtiche fu quella guidata dal principe celtico
Belloveso, durante il regno di Tarquinio Prisco,
nella seconda metà del VI secolo a.C.
Sempre secondo Livio la discesa dei Celti fu
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determinata da una pressione demografica, in
quel periodo particolarmente forte, che costrinse il re Ambigato a mandare i due giovani principi celtici Belloveso e Segoveso, l’uno verso la
Padania, e l’altro verso la selva Ercinia (di ignota
ubicazione ma pressappoco comprendente l’area
centro europea, un tempo coperta da una gigantesca foresta).
Belloveso dunque, a capo di una coalizione di
tribù che avevano le loro sedi nelle regioni della
Loira e della Senna (nel testo classico sono elencate le seguenti tribù: Biturigi, Averni, Senoni,
Edui, Ambarri, Carnuti, Aulerci), valicò le Alpi
piemontesi e, guadato il Ticino, raggiunse la
pianura lombarda.
Qui, nel punto di convergenza di una serie di
vie terrestri e fluviali, Belloveso fondò la sua capitale, Mediolanum, il cui nome gallico significa
“luogo in mezzo alla pianura”, ritenendo di ottimo auspicio l’incontro con una “scrofa semilanuta” (ricordiamo che il cinghiale - con tutta
probabilità corrispondente alla scrofa semilanuta di cui ci parla Livio - era un animale molto
sacro presso i Celti e rappresentava la furia
guerriera) e il fatto di trovare nelle nuove sedi
una popolazione che aveva lo stesso nome di
una tribù celtica del cantone degli Edui, quella
degli Insubri.
Ancor oggi a Milano, in via dei Mercanti (che
si raggiunge da piazza del Duomo), in una colonna della Loggia dei Mercanti, si può vedere la
“scrofa semilanuta”, antico simbolo guerriero
testimone della vera origine della città di Milano.
Quella degli Insubri è definita dallo storico
greco Polibio (III a.C.) come la più importante
tribù celtica.
Gli Insubri diedero infatti vita alla più potente
confederazione di tribù nelle regioni a nord del
Po e assunsero un ruolo di guida nei confronti
di altre comunità: quelle dei Comenses, insediati nel comasco, dei Vertamocori, insediati nel
novarese, dei Laevi “abitanti lungo il Ticino” (Livio, Polibio) e dei Marici, fondatori del centro di
Ticinum (Pavia).
Gli Insubri occuparono un territorio il cui
unico confine certo è quello meridionale, coincidente con il corso del Po.
Il limite settentrionale è da ricercare nella regione pedemontana compresa tra la pianura ed i
laghi, mentre il confine orientale era segnato
dal corso dell’Adda o del Serio.
A occidente la via fluviale del Ticino, non ebbe
tanto la funzione di demarcazione, quanto piutAnno lV, N. 15 - Gennaio-Febbraio 1998
tosto di collegamento tra due aree culturalmenD’altra parte spesso si dimentica che lo stesso
te omogenee.
Plutarco, nella Vita di Camillo, asserisce che i
Alcune epigrafi di età romana testimoniano la Celti scesero nella penisola “molto tempo
presenza, nel territorio dell’attuale Parco del Ti- prima” dell’attacco contro Roma.
cino, di clan celtici minori, come i Votodrones
I Celti dunque furono (con Liguri e Veneti) la
nel territorio dell’attuale Somma Lombardo ed i prima Padania.
Corogennates, nel terUna Padania che visse
ritorio dell’attuale verlibera per quasi un
giatese.
millennio; una Padania
Centro politico-reliche subì l’occupazione
gioso del territorio poromana per quattropolato in villaggi era
cento anni fino a quanMediolanum, la storica
do, alla fine dell’Impecapitale degli Insubri
ro, nella nostra terra
Oggi, in seguito a
giunsero i Germani
nuovi studi e ad im(Goti, Alemanni, Cimportanti ritrovamenti
bri, Longobardi, Franarcheologici, i più seri
chi), a riportare il sanstudiosi hanno definigue nordico tra i nostri
tivamente accettato la
popoli.
cronologia liviana,
Ma torniamo ai Celti.
portando quindi la diLa cultura celtica “stoscesa dei Celti in Padarica”, cioè quella di cui
nia almeno al VI secolo
abbiamo più testimoa.C.
nianze archeologiche e
I più moderni ricerdocumentali, è procatori (basti pensare a
priamente detta cultuVenceslav Kruta) rira di La Tène, da
tengono ormai appuraun’importante località
ta la celticità della Culsvizzera, nel pressi del
tura di Golasecca (la
lago di Neuchatel che,
cultura di Golasecca
nella seconda metà del
deve il suo nome al Osuna, Spagna: incisione rupestre raffiguran- secolo scorso, restituì
paese in provincia di te un guerriero nei tipici costumi del periodo diversi materiali di
Varese dove, agli inizi di La Tène
questa civiltà.
del XIX secolo, furono
Per l’area alpino-padaritrovate dall’abate Giani una cinquantina di na la cronologia della cultura La Tène viene
tombe con reperti non romani; la cultura di Go- convenzionalmente fatta iniziare dal 388 a.C.,
lasecca, creata da compagini etniche di origine anno dell’invasione “storica” dei Celti.
celtica, si sviluppò nella Lombardia Occidentale,
La suddivisione in fasi culturali è la seguente:
in Piemonte, nel Canton Ticino e nella Val Mefino al 388 a.C.: (anno della calata dei Celti su
solcina nei Grigioni, in un periodo compreso tra Roma) La Tène/La Tène A
il X e il V secolo a.C.) e addirittura della stessa
375 ÷ 250 a.C.: Antico La Tène/La Tène B
Cultura di Canegrate (XIII a.C.), trasformando
250 ÷ 120 a.C.: Medio La Tène/La Tène C
così i Celti da un semplice popolo invasore delle
120 ÷ 25 a.C.: Tardo La Tène/La Tène D (età
terre padane, al primo ceppo etno-culturale dei della romanizzazione)
popoli padani.
Riportata la “cronologia classica”, ritorniamo
Tra le molte prove in tal senso, basti pensare indietro nel tempo, successivamente alla discesa
al ritrovamento presso Castelletto Ticino (NO) di Belloveso, quando in Padania giunsero i Cedi una iscrizione in caratteri etruschi, ma in lin- nomani guidati da Etitovio, i quali si stanziarogua celtica (si tratta di un nome personale in ge- no in un’area comprendente l’attuale bresciano
nitivo, Xosioiso o Xasioiso), databile al VI secolo e veronese; la distanza temporale tra questi due
a.C., che confermerebbe ancora una volta il rac- avvenimenti non dovette essere molto grande se
conto liviano e l’etnia celtica dei golasecchiani.
è vero, come ci riporta Tito Livio, che Belloveso
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è ancora vivo quando Etitovio supera le Alpi, e
sarà lo stesso Belloveso a favorire lo stanziamento dei Cenomani a est dell’Oglio (“ubi nunc
Brixia ac Verona urbes sunt”).
Per quanto riguarda le migrazioni celtiche
successive, la determinazione cronologica è alquanto più complessa: Livio ci ricorda soltanto
che sia i Salluvii che i Libui si stanziarono vicino ai Levi, una antica stirpe celto-ligure insediata nei pressi del Ticino e che Boi e Lingoni, trovando il territorio tra il Po e le Alpi già occupato, si spinsero oltre il grande fiume, occupando
la parte meridionale della pianura padana e
scacciando gli avamposti Etruschi e Umbri.
Infine, almeno per quello che riguarda questa
seconda ondata migratoria, giunsero i Senoni a
cui va imputato l’attacco a Chiusi e a Roma
(391-390 a.C.); il loro territorio doveva essere
compreso tra i fiumi Utens (Montone) e Aesis
(Esino): anche la Romagna orientale e il nord
delle attuali Marche sono occupate dai Celti.
Per quanto riguarda le tribù dei Carni e degli
Istri, che si posizionarono nell’attuale Friuli, in
parte del Veneto e in Istria, la loro penetrazione
in Padania dovette essere antichissima, secondo
alcuni autori addirittura una delle prime.
A completare il quadro, almeno a livello delle
altre tribù principali, ricordiamo i Taurini collocati nell’attuale Piemonte centro-occidentale, i
Marici (fondatori dell’attuale Pavia), i Vertamocori (insediati tra Novara e Vercelli), i Salassi
nell’attuale alto Piemonte e in Val d’Aosta, gli
Anari nella zona a sud della attuale provincia di
Piacenza, gli Orobi e i Leponzi nell’area alpina
tra la bergamasca, il comasco e il varesotto.
I Veneti (che pure furono ampiamente “celtizzati”), pur non essendo considerati propriamente celtici, sono comunque un popolo indoeuropeo che, salvo la lingua, non si distingueva in
nulla, rispetto alle etnie celtiche, per quanto riguarda i costumi; interessante poi notare che la
più importante tribù celtica della Bretagna, era
quella dei “Veneti”.
Liguri e Reti sono oggi da considerare come
popolazioni autoctone, con tutta probabilità di
origine indoeuropea, che si unirono a substrati
indigeni antichissimi; attualmente gli studiosi
preferiscono parlare, a causa della celtizzazione
di queste etnie, di celto-reti e di celto-liguri.
Nel 120 a.C. i Romani se la dovettero vedere
con l’ultima grande migrazione celtica in Padania, quella dei Cimbri, per i quali è difficile dare
una collocazione territoriale, essendo stati debellati nel 101 a.C. ai Campi Raudii, presso Ver6 - Quaderni Padani
celli, dall’esercito Romano.
Fatta questa rapida scaletta sulle principali
tribù celtiche della Padania, torniamo ai fatti
che portarono al sacco di Roma e alla storia successiva della Padania Celtica.
Le guerre galliche contro Roma
“Brandiscono le armi e urlano in modo da intimorire il nemico.
Se però uno di questi accoglie la sfida, i compagni dello sfidante erompono in canti frenetici
che esaltano le imprese dei padri e il loro proprio valore, mentre l’avversario viene dileggiato
e offeso con l’intento di fargli perdere il controllo prima dello scontro.”
Diodoro Siculo
La conquista di Roma da parte dei Galli nasce
in seguito all’assedio di Chiusi da parte dei Senoni, l’ultima tribù gallica giunta al di qua delle
Alpi.
I Chiusini, atterriti dall’arrivo di questi feroci
guerrieri, chiesero aiuto ai Romani i quali, invece di inviare un esercito che affrontasse sul
campo i Galli, scelsero la via diplomatica, mandando una ambasceria per trovare un accordo.
Ma i Galli, dopo aver ironizzato sullo scarso
valore di questi Romani, si dichiarano disponibili all’accordo, solo a condizione che una parte
del territorio di Chiusi finisse nelle loro mani.
Durante la battaglia che scoppia tra Galli e
Chiusini (e a cui partecipano anche i tre ambasciatori romani), un capo dei Galli viene ucciso,
scatenando così la reazione dei Celti i quali, dopo un tentativo di conciliazione chiesto dal consiglio degli anziani, si mettono in marcia verso
Roma.
Ad undici chilometri dall’attuale capitale dello
stato italiano, presso il Fosso Maestro (alla confluenza nel Tevere del fiume Allia), i Galli devastarono l’esercito romano: ancora in età imperiale il 18 Luglio (dies Alliensis), data della disfatta, veniva registrato come nefasto, a ricordo
della tragedia.
In seguito agli avvenimenti leggendari che ci
riporta la storiografia romana (le oche del Campidoglio, il discorso di Marco Furio Camillo,
Brenno che getta la spada sulla bilancia eccetera), i Galli ritornano a nord, nelle terre padane.
Per tutto il IV secolo a.C. l’Italia fu percorsa
dal “tumultus Gallico”, continue razzie che
coinvolsero l’area medioitalica e quasi sempre
compiute dai Senoni, abilissimi combattenti che
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in più di una occasione si prestarono come mercenari nelle guerre italiche contro Roma.
I mercenari gallici parteciparono sicuramente
alla battaglia presso il torrente Sentino, nelle
Marche, combattuta nel 295, tra gli italici (Etruschi, Umbri, Sanniti, Lucani, Pretuzi e Sabini) e
i Romani; dieci anni dopo, presso Arezzo, sempre i Senoni, alleati agli Etruschi sconfissero i
Romani, uccidendo il console Cecilio Metello.
Ancora nel 283 (nella battaglia svoltasi presso
il lago Vadimone) e nel 282 a.C., Boi e Etruschi
vengono sconfitti dai Romani.
In seguito a questi avvenimenti, gli storici
classici parlano di una reazione romana ferocissima: sia Appiano che Polibio riferiscono infatti
di un vero e proprio genocidio dei Galli Senoni,
perpetuato con la riduzione in schiavitù di donne e bambini e con l’uccisione di tutti gli uomini.
Rispetto a questi fatti la moderna storiografia
tende a ridurre la portata della pur durissima
reazione romana a una serie di provvedimenti
che avrebbero condotto, molto lentamente, alla
marginalizzazione dei Senoni e alla deduzione
della colonia di Sena Gallica, l’attuale Senigallia
che ancor oggi porta nel suo nome il ricordo di
quei fatti e dei suoi più antichi antenati.
I Senoni comunque non scomparirono affatto,
ma si ritirarono più semplicemente verso l’interno; fatto tra l’altro dimostrato dal ritrovamento, ancora alla fine del III inizio II secolo
a.C., di diverse tombe femminili dai ricchi corredi a Montefortino d’Acervia.
Ma la sconfitta militare dei Senoni non piegò
per nulla l’astio antiromano dei Celti padani i
quali, come ci ricorda Polibio, mal sopportando
questo vicino così scomodo e così potente, “cominciarono a provocare turbamenti e disordini,
a infierire contro i Romani per ogni minimo
pretesto”: la gioventù celtica, la parte naturalmente più “anti-romana”, ricomincia la guerriglia contro Roma e questa volta con l’aiuto dei
fratelli Galli d’oltralpe.
Attorno al 230 a.C. i Galli Gesati (una popolazione celtica che abitava l’area alpina e il bacino
del Rodano, il cui nome derivava dall’arma che
usavano, il gaesum, un giavellotto in ferro)
scendono in Padania per prepararsi a uno scontro fondamentale per le sorti della futura libertà
dei Celti padani: la battaglia di Talamone del 225
a.C.
Dallo schieramento delle forze in campo si
comprende uno dei motivi fondamentali della
sconfitta gallica: da una parte abbiamo Insubri,
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Boi e Gesati e dall’altra, assieme ai Romani, Veneti e Cenomani...
La divisione tra le etnie padane avrebbe portato, allora come in molte altre occasioni nella nostra tormentata storia, alla più pesante sconfitta
mai riportata dai Celti: quarantamila Galli caduti in battaglia (tra cui il re Aneroesto che si uccise con tutta la sua famiglia) e altri diecimila ridotti in schiavitù (come l’altro re gallo Concolitano).
Di questo tragico avvenimento, riportiamo le
parole di Polibio relative ai Gesati: “... molto arditi e bramosi di gloria, gettano ogni altro indumento, si disposero primi dell’esercito, nudi,
con le sole armi, ritenendo di poter essere più
liberi degli altri nei movimenti. (...) Terribili
erano inoltre l’aspetto e i movimenti degli uomini nudi schierati innanzi agli altri, tutti nel
pieno vigore delle forze e di bellissimo aspetto.”
Politicamente parlando, la sconfitta di Talamone rappresentò l’occasione, per i settori più
espansionistici di Roma, per invadere i territori
dei Boi e degli Insubri, valicando il Po.
Tra il 225 e il 224 a.C. venne attaccato il territorio dei Boi i quali, dopo una strenua resistenza, furono costretti, momentaneamente, a sottomettersi.
A questo punto i Romani passano nel territorio degli Insubri e sul fiume Klousios (con buona probabilità l’attuale fiume Oglio) sconfissero
l’esercito gallico; anche in questa occasione i
Galli Cenomani si schierarono con i Romani; di
questa battaglia vinta dal romano Flaminio la
storiografia non ci riporta il nome perchè con
tutta probabilità fu mal sfruttata dall’esercito
romano, che nel 222 a.C. si ripresentò nel territorio insubre.
I due consoli romani, Claudio Marcello e Cornellio Scipione assediarono Acerrae (l’attuale
Pizzighettone), uno dei capisaldi del sistema difensivo insubre; i Galli, abbandonata Acerrae, invasero il territorio degli Anari (anch’essi alleati
ai Romani...) cingendo d’assedio Clastidium
(l’attuale Casteggio), al fine di distrarre l’esercito romano. Questa ennesima sconfitta da parte
dei Celti dipese molto dalla morte del re dei Celti Insubri Viridomaro, ucciso in combattimento
individuale dal console Claudio Marcello. Dopo
la battaglia di Clastidium caddero sia Acerrae
che Mediolanum, la capitale degli Insubri.
In seguito alla conquista del territorio insubre
furono dedotte le due colonie latine di Piacenza
e Cremona, che furono però presto conquistate
dai Galli i quali, approfittando della discesa in
Quaderni Padani - 7
Italia di Annibale, ricominciarono la guerra con- na, l’antica foresta dell’Emilia; la testa del contro i Romani.
sole fu tagliata e portata nel loro tempio più saLa morte del re Viridomaro fu infatti presto cro (secondo alcuni vicino all’attuale Modena).
vendicata quando, nella battaglia del Trasimeno,
La leggenda ricorda inoltre che la testa del
il cavaliere insubre Ducario uccise il console console fu ricoperta d’oro e divenne un calice
Flaminio (l’autore, tra l’altro, della via Flaminia, sacro a uso dei sacerdoti dei Galli, i Druidi.
la grande arteria di collegamento tre Roma e la
Dell’uso di tagliare la testa ai nemici uccisi in
Gallia Cisalpina), l’animabattaglia, ci avevano del
tore della politica romana
resto già dato notizia sia
anticeltica e il primo reDiodoro Siculo che Strasponsabile della legge sulbone; a questo proposito
la divisione dell’ager GalPosidonio, dice Strabone,
licus.
si sentì quasi male allorIn questa situazione cochè vide, durante un viagsì delicata, un altro duro
gio, guerrieri celti galopcolpo per i Romani è dato
pare con appeso al morso
dalla diserzione in massa
intere corone di teste
dei reparti celtici ausiliari,
mozzate di nemici.
che passarono nell’eserciSia il Siculo che l’Anatolito cartaginese.
co concordano tuttavia
L’opinione dell’africano
sul fatto che tutti questi
Annibale nei confronti dei
sacrifici umani sono
Celti non doveva però esespressione non tanto di
sere molto buona se, coferocia quanto di una relime ci ricorda Polibio “per
gione per loro incomprentimore dell’incostanza dei
sibile.
Celti e delle insidie che
Perchè ciò sia chiaro, essi
avrebbero potuto tendernon mancano mai di sotgli, dato che così recente
tolineare che, anche ai riti
era la loro amicizia, solepiù sanguinosi presiedeva usare parrucche adatte
vano sempre i saggi della
alle età più varie e le mutribù, i cosiddetti Druidi.
tava continuamente: così
Ma torniamo alla battaglia
cambiava gli abiti, scedella Silva Litana.
gliendoli sempre in armoIn quella occasione i Boi
nia con le parrucche. Con
si servirono di uno strataquesti mezzi riusciva a
gemma: segando i tronchi
rendersi irriconoscibile
degli alberi presso i quali
non solo a quanti lo vede- Statuetta di guerriero celtico della tarda doveva passare l’esercito
vano di sfuggita, ma an- età del bronzo-prima età del ferro
romano, infatti, fecero in
che a chi gli era familiamodo che questi precipire.”
tassero l’uno sull’altro attivando una reazione a
Non è chiaro se l’accordo con il “sospettoso” catena che avrebbe, come accadde, devastato i
Annibale fu di solo appoggio militare o abbia vo- malcapitati romani.
luto rappresentare un patto politico vero e proLe molte perplessità sorte su questa improbaprio; sta di fatto che anche in questa occasione bile “tecnica” che avrebbe dovuto uccidere di
Cenomani e Veneti, riconfermando la tradizio- colpo quasi 25000 uomini, sono giustificabili dal
nale divisione delle etnie padane, si schierarono fatto che nell’immaginario dell’uomo celtico docon i Romani.
veva esistere una tradizione su degli “alberiTra gli episodi che più segnarono la partecipa- guerriero” che combattevano a fianco dei Celti
zione dei Galli alla guerra annibalica, è da ricor- stessi, popolo legato a doppio filo alla foresta e ai
dare l’uccisione del console romano Postumio suoi Dei.
che con le sue due legioni fu massacrato in
Una conferma di questa tradizione ce la dà
un’imboscata preparata dai Boi nella Silva Lita- Shakespeare con la “foresta che cammina” del
8 - Quaderni Padani
Anno lV, N. 15 - Gennaio-Febbraio 1998
Macbeth e forse ancor di più Tolkien, con le figure degli Ent, i “pastori d’albero” che non esitano a schierarsi, anche militarmente, con i popoli “iperborei” di cui ci narra lo stesso Tolkien.
Terminate le guerre puniche i Celti, dopo un
ulteriore tentativo di sollevazione attorno all’inizio del II secolo a.C., furono nuovamente sottomessi.
La guerriglia boica fu una tra le più strenue e
continuò per diverso tempo, fino a quando, attorno al 191 a.C., il console Cornelio Scipione
Nasica sconfisse definitivamente i Boi, facendo
sfilare a Roma i beni saccheggiati: insegne, carri
da guerra, 1471 torques d’oro (il collare che i
Celti portavano al collo e che rivestiva un significato magico-religioso), mandrie di cavalli e
quant’altro.
Nel 189 a.C. Bologna e Modena, capitali boiche, divengono colonie romane, seguite da Parma che nel 183 a.C. subisce la medesima sorte.
Queste umiliazioni non bastarono però a piegare la resistenza dei Galli Boi che si ritirarono
nelle campagne e nelle montagne, portando
continui assalti contro i Romani, assalti compiuti da una miriade di piccoli gruppi guidati da
una aristocrazia guerriera che non poteva accettare l’onta della sconfitta.
I Romani dovettero stanare i Galli villaggio
per villaggio, fattoria per fattoria, per riuscire a
debellare una delle più eroiche e valorose etnie
celtiche della Padania.
Ma i Boi non scomparirono mai completamente se è vero che la toponomastica e la lingua
emiliana e romagnola ancor oggi conservano
parole di origine celtica, a memoria di coloro
che vissero e combatterono per quelle terre.
Le altre popolazioni celtiche, soprattutto a
nord del Po, ottennero un trattamento meno
duro; in particolare gli Insubri riuscirono a
mantenere un’autonomia molto più amplia rispetto ai Galli sotto il Po.
Taurini e Salassi rimasero indipendenti ancora
per lunghissimo tempo, così come i Leponzi e
gli Orobi, poiché la conquista delle aree di montagna, quando avvenne, si compì in tempi molto
lunghi e tra mille ostacoli.
Il segno della romanizzazione lo troviamo
nelle tombe dei Celti: finchè una spada giace accanto al defunto, noi ci accorgiamo di essere
ancora davanti ad un uomo libero, che poteva e
voleva portare una spada al suo fianco; la romanizzazione (che fu soprattutto, lo ripetiamo,
culturale e non etnica) proponeva nuovi modelli, e l’antica civiltà guerriera andava ritirandosi
Anno lV, N. 15 - Gennaio-Febbraio 1998
tra le montagne e tra le leggende della nostra
gente.
Nel 120 a.C. i Romani furono impegnati nell’ultima guerra contro gruppi celtici, i Cimbri,
scesi in Padania dal Passo del Brennero e debellati da Mario nel 101 a.C., ai Campi Raudii, presso Vercelli.
I Celti insediati in Lombardia, ormai sempre
più integrati nel modello culturale e politico romano, non parteciparono a tale scontro.
Nell’89 a.C., a seguito della sempre maggiore
necessità per i Romani di assicurarsi contingenti di uomini, il console Gneo Pompeo Strabone,
promosse una legge (Lex Pompeia), con la quale
alla comunità transpadana veniva concesso il diritto latino, senza che vi fosse una effettiva deduzione coloniale.
I centri urbani, Mediolanum, Novaria, Ticinum, Comum, assunsero il ruolo di colonie latine veteribus incolis manentibus, mantenendo
cioè gli antichi abitanti senza intervento di coloni dall’esterno.
I Celti dunque non furono scacciati ma semplicemente sottomessi politicamente; l’aristocrazia celtica doveva infatti pagare un tributo a
Roma e assicurare contingenti militari per le
guerre d’oltralpe, ma al di là di questo nulla
mutò sulle terre dei Galli.
Con il tempo le antiche tradizioni furono sostituite con i costumi dei conquistatori che non
riuscirono comunque mai a eliminare (soprattutto nelle campagne e nelle aree a ridosso delle
montagne) l’etnia celtica dalle terre di Padania.
L’eredità celtica dell’attuale Padania
“Che cosa ci può essere in noi ancora di celtico ?
Come in castelli frammenti di vecchie architetture, così nelle nazioni sono intessuti elementi
di stirpi estinte.”
E. Jünger
Dopo questa breve e assolutamente non esauriente carrellata storica sulla presenza celtica in
Padania, andiamo ora a vedere che cosa resta,
dal punto di vista linguistico e archeologico, di
questi nostri antenati.
Qualcuno ha ritrovato tracce di questa antica
discendenza anche nel nostro abbigliamento
tradizionale, nelle famose “camice scozzesi”, vera e propria eredità dei Galli che, oltre alle bracae, indossavano le camisiae ricamate a quadretti dai colori sgargianti.
Ma a parte queste facili assonanze culturali,
Quaderni Padani - 9
forse, a chiudere l’annosa questione, basterebbero le ricerche effettuate sui codici genetici delle
popolazioni locali da cui risulta (come ha attestato lo stesso Prof. Sabatino Moscati, direttore
della rivista Archeo e organizzatore della mostra
sui Celti di Venezia) che gli abitanti della penisola italica si dividono in tre grandi gruppi (suddivisi poi al loro interno): ligure-gallico-continentale al nord, etrusco-italico al centro e greco
al sud.
Ma non accontentandoci di una scienza seria
come la genetica (peraltro spesso mal vista da
quella visione del mondo nemica delle differenze che oggi potremmo definire “progressistomondialista”...) cercheremo di addentrarci nel
mondo celtico passando anche da altre porte.
La toponomastica e le lingue Celto-Romanze
Bisogna intanto ricordare la toponomastica,
vera e propria “macchina del tempo” con cui
possiamo trovare le origini arcaiche della nostra
terra e dei nostri popoli.
L’origine celtica dei Padani trova infatti conferma nella cospicua serie di toponimi comunemente definiti “prediali celtici”, derivanti dall’unione tra un nome personale (spesso del proprietario di un certo appezzamento) o un sostantivo, ed il prediale celtico -ate o -ago.
Gli esempi sono infiniti: Vergiate, Besnate, Canegrate, Albairate, Galliate, Lonate, Gallarate,
Samarate, Arsago, Vimercate, Garbagnate, Senago, eccetera.
Talvolta sono poi le stesse popolazioni celtiche
a lasciare il loro nome: Corgeno, ad esempio, era
nel territorio dei Corogennates (troviamo, sempre nel varesotto, un curioso “Cimbro”); Carnia
dai Celti Carni; Alpi Lepontine dai Galli Leponzi,
eccetera.
Ancora, i toponimi si ricollegano a situazioni
del terreno o a particolari oggetti o a animali:
Valganna, dal gallico gan (fonte, ma anche luogo sacro), Dervio dal gallico dervo (quercia),
Barro dal gallico barros (cima), Reno dal gallico
renos (fiume), eccetera. Dal celtico brix derivano poi Brescia, Bergamo, Brianza, Brissago,
Bressanone, eccetera. Il Dunum era il luogo fortificato presso i Celti, da cui i nostri Duno, Induno, Travedona, Mondonico, eccetera.
Tutte le nostre lingue (che qualcuno si ostina
a definire, spregiativamente, “dialetti”), non sono altro che la fusione tra lo strato celtico più
arcaico, la successiva latinizzazione, e l’ulteriore
influenza germanica portata da Longobardi, Goti, Franchi, eccetera, alla caduta dell’Impero Ro10 - Quaderni Padani
mano.
Oltre a molte parole celtiche divenute di uso
comune anche in italiano come bracae (calzoni), camisia (camicia), carrus (carro), benna
(piccolo veicolo), alauda (allodola), brennus (sovrano minore), il sostrato celtico emerge soprattutto nella fonetica, vero e proprio codice genetico di una lingua.
Tipico indice di un retaggio linguistico celtico
è, ad esempio, il suono vocalico turbato tra u ed
i (la cosiddetta ü lombarda) e quello tra o ed e
(detta ö tedesca o eu francese).
Stesso discorso per quanto riguarda la perdita
delle vocali finali diverse da -a, come nel caso
della trasformazione del latino doctorem in
dottôr, così come di homo in òmm.
Bisogna poi ricordare l’uso del pronome obliquo come soggetto dinanzi al verbo: in milanese, ad esempio, si dice mi vegni (io vengo), ti te
veet (tu vai), lü el véd (egli vede); dagli esempi si
nota inoltre che per la seconda e la terza persona singolare si usano due pronomi, esattamente
come avviene in francese.
Infine, altro segno della nostra remota celticità, è la semplificazione delle consonanti doppie di parole come tera (terra) o dona (donna).
Le parole derivanti dal celtico nelle parlate
gallo-romanze sono tantissime, e si ricollegano
soprattutto agli oggetti usati nelle campagne e
ai nomi di piante e animali:
sempre in milanese ricordiamo brügh (erica),
magiôstra (fragola), mòtta (da mutt altura),
bricch (dirupo), brénta (recipiente di legno per
il vino), maschèrpa (ricotta), galaverna (vento
gelido).
In realtà questa panoramica non è per nulla
esaustiva delle infinite tracce della lingua gallica
che possiamo ritrovare nel Friulano, nel Piemontese, nel Lombardo, nel Ligure, nell’Emiliano, nel Romagnolo e nello stesso Veneto; ma solo la conservazione delle parole più “strane” di
queste lingue, e il loro attento studio, potranno
fare emergere quell’ “universo celtico” che rimane in eredità alle nostre lingue e alla nostra
tradizione.
Lo stesso discorso, naturalmente, vale anche
per i toponimi e, soprattutto, per i microtoponimi che racchiudono la storia più antica della nostra Terra e del nostro ambiente.
I siti archeologici e i musei
Per quanto riguarda i ritrovamenti archeologici in Padania possiamo dire che per lunghissimo tempo, a causa di una impostazione spesso
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sfacciatamente “filo-romana”, gli oggetti furono essere stata abitazione dell’ultimo pescatore di
letteralmente dimenticati nei musei e le aree Golasecca, il Giuanin de la Melissa) si percorre
celtiche lasciate nel più completo degrado, con una strada a ciottoli che ci porta in un bosco di
l’eccezione di un piccolo gruppo di ricercatori castagni e di querce e da qui si raggiunge l’area
appassionati che riuscirono, nel corso degli an- dei tumuli, dove si incontrano i famosi cromleni, a portare avanti uno studio su questi “barba- ch (questo termine gallese che significa “pietra
ri” di cui quasi nessuno voleva interessarsi.
curva” indica il circolo formato dai supporti di
Il fatto che non si è mai pensato di istituire una camera dolmenica o di un recinto megalitiuna cattedra di Studi Celtici, è indicativo della ca); anche a Vergiate, presso la necropoli della
situazione che si era venuta a creare in Italia.
Garzonera, è possibile vedere degli altri cromleMolti fattori, di carattere sia politico che cul- ch.
turale, hanno comportato un mutamento di inUn’altra area archeologica estremamente inteteressi in molti archeologi e in un grande nu- ressante è quella della “Spina Verde” di Como,
mero di studiosi che da qualche anno a questa situata sul versante montagnoso sopra Como
parte, anche in seguito all’esplosio- Fantasiosa rappresentazione di rogo rituale
ne del “celtismo”,
si sono buttati nello studio di questo
antico popolo.
Per quanto riguarda l’area insubre, tra i luoghi
più interessanti è
da ricordare, anche per motivi
cronologici, la cittadina di Golasecca, in provincia di
Varese. Questa località è divenuta
famosa soprattutto
per aver dato il nome ad una delle
più importanti
culture della prima età del Ferro
(come abbiamo
più sopra ricordato); le necropoli
rinvenute sono
collocate, per lo
più, sulle colline
moreniche poste
in un’area leggermente arretrata rispetto al corso del
Ticino, e più esattamente nelle aree
del Monsorino e in
quella del Monte
Galliasco.
Dalla Cascina
Melissa (nota per
Anno lV, N. 15 - Gennaio-Febbraio 1998
Quaderni Padani - 11
che parte dal castello del Baradello; qui, oltre all’abitato di Pianvalle, è possibile vedere una serie di pietre incise e alcune fonti sacre di epoca
antichissima.
Tra le necropoli insubri del periodo lateniano
quella più estesa si trova ad Arsago Seprio, in
provincia di Varese.
Per quello che riguarda i Cenomani, notevoli
sono le necropoli di Carzaghetto (MN) e di Castglione delle Stiviere (dove è stata rinvenuta la
più ricca tomba celtica finora rinvenuta a nord
del Po).
Anche in area veneta vi sono ritrovamenti celtici importanti, come le fibule di tipo hallstattiano rinvenute ad Este, il tesoretto di oltre trecento dracme padane rinvenuto a Nogarole Rocca e
le 111 sepolture scoperte a Casalandri di Isola
Rizza.
Dei Boi è necessario ricordare la straodinaria
scoperta dell’abitato di Monte Bibele, nella valle
dell’Idice, a sud-est di Bologna, costituito da un
nucleo di abitazioni che ricoprono circa 8000
metri quadrati; mentre dei Senoni è necessario
rimarcare la necropoli di Montefortino d’Arcevia, nella Valle del Misa, dove furono scoperte
una cinquantina di tombe.
In realtà è difficile trovare un solo comune o
una sola frazione in cui non sia stato scoperto
un qualche segno degli antichi Celti...
La stessa disposizione dei comuni padani dà
l’idea del tipo di dislocazione territoriale dei Celti, divisi in tantissimi centri e caratterizzati da
una grandissima autonomia reciproca; autonomia e differenza che emerge anche dal dato archeologico.
Tra i Musei che conservano oggetti celtici possiamo citare, anche in questo caso a mò di
esempio, le Civiche Raccolte Archeologiche del
castello Sforzesco di Milano, il Civico Museo Archeologico di Como, i Musei Civici di Varese, Pavia, Bergamo e Brescia.
Ma le più grandi opere e testimonianze dei
Galli, con tutta probabilità, ancora giacciono
nella terra, attendendo di essere nuovamente riportate alla luce da una nuova classe di studiosi
che potrà finalmente dedicarsi anima e corpo alla prima Europa, alla prima Padania.
I Celti e la natura:
riflessioni a margine sull’immaginario animale
e vegetale presso i Galli
Per i Galli, come per tutti i popoli Indoeuropei, il rapporto con la foresta, con gli animali e,
più in generale, con la natura, aveva una impor12 - Quaderni Padani
tanza straodinaria.
Oggi, parlando di indipendenza dei popoli alpino-padani, e ponendo l’origine celtica della
nostra gente come elemento fondante di un recupero culturale della nostra specificità, non
possiamo fare a meno di rivedere il nostro rapporto con l’ambiente che abitiamo.
La Padania fu amata dai Celti perchè in essa
trovarono tutto quello che l’immaginario indoeuropeo aveva loro trasmesso: le foreste impenetrabili, la ricchezza di fonti e laghi, le alte
montagne innevate (spesso viste come sedi di
Dei).
Questo rapporto privilegiato con le forze della
natura si vede anche nei luoghi di culto del
mondo celtico che quasi ovunque sono rappresentati da boschi o da alture: non a caso, infatti,
i templi celtici erano siti in foreste o sulla cima
incontaminata di monti sacri, laddove le forze
spirituali primigenie avevano eletto il luogo della manifestazione privilegiata.
La montagna, ad esempio, è ancor oggi, per
chi vive profondamente la sua appartenenza territoriale, un luogo di primario valore simbolico,
così come lo era per i Celti i quali dovevano avere una sorta di “culto dei monti”, come è attestato da alcune iscrizioni trovate nella Gallia
Transpadana.
L’improvvisa comparsa dei grandi massicci alpini non può non aver lasciato in questo popolo
una profonda sensazione di potenza; se i Leponzi e i Salassi hanno scelto di restare sulle montagne (da cui la definizione di “Galli delle montagne”) è perchè in esse avevano trovato un significato superiore a qualsiasi altra questione
“contingente”.
Ma non solo le alte cime alpine furono venerate dai Celti; ovunque infatti la terra emergesse,
anche solo creando una collina, lo spirito celtico
sapeva che lì la potenza della terra doveva essere
più grande.
Stesso discorso vale per il masso che si erge
sulla terra; tale culto resistette per secoli e secoli se è vero, come ci viene riportato dalla storia,
che alcune decisioni capitolari (di Arles nel 452
e di Nantes nel 658) dovettero insistentemente
mettere in guardia contro il grave peccato di offrire sacrifici alle pietre o agli alberi.
E infatti, per l’immaginario celtico, ancor più
significativo dovette essere il culto degli alberi.
Nella trasformazione stagionale dell’albero
l’uomo celtico vedeva rinnovarsi il mito dell’eterno ritorno, così come negli alberi che invece
restano sempre verdi, la possibilità magica e inAnno lV, N. 15 - Gennaio-Febbraio 1998
comprensibile della natura di resistere al freddo
e all’inverno.
Tale dovette essere il culto degli alberi, che diverse tribù celtiche prendevano il loro nome appunto da questi; si pensi agli Eburones (dal gallico ibor = tasso) e ai Lemovices (dal gallico lem
= olmo).
Anche il culto degli alberi dovette resistere nei
secoli se, come ci riportano anche in questo caso i documenti storici, durante l’interrogatorio
Giovanna d’Arco, prostrata dalle torture, confessa di aver posato, bambina, delle ghirlande di
fiori sul ramo dell’albero delle fate e di aver anche ballato intorno a quell’albero sacro.
Oltre alle montagne e agli alberi, presso i Celti
doveva essere diffusissimo il culto delle fonti e
dei fiumi, spesso legati a divinità femminili (le
Matronae); lo stesso Viridomaro, il re degli Insubri caduto difendendo il suo regno dagli invasori
romani, affermava di provenire dal Dio-Reno.
Ma oltre alla venerazione per gli oggetti naturali, i Celti tenevano in enorme considerazione
le apparizioni e i significati simbolici di talu- Monete di epoca celtica
ni animali.
Del cinghiale abbiamo già accennato relativamente alla fondazione di Milano da parte di Belloveso; possiamo solo ricordare che
le insegne da guerra
celtiche portavano
spesso il cinghiale, così
come nelle tombe di
Hallstatt, in Baviera,
furono ritrovati scheletri di cinghiali che devono avere avuto una
funzione di dono funebre.
Il cinghiale, infine,
lo si ritrova spessissimo nella monetazione
celtica.
Un altro animale importantissimo
nel
mondo celtico è il cervo, rappresentazione
vivente del Dio gallico
Cernunnos.
Il cervo viene ricordato nella tradizione
celtica medioevale reAnno lV, N. 15 - Gennaio-Febbraio 1998
lativa al ciclo del Graal, e investe direttamente
l’iniziazione cavalleresca di Re Artù il quale deve
catturare il cervo bianco per superare il livello
di quelli che, nel linguaggio tradizionale, vengono definiti “i piccoli misteri”.
L’agiografia alpina è testimone di questo connubio tra la regalità sacra e il cervo; San Uberto
infatti si imbatte in un cervo bianco e mentre
cerca di colpirlo, tra le corna del cervo appare
una croce luminosa, il segno di Dio.
Il Dio Cernunnos è rappresentato anche nel
famosissimo calderone di Gundestrup, vera e
propria mappa iniziatica del pensiero religioso
celtico, di cui il “Dio cornuto” pare essere il
punto centrale. Nei carnevali tradizionali che
ancora si possono vedere (e che sicuramente coloro che sono nati nei primi decenni del secolo
possono ancora ricordare), si pensi a quello di
Schignano sopra a Como, spesso le maschere
rappresentano la testa del cervo, esattamente
come nel mito della Caccia Selvaggia che un po’
ovunque sulla catena alpina è presente.
Le corna del cervo erano dunque segno di
forza ma anche di caos,
forse di furor guerriero; il fatto che i Celti
spesso ornavano i loro
elmi con delle corna
deve riportare a questo
tipo di simbolismo.
E infine (ma anche in
questo caso l’elenco
potrebbe continuare)
parliamo del cavallo.
Intanto una città importante del nostro
Piemonte ha già nel
suo nome originario
un forte richiamo a
questo animale straordinario; Ivrea infatti
era l’antica Eporedia, la
città dei cavalli, per un
probabile culto alla Dea
Gallica Epona, la signora dei cavalli.
In Padania sono numerosissimi i monumenti
iconografici in cui la
Dea appare dinanzi ad
uno o più cavalli così
come numerose sono
le raffigurazioni del caQuaderni Padani - 13
vallo sulle monete galliche locali. L’importanza
del cavallo è legata al fatto che furono proprio
gli Indoeuropei ad addomesticare per primi questo animale e ad utilizzarlo anche per la guerra,
dando così inizio a quella che sarebbe divenuta,
nel Medio Evo Europeo, la Cavalleria.
Su una moneta di Brienos, nel territorio degli
Bibliografia
❐ AA.VV., I Celti, Ed.Bompiani (catalogo della
mostra di Venezia)
❐ AA.VV., I Celti, Hobby & Works (con videocassetta)
❐ AA.VV., I Guerrieri Celti, Ed.Melita
❐ AA.VV., I Guerrieri di Artù, Ed.Melita
❐ AA.VV., Archeologia nel Parco del Ticino,
Ed.Musumeci
❐ AA.VV., I Celti barbari d’Occidente, Universale
Electa
❐ AA.VV., L’uomo Indoeuropeo e il Sacro, Jaca
Book
❐ Barozzi M.F., I Celti e Milano, Ed.Terra di
Mezzo
❐ Breizh A., Le ossa del drago: sentieri magici
dai Menhir ai Celti, Keltia
❐ Breizh A., Tra Cernunnos e Teutates: Dei e
Mitologia Celtica, Keltia
❐ Caitlin C., I Celti, Xenia
❐ Calvetti A., I Celti in Romagna, Longo Editore
❐ Canavese S., Gli albori della moneta: Numismatica antica dai Greci ai Celti, Keltia
❐ Centini M., Bocca C., Sulle tracce dei Salassi,
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❐ Ciola G., Noi Celti e Longobardi, Ed.Helvetia
❐ de Galibier J., L’epopea dei Celti, Keltia
❐ de Galibier J., I Druidi, Keltia
❐ Devoto G., La religione degli Indoeuropei, in
StorRelUTET, II
❐ Devoto G., Origini Indoeuropee, Sansoni
❐ de Vries J., I Celti: Etnia, Religiosità, Visione
del mondo, Jaca Book
❐ Dumezil G., L’Ideologia Tripartita degli Indoeuropei, Ed.Il Cerchio
❐ Duval P.M., I Celti, Rizzoli
❐ Gattinoni F.L., Un Culto Celtico nella Gallia
Cisalpina, Jaca Book
❐ Grassi M.T., I Celti in Italia, Longanesi
❐ Grassi M.T., La romanizzazione dell’Insubria,
£.45000, Edizioni E.T.
❐ Gunter G., Religiosità Indoeuropea, Ed.AR
❐ Herm J., Il Mistero dei Celti, Garzanti
❐ Kruta V., I Celti, Jaca Book
❐ Le Roux-Guyonvarc’h, I Druidi, Ed.ECIG
14 - Quaderni Padani
Arverni transpadani, il cavallo è incorniciato in
un piccolo tempio, e quindi chiaramente caratterizzato come oggetto di culto.
Interessante notare che ci è giunto, tramite il
calendario di Guidizzolo, il giorno della festa di
Epona, la dea dei Cavalli, che cade proprio il 24
Dicembre (XV Kalendas Jaunuarias).
❐ Le Roux-Guyonvarc’h, La Civiltà Celtica,
Ed.AR
❐ Levalois C., La Terra di Luce: il Nord e l’origine, Ed.Barbarossa
❐ Markale J., Il Druidismo, Mondadori
❐ Oneto G., L’invenzione dell Padania, Foedus
Edizione
❐ Pautasso A., Monetazione Celtica dell’arco alpino, Ed.Keltia
❐ Pisani V., Le religioni dei Celti e dei BaltoSlavi nell’Europa precristiana, Galileo
❐ Quai F., Protostoria del Friuli: I Celti, Chiandetti Editori
❐ Questin M., La Medicina dei Celti, Xenia Edizioni
❐ Riviere J.C., George Dumezil e gli studi Indoeurpei, Ed.Settimo Sigillo
❐ Rolf F., I Guerrieri Celti, Keltia
❐ Rolleston T.W., I Miti Celtici, Ed.Longanesi
❐ Romualdi A., Gli Indoeuropei, Ed.AR
❐ Salvi, L’Italia non esiste, Ed.Camunia
❐ Silcan L.A., Fregi Ornamentali dell’Arte Celtica, Ed.Keltia
❐ Silcan L.A., I primi abitanti alpini: Insediamenti occidentali dal Paleolitico ai Salassi, Keltia
❐ Silcan L.A., Musica Celtica, Keltia
❐ Silcan L.A., L’aratro e la spada: vita quotidiana presso i Celti, Keltia
❐ Violante A., I Celti a sud delle Alpi, Silvana
Editoriale
❐ Zecchini, I Druidi e l’opposizione celtica a
Roma, Jaca Book
❐ Zuccolo Sergio, Da Celti a Friulani, Marsilio
Edizioni
Si segnalano le seguenti riviste:
❐ Études Indo-européennes, Università Jean
Moulin di Lione, dal 1982;
❐ Revue Celtique, Paris 1870-1934;
❐ Zeitschrift für Keltische Philologie, Halle dal
1899;
❐ Ogam. Tradition Celtique, Rennes dal 1948
(Supplemento Celticum);
❐ Études Celtiques, Paris dal 1963
Anno lV, N. 15 - Gennaio-Febbraio 1998
La religiosità dei Goti
e dei Longobardi
di Daniele Bertaggia
Religiosità indo-germanica
Tanto i Goti quanto i Longobardi prima del loro apparire e irrompere nella Padania erano legati a forme di religiosità di tipo indo-europeo germanico, completamente diverse dal tipo di religiosità che risaliva al ceppo religioso abramico,
quello che ha dato origine ai tre monoteismi che
si spartiranno il mondo. Il cristianesimo - quello
dei tre che si prenderà l’Occidente - verso la
metà del IV secolo aveva già conquistato a sé la
quasi totalità dell’Impero Romano, che nella
confusione dei suoi ultimi tempi vantava una
congerie di sette orientaleggianti di tipo misterico che avevano ormai contaminato irrimediabilmente sia il paganesimo solare originario romano che quello dorico. I Germani, ultimi a spostarsi dalle terre nordiche, conservavano ancora
la propria tradizione al momento dell’impatto
con il mondo meridionale, tradizione che però
alla fine non resistette al tenace proselitismo del
cristianesimo.
Faremo una breve sintesi della mitologia quale
era più o meno comune a queste popolazioni pagane sorelle, di cui i Goti appartenevano al ramo
orientale e i Longobardi a quello nordico-occidentale.
All’inizio non esisteva né terra né volta celeste,
ma solo un gigantesco abisso, il “Ginnungagap”,
ed una regione fredda e brumosa, detta “Niflheimr”, situata a nord da dove sgorgava una
fonte da cui originavano undici fiumi. A sud invece si trovava un paese caldo ed ardente, detto
“Muspell”, custodito da un antico gigante: “Surtr”.
Dall’incontro del ghiaccio di Niflheim con il
fuoco di Muspell nacque, nella zona intermedia,
un essere antropomorfo: “Ymir”. Mentre questi
giaceva dormiente, dal sudore che si generava
sotto il suo braccio nacquero un uomo e una
donna; e da uno dei suoi piedi, un figlio. Mentre
invece dei ghiacci che si scioglievano per l’incontro con il calore venne alla luce la vacca
“Audhumbla”, cui spettò di nutrire Ymir con il
proprio latte: Leccando il ghiacco salato
Anno lV, N. 15 - Gennaio-Febbraio 1998
Audhumbla plasmò quest’ultimo in un essere
dalla forma umana chiamato “Buri”, il quale sposò la figlia di un gigante e ne ebbe tre figli: “Wotan”, “Vili” e “Ve”. Questi tre fratelli decisero di
abbattere Ymir ed il fiotto del suo sangue inghiottì tutti i giganti figli della terra, tranne uno
che si salvò misteriosamente colla propria sposa;
i fratelli condussero poi Ymir nel centro di Ginnungagap, lo smembrarono e crearono il mondo
dal suo corpo, dalla sua carne formarono la terra,
dalle ossa le rocce, dal sangue il mare, dai capelli
le nuvole, e dal cranio il cielo, sorretto da quattro elfi: nord, sud, est e ovest. I tre fratelli procedendo quindi nella loro opera cosmogonica,
crearono le stelle ed i corpi celesti utilizzando le
faville lanciate da Muspell, ne regolarono il moto
stabilendo in questo modo il ciclo del giorno e
della notte e del succedersi periodico e ciclico
delle stagioni. La terra, di forma circolare, fu circondata all’esterno dal grande Oceano e dai suoi
lati fu stabilita la dimora dei giganti; all’interno
venne costruita “Midgardh” (lett. “dimora di
mezzo”), il mondo degli uomini difeso da un recinto fatto con le ciglia di Ymir. In seguito con
l’aiuto di “Hoenir” il dio taciturno e di un’altra
divinità pressoché sconosciuta chiamata
“Lodhur”, Wotan creò la prima coppia umana
servendosi di due alberi, “Askr” (frassino cosmico) ed “Embla” (olmo), trovati sulla spiaggia:
Wotan li animò, Hoenir fornì loro l’intelligenza e
Lodhur i sensi e la forma antropomorfa. Askr ed
Embla trovarono rifugio all’interno di “Yggdrasil”, l’albero cosmico, e vennero nutriti dalla rugiada dei suoi rami: questa coppia durante il crepuscolo degli dèi che avverrà nel periodo di “Ragnarokkr” sopravviverà alla distruzione del mondo ed andrà a popolare la nuova terra.
In questo peculiare ambito religioso la figura
dell’albero universale, Yggdrasil, situato nel centro del mondo, simboleggia e, nel contempo, costituisce l’universo. Tocca il Cielo con la sua cima frondosa ed allo stesso tempo abbraccia il
mondo con i suoi rami; una delle sue radici
affonda in Hel, il paese dei morti, l’altra nella reQuaderni Padani - 15
gione delle primitive potenze ctonie, i giganti, e
la terza nel paese degli uomini. Yggdrasil sin dal
suo apparire (e cioè sin da quando il mondo fu
organizzato dagli Dèi) è stato continuamente minacciato dalla rovina: un’aquila iniziò a divorargli il fogliame, il suo tronco iniziò a marcire ed il
serpente Niddhog nel contempo gli rodeva le radici. Verrà tempo che Yggdrasil crollerà, nell’epoca che un’eccelsa religione indo-europea (e
quindi analoga a quella dei nostri antichi progenitori) chiamerà il Kali-Yuga, sarà allora il Ragnarokkr, la fine dei tempi.
Il tema è quello del collegamento mistico fra i
tre livelli dell’esistenza umana: Cielo, Terra, Inferi; i tratti di questo credo sono specificatamente
germanici e nordici, l’Albero, quindi il Cosmo
che esso rappresenta e, in definitiva, è, annuncia
con il semplice suo apparire la decadenza e la rovina finale (sembra qui di sentire Seneca, vita fugit mors me sequitur). Il fato, il destino Urdhr è
celato nei pozzi sotterranei in cui affondano le
radici di Yggdrasil, in altri termini al centro stesso dell’Universo. Per i nostri progenitori celtogermani il Fato determina la sorte di ogni essere
vivente, non soltanto degli uomini, ma anche degli Dèi e dei Giganti. Il mondo insomma nella loro concezione era perituro, ma tuttavia suscettibile di risorgere all’inizio di un nuovo ciclo cosmico. La rappresentazione grafica di tale idea
era la croce quadripartita, detta celtica, o lo Swastica, simboleggiante le ere che, dipanandosi dal
centro ruotano, mutano, periscono eppur rinascono sempre identiche a sé stesse; l’esatto opposto di quanto voluto dalle popolazioni meridionali per cui il mondo ha un’inizio, la creazione,
un momento culminante, l’avvento di un messia
o di un salvatore, ed una fine senza più speranze
di inizi successivi.
Dumezil, Eliade ed Evola sono i tre studiosi
che meglio hanno inquadrato lo spirito religioso
degli indoeuropei germani. Qui di seguito diamo
un resoconto evoliano dei contenuti del massimo documento testimoniante la religiosità di
quei popoli: l’Edda, poema orale messo per
iscritto dall’islandese Snorri Sturluson nel XVI
secolo.
I popoli nordico-germanici, in quanto ultimi
tra gli indo-europei a staccarsi da quell’ambiente
originario che si perde nelle nebbie della storia,
recavano nei loro miti le tracce di una tradizione
derivata direttamente da quella primordiale. Man
mano che apparvero come forze determinanti
sulla scena della grande storia europea, andarono perdendo il ricordo delle loro origini e la tra16 - Quaderni Padani
dizione rimase nella forma di residui frammentari spesso alterati ed inselvatichiti, pur portando
sempre le potenzialità e l’innata visione del mondo da cui si svilupparono i cicli “eroici”.
Il mito dell’Edda, infatti, conosce sia il destino
della discesa, sia la volontà eroica che ad esso si
contrappone. Nelle parti più antiche di quel mito
si mantiene il ricordo di un congelamento che
arresta le dodici “correnti” partenti dal centro
primordiale, luminoso e ardente, di Muspelsheim, posto “all’estremità della terra”; centro
che va a corrispondere all’airyanem-vaejo - l’Iperboride iranica -, all’isola radiante del nord degli Indù e alle altre figurazioni del luogo dell”età
dell’oro”.Inoltre, si parla dell”Isola Verde” (la
Groenlandia?) che galleggia sull’abisso, cinta dall’oceano, e si vuole che qui si manifestasse il
principio della caduta e di tempi oscuri e tragici,
in quanto la corrente calda del Muspelsheim (le
acque, in quest’ordine di miti tradizionali, significano la forza che dà vita ad uomini e razze) incontrò quella gelida di Huergehmir, forse un’allusione all’alterazione portata da un dio nemico
della creazione luminosa, che propizia il nuovo
ciclo; dato anche che il mito passa a parlare di
una generazione di giganti e di esseri elementari
tellurici, creature destate nel gelo dalla corrente
calda, contro le quali lotterà la razza degli Asen.
All’insegnamento tradizionale circa la discesa
lungo le quattro età del mondo, è da riferirsi,
nell’Edda, il tema del ragnarokkr - il “destino” o
“oscuramento” degli dèi. Esso incombe sul mondo lottante, dominato ormai dalla dualità. Esotericamente, questo “oscuramento” riguarda gli
dèi solo metaforicamente: è piuttosto l’oscurarsi
degli dèi nella coscienza umana, è l’uomo che via
via perde gli dèi, cioè la possibilità di un contatto
con essi. Tuttavia tale destino può essere bandito
finché sia mantenuto puro il deposito di quell’elemento primordiale e simbolico, con cui era già
fatta, nell’Asgard, nella sede originaria, la “reggia
degli eroi”, la sala dei dodici troni di Wotan: l’oro. Ma quest’oro che poteva essere principio di
salute fino a quando non fosse stato toccato né
dalla razza elementare, né da mano d’uomo, cade
infine in potere di Alberico, re degli esseri sotterranei i quali nella redazione più tarda del mito
saranno i Nibelunghi. In ciò è abbastanza visibile
l’eco di quel che in altre tradizioni è l’avvento
dell’età del bronzo, il ciclo della prevaricazione
titanico-prometeica, forse non senza relazione
con una involuzione magica in senso inferiore di
precedenti culti.
Di contro a ciò sta il mondo degli Asen, diviAnno lV, N. 15 - Gennaio-Febbraio 1998
nità nordico-guerriere incarnanti il principio
uranico, olimpico, nel suo aspetto guerriero,
Donnar-Thor, Wotan-Odino, e Tyr-Tiuz.
I più antichi ceppi nordici considerarono come
loro patria di origine la Gardarike, terra posta
nell’estremo nord: ma a questa sede, anche
quando essa significò soltanto una regione scandinava, restò connessa l’eco della funzione “polare” del Mitgard, del “Centro” primordiale: trasposizione di ricordi e passaggi dal fisico al metafisico, identificabile anche nell’Asgard. Nell’Sasgard
sarebbero vissuti gli avi non-umani delle famiglie nobili nordiche e in esso re sacrali scandinavi, come Gilfir, andati ad annunciarvi il loro potere, avrebbero ricevuto l’insegnamento tradizionale dell’Edda. Ma l’Asgard è anche la terra sacra,
keilakt lant, la sede degli olimpici nordici e degli
Asen, sbarrata alla razza dei giganti.
Nel retaggio tradizionale dei popoli nordicogermanici figuravano dunque questi motivi. Come visione del mondo, la veggenza rispetto al destino del declino, al ragnarokkr, si univa a ideali
e a figurazioni di dèi tipici per i cicli “eroici”. Come si è detto, nei tempi più recenti, questo fu
però un retaggio subconscio, l’elemento soprannaturale si trovò offuscato rispetto ad elementi
secondari e spuri del mito e della saga.
Religiosità di Goti e Longobardi ancora pagani
Ciò che possiamo leggere ancora oggi dei miti
delle antiche popolazioni nordiche lo dobbiamo
agli “scaldi”, poeti-cantori simili ai bardi celtici,
che fino in epoca tardo-medioevale tramandarono l’antica letteratura dei loro avi, e che noi possiamo gustare nei carmi poetici dell’Edda e sulle
saghe in prosa sugli dèi e sugli eroi. Ciò che la
conversione al cristianesimo non era riuscita a
cancellare, fu poi coperto di ridicolo da quella
cultura razionalista ed evoluzionista che considera “pensiero ingenuo” l’antico, e opera distinzioni astratte tra religione e filosofia, natura e
cultura, individuo e collettività. L’uomo nordico
era invece permeato da un “helhedsrealisme” (1),
da un “realismo della totalità” che investiva tutta
la sua vita, i rapporti con gli altri, con gli animali
e con le piante e persino le pietre. Ogni manifestazione naturale aveva un’anima. Boschi, colli,
laghi erano pregni di presenze, di energie divine.
Lo constatarono i missionari cristiani, i quali
giungendo tra i popoli germanici si accorgevano
che molti riti religiosi si svolgevano intorno a
un’albero o in un bosco; e la loro opera di evangelizzazione era tutt’altro che facile, tant’è vero
che San Bonifacio, l’apostolo della Germania, doAnno lV, N. 15 - Gennaio-Febbraio 1998
vette abbattere nel 723 la quercia consacrata a
Thor nei pressi di Gheismar, e costruire col suo
legno una cappella in onore di San Pietro per dimostrare ai pagani l’impotenza dei loro dèi. Atteggiamenti sacrileghi come questo spinsero
spesso a reazioni di difesa anche violente. E anche dopo la conversione formale al cristianesimo
molto radicata fu la fede nella forza misteriosa e
magica della natura e del cosmo. Dalle narrazioni degli scaldi, che vivevano ormai da secoli dopo
l’accettazione del “Cristo bianco” traspaiono
sempre le costanti dello spirito di quei popoli:
l’onore inteso come capacità di essere all’altezza
dei padri, di conservare le qualità, custodirne i
valori; onore che s’intreccia alla vendetta perché
grazie ad essa si misura la sua profondità e la sua
estensione nella stirpe; infine l’intraprendenza,
lo spirito d’avventura, quello stesso che animando i popoli indoeuropei ha fatto loro raggiungere
e dominare i quattro angoli del mondo, quello
stesso che spinse Goti e Longobardi nelle loro ardite migrazioni di conquista. Le storie narrate
dai cantori erano patrimonio comune di un popolo o di una stirpe, nel senso profondo che ogni
individuo ritrovava il suo io più nascosto in un
carme o in una saga, e appunto per questo poteva comprendere, attraverso le parole, il pensiero
e il sentire dei suoi fratelli. Per i nordici, gli dèi
possono scomparire, morire alla fine di un ciclo
storico; ma essi non sono che nomi dati a personificazioni di energie divine, che lungi dall’essere definitivamente sconfitti aspettano momenti
migliori finché uomini della loro stirpe torneranno ad invocarli e ad incarnare il loro spirito.
Come dicevano gli antichi: “numina in somno
sunt sed non pereunt”.
Una delle tradizioni germaniche più singolari,
è quella che si è espressa attraverso l’antica leggenda degli eroi dormienti. Le glorie di tutte le
epoche, dagli eroi dei Nibelungen fino a Carlo V,
Teodorico, Carlo Magno, Witukind, Federico Barbarossa, non sono completamente separati dai
viventi: essi dormono. Witukind sotto il Siegburg
in Westfalia, Carlo Magno nei sotterranei dell’antico castello di Norimberga, Barbarossa al Kiefshauser, sotto il porfido ed il granito dei monti
della Turingia, dove, talvolta, la terra si apre
quando dei musicisti di Erfurt vi suonano delle
serenate di mezzanotte. Sotto queste leggende,
gli Dèi e le credenze degli antichi Goti e Longo-
(1) Per usare un’espressione dello studioso di religioni danese Vilhelm Gronbech.
Quaderni Padani - 17
bardi sembrano tendere alla resurrezione per iniziare nuovamente la lotta contro la romanità
meridionalizzata, con tutto ciò che ne consegue
dal punto di vista religioso e culturale.
Per i Germani, irrompenti in un impero ormai
tardo e levantinizzato, il “romano” era diventato
nell’accezione corrente un tipo umano piccolo,
nero, gesticolante, accorto e abile, ma anche vile
e falso, esattamente come era apparso il graeculus ai Romani d’età repubblicana (non ancora
soppiantati dagli schiavi siriaci dopo lo spopolamento dovuto alle guerre puniche), e come Platone, a sua volta - in una Grecia ancora dorica aveva descritto Siri ed Egiziani. E in quanto improntati ad un sentire eroico ed apollineo sentirono l’opposizione con tutto ciò che era dionisismo mediterraneo, misticismo misterico, culto
da schiavi, ... Ma il cristianesimo, che era già sceso a compromessi con la concezione imperiale,
scese a patti pure con la sensibilità germanica, e
venne da esso incarnato in un sincretismo che
darà origine al medioevo romano-barbarico; ma
la lotta tra le due concezioni (quella nordico-europea e quella mediterraneo-orientale), lungi
dall’essere domata, rispunterà nei secoli futuri in
forme nuove ed inedite.
La vita religiosa e cultuale delle popolazioni
gotiche si svolgeva nelle singole comunità di villaggio. Chi si escludeva da essa spezzava i legami
religiosi con la comunità, la quale reagiva esiliando l’empio: la sua colpa era la negazione dell’origine divina della comunità etnica. Tale apostasia poteva essere assorbita più facilmente in
un villaggio organizzato comunitariamente (dove si era tutti imparentati) piuttosto che nell’ambito del Kuni, l’unità politica più importante
strutturata in modo gerarchico. La negazione
della Tradizione tribale doveva colpire soprattutto il ceto superiore dei reiks, che si ponevano come portatori della tradizione etnica: Il peso politico di questi “Grandi” si fondava sul loro prestigio sociale: dalla loro cerchia venivano gli eroi, le
cui imprese erano esaltate dal popolo in canti festivi. La loro capacità di conquistarsi un regno
traspare oltre che nella traduzione della Bibbia
in gotico (da parte di Wulfila), anche nella “deificazione” degli antenati Asi; spesso i combattimenti iniziavano con canti di lode degli avi. Gli
dei gotici e i “Mani dei padri” (come venivano
chiamati dai romani gli antenati dei barbari)
vennero considerati un’unica e identica realtà
cultuale. Gli idoli di legno che durante le prime
reazioni anti-cristiano\romane furono portati in
giro nel paese, per ordine di Atanarico, perché
18 - Quaderni Padani
fossero adorati, erano con tutta probabilità i capostipiti. Ogni piccola tribù gota, cioè, possedeva
le proprie divinità, di cui si occupavano sacerdoti
e sacerdotesse; era un culto riservato agli appartenenti a quella stirpe, senza pretese di universalismo e di conseguente proselitismo forzato.
Guth (cfr. il tedesco odierno Gott, l’inglese
God, lo svedese Gud, eccetera), che designerà il
dio dei cristiani, il Dio monoteista, è parola di
genere neutro, per indicare il distacco colle “false” divinità pagane nel cui nome vi era identità
tra il genere grammaticale e il genere naturale.
Anche dopo la conversione, il clero gotico, i sacerdoti, monaci e vescovi goti che venivano in
contatto con i romani sia pagani che cattolici,
dovettero apparire dei buffoni poiché distinguevano il loro grado con bracciali e collane, usanza
dei sacerdoti pagani. Sant’Ambrogio cercò di gettare discredito su di un suo confratello ariano,
rimproverandogli il costume che indossava, che
poteva suggerire una pericolosa ricaduta nel paganesimo. Il sacerdote goto comunque, cristiano
o pagano, non aveva il potere riservato alla casta
sacerdotale giudeo-cristiana; le società ario-europee, a differenza di quelle semitiche, non conoscevano l’aspetto teocratico di una sottomissione ad una dittatura sacerdotale, e originariamente l’aspetto religioso rituale non era nemmeno disgiunto da quello regale, ovvero il capo politico faceva anche le veci del pontifex, colui che
stabilisce i ponti tra l’umano e il divino. Così
presso i Goti convertiti le misure di politica religiosa, e la loro esecuzione, erano nelle mani dei
capi tribali, del giudice dei Goti come dei reiks,
come si usava da sempre. Nelle ultime lotte anticristiane del IV secolo nessun sacerdote pagano
partecipò alle persecuzioni contro i cristiani, né
arringava contro gli “infedeli”, che non venivano
comunque combattuti in quanto tali, in quanto
ad ognuno era riconosciuto il proprio culto nazionale.
Non bisogna comunque credere che il paganesimo degli ario-germani significasse praticare
qualsiasi capriccio magico o esotismo spiritistico, come vorrebbero suggerire certi ambienti
moderni di neo-paganesimo new-age, colle loro
mode astrologiche, pseudospiritualiste e “acquariane”, confusionarie e permissiviste. Filimero, il
re goto del tempo della migrazione, dovette
espellere dalla tribù le streghe gotiche, le Haliurunnae, le “donne che compiono magie con il regno dei morti”; le quali poi nell’immaginario gotico si unirono agli spiriti maligni della steppa e
dettero alla luce gli Unni (che assieme alle future
Anno lV, N. 15 - Gennaio-Febbraio 1998
scorrerie arabe rappresentavano il grande flagello di etnìe anti-europee). La società pagana barbarica commina la pena dell’esilio alla stregoneria, ovvero l’esercizio di un culto che infrange le
regole della comunità. Le pratiche necromantiche, che erano sentite come del tutto impressionanti ed estranee in quanto espressioni del sentire religioso di razze non ariane, avevano destato
un tale scandalo che la maggior parte dei Goti le
avversò. La stregoneria sciamanica dei Finni, popoli di origine mongolide, era venuta in contatto
anche con gli scandinavi rimasti nel nord, cui
era apparsa da sempre abominevole e mostruosa.
Qualcosa di simile deve essere accaduto ai Gutoni quando, attorno al 200, fecero il loro ingresso
nel territorio pontico (Mar Nero), dove conobbero i culti sciamanici. Certi aspetti tuttavia riuscirono a penetrare le religioni barbariche: è il caso
dei “viaggi in cielo” sciamanici e altre pratiche
estatiche dei Goti che ricordano il “bagno a vapore di canapa” praticato dagli Sciti di cui ci parla
Erodoto, che non era estraneo neppure ai Traci,
altro popolo eurasiatico. Ed è il caso anche di
certi aspetti della personalità di Wotan, come
l’ebbrezza estatica in cui raggiunge la conoscenza, nonché il furore distruttivo e la possessione
estatica, qualità che ai romano-cristiani dovettero apparire proprie di Alarico I quando distrusse
Roma.
L’essenza virile, fiera e bellicosa dei Goti traspare dalla loro divinità principale: il dio *Teiws
(leggi: tius), che è il germanico *Tiwaz, corrispondente ad Ares-Marte (non dimentichiamo
che i Romani originari, così come i Dori, erano
di sangue ario-europeo come i Germani), adorato in figura di spada (cfr. il racconto sopravvissuto al cristianesimo della “spada nella roccia”),
che l’antica etnografia considerava il padre divino di Goti, Geti e Sciti.
Questi popoli consideravano sé stessi “stirpi di
eroi e di re” dalle origini divine che si perdevano
nella notte dei tempi e che venivano tramandate
oralmente in lunghe saghe genealogiche che
ogni maschio di famiglia doveva imparare a memoria e consegnare agli eredi. Anche per i Longobardi, ancora al tempo di Rotari un arimanno
per provare la sua identità davanti al giudice doveva citare a memoria la sua genealogia fino all’antenato mitologico. L’avo capostipite asico era
considerato, in Scandinavia, come una manifestazione di Odino, e gli antenati Asi erano elevati
al rango di “eroi e semidei”, molto al di sopra dei
comuni mortali, puri homines. Essi, fondamenta
della stirpe e autori di imprese di conquista soAnno lV, N. 15 - Gennaio-Febbraio 1998
vrumane, erano l’esempio che il capofamiglia
arimanno doveva seguire, imitandone le virtù di
coraggio, onore e lealtà verso il capo, per trascendere la mera esistenza materiale ed ascendere a sua volta a personaggio di natura quasi-divina, ricordato con orgoglio dai propri discendenti.
Ogni individuo era quindi unito a chi lo precedeva e a chi doveva seguirlo nella sua stirpe come
un anello all’altro nella catena delle generazioni;
un legame spirituale cui non era dato sottrarsi.
Il prestigio religioso della regalità medievale
deriva dall’antica concezione dei Germani; secondo la quale il re è il rappresentante dell’Antenato divino: la ‘potenza’ del sovrano dipende da
una forza sacra ultraterrena, che sta allo stesso
tempo a fondamento e a garanzia dell’ordine
universale. La mitologia eroica, prosegue poi, arricchita e valorizzata, nell’istituzione della Cavalleria e nelle leggende di San Giorgio, Sir Galahad
o Parsifal.
Conversione all’arianesimo
e poi al cattolicesimo
Il disprezzo dell’“establishement” cristiano-romano nei confronti di queste stirpi fiere dei costumi dei loro padri e solo parzialmente “tecnologizzate” e piegate alla “civiltà” mediterranea, è
tutto condensato nelle pregiudizievoli parole di
papa Stefano III in una lettera del 774:
“Perfida e puzzolentissima stirpe che non viene neppure enumerata tra i popoli e dalla quale è
certo che abbia avuto origine la razza dei lebbrosi ...”
La storiografia “ufficiale” nazionalistica e filoromana ha continuato fino ad oggi a ghettizzare
culturalmente l’apporto di quelle popolazioni,
definendole sprezzantemente “barbariche” ed
ignorando completamente le loro tradizioni prima della conversione al cristianesimo.
Ancora negli anni ’50 doveva essere il re di
Svezia a sollecitare le italiche teste pensanti verso la ricerca archeologica longobarda e a dare rilievo e rinomanza a questa testimonianza unica
e insostituibile nell’arco spirituale e civile tra la
culla baltica e le terre padane, loro meriggio e loro occaso.
Questo pregiudizio duro a morire, di matrice
monoteistica fanatica, deriva da una concezione
religiosa medio-orientale aliena al vero spirito
indo-europeo, quella stessa che ha sostituito
l’ethos ai vari ethnos, e che in nome di un’universalità religiosa ha teso ad uniformare spiriti
tra loro incompatibili, disprezzando e cancellando la religiosità fiera di popoli gloriosi.
Quaderni Padani - 19
Per le categorie ellenistiche i “barbari” venivano opposti agli “elleni” per essere “inferiori” e
“privi di sapienza”, poiché privi della tradizionale
formazione culturale degli Elleni (in realtà gli
“sophoi” di chiara memoria erano stati sostituiti
dalla degenerazione del sofismo, della retorica fine a sé stessa e del mercanteggio della cultura).
Alla stessa maniera, Paolo di Tarso divide l’umanità in “giudei” e “le genti”, riservando alla
seconda categoria l’attributo di “inferiori” in
quanto in preda al culto di “falsi idoli” e di tradizioni non giudaico-monoteiste. All’infuori della
discendenza di Abramo - che da Paolo di Tarso è
stata trasformata dal senso biologico-razziale del
presuntuoso presupposto etno-centrico ebraico
al senso spirituale - non vi è salvezza.
Paolo Diacono ci parla della forma religiosia
originaria dei Vinnili (il nome che si davano i
Longobardi, dal probabile significato di “i vincenti”) solamente in un aneddoto (2), un brano in
cui essi, ancora “barbari”, vengono ridicolizzati
per il fatto di invocare Odino in battaglia e di attribuire la vittoria ad una sua concessione.
Ancora a 200 anni dall’invasione longobarda,
nell’VIII secolo, i papi continuavano a presentarli
in termini di barbarie furiosa, inseritasi un tempo come un corpo estraneo tra le popolazioni
mediterranee, medio-orientalizzate e abituate ai
comfort edonistici-cittadini dell’ellenismo. Ma
nelle forme rudi e inattenuate dei loro costumi si
esprimeva un’esistenza formata dai principii dell’onore, della fedeltà e della fierezza: Proprio
questo elemento “barbarico” rappresentava la
forza vitale, la mancanza della quale era stata fra
le principali cause della decadenza romana e bizantina.
Nel VI secolo i papi consideravano più importante, per il compimento della loro missione
apostolica universale, rimanere sudditi dell’Impero di Bisanzio, la più grande potenza cristiana
di allora, piuttosto che appoggiare il tentativo
espansionistico longobardo di impadronirsi delle
restanti terre della penisola. Essi temevano come
la peggiore delle disgrazie l’idea di divenire “vescovi dei Longobardi” e cioè di finire tra gli artigli di un popolo superficialmente cristianizzato e
che sembrava mostrare poco riguardo per i poteri costituiti.(3) Quando il re longobardo Liutprando, pur fervente cristiano, cercò di impossessarsi degli ultimi dominii bizantini d’Italia,
Roma compresa, e unificare la penisola sotto il
suo potere, il papa cercò nuovamente di opporsi
con tutte le sue forze a questa prospettiva. Liutprando, tradito dalla sua devozione, non osò an20 - Quaderni Padani
dare contro i voleri del pontefice. In seguito,
quando un re come Astolfo, non meno cristiano,
ma molto meno influenzabile del suo predecessore, nel 754 rimise in marcia i suoi eserciti, papa Stefano II, riesumando il vecchio armamentario ideologico dei tempi dell’invasione, gridò all’arrivo dell’Anticristo, e cercò aiuto presso il
nuovo protettore franco (più cristianamente asservito) invitandolo in Italia a sconfiggere il nemico di Dio.
Nell’età in cui i regni romano-barbarici si andavano formando, la cinque volte secolare Chiesa
cattolica ha già quadri di funzionari, disciplina,
forza economica capaci di imporre la propria visione del mondo.
A metà delle loro peregrinazioni guerriere i
Goti furono convertiti alla setta cristiana dell’arianesimo. Quando si trovavano ancora tra il
Don e il Dniepr, a diretto contatto con le città
greche di Olbia e di Panticapoenum, erano stati
convertiti in blocco a questa particolare forma di
cristianesimo dal vescovo Wulfila. Nato verso il
311 da una famiglia di prigionieri cappadoci, assimilato al popolo gotico ma non Goto, vescovo
nel 341, questo fanatico ecclesiastico per compiere la sua opera immane trascrisse i libri della
Bibbia nella lingua indigena, inventando un nuovo più duttile alfabeto diverso da quello runico,
con cui infiltrò e permeò i Visigoti pagani della
nuova dottrina cristiana, pur nella sua versione
“eretica” dell’arianesimo. Così facendo, aveva ficcato i barbari in una controversia metafisica bizantina - nel senso proprio della parola. Dio, sostenevano i discepoli di Ario, è uno, eterno, non
generato; ha adottato il Logos come figlio in previsione dei suoi meriti: costui non partecipa dunque della divinità, dato che Dio non potrebbe
avere un consimile. E il Logos non si “è fatto
carne” che nella misura in cui ha svolto in Gesù
Cristo le funzioni dell’anima. Gesù Cristo dunque non è figlio di Dio.
L’astrazione a tali livelli, tipica di un’anima levantina che si dilettava a disputare puntigliosamente (difatti il cristianesimo semitizzante diede
luogo a decine di sette e sotto-sette in lotta tra di
loro per meri dettagli metafisici), sfuggiva ai
Germani, il cui mondo etico originale obbediva a
tutt’altre pulsioni. A priori, la negazione della
(2) Paolo Diacono, Historia Langobardorum, libro I, cap.8.
(3) In effetti persiste a lungo presso i Longobardi un atteggiamento di scherno e di indifferenza verso il clero e anzitutto verso il patriarca, come testimonia Paolo Diacono, op.
cit. V, 23.
Anno lV, N. 15 - Gennaio-Febbraio 1998
consustanziazione del Padre e del Figlio dunque
non li appassionava affatto. Ma brandirono tuttavia il libro di Wulfila come un’insegna di guerra,
gettando il loro arianesimo come sfida al mondo
romano. I Goti videro nell’arianesimo, di fronte
al predominante cattolicesimo dei Romani, un
simbolo della loro originalità, contro una troppo
rapida assimilazione.
Queste con-versioni dei popoli germanici possono sorprendere, per la stessa natura dei pagani
nordici, chiusi alla metafisica. Ma v’è da dire che
queste furono quasi sempre scelte non volontarie, e che il paganesimo era già in declino sul
continente alla vigilia delle grandi invasioni e
spostamenti. Inoltre l’atteggiamento spontaneo
del Germano consisteva nell’attendere che il destino decidesse tra gli dèi e il Cristo; e fino all’esito finale di questo combattimento nel “fare affidamento solo sulla propria forza”. Oppure si mise il Cristo al servizio della propria forza, come
nel caso dei Goti, e poi del Franco Clodoveo: “Se
tu mi dai la vittoria mi converto!” Se i suoi figli,
battezzati per volere della moglie Clotilde, incarnavano l’avvenire, e se la vittoria coronava gli
sforzi del suo popolo, perché non adottare la fede
dei Gallo-Romani?
I Longobardi, ancora in uno stato più “barbarico”, cioè più puro, originario nordico, dei Goti,
che li avevano preceduti nelle loro rotte verso il
meridione europeo, subirono il fascino di questi
ultimi, già molto più “romanizzati”, e fu tramite
loro che l’influsso culturale del cristianesimo
poté penetrare poco a poco.
La diffidenza nei confronti di questa forma religiosa non-nordica fu minore perché portata dai
Goti, popolo fratello dello stesso sangue; mai essi
si sarebbero piegati alla religione del nemico romano - il cattolicesimo - portata da missionari
romani; ma, identificando il loro nazionalismo
anti-romano nell’eresia dell’arianesimo, praticata
dai cugini Goti, prepararono comunque inconsapevolmente la strada al futuro passaggio al cattolicesimo.
Alboino, progettando l’invasione dell’Italia,
stava coordinando i mezzi e gli espedienti che
potevano agevolargli la spedizione. Di questa
strategia fecero parte il trattamento di riguardo
riservato agli ecclesiastici goti e i pellegrinaggi
in Italia di Longobardi ariani incaricati di stabilire, sotto parvenze religiose, contatti e intese con
i Goti in vista dell’invasione. L’interesse mostrato
da Alboino per la religione gotico-ariana, per chi
la propagava e la praticava, fece quindi da copertura a manovre politiche e a mire di conquista.
Anno lV, N. 15 - Gennaio-Febbraio 1998
Nei Germani, cristiani più per pragmatismo
che per reale convinzione religiosa, non vi fu
l’intolleranza religiosa tipica del monoteismo fanatico. L’episodio dei cattolici martirizzati sotto
Teodorico, tra quelli che la storiografia clericale
cita vittimisticamente, fu una reazione al fanatismo anti-ariano bizantino: l’imperatore di Bisanzio ordinò feroci repressioni contro tutti i noncattolici, tra cui i Goti ariani di Teodorico, il quale, mandato il papa Giovanni I a intercedere a
corte, vide non solo il fallimento di tale azione
diplomatica, ma lo spalancarsi di abissi di odio e
di diffidenza. La furia di Teodorico si risvegliò:
egli fece uccidere i rivali dimenticando i princìpi
di convivenza, proibì a tutti i Romani e a tutti i
cattolici di portare armi, e lasciò che le basiliche
cattoliche di Ravenna - costruite proprio sotto di
lui - fossero profanate dagli ariani.
Il disgregarsi della potenza gotica costituì un
elemento di travaglio e di crisi per la chiesa ariana la quale, rimasta senza protezioni temporali,
fu esposta all’intolleranza religiosa, alle vessazioni e alle rivalse partite dall’ambiente romano ad
opera di chi aveva mal sopportato la presenza gotica e tutto quanto questo comportava.
A Ravenna i luoghi di culto ariano furono trasferiti d’autorità (coi provvedimenti di Giustiniano) alla chiesa cattolica.
L’arianesimo diventato la religione dei Longobardi, si mantenne fino alla loro conversione al
cattolicesimo che fu completa verso la fine del
VII secolo. Elementi decisivi furono l’intensa
azione missionaria svolta da Gregorio Magno, e
la collaborazione di Teodolinda. La presenza di
monarchi cattolici non restò un fatto privato e
personale ma ebbe ripercussioni di carattere popolare inducendo un certo numero di Longobardi a seguire l’esempio del re.
La conversione si accompagnava all’acculturazione, necessaria in un mondo “tecnologizzato”
ed evoluto come l’impero romano. L’alfabetizzazione e la scuola divennero necessari all’amministrazione dei nuovi dominatori, e gli uomini di
cultura vi erano solo tra il clero cristiano.
Ecco quindi che, a gradi, il nuovo credo viene
accettato e lo si assimila alla tradizione originaria, oscurandone molti aspetti e venendo a sua
volta modificato in altri aspetti. I fatti militari si
sostanziano di valori morali. Nei racconti dei duchi longobardi del Friuli (la nuova frontiera di
guerra dei Longobardi, ormai stabilizzatisi definitivamente) morti in battaglia contro gli Avari e
gli Slavi, elemento qualificante degli episodi appare la virtù del guerriero, il disprezzo della
Quaderni Padani - 21
morte, la ricerca di onore e vendetta per l’invasione subìta. Ovunque erano apprezzati i valori
di coraggio, lealtà, costanza incarnati dalle imprese italiche dei vari arimanni. Anche il monaco
Paolo Diacono, pur condannando le saghe profane e gli aspetti devozionali pagani, partecipa a
questo sistema di valori tradizionali. In lui i valori cristiani, che non comportavano comunque
sottomissione al papato, consistevano nella devozione religiosa, avvertita come fonte di stabilità
politica e garanzia di vittoria militare; si integravano cioè ai valori tradizionali della stirpe.
Con Agilulfo comincia per i Longobardi il processo di conversione al cattolicesimo, che avvenne secondo tempi e modalità diverse a seconda
dei vari duchi. La graduale formazione di un clero longobardo modificò in senso favorevole il
rapporto fra popolazione e chiesa, prima di allora
identificata di fatto come legata alla romanità e
al popolo conquistato.
La nuova conversione non fu però totale e vi fu
coesistenza tra un partito cattolico e un partito
ariano, il che però, rimanendo più un fatto di carattere diplomatico che una reale conversione,
non diede luogo a quelle violente e cavillose controversie interne come invece avvenivano nella
meridionale Bisanzio.
In oriente le dispute religiose erano arrivate a
tal punto che - racconta Gregorio Nisseno - a Costantinopoli il fornaio, se gli chiedevi una pagnotta, invece di dirtene il prezzo argomentava
che il Padre è maggiore del Figlio; il cambiavalute, invece di contarti i soldi, dissertava sul Generato e sull’Eterno; e se volevi fare un bagno, il
bagnino ti assicurava che il Figlio procede dal
nulla.
Nello stato teocratico cesaro-papista pene atroci erano previste per eretici, pagani, apostati, al
pari di disertori, evasori fiscali, banditi, adulteri,
seduttori: la tortura era una prassi normale.
Invece tra gli scarsi resti rimastici della lingua
longobarda non si trovano nemmeno termini di
carattere religioso, a parte qualche termine liturgico preso in prestito dai Goti; in ciò si scorge il
riflesso di una concezione terrena dell’esistenza:
tutto è incentrato sull’organizzazione dello stato,
sull’amministrazione della giustizia, sugli aspetti
della vita quotidiana. Invano si cercherebbero in
mezzo ad essi delle parole riguardanti la vita dello spirito, nel senso moraleggiante e ultraterreno
con cui la intendiamo noi oggi. Questo perché il
mondo “barbarico” nordico, così come quello romano prisco secoli prima, era un’espressione vigorosa e lieta del possesso pieno e sano della vita
22 - Quaderni Padani
terrestre; non c’era bisogno di rifuggire gli aspetti terreni rifugiandosi in una successiva vita dell’aldilà.
Non c’era bisogno di elaborare una complicata
serie di dogmi per giustificare questa fuga nell’aldilà. Ecco quindi che anche in epoca postconversione questi popoli, pur indossando un
“vestito” cristiano, continueranno a dare al mondo l’impronta indelebile del loro sangue, generando un cristianesimo di tipo virile e pragmatico che spesso poco aveva a che fare con quella
religione nata tra popoli sottomessi, per consolare i derelitti e gli schiavi (v. il Discorso della
montagna, nei Vangeli).
Uno snaturamento dello spirito originario
germanico cominciò ad avvenire grazie anche alla nuova possibilità legislativa di alienare parti
del patrimonio familiare a favore della chiesa tramite donazione a chiese e cenobi.
Il patrimonio famigliare rappresentava infatti
il segno della continuità della famiglia, il legame
tra passato, presente e futuro, ciò che collegava
tra loro i membri defunti, i presenti ed i futuri, e
garantiva la perpetuità del culto ad essi. Il riconoscimento di un altro culto, di un’altra dipendenza religiosa, non poteva che avere effetti di
rottura su questa coscienza religiosa e giuridica
tradizionale.
È nel corso del VII secolo la motivazione rispetto alla tradizione nazionale comincia a venire meno. Nell’incombere dell’aggressione carolingia si hanno episodi di maggiore sottomissione ai papi, e il comportamento filo-romano dei
duchi si accentua (prova visibile ne è la tonsura
all’uso romano adottata al posto di quella tradizionale con la parte posteriore del capo rasata a
zero). L’assorbimento dell’una tradizione nell’altra progredisce, e ai concetti di “romano” e di
“barbarico” subentra il concetto medioevale di
“romanico”.
Si può ipotizzare che la coesione interna della
gens longobarda (con tutte le proprie tradizioni
culturali e religiose) sopravvivesse pressoché intatta fintantoché i matrimoni con i romani rimasero sconosciuti (sono considerati un’eccezione
ancora sotto le leggi di Liutprando, nell’anno
731); la romanizzazione venne accettata gradualmente come strumento per longobardizzare il
regno.
Con Teodolinda e Adaloaldo si cercò, attraverso
il cattolicesimo, di rendere meno distante il popolo dai gallo-romani. Ora i matrimoni misti
creavano parentele fra genti prima nemiche; e
man mano che durava lo stanziamento longoAnno lV, N. 15 - Gennaio-Febbraio 1998
bardo nascevano nuove alleanze, nuove intese. Il
Longobardo povero, che s’infangava tutto il giorno con la ronca nelle paludi abbandonate della
Padania, si sentiva più affine al Romano povero e
cattolico che non al ricco Longobardo che vedeva passare a cavallo, per quei pantani così favorevoli alla caccia.
Quando vi furono scontri tra le due fazioni,
quella di osservanza ariana e quella cattolica, fu
in realtà moto dell’opposizione contro le tendenze accentratrici regali di Adaloaldo.
Le ritorsioni di Rotari contro alcuni aristocratici cattolici e la stessa moglie cattolica, rea di
eccessiva simpatia per i nemici, non furono intolleranza religiosa, bensì nazionalismo longobardo che si era identificato con l’osservanza
ariana. Difatti in Pavia durante il regno di Rotari,
il vescovo ariano e quello cattolico si contendevano liberamente i fedeli, senza che egli cercasse
di favorire l’uno oppure l’altro. I suoi erano invece provvedimenti di polizia necessari ad un re
che mostrava di voler essere a capo di uno stato
forte e unito.
Per il clero cattolico, il culto di San Michele,
rispondente ad una tradizione valevole anche per
gli arimanni di religione ariana, viene sentito
non abbastanza cristiano, ora che dopo la conversione al cattolicesimo il “nemico” da convertire è dentro alla stessa gens, in questi superstiti
campioni della tradizione. Il re Cuniberto attribuirà la vittoria di Coronate non più a San Michele ma ad un altro protettore, e il santo verrà
preso dalla tradizione militare orientale: San
Giorgio, il cavaliere martire di Cappadocia.
Quella gens guerriera mitigata dal cristianesimo, dà la risultante di un ceto dirigente nuovo,
germanico in spirito ma con i crismi romanocristiani. Lo dimostrerà la virilità del Sacro Romano Impero Germanico, molto poco nella linea
del pathos evangelico, e poi il ghibellinismo, in
cui il principe rivendicherà potere nei confronti
della gerarchia sacerdotale.
Con la Cavalleria e le crociate, si avrà per ideale l’eroe più che non il santo, il vincitore più che
non il martire; ponendo la somma di tutti i valori nella fedeltà e nell’onore più che non nella caritas e nell’umiltà; vedendo nella viltà e nell’onta
un male peggiore che non il peccato; sapendo
ben poco del non resistere al male e del ricambiare il male col bene - da intendersi molto di
più a punire l’ingiusto e il malvagio; avendo per
principio non di amare il nemico, ma di combatterlo e di essere magnanimi solo dopo di averlo
vinto.
Anno lV, N. 15 - Gennaio-Febbraio 1998
Inoltre la “prova delle armi”, la decisione di
ogni questione attraverso la forza, considerata
come una virtù confidata da Dio all’uomo per far
trionfare la giustizia, la verità e il diritto sulla
terra, è un’idea fondamentale che si estende all’àmbito dell’onore e del diritto feudale fino a
quello teologico, proponendo l’esperimento delle
armi e la “prova di Dio” persino in materia di fede. Ma anche questa idea ha ben poco di cristiano, essa si rifà piuttosto alla dottrina mistica della “vittoria” la quale ignora il dualismo proprio
alle concezioni religiose, unisce spirito e potenza, vede nella vittoria una specie di consacrazione divina. Le mitigazioni teistiche, per cui nel
Medioevo si pensava ad un intervento diretto del
Dio concepito come persona, non tolgono nulla
allo spirito originario di tali usanze.
Se il mondo cavalleresco professò “fedeltà” anche alla Chiesa, molti elementi fanno pensare
che in ciò si trattasse di una dedizione affine a
quella tributata ai vari ideali e alle “donne” cui il
cavaliere si votava appassionatamente.
La visione profetica pagana di Heimdall, l’Asa
radioso guardiano del ponte fiammeggiante che
annuncia con la sua tromba l’inizio del Crepuscolo degli dèi, non inibisce la cultura nordica:
viceversa, essa la chiama all’infinito dell’azione,
col quale i Germani daranno un’impronta all’occidente. Questa Volksreligion, questa religione di
popolo-clan, a un tempo individuale e collettiva,
non scomparirà come abbiamo visto con l’avvento del cristianesimo: essa si trasformerà nel crogiolo dell’Europa medievale, oltre che nello spirito ardito che muoverà il cavaliere crociato,
riapparirà nella Riforma, soprattutto luterana,
col suo “los von Rom” (via da Roma\dalla meridionalità dissoluta dei papi), e nell’espansione
capitalista, nel libero esame e nel materialismo
conquistatore, oltreché nell’espansionismo pangermanista prussiano e hitleriano; tutti fenomeni legati e inscritti nell’area sia geografica che
mentale dei popoli nordici.
Eventuali sopravvivenze ...
Nel caso in cui il monoteismo subentri al politeismo, la moltitudine di divinità può essere sia
abolita (teoricamente), sia trasformata in demoni, sia degradata al rango di angeli e di spiriti tutelari. Ciò sta a significare che un monoteismo
ufficiale può dare asilo a un politeismo funzionale de facto. Non vi è dubbio che, per le masse urbane della Roma del IV secolo, il culto dei martiri cristiani era semplicemente una trasformazione dei culti politeisti precedenti e ciò vale anche
Quaderni Padani - 23
per gran parte del cattolicesimo del resto dell’eximpero, soprattutto per le aree rurali, dove presenze naturali ed eroi locali vennero trasformate
nel culto dei santi e in leggende apocrife.
Soprattutto nelle zone alpine, come in Carnia,
folletti (gli Sbills) e presenze di entità naturali
popolano ancora certi racconti popolari.
Se fu impossibile eliminare dalla fede popolare
tutti quegli aspetti poco ortodossi (anzi proprio
tale sincretismo fu ciò che consentì al cristianesimo di vincere), streghe e stregoni vennero perseguitati dal potere sacerdotale assieme a tutti
gli “eretici”; ma non vi fu uniformità totale nemmeno nel culto ortodosso, visto che la zona lombarda conserva un cattolicesimo di tipo ambrosiano, e diverse sacche protestanti sopravvivono.
In definitiva, degli antichi culti originari sopravvissero direttamente soltanto quegli aspetti
popolari che riuscirono a passare le maglie della
conversione al monoteismo; il resto sopravvisse
“in sonno”, diremmo così, in tendenze insite nel
popolo padano relegate dalla storia nel suo subconscio ma pronte a riemergere non appena il
centralismo religioso allenti la sua presa.
Nel padano si riscontra generalmente una tendenza all’agnosticismo, una razionalizzazione
del culto e una minore superstizione, aspetti
probabilmente ereditati dalla presenza goto-longobarda, sovrappostasi a quella celto-romana, a
sua volta già differente da quella mediterranea.
Dello stesso tenore può considerarsi la diversa
devozione al culto della Madonna rispetto al sud,
dove abbonda l’aspetto divino del femminino
mediterraneo (lo stesso che originò il culto di
Iside, di Demetra, e delle varie Madri sofferenti e
non, per intenderci).
Persino certo anti-clericalismo insofferente
verso la figura del prete, altrimenti visto come
sentimento di marca puramente comunista, potrebbe richiamarsi alla minor sottomissione degli arimanni nei confronti del potere sacerdotale,
la figura del sacerdote essendo più marginale tra
i Germani, dove l’etica coincideva con una condotta di vita spontanea. Per converso la tradizione semita vedeva un potere sacerdotale molto
più indipendente ed anzi preponderante su quello politico, e lo dimostrano le figure di re della
mezzaluna fertile che periodicamente dovevano
strisciare e farsi fustigare dal sacerdote, o le figure dei profeti di Israele, cui si ispirerà l’Ecclesia
delle origini.
Fra i popoli nordici vi erano diverse classi di
praticanti la sapienza magica. Nella tradizione
nordica, che si era fatta strada fra le avversità del
24 - Quaderni Padani
ghiaccio e della neve nell’Europa dell’era glaciale, era caratterizzata, in origine, da una lotta
continua contro le più opprimenti difficoltà. Ciò
richiedeva una forte fiducia in sé stessi e, se necessario, la disponibilità a morire altruisticamente per la famiglia e i compagni facendo appello a
quelle riserve di forza soprannaturale che si trovano dentro ciascuno di noi. Per poter compiere
queste imprese di volontà era necessario un severo addestramento all’autocontrollo, paragonabile a quello usato nelle arti marziali orientali.
Questo atteggiamento si manifestava nella tradizione guerriera, che poi si trasformò nella Cavalleria e infine dovette cedere alla formazione degli
eserciti permanenti e alla tecnologia delle armi
da fuoco. Comunque, alcune di quelle pratiche
magiche sono rimaste fino ai giorni odierni,
spesso sotto forme contaminate da altre tradizioni magiche non propriamente nordiche.
Il rischio derivante dal ritirarsi del culto ufficiale è che si possa creare una situazione di vuoto dove il bisogno di religiosità favorisca il proliferare di un mercanteggio delle religioni, una
spiritualità da supermarket in cui un giorno si
prova il buddismo, poi tra una moda new-age e
qualche lezione da un guru a tariffa fissa, si riduce l’aspetto religioso a puro business, che è poi
l’aspetto dominante della nostra epoca.
Concludiamo questa breve analisi, che rappresenta solo un punto di partenza (4), con l’auspicio che siano giunti momenti più propizi per fare
finalmente luce sopra un certo tipo di religiosità
diremmo di tipo “apollineo”, solare, quale fu
connaturata un tempo ad uomini liberi e fieri.
Bibliografia
❏ AAVV, Magistra barbaritas, Milano 1984
❏ Julius Evola, La dottrina aria di lotta e vittoria, Salerno 1970
❏ Lucien Musset, Le invasioni barbariche,
Milano 1989
❏ Gabriele Pepe, Il medioevo barbarico d’Italia,
To 1959
❏ Giuseppe Restelli, Goti, Tedeschi, Longobardi,
Brescia 1984
❏ Giuseppe Restelli, Sopravvivenze della cultura gotica in Italia, Milano 1984
❏ Lidia Storoni Mazzolani, Galla Placidia, Milano 1981
(4) Difatti se poco (in relazione ad altri popoli) è stato scritto
riguardo Goti e Longobardi, quasi nulla è stato scritto sulla
loro religione ...
Anno lV, N. 15 - Gennaio-Febbraio 1998
Spiritualità Celtica
di Francesco Predieri
N
on è certo semplice ricostruire nel dettaglio le tradizioni e la vita spirituale degli
antichi popoli celtici, quella celtica era infatti una cultura che si tramandava oralmente,
le maggiori testimonianze scritte ci sono quindi
giunte da autori greci e romani che, è inutile
nasconderlo, avevano evidenti difficoltà nel
comprendere a pieno determinati usi e costumi.
Il problema principale in questi scritti è che
data la appartenenza etnica degli autori, in essi
il Celta viene visto (a volte anche in maniera inconscia) come un nemico, le descrizioni che ne
conseguono finiscono perciò per
apparire spesso più che saggi
culturali, propaganda politica e
la storia lo ha tristemente confermato.
Per avere quindi una giusta visione della Celticità antica è necessario sapere discriminare, interpretare e integrare senza alcun timore di infrangere tabù
imposti da chi non ha alcuna autorità in materia.
I Celti hanno dato un contributo assai importante alla formazione etnica e culturale della
Padania e della intera Europa,
conoscere il loro modo di intendere e vivere la spiritualità, significa poter comprendere una
parte fondamentale della nostra
storia.
Troppo spesso gli antichi popoli dell’Europa centro-settentrionale sono stati definiti “barbari”; (a parte i mitici e misteriosi Iperborei). È infatti ormai
assodato che tutto ciò che chiamiamo civiltà, cultura, “vita” in
senso elevato, provengono dal
nord, l’originaria patria dei popoli Indoeuropei prima della separazione.
La civiltà classica ha cercato
in tutti i modi di negare questa
Anno lV, N. 15 - Gennaio-Febbraio 1998
realtà, e il mondo moderno purtroppo, risente
ancora di certe “superstizioni” provenienti dall’area mediterranea.
Greci e Romani, per dire le cose come stanno,
hanno cercato di dipingere i popoli che vivevano più a nord come “selvaggi” solo perché in
questo modo potevano soddisfare la loro materialistica vanità (Grecia classica) o veder legittimati i loro fini espansionistici (Roma imperiale). Ci pare pertanto doveroso, per quanto è
possibile, ristabilire la verità storica su una civiltà, quella celtica (ma lo stesso discorso si potrebbe fare per quella germanica), che rappresenta uno dei periodi più interessanti e affascinanti della storia conosciuta.
Per comprendere la vita tradizionale dei popoli indoeuropei
bisogna innanzitutto immergersi in una visione dell’esistenza
decisamente spirituale, (la realtà
materiale era considerata una diretta emanazione di piani più
sottili e superiori). Non sarà facile per tutti, ma crediamo che
valga la pena tentare: per coloro
che vi riusciranno potrebbero
aprirsi orizzonti fino a ieri inaspettati.
Le tradizioni religiose e la
struttura sociale delle comunità
Celtiche erano organizzate secondo la visione tripartita del
mondo, tipica del pensiero indoeuropeo, la società era quindi
fondamentalmente suddivisa in
tre classi: la sacerdotale, la guerriera e la produttrice. La ripartizione in classi della società celtica non va certo confusa con certe logiche di sfruttamento assai
diffuse nel mondo moderno, essa
Stele antropomorfa rappresentante divinità celtica, 500 a.C.
Quaderni Padani - 25
trova infatti la sua motivazione in una concezione trascendente dell’esistenza che portava
ognuno a svolgere la mansione cui era più incline per natura, in questo modo a ogni attività
venivano riconosciute dignità e importanza.
Questo tipo di organizzazione valorizzando le
doti dell’individuo, si proponeva come prima
cosa di creare un ordine che potesse legittimamente trionfare sul caos e dar vita a una società
che fosse sempre in grado di continuarsi nella
stabilità di una tradizione considerata di origine divina.
Il potere spirituale e quello materiale erano detenuti dalla classe
sacerdotale e da quella aristocratico-guerriera che, come vedremo,
avevano ognuna delle ben specifiche funzioni, una complementare
all’altra, mentre alla classe produttrice spettava il compito di fornire tutto ciò che era necessario
alla sussistenza della comunità:
rientrano pertanto in questa categoria agricoltori, allevatori, artigiani e commercianti.
La posizione più elevata nella
scala gerarchica spettava alla classe sacerdotale composta da druidi,
bardi e vati, anche qui ricorre
dunque la tradizionale struttura
tripartita.
I druidi erano i sacerdoti veri e
propri, essi officiavano i riti e i sacrifici, istruivano i giovani ed
emettevano sentenze, erano in parole povere l’autorità principale.
Coloro che non rispettavano i loro
giudizi venivano considerati alla
stregua di fuorilegge e venivano
praticamente esclusi dalla comunità.
I druidi erano visti come detentori di una saggezza derivante dal
mondo degli dei: essi non andavano in battaglia (perlomeno non
abitualmente) ed erano esentati
dal pagare i tributi.
Si è a lungo dibattuto sul significato del termine druido, a nostro
avviso la spiegazione più attendibile è quella che lo fa derivare dalle parole Celtiche dru, prefisso accrescitivo, e wid il cui significato è
sia vedere che “sapere”, il druido
26 - Quaderni Padani
sarebbe pertanto il “molto sapiente”.
Il tirocinio per diventare druidi iniziava durante l’infanzia e vi potevano accedere i figli di
tutti gli uomini liberi, tra questi solo una minoranza formatasi attraverso una naturale selezione giungeva a divenire sacerdote al termine di
un percorso di circa una ventina di anni.
Naturalmente anche il sapere religioso veniva trasmesso oralmente, la trasmissione orale, al di là delle difficoltà che può creare agli
studiosi contemporanei, aveva delle ragioni molto profonde. Essa
consentiva infatti di adattare i
concetti di base del druidismo a
ogni nuova situazione, sicché la
tradizione poteva essere vista come qualcosa di eternamente vivente, cosa difficilmente realizzabile con la parola scritta.
Non deve sorprendere che i
druidi fossero chiamati ad amministrare al tempo stesso le cose
materiali e quelle spirituali, la
dualità spirito materia era infatti
praticamente sconosciuta, la stessa morte era vista come un naturale punto di passaggio, non era
nemmeno conosciuto il moderno
concetto di peccato (questo ovviamente non significa che non vi
fosse una morale pubblicamente
riconosciuta) e le azioni che potremmo definire negative venivano intese come errori o esperienze, questo lasciava gli individui liberi di vivere la propria vita senza
quei sensi di colpa e quelle smanie
autoflagellatorie tanto care a certe
religioni. Se la materia e lo spirito
erano parte di una stessa realtà
trascendente è inevitabile che la
natura e le sue forze avessero una
parte molto importante nella religione druidica.
Il Celta si sentiva parte di essa,
quasi una cosa sola con alberi, fiumi e animali, questo dato emerge
chiaramente da certi racconti tradizionali in cui assistiamo alla trasformazione di eroi mitologici in
Stele antropomorfa rappresentante divinità celtica, 500 a.C.
Anno lV, N. 15 - Gennaio-Febbraio 1998
forme di vita animale e vegetale, per poi ritor- do quello gallico, lo stesso discorso vale per gli
nare alla forma originaria. I brani in questione altri) il “luminoso” Dio solare e multifunzionaavevano una forte connotazione simbolica: gli le, per certi versi accostabile all’Odino-Wotan
animali, nel simbolismo celtico, occupavano in- germanico.
fatti uno spazio decisamente importante. I riti e
Altre Divinità che rivestivano un ruolo decisai sacrifici venivano generalmente celebrati nei mente importante erano: Dagda-Taranis, letteboschi, il santuario celtico era denominato ne- ralmente il “Dio buono”, divinità guerriera e someton e corrispondeva a una radura o a un tu- vrano universale, Dio dei druidi e druida lui
mulo situato all’interno di un bosco. Solo dopo stesso; Ogma-Ogmios, Dio dell’eloquenza e coni contatti con la civiltà greco-romana vennero a siderato il creatore dell’alfabeto Ogamico che
volte edificati piccoli templi
veniva usato per attività
in legno al cui interno vemagico-divinatorie; Brigitniva collocata una immagiBelisama, figlia di Dagda e
ne della divinità cui il luoprototipo della Dea madre
go era dedicato.
portatrice di fecondità e abI rituali potevano essere
bondanza e Diancecht-Madi varia natura a seconda
ponos, Dio della medicina.
della divinità in onore di
Vi erano inoltre numerosi
cui il rito veniva celebrato:
altri Dei le cui figure ricorin molti casi un ruolo di
rono con una certa frequenprimaria importanza era riza nei racconti mitologici.
servato agli elementi di oriA questo punto sarà utile
gine vegetale. La famigliaprecisare che il pensiero
rità dei sacerdoti celtici con
druidico nelle sue forme
determinati vegetali era tapiù elevate e iniziatiche
le che all’interno della coconteneva un evidente momunità essi avevano anche
nismo, sicché le varie Divila funzione di medici-guanità potevano essere viste
ritori.
come tante diverse manifeAltrettanta importanza
stazioni di un unico Dio
avevano i quattro elementi:
immenso e innominabile.
aria, acqua, terra e fuoco,
Ciò non contrasta affatto
cui si faceva riferimento
con la tradizione tripartita,
per simboleggiare il mutane è anzi il completamento
mento ciclico all’interno di
e al tempo stesso l’origine.
una tradizione eterna.
L’aldilà era concepito coAnche il pantheon celtico
me la naturale prosecuzioera influenzato dalla tradine di questa vita: essa contizione tripartita, infatti, prenuava nelle terre beate che
siedendo le varie divinità Statuetta di bronzo rappresentante la tradizione poneva all’eanche ad attività di tipo ma- divinità celtica rinvenuta a Bouray, stremo ovest, oltre l’Atlantiteriale, ricevevano ciascuna Seine-et-Oise
co.
un particolare tipo di culto
Queste terre erano viste coa seconda delle esigenze.
me isole verdi e rigogliose in cui regnava una
I nomi delle Divinità, pur mantenendo una perenne età dell’oro, i frutti e le messi crescevachiarissima radice comune potevano subire leg- no spontaneamente e il dolore, la malattia e la
gere variazioni da regione a regione. La funzio- morte erano sconosciuti. Le isole occidentali
ne era comunque sempre la stessa, se infatti i potevano assumere varie denominazioni come
popoli Celtici hanno talvolta difettato in unità Avalon (“l’isola delle mele”), Emain ablach’
dal punto di vista politico, hanno comunque (“l’isola bianca”) o Tir na nog (“la terra della
sempre avuto una grande omogeneità e com- giovinezza”).
pattezza culturale.
Talvolta nei racconti mitologici, si narra di
La divinità principale era probabilmente Lug- uomini che grazie ad azioni di particolare rileLugus (il primo nome è quello gaelico, il secon- vanza o a una grande saggezza, avevano potuto
Anno lV, N. 15 - Gennaio-Febbraio 1998
Quaderni Padani - 27
Ricostruzione di un funerale celtico del II secolo a.C.
raggiungere le isole beate senza dover prima
passare attraverso l’esperienza della morte.
Le festività della religione celtica si avvicendavano seguendo il corso del sole e della luna.
Le principali erano quattro: Imbolc, il primo
febbraio, dedicato alla dea Brigit, era probabilmente una festa di purificazione; Beltaine, il
primo maggio, in cui veniva reso omaggio all’arrivo ormai prossimo dell’estate, fondamentale per le attività agricole e pastorali; Lugnasad, il primo agosto, in onore del Dio Lug e Samain, il primo novembre, ricorrenza che si suppone avesse un particolare riferimento all’ordine dei druidi.
Come abbiamo in precedenza accennato, gli
animali avevano una grande importanza nel
simbolismo tradizionale celtico, in questo senso
gli animali più importanti sono sicuramente il
cinghiale e l’orso.
Il cinghiale simboleggiava la classe sacerdotale. Questo spiega la frequenza con cui ricorre
nelle raffigurazioni e nei racconti. L’orso invece
era l’animale preposto a simboleggiare la classe
aristocratico-guerriera, ad esempio il nome di
re Artù (leggenda cristiana di evidentissima derivazione celtica) deriva dall’antico celtico ar28 - Quaderni Padani
tios che significa appunto orso.
La classe sacerdotale era completata dai bardi
e dai vati. I bardi si dedicavano alla musica e alla poesia, alle quali veniva riconosciuto un valore sacrale, essendo considerate un dono delle
Divinità.
Nell’antico mondo celtico le arti non erano
concepite nel modo superficiale e profano tipici
del mondo moderno e ad esse venivano attribuiti grandi poteri: il bardo poteva, tramite la sua
arte mettere in comunicazione il nostro mondo
con quello “superiore”, è quindi naturale che
venisse tenuto in grande considerazione all’interno della comunità.
Gli strumenti musicali più diffusi erano probabilmente l’arpa e il flauto, tuttora molto usati
nella musica tradizionale celtica. Ai vati erano
invece demandate le attività di tipo divinatorio.
La ripartizione della classe sacerdotale in
druidi, bardi e vati non era però qualcosa di assolutamente rigido e per forza di cose i loro
compiti potevano spesso intersecarsi.
Sembra ormai accertato che esistesse anche
una particolare forma di sacerdozio riservato alle donne. La principale funzione di queste sacerdotesse era quella di celebrare riti e sacrifici
Anno lV, N. 15 - Gennaio-Febbraio 1998
in onore di divinità femminili, per i quali erano
evidentemente ritenute più indicate.
Una parte del potere spirituale (anche se come abbiamo già detto quando si parla di Celti è
sempre arduo distinguere fra spirito e materia)
era detenuta dalla classe guerriera, essa lo esercitava tramite il suo massimo rappresentante, il
re (rix), il cui compito era quello di assicurare
pace sociale, stabilità e prosperità facendo da
“ponte” tra gli uomini e gli Dei. Prima dell’investitura, doveva dimostrare di essere all’altezza
di ciò che da lui ci si attendeva superando alcune prove di tipo magico-iniziatico.
Gli altri compiti dell’aristocrazia guerriera
consistevano nella difesa delle comunità, nel
mantenimento dell’ordine interno e, all’occorrenza, nella conquista di nuovi territori.
Al tempo delle invasioni romane i druidi furono costretti a subire delle feroci persecuzioni:
fu loro interdetto ogni tipo di attività e molti
vennero uccisi. Questo accanimento era dovuto
al fatto che i Romani speravano in questo modo
di piegare la volontà di indipendenza dei Celti.
In realtà, pur tra mille difficoltà, la tradizione
druidica non si estinse mai completamente.
Un altro duro colpo giunse dalla diffusione (e
spesso dalla imposizione con la forza) del Cristianesimo: anche in questo caso coloro che volevano seguire l’antica tradizione dovettero subire persecuzioni di ogni tipo sia materiali che
morali.
Una parte del druidismo fu in quel momento
costretta, pur di sopravvivere, a confluire nella
nuova religione, mantenendo però una certa
autonomia e continuando sotto il velo iniziatico
dei simboli la dottrina originaria. Ad esempio, il
mito cristiano del Santo Graal non è altro che
la riproposizione di una antica leggenda celtica.
Basta inoltre confrontare le date di certe festività cristiane come la Candelora o Ognissanti
con le ricorrenze celtiche per rendersi conto di
quanto sia rimasto del paganesimo originario
nella religiosità dei paesi europei.
Determinate espressioni della spiritualità celtica invece non poterono o non vollero, a causa
di una evidente incompatibilità, confluire nel
cristianesimo.
I rappresentanti di tali forme di religiosità per
continuare a operare, furono costretti a celarsi
nell’ombra. In particolare, questo destino toccò
alle pratiche più strettamente magiche e guaritorie che la nuova religione ribattezzò con disprezzo stregoneria. Molte di queste pratiche
Anno lV, N. 15 - Gennaio-Febbraio 1998
erano talmente radicate che se ne possono ritrovare ancora oggi testimonianze viventi un
po’ in tutta l’Europa, ovviamente nelle aree rurali.
Negli ultimi due secoli, e in particolare negli
ultimi decenni, in tutti i paesi che sentono assai
profondo il legame con gli antichi Celti si è assistito ad una interessantissima riscoperta della
tradizione druidica. Diversi studiosi si sono specializzati in questo settore e si sono costituiti
gruppi, associazioni e ordini che hanno come
scopo dichiarato quello di riproporre e continuare la tradizione spirituale celtica, tanto che
per essi si è in alcuni casi parlato di Neodruidismo.
Nella sempre più grave crisi di identità e di
valori del mondo moderno, la civiltà celtica appare come una realtà al tempo stesso lontana e
vicina, a cui ispirarsi e in cui rigenerarsi nella
continua ricerca dell’essenza più profonda di
noi stessi (intesi sia come individui che come
popoli padano-alpini e più in generale europei),
e di un futuro che possa coerentemente comprendere le nostre più antiche tradizioni.
Il superamento di determinate contingenze
materialistiche, nonché la riorganizzazione e la
effettiva “rinascita” dell’Europa e della sua cultura di cui oggi tanto si sente il bisogno, passano necessariamente anche per questa via. Ci pare infatti innegabile che in un’epoca come l’attuale, solo ciò che ha forti e profonde radici può
reggersi in piedi e legittimamente guardare oltre.
Bibliografia
❏ Jean Markale, Il druidismo, Mondadori, Milano 1994
❏ Jean Markale, I Celti, Rusconi, Milano 1982
❏ Marco Fulvio Barozzi, I Celti e Milano, Edizioni della Terra di Mezzo, Milano 1994
❏ T.G. Powell, I Celti, Il Saggiatore, Milano
1959
❏ AA.VV., I Celti, Milano 1991
❏ Antonio Violante, I Celti a sud delle Alpi, Silvana Editoriale, Milano 1993
❏ Jean De Galibier, L’epopea dei Celti, Keltia
Editrice, Aosta 1995
❏ Hal Belson, L’arpa Celtica, Edizioni della
Terra di Mezzo, Milano 1994
❏ Ella Young, Le meravigliose leggende Celtiche, Edizioni della Terra di Mezzo, Milano 1996
❏ F. Le Roux-C.J. Guyonwarc’h, La civiltà Celtica, Il cavallo alato, Padova 1987
Quaderni Padani - 29
Per un recupero
della religiosità ancestrale
di Diego Binelli
L’
individuazione dei caratteri comuni alle popolazioni padane basati sulle affinità etniche, linguistiche, culturali e storiche ci dà
un’importante e basilare definizione di ciò che è
padano distinto da ciò che non lo è (primario
momento iniziale per poter sviluppare e accrescere un autentico sentimento di appartenenza)
ma è destinata a rimanere, per un certo verso,
priva di radici profonde senza un più grande
amalgama spirituale e religioso Queste radici sono l’inesauribile estrinsecarsi dei valori spirituali
intimamente legati e connessi all’appartenenza
alla stirpe; essi le sono consustanziali e come tali
veramente immortali e non eliminabili. Per rendersi conto della veridicità di quanto affermato è
necessario effettuare un rapido excursus nel passato religioso delle genti che popolano, da tempo
immemorabile, l’entità geografica comunemente
conosciuta come “Italia”. Se si esula dai tempi
preistorici, sui quali non abbiamo sufficienti conoscenze e materiale archeologico su cui fondarci, dobbiamo iniziare la nostra ricerca all’incirca
al periodo delle ultime ondate migratorie Indoeuropee (1.000 a.C.). In quel periodo varie
tribù indoeuropee calarono sulla penisola mediterranea trovando, nella sua parte meridionale,
delle esistenti popolazioni pre-arie praticanti l’inumazione e una forma di religiosità squisitamente matriarcale e di stampo prettamente mediorientale. Tali popoli si distinguevano dagli Arii
per una loro peculiare forma religiosa improntata sulla sottomissione del popolo agli Dei, visti
come implacabili e vendicativi dominatori e padroni dei fedeli considerati non come uomini liberi e consapevoli, ma come schiavi, e come tali
necessitanti l’assoggettamento alla terrifica divinità. Il loro modo di pregare, prono e supino dinanzi a quelle spaventevoli deità, si distingueva
nettamente da quello degli Indoeuropei, i quali
di fronte ai loro Dei non avevano né paura né attitudine servile. Questi difatti si sentivano non
solo facenti parte della medesima natura, ma per
gli Eroi, (Eracle, Siegfrid, Beowulf, et similia) ai
quali si riservava il privilegio delle forme più alte
30 - Quaderni Padani
d’immortalità, non di rado si concepì la possibilità di lottare contro gli abitanti dei cieli e di
strappare loro lo scettro. Non vi era in ciò nulla
di strano: secondo la religiosità indoeuropea, le
tensione ideale ed etica verso una sempre maggiore affermazione e purificazione dell’anima
dalla prigione corporale passava proprio attraverso un agire consapevole volto a trascendere lo
stato umano per assurgere al divino; e ciò senza
quella mediazione sacerdotale che era ed è tuttora il fulcro delle religioni abramiche.
In seguito alla conquista romana delle zone
meridionali della penisola, la religiosità prisca
dei conquistatori, che pur era di origine nordica,
(come dimostrano, fra gli altri, i simboli arii del
lupo e dell’aquila, e le più antiche feste romane,
quali i Lupercalii) fu sommersa e inquinata dalle
religiosità preesistenti, pelasgico-etrusche. In seguito, proprio in quelle zone meridionali ove
maggiormente era esteso il latifondo, furono immesse enormi quantità di schiavi di origine medio-orientale e nord-africana che diedero una ulteriore e significativa spinta verso forme religiose telluriche ed estranee al patrimonio spirituale
nordico, portando infatti con sé il patrimonio religioso monoteista e intollerante delle aree culturali di provenienza.
Destino ben diverso ebbero invece le popolazioni celtiche stanziate nel territorio padano e
alpino. Esse - mai completamente soggiogate dai
Romani, grazie alla combattività e all’orgoglioso
senso di libertà che le contraddistingueva e allo
spirito etnico che le rendeva insofferenti al dominio e alla servitù - non conobbero, se non in
particolari aspetti cultuali, uno snaturamento religioso di particolare significanza. In ogni caso,
la comune origine indoeuropea e politeista faceva sì che, anche dopo la conquista, venisse tollerata una relativa libertà di culto purché la fedeltà
al potere politico non ne fosse intaccata. Sarà la
romanità cristiana a introdurre un elemento
estraneo, di origine semito medio-orientale, e a
pretendere di cancellare ogni espressione di religiosità locale, coerentemente con la sua visione
Anno lV, N. 15 - Gennaio-Febbraio 1998
del mondo monoteista. La sacralizzazione di boschi e luoghi naturali, particolarmente sentita
dalle popolazioni celtiche e germaniche, venne
combattuta a furor di spada (anche se mai completamente sradicata) e gli aspetti cultuali vennero conseguentemente definiti “stregoneschi” e
“demoniaci”. Tali aspetti, tutti basati su quel rapporto inscindibile sangue-suolo connaturato a
quei popoli, vennero sostituiti con aspetti altrettanto irrazionali e stregoneschi ma di origine
nettamente mediorientale e asiatica (esorcismi,
misteri, ...). Al posto dei racconti (e della relativa
effettiva credenza ) di fate, gnomi e leggende autoctone vennero raccontate le cosmogonie e i
miti contenuti in un libro nato tra le tribù nomadi della mezzaluna fertile; al posto delle gesta
eroiche di guerrieri assurti a semidei vennero insegnate massime profetiche in stile midrasgico,
parabolico, messianico, dalla morale completamente antitetica a quella dei popoli forzatamente
convertiti.
È però pur vero che le forme di religiosità celtiche nello specifico e indoeuropee nel generale
non furono mai completamente assorbite dal
nuovo culto. Esse sono riemerse nei vari cicli
letterari bretone, arturiano, del graal eccetera,
nella Chiesa celto-cristiana irlandese, in certe figure “eretiche” del culto ufficiale, e finanche in
certi aspetti cultuali accettati ufficialmente (mascherati come santi patroni, o trasformati in feste religiose: uno per tutti, Santa Klaus, il Babbo
Natale della cristianità, che è in realtà la sopravvivenza popolare del vecchio Wotan) o combattuti dalla repressione inquisitoria (come i riti magici e terapeutici).
Rimane il fatto che una spiritualità di ceppo
completamente diverso e incompatibile, colonizzò le terre padane, così come tutte le altre regioni europee alterando profondamente la spiritualità dei nostri progenitori, la cui restaurazione quantomeno a livello culturale è tra le cose
che un movimento che voglia far riemergere
l’autentico spirito celto-germanico per incarnarlo in una nuova costruzione etnica, deve assolutamente avere la cura di fare.
Per ritornare poi alla storia, anche dopo l’avvento del Cristianesimo, le terre padane celtizzate furono popolate ed ebbero numerosissimi
contatti con quelle popolazioni germaniche (a
loro estremamente affini), quali, fra le altre, i
Longobardi, che, pur di fronte a una apparente
accettazione del nuovo culto medio-orientale,
mai cessarono nel loro intimo di sentirsi pagane
e di adorare e sentire intimamente loro i boschi,
Anno lV, N. 15 - Gennaio-Febbraio 1998
Pietra scolpita che
raffigura probabilmente
Odino a cavallo con
due lance, proveniente
da Gotland (Stoccolma,
Museo Nazionale
di Storia)
le radure sacre,
le fonti: tutto
ciò che, in definitiva, dalla natura di quel
suolo parlava
direttamente al
sangue e allo
spirito.
La
creazione dello
Stato
della
Chiesa costituì,
per mille anni, un confine attraverso il quale si
svilupparono, coerentemente partendo dai principi sovraenunziati, due aree completamente distinte. La Padania e l’Italia propriamente detta
sono diverse per origine etnica, per lingua, per
usi, costumi e tradizioni, nonché, cosa ancora
più importante, per il loro stesso modo di atteggiarsi dinanzi al divino. Nella parte centro-meridionale della penisola si aveva una accettazione
di tutto ciò che il mondo dava, nell’attesa di interventi risolutori, in vita o post-mortem, da parte di un Dio creatore sempre avulso e separato
dai suoi fedeli ai quali era chiesto perlopiù il formalismo dell’adesione, nell’attesa di benefici derivanti da quella supina obbedienza. Invece, una
virile combattività nei confronti delle difficoltà
del vivere e dell’essere uomo, con il mai esausto
tentativo di eguagliare, pur nel loro rispetto, gli
Dei, non ha mai cessato di compenetrare lo spirito religioso delle popolazioni agricole e alpestri
della Padania.
Questo atteggiamento si è tradotto in una filosofia che induce ad agire e non a subire. A ben
guardare, dietro questi aspetti ancestrali e religiosi dei popoli peninsulari sono sottese le differenze che ne hanno informato la intima configurazione fino ai nostri giorni.
Senza uno sviluppo anche di tutte quelle che
sono le più antiche e autentiche scaturigini religiose e culturali delle nostre popolazioni, da contrapporre decisamente a quelle, estranee, dei non
Padani, non sarà possibile infondere un vero spirito di autoconsapevolezza ai nostri popoli.
Quaderni Padani - 31
L’epopea dei Goti
di Sergio Franceschi
L’
inizio del primo millennio a.C. vide le ondate migratorie dei popoli di ceppo celtico, che
popolarono gran parte della penisola europea. Verso la fine del millennio, quando tale fenomeno era ormai scemato e i Celti erano oramai divenuti popoli stanziali, dall’est arrivarono
nuovi popoli di stirpe tedesca. Avevano seguito la
stessa via percorsa dai Celti: fra il mar Caspio, il
mar Nero e le catene dei monti a sud, e fra il lago
d’Aral e la taiga siberiana e russa a nord. Trovando già occupata e difesa la parte centrale e meridionale della penisola europea, questi popoli furono costretti a cercare più a nord territori ancora liberi e li trovarono nei paesi che si affacciano
sul mar Baltico e sul mare del Nord.
Oltre la foce del Reno, di fronte alle isole ancor
oggi dette Frisone, si stabilirono i Frisoni e i
Franchi; nello Jutland gli Juti, gli Angli e i Sassoni; nella parte più meridionale della penisola
scandinava i Winnili; fra l’Elba e l’Oder i Cimbri
e i Teutoni; oltre l’Oder i Burgundi e, a nord della Vistola, i Goti. Questo solo per citare i popoli
maggiori.
Da quelle regioni poco ospitali, dove clima e
ambiente rendevano aspro il vivere, questi popoli
miravano al sud dell’Europa, dove - come apprendevano da notizie e racconti - il clima era
dolce e i luoghi ricchi e ameni. Li spingevano anche la loro condizione di seminomadi, retaggio
di lunghe migrazioni, e lo stato ancora fluido
della loro organizzazione sociale.
Alla conquista del sud mossero per primi i
Cimbri e i Teutoni. Fu uno spostatamento di
massa, con le famiglie sui carri, gli animali e le
cose trasportabili, lasciando il resto nei villaggi
abbandonati. Costeggiarono la riva destra dell’Elba, ma furono affrontati, sconfitti e sospinti oltre
il Danubio dai Celti Boi, che abitavano l’attuale
Boemia. Da qui la fiumana dei Cimbri e dei Teutoni riprese la marcia, costeggiando a nord la catena delle Alpi e sconfiggendo, uno dopo l’altro,
gli eserciti romani mandati ad affrontarli. Penetrarono nella Gallia Transalpina, tutto distruggendo al loro passaggio, entrarono nella Spagna,
ma qui trovarono altri Celti -i Celtiberi- che li affrontarono e li ricacciarono. Infine i Romani riu32 - Quaderni Padani
scirono a vincerli e a distruggerli ad Aquae Sextiae e a Vercelli, tanto che di questi popoli nulla
rimase tranne il nome (da Teutoni è derivato
Teutsch, poi Deutsch che indica ancora oggi l’insieme dei popoli tedeschi). Era l’anno 102 a.C.
La pressione dei popoli tedeschi verso il sudovest dell’Europa, che nei secoli precedenti aveva
trovato un argine nel contrasto coi popoli celtici,
venne in seguito ostacolata dall’espansionismo
dell’Impero Romano. Questo poteva disporre di
grandi eserciti, superiori per conoscenze tecniche e organizzative, collaudati da una lunga
esperienza militare e sostenuti dai mezzi che solo un’economia fiorente poteva fornire. Ma, dal
III secolo d.C., con i primi segni di indebolimento dell’Impero, le spinte di questi popoli contro il
limes si fecero più frequenti e vigorose.
Dalle loro plaghe nordiche partirono i Goti
che, come popolo dominante, inglobavano gruppi di Burgundi, di Rugi, di Eruli e di Sciri. Attraversarono le paludi del Pripet e proseguirono
verso il sud-est, nella steppa, fino a giungere alle
rive del mar Nero. Verso il 230 d.C. occupavano
un territorio dai confini instabili, compreso fra i
Carpazi, il Don, la Vistola e il mar d’Azov. A essi
si erano uniti anche i Bastrani, gli Sciri (gli antichi abitanti iraniani della regione), e ne erano divenuti satelliti i Gepidi e i Taifali.
In questa nuova sistemazione territoriale, dalla
quale hanno avuto origine gli odierni aggregati
di lingua tedesca dell’Ucraina, i Goti si divisero
in due gruppi, sempre legati da un sentimento di
stretta parentela: gli Ostrogoti, o Goti dell’est, e i
Visigoti, o Goti dell’ovest. Presto presero a far
puntate e scorrerie oltre il limes dell’Impero. Il
primo scontro con truppe romane si ebbe nel
238 in Dacia, essendo imperatore Gordiano III.
Nei decenni successivi, i Goti intensificarono
le azioni nei Balcani, in Grecia e in Asia Minore:
Bisanzio, Efeso, Troia, Corinto, Sparta e Atene
furono messe a sacco. Nel 251 il re goto Cniva,
attraversato il Danubio, mise l’assedio a Filippopoli, la conquistò e ne trucidò gli abitanti. L’imperatore Decio, accorso in aiuto con l’esercito,
dopo alterne vicende fu sconfitto e ucciso in battaglia. Nel 263 l’imperatore Claudio II riuscì ad
Anno lV, N. 15 - Gennaio-Febbraio 1998
I Goti attraversano il Danubio. Disegno di Hangus Mc Bride
arrestare i Goti a Naisso e l’imperatore Aureliano
li sospinse oltre il Danubio, nel 271.
In Dacia, entro i confini dell’impero e come
suoi tributari, i Goti si stabilirono fra popolazioni sedentarie, già romanizzate. Il lungo periodo
delle spedizioni armate entro i confini imperiali
li aveva oramai avvicinati a quella civiltà di cui
da tempo immemorabile tanto avevano sentito
narrare, e che ora rifulgeva nello splendore che
precedeva la sua decadenza. Nel nuovo stato i
Goti vissero quasi un secolo, perdendo quella libertà d’azione propria dei popoli nomadi, ma
guadagnando nella capacità di usufruire di quella
civiltà.
Durante la loro permanenza in Dacia i Goti ebbero per vescovo Ulfila, di religione ariana, di padre goto e di madre greca, e perciò adatto a capire l’animo profondo dei due popoli. Ancor giovane, egli aveva vissuto a Costantinopoli, dove aveva perfezionato la sua preparazione e dove fu fatto vescovo da Eusebio di Nicomedia. Oltre alla
quotidiana opera di catechesi che condusse i Goti (e in seguito anche gli altri popoli tedeschi) all’arianesimo, egli compì l’alta impresa di tradurre in goto la Bibbia, dando ai Goti la sorte di aveAnno lV, N. 15 - Gennaio-Febbraio 1998
re, primi fra i barbari, una lingua letteraria, il
che inaugurò una nuova era nella loro storia.
Verso il 355 l’Europa vide giungere dall’oriente, come un turbine, le orde degli Unni, una popolazione completamente sconosciuta. Erano di
aspetto terrificante: tozzi, dalla testa rotonda e
dalla barba rada, gli occhi a mandorla, sempre in
sella ai loro focosi cavalli e pronti a ogni più efferata crudeltà.
Il primo a subire l’attacco degli Unni fu il
mondo dei Goti. Gli Ostrogoti furono vinti e sottomessi e lo rimasero fino alla morte di Attila. I
Visigoti retrocedettero dai loro territori e chiesero ospitalità entro il limes dell’Impero, ma furono accolti male e trattati con durezza. Alla loro
ribellione l’imperatore Valente rispose schierando l’esercito sotto le mura di Adrianopoli. Nella
battaglia che seguì prevalsero i Visigoti ribelli,
l’esercito romano fu distrutto e l’imperatore Valente venne ucciso.
Fu il nuovo imperatore, Teodosio, che divise
l’Impero in due distinti organismi, l’Impero romano d’Occidente e l’Impero romano d’Oriente,
dando il primo al figlio Onorio e il secondo all’altro figlio, Arcadio. Alla ripresa espansionistica
Quaderni Padani - 33
degli Unni, la marea dei popoli tedeschi si riversò
sull’Impero d’Occidente, più debole.
Le crisi che in passato si erano via via succedute erano state contenute dall’opera riformatrice
di alcuni validi imperatori, ma ora cause ed effetti si sommavano in un processo inarrestabile di
decadenza.
Da Diocleziano in poi, l’Impero fu caratterizzato dall’affermarsi di una struttura sempre più
centralizzata dello Stato. L’imperatore aveva perso ogni carattere di magistrato: quando non era
un rude soldato cresciuto negli accampamenti e
imposto dall’esercito, era eletto per trame di palazzo, sedeva su un trono e si dovevano piegare
le ginocchia a baciargli la pantofola ricamata. Disponeva di una struttura burocratica gigantesca
che giungeva a controllare ogni più riposto angolo dell’Impero, a mantenere la quale provvedeva un fisco esoso, che soffocava ogni iniziativa
volta a creare ricchezza. La produzione, alla quale erano tolti i mezzi e spazi, regrediva e si doveva rimediare aumentando sempre più la pressione fiscale su quanto di essa rimaneva. Era un circuito chiuso che aveva come risultato di aggiungere povertà a povertà e, col tempo, di distruggere la stessa struttura dello stato. Le condizioni
della società romana del tempo non permettevano intese e le poche, anche sanguinose, rivolte
della parte vitale del popolo, in Gallia e in Siria,
ebbero effetti soltanto locali. In genere le persone si chiudevano nel proprio particolare, cercan-
do di resistere coi sotterfugi alle prepotenze del
fisco, e soccombevano isolate e indifese.
La crescente povertà provocò anche la diminuzione delle nascite, così che all’esercito, insieme
ai mezzi, vennero a mancare gli uomini per far
fronte all’assalto dei popoli germanici e asiatici
che premevano sui confini. L’esercito, se all’esterno presentava forti motivi di coesione per
spirito di corpo e disciplina, al suo interno era
minato dall’insofferenza delle formazioni ausiliarie.
Un altro fattore di disgregazione, di ordine spirituale, prodotto dall’Oriente, fu, dopo una secolare gestazione, il Cristianesimo. La vecchia religione, che era stata uno dei pilastri della civiltà
romana, non trovava più rispondenza nell’animo
del popolo, e la nuova non si era ancora sufficientemente affermata e diverrà sostegno valido
alle istituzioni civili solo dopo un processo secolare.
È evidente che queste non furono le sole cause
che provocarono il crollo dell’Impero romano,
ma solo alcune delle molte che da sempre hanno
portato le civiltà, dopo un ciclo vitale, a un inevitabile compimento. Ora l’obiettivo dei Goti era
l’Italia. Per primi vi penetrarono i Visigoti, nel
401, condotti dal loro re Alarico, ma trovarono
ancora un barbaro a difenderla: il vandalo Stilicone, che li batté a Pollenzo. L’imperatore Onorio portò la capitale a Ravenna, ben difesa e base
della flotta militare, nella città che i Celti Lingoni avevano fondato otto
La battaglia di Campo Maurico, 451 d.C. Disegno di Hangus Mc Bride
secoli prima e, insieme
agli alleati Boi, avevano
eroicamente difeso, prima di soccombere all’attacco di Roma. Essa
era divenuta nel frattempo un importante
centro di rapporti commerciali con l’Oriente,
dopo che la greca Spina
era stata sepolta dalle
piene del Po. Nel 406
giunsero gli Ostrogoti,
che proseguirono fino
alla Toscana. Nel 410 ritornò Alarico coi Visigoti, marciò su Roma e la
mise a sacco. Poi percorse per tre anni in
lungo e in largo l’Italia
portandosi dietro come
ostaggio Galla Placidia,
34 - Quaderni Padani
Anno lV, N. 15 - Gennaio-Febbraio 1998
sorella dell’Imperatore Onorio. Alla morte di Alarico gli era succeduto il fratello Ataulfo, che condusse i suoi Visigoti nella Gallia narbonense e
che a Narbona, con il consenso strappato a Onorio, sposò Galla Placidia. Fu un segno di distensione nelle relazioni fra barbari e latini e pare
che Ataulfo lo abbia confermato, morendo, raccomandando ai suoi di vivere in pace con Roma e
di restituire Galla Placidia all’imperatore Onorio.
Morì anche il figlio nato da quel matrimonio e
presero il comando dei Visigoti prima Segerico e
poi Wallia che, in nome dell’imperatore romano,
combatté i Vandali, gli Alani e gli Svevi, fondando un regno a cavallo dei Pirenei, la cui parte
settentrionale fu in seguito inglobata nel regno
dei Franchi: il regno visigoto rimase limitato alla
sola Spagna. Nel 452, attraverso le Alpi Orientali,
invasero di nuovo la Pianura Padana gli Unni
guidati da Attila, ma senza oltrepassare la linea
del Po. Nel 455 Roma fu messa nuovamente a
sacco, questa volta dai Vandali di Genserico, che
provenivano dall’Africa attraverso il Mediterraneo.
Il susseguirsi di tante invasioni gravò soprattutto sulle città che, come custodi delle maggiori
ricchezze, venivano messe a sacco e distrutte. La
gente scappava nelle campagne e sulle montagne, che erano rimaste più legate alla tradizione
celtica, e vi fu un ritorno al celtismo, proprio come avvenne anche nella Gallia Transalpina quando si presentarono le medesime condizioni.
Lascia increduli rilevare come quegli eserciti
invasori potessero scorrazzare impunemente,
nonostante fossero numericamente modesti in
confronto a quelli dell’antichità e rispetto alla
numerosa popolazione celtica; gli eserciti, inoltre, si combattevano e si distruggevano l’un l’altro e se ne andavano dalla Valle Padana quando
erano attratti da migliori prospettive, per cui
nessuno dei popoli barbari lasciò tracce importanti nella composizione etnica della popolazione locale, che continuò a essere costituita da
genti di ceppo celtico e ligure, se vogliamo accettare la testimonianza di Cesare e di Polibio, che
attribuiscono anche al ceppo veneto una derivazione celtica.
La Padania, pur percorsa da tanti eserciti invasori, rimase esente da occupazioni stabili. Gli ultimi vent’anni dell’Impero d’Occidente videro il
susseguirsi, in un rapido avvicendamento, di imperatori impotenti, chiusi in Ravenna e alla
mercè del capo barbaro di turno. Uno di questi,
Oreste, fece acclamare imperatore delle sue milizie, composte da Eruli e da Sciri, il proprio figlio
Anno lV, N. 15 - Gennaio-Febbraio 1998
Guerriero gotico, IV secolo d.C.
Disegno di G.A. Embleton
giovanetto Romolo, ma poi non fu in grado di
soddisfarle nei compensi pattuiti e si rifugiò in
Pavia. Il capo che gli succedette, Odoacre, prese
Pavia e fece uccidere Oreste. Poi conquistò Ravenna, fece relegare in Campania Romolo, detto
Augustolo, e inviò le insegne imperiali a Costantinopoli: l’Italia non aveva più bisogno di imperatori e, di fatto, Odoacre assunse tutti i poteri e si
comportò come un sovrano indipendente. Alla
conclusione del dramma, l’Impero romano d’Occidente si trovò diviso in vari regni che i posteri
chiamarono “romano-barbarici”:
1 - Il regno dei Vandali, che occupava la parte
centro-occidentale della costa africana e le isole.
Fondato da Genserico tra il 429 e il 439, si affermò in seguito alla battaglia navale di Capo
Bon nella quale le flotte riunite di Ravenna e di
Costantinopoli furono battute. Esso poggiava
sulla forte personalità di Genserico e alla sua
morte cadde nella più completa anarchia.
Quaderni Padani - 35
2 - Il regno dei Visigoti, esteso dapprima dallo
stretto di Gibilterra alle Alpi e alla foce della Loira, si ridusse alla sola Spagna dopo la vittoria dei
Franchi di Clodoveo sui Visigoti di Alarico II.
Suo figlio, Recaedo, operò la conversione del suo
popolo al cattolicesimo.
3 - Il regno degli Svevi, limitato alla zona basca
della Spagna e alla costa del golfo di Guascogna.
4 - Il regno dei Burgundi, che occupava la valle
del Rodano e che, nel 561, si espanse fino alla costa del Mediterraneo.
5 - Il regno dei Franchi, che inizialmente occupava la zona del basso Reno, fu poi esteso nella
Gallia a spese dei Visigoti. I Franchi passarono
direttamente da una religione pagana al cattolicesimo, senza attraversare la fase ariana, come
gli altri popoli tedeschi.
6 - Il regno dei Rugi nel Norico.
7 - I regni degli Angli, dei Sassoni e degli Juti in
Inghilterra.
8 - Il regno di Odoacre, che comprendeva l’Italia
e la Rezia.
Se si escludono il regno africano dei Vandali e
l’Italia peninsulare, si noterà che la parte di Europa compresa in questi regni è quella abitata da
popoli celtici, che hanno conservato la loro peculiarità per tutto il periodo romano, pur assorbendo ciò che l’Impero loro apportava dalla civiltà
mediterranea. Non ci fu in realtà una colonizzazione romana dei loro territori, o rimase di dimensioni modeste. Ad essi si sovrapponeva ora il
velo delle popolazioni tedesche occupanti, le
quali, nei nuovi regni, svolgono solo un compito
di tipo militare. Il resto è ancora parte della civiltà celtica, che non si fermò ad Alesia, ma che
continuò a evolversi nel contesto del resto del
mondo conosciuto. La dizione “regni romanobarbarici andrebbe però finalmente sostituita
con quella di “regni celtico-tedeschi”.
Odoacre governò l’Italia col titolo di “patrizio”
e quale massimo funzionario imperiale in Italia:
non esercitò diritti che fossero dell’imperatore,
come promulgare leggi o battere moneta. Accettò che giuridicamente, se non di fatto, l’Italia,
a differenza dei regni romano-barbarici costituitisi in Occidente, facesse ancora parte dell’Impero. Odoacre era divenuto arbitro in Italia perché
era stato eletto dalle truppe barbariche al servizio dell’Impero, per questo fu re, ma dei soli barbari e lasciò che l’amministrazione civile continuasse a essere esercitata dai Romani, secondo le
leggi romane. Anche nelle faccende riguardanti
la religione, Odoacre (che era ariano) non si intromise e, anche quando nacquero disaccordi fra
36 - Quaderni Padani
la chiesa di Roma e quella di Costantinopoli, si
mantenne neutrale.
Nel 450 l’esercito degli Unni, comandato da Attila, fu disfatto dai Romano-visigoti ai Campi Catalaunici, dopo di che, anche cedendo alle pressioni di Papa Leone I, si ritirò dall’Europa. I popoli satelliti dell’Impero unno, Gepidi, Svevi,
Eruli, Alani e, infine, Ostrogoti, recuperarono
così la propria indipendenza.
Anche sotto la soggezione unna, gli Ostrogoti
avevano conservato i loro re, che furono tutti della Casa Amali e ora, sotto la loro guida, passarono
in Pannonia come federati dell’Impero. Col re
Teodomiro invasero l’Illiria, costringendo l’imperatore Leone I ad accettare il fatto compiuto.
L’Impero non si era mai rassegnato che l’Italia
fosse di fatto indipendente e solo teoricamente
governata dall’imperatore a mezzo di un suo vicario. Per cui l’imperatore Zenone approfittò del
fatto che gli Ostrogoti chiedevano di avere assegnate altre terre per indirizzarli verso l’Italia e
contro Odoacre. Teodorico, figlio di Teodemiro,
aveva passato la sua giovinezza a Costantinopoli,
come ostaggio, presso l’imperatore Zenone, e vi
aveva perfezionato la sua preparazione sotto l’influenza della civiltà greco-romana. Nell’esercito
imperiale, con la benevolenza di Zenone, vi aveva
raggiunto la carica di magister militum. Quando
succedette al padre, aggiunse anche quella di capo dei Goti e la doppia veste, a differenza di quel
che fu per Odoacre, aveva valore giuridico.
Si mosse nel 488 col suo popolo e, sopraffatti i
Gepidi sulla Sava, entrò in Italia. Vinse Odoacre
all’Isonzo, poi a Verona e poi ancora sull’Adda.
Odoacre si chiuse in Ravenna e resistette tre anni all’assedio. Quando capitolò, Teodorico lo fece
uccidere, insieme ai suoi ufficiali. Dopo lunghe
trattative, l’imperatore Anastasio I restituì le insegne imperiali che Odoacre aveva rimesso a Costantinopoli. Questo era il riconoscimento ufficiale dell’autorità che Teodorico riassumeva su di
sé e che comprendeva anche quei diritti che erano mancati a Odoacre, come i poteri legislativo e
giudiziario e quello di battere moneta.
Il governo di Teodorico si imperniò tutto sul
dualismo Romani-Goti, due popoli diversi in tutto: religione, lingua, costumi, fino all’aspetto fisico, i quali dovevano convivere sullo stesso territorio in pacifico scambio di attribuzioni, e senza prevedibili possibilità di fusione. L’amministrazione civile fu esclusivo appannaggio dei Romani, mentre soltanto goto fu tutto ciò che riguardava l’esercito, pur con una tendenza del popolo goto ad assimilare la civiltà romana.
Anno lV, N. 15 - Gennaio-Febbraio 1998
Padania e Atlantide
Considerazioni sulla leggenda della scomparsa
della Methamaucensis Civitas
di Carlo Frison
Q
uanto sono numerosi i cercatori dell’Atlantide! Molte
delle ipotesi proposte si rifanno al sollevamento del livello
del mare susseguente la fine dell’ultima glaciazione, circa 10.000
anni fa.
La mitica isola sommersa è stata localizzata ora in uno ora in
un’altro mare attorno all’Europa
e all’America. In realtà la localizzazione dell’isola è il punto meno
influente sul senso “storico” del
racconto. Un racconto, quello
esposto da Platone brevemente
nel Timeo e ampiamente nel Crizia, alquanto complesso. Vi troviamo una parte mitica che descrive il primo agire degli Dèi, Graffito paleolitico di profilo di bisonte, su ciottolo rinvenuche nell’isola dell’Atlantide gene- to al Riparo Tagliente (Grezzana, Verona). Da R. Fasolo e F. Gagrano una stirpe eletta. In questo gia, op. cit.
senso, credo che anche l’isola
stessa faccia parte del mito e non della saga de- l’elefante. Al centro della loro città sacra piangli atlantidi. Mi sembra che l’isola rientri nei tarono una stele su cui compivano il sacrificio
miti della creazione che narrano della terra di tori. Conoscevano i metalli.
In questi particolari troviamo le fasi percorse
emersa dal mare cosmico.
Il senso morale del racconto è evidente nel- dalle culture occidentali preistoriche. Nei graffiti
l’analogia tra la maledizione di Zeus che colpi- paleolitici gli animali più rappresentati sono apsce gli atlantidi corrotti e la sorte dei cainiti, punto il bisonte (simile al toro), il cavallo e il
cioè di Caino, fondatore della prima città, e dei mammuth (simile all’elefante). Ma la stele piansuoi discendenti che svilupparono una civiltà tata al centro della città sacra non può essere che
antediluviana degenerata nella violenza tanto un menhir; e quindi il mito accenna alla cultura
da meritare il castigo divino(1). Ma qui siamo megalitica. La conoscenza dei metalli ci porta
più interessati al senso “storico”. Estraiamo all’età del loro sfruttamento e delle vie commerdunque dal racconto di Platone dei particolari ciali dei micenei che dall’Egeo si spingevano verche ci guidino nel localizzare la città sacra del- so il Nordeuropa per importare lo stagno.
l’Atlantide.
Gli atlantidi partirono dalla mitica isola e invasero l’Europa fino all’Etruria e il Nordafrica. ( ) C. Frison, Gli atlantidi e i cainiti. Due leggende sui popoli
I loro animali preferiti erano il toro, il cavallo e preistorici mediterranei, Abano Terme 1981.
1
Anno lV, N. 15 - Gennaio-Febbraio 1998
Quaderni Padani - 37
Graffiti protostorici delle pendici del monte Baldo. Il reticolo è interpretabile come mappa di divisione agraria. Da R. Fasolo e F. Gaggia, op. cit.
La pianura dell’Atlantide era tutta divisa in
lotti quadrati e solcata da canali artificiali.
Le più antiche divisioni agrarie di cui sia rimasta traccia si trovano nell’Europa settentrionale. Sono denominate “campi celtici” ma iniziano dal periodo megalitico. La loro forma è
tendenzialmente rettangolare o quadrata(2). Anche in Padania abbiamo qualche testimonianza
di divisioni agrarie protostoriche. Recentemente è stato scoperto qualche tratto di fossi agrari,
cioè fiancheggianti un viottolo, della media età
del Bronzo nella Bassa Veronese(3).
Ci sono poi incisioni rupestri protostoriche
sul monte Bego( 4) e sul monte Baldo( 5) che
hanno forma di reticoli regolari interpretabili
come mappe di campi più o meno quadrati. Da
Oderzo provengono due cippi con iscrizioni venetiche interpretati come cippi confinari di tipo
gromatico. Di conseguenza è accertato che nel
Veneto la lottizzazione e la bonifica agraria ha
preceduto le centuriazioni romane(6).
Il popolo era soggetto a una condizione servile e il governo era a conduzione collegiale.
La presenza di divisioni agrarie tendenzialmente regolari nelle agricolture primitive non
deve stupire. Le parcelle uguali e regolari rispecchiano una società ugualitaria in cui la terra non era proprietà privata.
I lavori collettivi dei servi erano necessari per
bonificare e preparare il terreno alle colture. I
capi ripagavano la fedeltà dei servi con l’equa
assegnazione dei lotti. Queste caratteristiche
sono proprie delle società matriarcali, che sono
le iniziatrici dell’agricoltura, in cui il rigido
controllo esercitato sulla massa dei servi non è
gestito da un re (che eventualmente ha funzioni
38 - Quaderni Padani
magico-religiose), ma da un collegio di capi.
Quando gli indoeuropei, popoli nomadi di pastori e allevatori di cultura patriarcale, giunsero
in Europa incontrarono questi agricoltori, detti
perciò preindoeuropei. Gli indoeuropei, acquisendo le tecniche della coltivazione dagli agricoltori matriarcali, assimilarono anche le loro
usanze sociali “collettiviste”, ma poi introdussero il diritto di proprietà privata su estensioni
sempre maggiori di terreni. Così le pianificazioni operate dalle società patriarcali - è il caso di
quelle romane - sono state ugualitarie solo all’inizio, ma poi sono state sconvolte dalle compravendite.
I dieci re dell’Atlantide erano fratelli. Il re
primogenito dimorava nella casa della madre. I
re periodicamente sacrificavano un toro e poi si
riunivano nottetempo nel tempio per giudicarsi
reciprocamente e sacrificare chi avesse trasgredito a qualche legge.
Il privilegio del re primogenito di dimorare
nella casa della madre è indizio sicuro di matriarcato. Le riunioni segrete notturne dei dieci
(2) F. Favory, “Proposition pour une modélisation des cadastres ruraux antiques”, in AA.VV., Cadastres et espace rural,
pagg. 61 ÷ 74, Parigi 1983.
(3) AA.VV, Progetto Alto Medio Polesine-Basso Veronese: settimo rapporto, in Quaderni di Archeologia del Veneto, X,
1994.
(4) Favory, cit., fig. 4, pag. 65.
(5) R. Fasolo, F. Gaggia, Ritrovamenti di arte preistorica nel
territorio veronese, in AA.VV., Il territorio veronese dalle origini all’età romana, Verona 1980.
(6) A. Marinetti, Nuove testimonianze venetiche da Oderzo
(Treviso): elementi per un recupero della confinazione pubblica, in Quaderni di archeologia del Veneto, IV, 1988.
Anno lV, N. 15 - Gennaio-Febbraio 1998
re dell’Atlantide hanno l’aspetto delle “società
I riti etruschi prescrivevano l’escavazione di
segrete” frequentemente riscontrate dagli etno- una fossa e l’erezione di un altare nel centro
logi presso i popoli dai caratteri matriarcali.
della città in onore degli antenati invocati a
La riunione notturna dei re aveva lo scopo protezione. In quale epoca si formò questo ridi compiere il sacrificio del re magico per pro- tuale? L’urbanistica etrusca deriva da quella dei
piziare la fertilità. Altro rito di fertilità era quel- numerosi villaggi fondati a partire dal II millenlo che compivano col sangue del toro sacrifica- nio a. C. La frequenza della fondazione di nuovi
to. Il sacrificio di un uomo e di un toro è raffi- villaggi può aver dato origine al rito passato agli
gurato in una famosa scena di una pittura pa- etruschi.
leolitica nella grotta di Lascaux. Abbiamo quinNon raramente i villaggi erano rotondeggiandi la rappresentazione dei popoli preistorici e ti e circondati da un fossato come è ancora ricodei sacrifici cruenti degli agricoltori primitivi.
noscibile nel caso di Cittadella, che da una camLa città sacra dell’Atlantide era circolare e pagna di scavi del 1990 risulta insistere su un
difesa da canali concentrici
abitato arginato del XIV-XIII secolo a.C.
Platone per questo particolare non prendeva
Il fossato soddisfaceva naturalmente l’esigenesempio dalle città greche, ma esprimeva una za di difesa dai nemici e dagli animali, ma bisoidealizzazione che ritroviamo nei progetti fan- gna anche considerare l’interpretazione magica
tastici dell’architetto
e astronomo Metone
narrati nella commedia “Gli uccelli” di
Aristofane.
Metone immagina
di misurare l’aria per
spartirla in lotti e poi
progetta con squadra
e compasso una città
circolare con strade a
raggiera e una piazza
centrale.
La ripartizione radiale dello spazio è
riferita anche dal loscrittore tardo latino
Marziano Capella,
che attribuisce agli
etruschi la divisione
della volta celeste in
sedici parti nelle Lottizzazione della pianura dell’Atlantide tratta da una edizione inglese
quali erano le abita- degli scritti di Platone. A sud è la città sacra (A) sulla riva del mare lunzioni delle diverse ga quanto la pianura. Sui monti che proteggono gli altri lati ci sono numerosi villaggi. Le acque dei torrenti montani confluiscono in un canale
Divinità.
Le città radiali era- (C) che avvolge tutta la pianura
no assolutamente
ignote in Grecia e nel Vicino Oriente. Si trova- del cerchio d’acqua come protezione intorno ai
no invece, secondo le mie ricerche, nell’urbani- templi, alle tombe e alle città, per impedire il
stica paleoveneta. Soprattutto a Padova, e in passaggio alle anime vaganti e ai dèmoni. Se
minor misura a Treviso, sono riconoscibili le non erro, solo nella pre-protostoria dell’Europa
tracce della cittadella di forma radiale e circola- nordoccidentale e della Padania troviamo aree
re (7). La cittadella di Padova era delimitata da sacre circolari in mezzo a campagne frazionate
un cerchio d’acqua. Naturalmente anche i
cromlech circondati da un fossato rientrano
nelle realizzazioni arcaiche del tempio circola- ( ) C. Frison, Dal pilpotis al doge, Libraria Padovana ed., Pare.
dova 1997.
7
Anno lV, N. 15 - Gennaio-Febbraio 1998
Quaderni Padani - 39
in lotti quadrati e bonificate da fossati dove necessario.
Il menhir posto dagli atlantidi al centro della
loro città sacra circolare ha ispirato una interpretazione in senso archeoastronomico, sicché
verrebbe a rappresentare l’asse del mondo.
La città sacra dell’Atlantide sorgeva sulla riva marina di una grande pianura rettangolare
di 3000 per 2000 stadi (pari a 533 per 355 km).
La riva era il lato a mezzogiorno, mentre gli altri tre lati della pianura erano riparati dai
monti. Si diceva che i suoi monti superassero
per numero, grandezza e bellezza tutti quelli
noti e che fossero ricchi d’acqua e densamente
abitati.
Questa descrizione geografica è il particolare
che ha messo più in difficoltà gli studiosi dell’Atlantide. Io proporrei che si tratti della pianura
padano-veneta in base a tre considerazioni. In
primo luogo si tenga conto che Massimo Pallottino ha accolto l’ipotesi di Wilhelm Brandenstein secondo cui Platone si sarebbe valso di
racconti della letteratura avventurosa dei viaggi
dei micenei, come lascia supporre la predominanza delle figure preelleniche di Atena e Poseidone(8). Secondo il Brandenstein l’Atlantide si
inquadrerebbe nelle tradizioni dei marinai e
commercianti egei, avviati fin dal II millennio
a.C. alla esplorazione e allo sfruttamento dell’Occidente, principalmente per importare ambra e stagno, da cui si spiega l’inserimento di
questa metallo nella leggenda. La scoperta di
asce e di una daga di tipo miceneo scolpite sui
megaliti di Stonehenge dimostra le grandi distanze che venivano percorse. I reperti di manifattura micenea portati in luce negli scali protostorici del delta del Po e lungo i fiumi del trevisano testimoniano la loro frequentazione abituale dell’Adriatico.
Il secondo argomento consiste in una etimologia che vorrei proporre. Considerando che il
cambiamento della l in r è permesso dalle leggi
della fonetica, e che i toponimi Atria nel Polesine, Hadria nel Piceno, Atre in Puglia, Adranus
in Sicilia e i termini analoghi dell’illirico
Atrans, Adra e Adrion oros derivano da un comune tema antichissimo(9), io penserei che nascondano il nome dell’Atlantide.
Il terzo argomento è geografico. É facile accorgersi della corrispondenza approssimata delle dimensioni e della orografia della Padania
con la pianura dell’Atlantide. La nostra pianura
si avvicina a un quadrilatero lungo 500 km, e
largo da 50 a 200 km. É circondata dai monti
40 - Quaderni Padani
eccetto che per la riva marina a sud-est. In due
sole pianure europee il mare, sollevandosi, è penetrato profondamente coprendo vaste aree: in
quella atlantica francese e in quella padano-veneta. Ma solo quest’ultima ha i monti e il mare
disposti quasi come quelli della pianura dell’Atlantide. Indubbiamente l’espandersi verso nord
dell’Adriatico avrà sommerso villaggi e avrà formato litorali di barene che impedivano, come
dice la leggenda, la navigazione.
In conclusione mi sembra di poter rafforzare
la vecchia tesi di Lewis Spence che gli atlantidi
fossero i popoli preindoeuropei(10). Il trapasso
dai preindoeuropei delle Venezie, cui è attribuito il nome di Euganei, ai paleoveneti non sembra sia avvenuto con una conquista cruenta.
La fusione tra indigeni e paleoveneti sarebbe
avvenuta in modo particolarmente pacifico, dato che nell’antichità i paleoveneti erano noti
per due caratteristiche attribuite agli atlantidi:
l’azzurro delle loro vesti e la velocità dei loro
cavalli.
Se è grande la probabilità che la leggenda
greca della città sacra sommersa sia nata nell’Adriatico, come mai, possiamo chiederci, tra i
popoli dell’Adriatico non ne è rimasta traccia in
racconti tradizionali? A dire il vero, nella raccolta, fatta da Andrea Dandolo nel Trecento, di
tutto il materiale storico reperibile fin dalle origini di Venezia, si trova l’accenno a una catastrofica marea: His diebus, Methamaucensis civitas similiter maris profligacionibus et incendii devastacionibus miseraliter devastata, tandem in totum submersa est(11). Non esiste altra
notizia su questa prima Metamaucum. Agli studiosi pare chiaro solo che debba essere distinta
dalla seconda, che è l’attuale Malamocco.
Secondo Wladimiro Dorigo l’antica Metamaucum era un insediamento altomedioevale fondato “su un più avanzato cordone dunoso, demolito dalla vicenda eustatica dell’XI-XII secolo”(12). Il Dorigo fa solo una ipotesi. Invece io
trovo suggestivo pensare alla analogia tra la
leggenda della scomparsa della Methamaucensis civitas e quella della città sacra dell’Atlantide.
(8) M. Pallottino, Atlantide, in Archeologia classica, IV (1952).
(9) G. B. Pellegrini, A. L. Prosdocimi, La lingua venetica, I,
pagg. 629 ÷ 636, Padova 1967.
(10) L. Spence, The History of Atlantis, Londra 1926.
(11) A. Dandolo, IX, XI, 3. Citato da W. Dorigo, Venezia. Origini, vol. I, pag. 203 nota 58, Electa, Milano 1983.
(12) Dorigo, op. cit., pag. 195 nota 43.
Anno lV, N. 15 - Gennaio-Febbraio 1998
I Salassi contro Roma
di Joseph Henriet
I
Salassi, come tutti gli altri popoli alpini ri- che gli etnologi sembrano attribuire proprio alla
cordati sul marmo del Trofeo della Turbie più o meno alta gradazione di pre-indoeuropei(grande e monumentale arco fatto erigere da cità le attuali differenze fra i popoli o nazioni
Augusto che ancora oggi si può ammirare pres- della Padania.
so Montecarlo), furono fra gli ultimi popoli della
È indubbio che nei cinque secoli prima di CriPadania alpina, l’Arpitania, a cadere sotto il do- sto sia i Celti che i Romani cercarono, gli uni
minio di Roma: un secolo e mezzo dopo le popo- partendo dal Nord e gli altri dal Sud, di estendelazioni della Bassa Padania, celtiche o fortemen- re il loro dominio politico. I Celti cacciarono gli
te celtizzate, cioè linguisticamente indoeuro- Etruschi della pianura padana e da qui si spinsepeizzate. Per di più noi sosteniamo
che i Salassi non furono mai radi- Guerrieri ai piedi di alte vette, da un’antica stampa
calmente domati in quanto, se è indubbio che Roma occupò militarmente e politicamente la Valle centrale (Valle d’Aosta) e la Comba
Freida (Valle del Gran san Bernardo) per assicurarsi un sicuro passaggio dalla Bassa Padania verso le
Gallie. Non è però altrettanto certo
che ad essa interessasse la povera
economia di montagna dei Garalditani alpini per cui, verosimilmente,
si disinteressò dei Salassi che abitavano le sommità dei monti e che vivevano di agricoltura e di pastorizia. Presumibilmente questi continuarono a vivere secondo la loro
cultura, conservando la loro lingua,
cessando però di infastidire i traffici
commerciali e il passaggio delle
truppe.
Che i Salassi, come molti altri
popoli montanari dell’epoca, fossero diversi dai Celti è confermato da
diversi storici: Livio parla dei “Galli
della montagna” distinguendoli dai
Galli tout-court, abitanti la Padania
pedemontana. Lo stesso fa Plinio il
Vecchio che distingue i Galli dagli
abitanti delle Alpi. La diversità è riconfermata dall’archeologia che
evidenzia la tipicità conservativa
delle regioni alpine dove - ad esempio - la civiltà del ferro è stata recepita molto tardivamente. A questo
proposito è interessante constatare
Anno lV, N. 15 - Gennaio-Febbraio 1998
Quaderni Padani - 41
ro verso il centro Italia e il Lazio; la presa di Roma avvenne nel 390 a.C. Ma, mancando ai Celti
ogni velleità occupazionale e imperialistica, essi
non fecero seguire alle conquiste una stabile occupazione.
I Romani, invece, alle conquiste facevano seguire una vera occupazione. Le regioni di pianura della Padania abitate dai Celti furono sottomesse nonostante una resistenza fulgida e feroce.
La Romagna fu occupata già nel terzo secolo
a.C. (Ariminum /Rimini fu fondata nel 268). L’Emilia e la Lombardia pianeggiante furono occupate poco tempo dopo; Milano, che prima che i
Celti la colonizzassero si chiamava Alba (indubbio toponimo preindoeuropeo), fu assediata ed
espugnata per la prima volta nel 222 a.C. Le
città di Cremona e Piacenza furono fondate nel
218 aC, Parma e Modena nel 183 aC. La Liguria
fu in parte sottomessa negli anni intorno al 180
a.C. Gli Statielli, che abitavano il Piemonte meridionale, furono vinti da Popilio Lenate nel 173
aC e diecimila di loro furono venduti come
schiavi.
Le regioni della Padania nord-occidentale, abitate da popoli meno celtizzati, iniziarono a cadere sotto la dominazione romana solo a partire
dalla metà del secondo secolo a.C , mentre i popoli dell’Arpitania, prettamente preindoeuropei,
anche se conoscitori della cultura del ferro, resistettero ancora per un secolo e mezzo e furono
in gran parte vinti solo da Augusto attraverso la
radicale, feroce e definitiva guerra dell’ultimo
trentennio prima della nascita del Cristo.
I Salassi occupavano tutto il Canavese fino al
Po e le valli alpine che da qui si dipartono, nonché il vercellese. Sono prova di questa realtà i
toponimi e i numerosi andronimi che si ritrovano francesizzati in Valdaosta e italianizzati nel
Canavese e sulle sue montagne. La loro capitale
era Canava o Canapa, che in lingua salassa significa “sotto ai monti”, non lontana da Ivrea. Il nome della capitale ha dato origine al nome che
ancora oggi usiamo per indicare tutta la regione
circostante, il Canavese appunto.
Il primo scontro fra Romani e Salassi avvenne
nel 143 a.C presso Verolengo, dove i Romani subirono una cocente e inattesa sconfitta: diecimila legionari furono massacrati e Appio Claudio,
il condottiero romano che li guidava, fece una
infelicissima figura; ciò lo spinse a raccogliere
immediatamente un altro esercito, molto più
numeroso.
Il secondo scontro avvenne tre anni dopo.
42 - Quaderni Padani
Sempre guidato da Appio Claudio, l’esercito romano ne uscì vincitore: seimila Salassi caddero
eroicamente sul campo. Appio Claudio chiese il
“Trionfo” (cerimonia che si teneva a Roma, davanti a migliaia di spettatori esultanti) che gli
spettava avendo ucciso in battaglia più di cinquemila nemici, ma il Senato glielo negò,
senz’altro a causa della bastonata ricevuta nel
143 a.C. I nostri persero la battaglia ma non la
guerra e continuarono a neutralizzare le mire
espansionistiche degli italioti.
Nel 100 a.C questi fondarono comunque Eporedia, l’attuale Ivrea, probabilmente su un agglomerato urbano precedente; il nome di Eporedia (solitamente interpretato come “luogo dove
si domavano i cavalli”, da uppos= cavallo, in
celtico) non è forse indoeuropeo come sostengono in molti ma protogreco e pre-indoeuropeo e
ha lo stesso significato di Canava, cioè di “sotto
ai monti” (da Ypo e Reia).
Da quel momento in avanti i Salassi abbandonarono gradatamente le loro ricche terre di pianura per ritirarsi in montagna e continuare la
lotta di resistenza contro l’invasore. Abbandonarono la loro capitale, Canava, e fondarono in
Valdaosta la nuova capitale Cordelia, nei pressi
di Aosta, sul luogo dove attualmente sorge Saint
Martin di Corleans, fortificandola efficacemente;
il nome infatti significa la città fortificata (da
Gorde-illi-a che in salassiano significa a = la, illi
= luogo abitato e gorde = fortificazione).
Leggiamo quanto ci racconta Strabone:
“Ancora in tempi recenti i Salassi, ora combattendo ora interrompendo le guerre contro i Romani tramite la stipulazione di tregue, continuavano nonostante tutto a conservare la loro
potenza e con la loro inclinazione al brigantaggio, provocavano danni rilevanti a coloro che
percorrevano il loro territorio per valicare i
monti.
Così, quando Decimo Bruto scappò da Modena, pretesero da lui e dai suoi uomini il pagamento di una dracma a testa e quando Messala
svernò nei loro paraggi dovette pagare in contanti la legna da ardere e gli olmi necessari per
i giavellotti e le armi da esercitazione. Questi
uomini arrivarono perfino una volta a rubare il
denaro di Cesare Augusto e a rovesciare dei macigni su colonne di soldati, col pretesto che costruivano una strada o gettavano dei ponti sui
torrenti.”
L’inaudita e provocatoria rapina del denaro di
Augusto, che serviva forse a pagare le truppe impegnate oltr’Alpe, fu il casus belli che indusse
Anno lV, N. 15 - Gennaio-Febbraio 1998
l’imperatore a lanciare la campagna militare
contro i popoli dell’Arpitania ancora indipendenti e liberi.
Intorno all’anno 40 a.C, come ci racconta Appiano, il comandante romano Vetere, con un
numeroso esercito, col tradimento e a sorpresa,
occupò alcuni punti strategici del territorio dei
Salassi e dei loro alleati transalpini; questi, per
l’impossibilità di rifornirsi di sale e di fare circolare le derrate alimentari, accettarono la presenza di guarnigioni sul loro territorio, ma appena
Vetere si ritirò, scacciarono i Romani e fortificarono meglio le strettoie dei passaggi obbligati.
Alla campagna di Vetere seguì l’attacco di
Messala Corvino che menò gran vanto di avere
infine domato i Salassi: cosa non vera se Augusto dovette inviare loro contro uno dei suoi migliori generali, Terenzio Varrone. Questi, nel 25
aC, naturalmente sempre con l’inganno e la perfidia, armi tipiche dei romani, riuscì a fare prigionieri 36.000 Graiani (Valdostani, Vallesani e
Savoiesi).
Alcune migliaia scelsero di entrare nelle legioni romane. La maggior parte, circa 30.000, furono venduti come schiavi sul mercato d’Ivrea, col
vincolo di schiavitù ventennale. La storia ci dice
che andarono tutti a finire nel Bruttium, l’attuale Calabria. Per cui la grande immigrazione calabrese di questi ultimi decenni potrebbe cap-
Anno lV, N. 15 - Gennaio-Febbraio 1998
ziosamente quasi essere vista come “un ritorno
in patria” dei valorosi Salassi...
Da quel momento i Salassi, quasi solo più
donne e bambini, si ritirarono sulle sommità alpine, abbandonarono la Valle centrale e non infastidirono più i Romani; quelli che restarono in
basso si latinizzarono e vissero da sottomessi.
Augusto fondò Aosta dove rimasero di stanza
tremila pretoriani e, a memoria della lunga e
dura guerra contro i nostri valorosi antenati, innalzò nelle vicinanze della città un monumentale Arco di trionfo che è ancora in piedi.
A parziale consolazione di chi ancora oggi soffre per la triste sorte toccata ai nostri padri, è la
conoscenza del destino toccato al nostro etnocida. Terenzio Varrone era famoso per la sua grande capacità oratoria; ostentava in ogni momento
la sua amicizia con Augusto (suo fratellastro
Proculeio era intimo dell’imperatore). Era un
personaggio molto in vista. Sua sorella Terenzia
era moglie di Mecenate ed aveva inoltre un fratello governatore della Siria. Nel 23 a.C. si ritrovò a ricoprire la carica di Consul ordinarius
insieme ad Augusto. Più abile in guerra che in
politica compì l’errore di appoggiare il proconsole di Macedonia M. Primo. Caduto in disgrazia
e accusato di alto tradimento per una presunta
congiura, fu processato in contumacia e condannato a morte. L’esecuzione avvenne a Roma.
Quaderni Padani - 43
L’origine dell’identità ligure
di Flavio Grisolia
L’
identità di un popolo si costruisce interamente sulla sua storia: più essa è antica e
continua, più esso assumerà caratteristiche specifiche e compattezza. La sua cultura e
le sue tradizioni deriveranno interamente da
ciò e si svilupperanno in maniera più o meno
autonoma, a seconda del grado di indipendenza
che esso sarà riuscito a mantenere nel corso dei
secoli.
Circa 40.000 anni fa l’uomo, inteso quale essere del tutto simile a noi, apparve per la prima
volta nell’Europa occidentale, in Francia. Il ritrovamento archeologico più antico è quello
della località di Cro-Magnon, ma la sua presenza è stata rilevata, anche in altre parti della
Francia, come a Combe-Capelle, Chancelade,
Lescaux e ad Altamira, in area basca. La Liguria
fu popolata da questo tipo umano circa 20.000
anni fa, a iniziare dai Balzi Rossi, presso Ventimiglia e da qui prese a espandersi oltre che nell’attuale Liguria, in tutta la Padania. Le sue caratteristiche fisiche lo distinguevano nettamente dai suoi predecessori ed evidenziavano un’elevatissima statura media (più di 1,80 m) e il
cranio dolicocefalo, che conteneva un cervello
doppiamente sviluppato, rispetto all’individuo
ritrovato a Neanderthal in Germania.
La frattura che circa 18.000 anni fa si creò in
Europa, tra occidente e oriente a causa della
glaciazione di Wurm, divise in ugual misura le
popolazioni, creando i presupposti per la nascita delle future identità europee. Questi nostri
progenitori infatti, si caratterizzarono per una
profonda spiritualità, che creò un autentico culto dei defunti, dove per la prima volta è manifestata la convinzione di una continuità oltre la
morte.
Appaiono inoltre le cosidette “Veneri”, statuine rappresentanti donne le cui fattezze esaltano
la fertilità e che dovevano proteggere i nuclei
familiari, oltre a propiziare la fecondità.
Tutto trascorse immutabile per diversi millenni, finchè nel corso del V millennio a.C., l’agricoltura non rivoluzionò totalmente il vivere
del tempo, dando inizio inoltre a un notevole
44 - Quaderni Padani
incremento demografico. Ancora una volta
comparve dapprima in Liguria, per poi diffondersi nell’intera Padania, grazie a un fenomeno
migratorio che era iniziato alcuni millenni prima nella cosidetta Mezzaluna fertile, l’area cioè
compresa tra Anatolia, Palestina e Mesopotamia. Inizia con ciò il periodo Neolitico, che in
Europa, da Malta alla Scandinavia, vedrà il sorgere dalla Cultura Megalitica, così detta per i
numerosi monumenti costituiti da grandi pietre, di cui Stonhenge in Inghilterra, è probabilmente l’esempio più eclatante.
Il fenomeno però più caratterizzante per la
Padania, resta sicuramente quello della Cultura
dei Vasi a Bocca Quadrata, che si diffonde ancora una volta dalla Liguria e che per oltre cinquecento anni, dall’inizio fino alla seconda
metà del IV millennio a.C., ci distinguerà nettamente dal resto d’Europa, penisola Italiana
compresa. In seguito vi sarà uno spostamento
culturale-commerciale verso nord, che tra la fine del IV e gli inizi del III millennio a.C., creerà
un’area omogenea tra Padania, la zona dei laghi
svizzeri e la Provenza, ulteriore passo avanti
nella genesi del nostro Popolo. Forse ciò avvenne in concomitanza, se non a causa dell’arrivo,
intorno al 3.000 a.C., di genti che dimostrano
punti di contatto con le Culture dell’Antica Età
del Bronzo Iniziale dell’Armenia e della Transcaucasia, caratterizzate da ceramiche a scanallature e coppellette. Oltre che per la ceramica
esse possono essere identificate per le statuestele, raffigurazione su lastre di pietra di figure
eroiche o divine, atte a rappresentare una sorta
di pantheon arcaico, ma già essenzialmente
configurato e cristallizzato. Il fenomeno è ben
presente in Padania e in Liguria, grazie al ritrovamento di diversi esemplari, databili in un arco di tempo molto vasto, che va dal III al I millennio a.C., a dimostrazione di una continuità
etno-culturale, che evidenzia già il divenire e la
definitiva affermazione del popolo ligure.
In effetti, pur nel contesto dell’antica Cultura
Megalitica, l’apparire delle statue-stele, si accompagna a una serie di profonde innovazioni,
Anno lV, N. 15 - Gennaio-Febbraio 1998
quali l’uso dei metalli, dell’aratro, del carro a
ruote e a livello sociale a un’organizzazione civile e religiosa molto complessa. A questo proposito è da segnalare, seppur al di fuori della Liguria e della Padania, ma sempre nell’ambito
culturale suddetto, l’apparire delle tombe a cista, associate al rito dell’incenerazione, che resterà dominante tra gli antichi Liguri, sin sotto
l’occupazione romana.
Nella seconda metà del III millennio, raggiunse un’area vastissima di diffusione, dalla
penisola Iberica alle isole Britanniche, un particolare vaso detto “campaniforme”, per la somiglianza a una campana rovesciata, con probabili
funzioni rituali. Ciò è forse spiegabile col movimento di genti, impegnate nella ricerca dei metalli, alle quali molti studiosi, associano per la
prima volta in termini cronologici, il nome dei
Liguri. La presenza del vaso campaniforme nella Liguria moderna, è comunque confermata da
alcuni ritrovamenti nel Ponente, a Triora e Nasino, a dimostrazione se non altro dell’effettiva
penetrazione, nel nostro territorio di questo oggetto.
Altro fenomeno che si accompagna alle stele
antropomorfe, al megalitismo e al vaso campaniforme, è senza dubbio quello delle incisioni
rupestri, che hanno sul monte Bego, oggi in
Francia, la rappresentazione più spettacolare.
Qui in un periodo lungo oltre un millennio,
dall’Eneolitico, all’Età del Ferro, generazioni e
generazioni di pastori liguri, provenienti dal
Ponente ligure, dal Cuneense e dall’attuale Provenza, lasciarono inciso sulla roccia il segno
della loro presenza. Oltre 100.000 raffigurazioni
ne sono la testimonianza, in una simbologia
che esalta il lavoro e lo spirito guerriero, quali
vanti dell’uomo d’allora, mentre la divinità è
rappresentata dalla montagna, spesso contornata da nubi e colpita da fulmini, al pari dell’Olimpo greco. Quasi omonimo al Bego è il monte
Beigua, alle spalle di Varazze; anche qui la presenza dei nostri antenati è segnalata dalle numerose incisioni, oltre che da costruzioni megalitiche, che anche in questo caso sottolineano
la sacralità del luogo.
Il termine “Liguri” appare per la prima volta
nell’VIII-VII sec. a.C., riportato da Esiodo nella
forma greca di “Ligus”, a indicare insieme agli
Sciti dell’Oriente e agli Etiopi del Sud, uno delle componenti umane, con cui i Greci si confrontavano; a conferma di ciò Eratostene, li indica come gli abitanti dell’Europa occidentale e
la loro presenza in Provenza, è testimoniata per
Anno lV, N. 15 - Gennaio-Febbraio 1998
la prima volta da Ecateo di Mileto nel VI sec.
a.C.
Così, in una sostanziale omogeneità culturale
ed etnica doveva apparire ai Fenici prima e ai
Greci poi, l’Occidente europeo dell’Età del Ferro e i Liguri che l’abitavano, erano i diretti discendenti delle antiche Culture Megalitiche,
che avevano dato inizio alla Civiltà europea. In
qusto contesto va evidenziato l’apporto fondamentale, che gli antichi Liguri dettero al nascere della Cultura di Hallstat in Austria a partire
dall’VIII sec.a.C., che a sua volta darà origine al
sorgere di quella Celtica, la cui componente etnica sarà, soprattutto nell’Europa occidentale,
fortemente influenzata dai Liguri.
I Liguri commerciavano l’ambra dalle sponde
del Baltico al Mediterraneo e raggiungevano il
mar Libico su piccole e veloci imbarcazioni: la
loro cultura era la cultura dell’Europa occidentale; Iberi, Caledoni e Baschi, costituiscono i rami di questa grande famiglia umana.
L’Età del Ferro in Europa coincise con un il
giungere di nuovi popoli da oriente: Sciti e
Cimmeri, che premendo sui Celti, attraverso un
concatenamento di flussi migratori, fecero sì
che questi ultimi, arrivassero a partire dall’VII°
nella Francia orientale, per poi spingersi a nord
e a sud, giungendo tra il V° e il IV° sec. a.C. nell’area transpadana, erodendo così buona parte
dell’antica Europa ligure. Anche Etruschi e
Greci, contribuirono a questa erosione, penetrando i primi in Padania, e fondando colonie
sulla costa provenzale e ligure i secondi. Da occidente inoltre presero ad avanzare gli Iberi, affini ai Liguri, arrivando sino alle foci del Rodano, senza però scacciare i Liguri indigeni, coi
quali sembra convivessero come un sol popolo.
In conclusione nel III sec. a.C., all’alba delle
guerre con Roma, i Liguri occupavano ormai
un territorio ristretto alla Cispadana e alll’arco
alpino centroccidentale, più parte della costa
provenzale, mentre nel resto della Padania,
convivevano coi Galli, ai quali comunque li univano legami etnici e culturali, come gli stessi
Romani affermarono. Le lunghe guerre che i
Liguri insieme ai Galli, ma più spesso da soli,
combatterono contro i Romani, durarono, riferendoci solo alla Liguria costiera, oltre due secoli, che diventano più di tre se si cosiderano
anche i Leponzi delle Alpi centroccidentali.
L’occupazione che ne seguì, non portò mai ad
una vera e propria colonizzazione del territorio,
almeno in Liguria, in quanto Roma si limitò a
controllare le arterie principali, la costa e a
Quaderni Padani - 45
creare insediamenti nelle rare aree pianeggianti, sicuramente inferiori alla già scarse attuali.
Tutto ciò è confermato dalle moderne ricerche
genetiche, che hanno scientificamente dimostrato che i Liguri attuali sono i diretti discendenti delle popolazioni d’allora. In aggiunta a
ciò va inoltre detto che da questi studi risulta
che la componente ligure è anche quella dominante nell’intera Padania, cosa storicamente
comprensibile se si tiene conto che quella che
era la Gallia Cisalpina nel I secolo, tornerà a
chiamarsi Liguria e manterrà questo nome fino
all’VIII secolo, a conferma della resistenza dell’antico sostrato etnico.
L’avvento della Repubblica di Genova permetterà al Popolo Ligure, di conservare una sua
unità etno-linguistica, anche se in chiave romanza. Antichi usi, numerose parole e parte
della toponomastica, sono giunti sino a noi in-
46 - Quaderni Padani
tegri dalla notte dei tempi, anche grazie all’indipendenza che la Repubblica seppe mantenere
per oltre otto secoli.
Il Popolo Ligure quindi esiste ancora e può
giustamente vantarsi di essere il più antico
d’Europa, insieme ai Baschi. Noi siamo gli eredi
dei guerrieri delle statue stele e del monte Bego, del primo grande popolo d’Europa, anche se
ora la storia ci ha costretti su questa striscia di
terra tra monti e mare.
Noi abbiamo il dovere storico di far rinascere
lo spirito sopito della nostra gente, ora che dopo duecento anni di menzogne e oppressioni,
un nuovo vento di libertà sta spazzando tutta
l’Europa.
Non siamo soli in questa battaglia, il sangue e
il suolo ci uniscono indistintamente a tutti i
fratelli Padani: stavolta Roma non riuscirà a dividerci!
Anno lV, N. 15 - Gennaio-Febbraio 1998
Il pensiero, la parola,
la scrittura
di Carlo Stagnaro
E
sistono nel mondo Celtico delle scale di valori e di conoscenza che ci permettono di
ritrovare la nostra naturale attitudine verso
l’Equità, la Giustizia, la Parola data e nulla come
la menzogna, l’ingiustizia, e l’ipocrisia possono
alterare la nostra visione della Vita. Per i popoli
dell’area celtica il Pensiero, chiamato anche
“Fuoco della testa”, è il livello primario nella
Tradizione Orale che, unito alla Parola, ha il
compito di mantenere reale, vivo, dinamico ed
in evoluzione il Sapere. La Tradizione Orale permette di trasmettere il Sapere tenendo intatti i
significati e l’Essenziale, ma rende in certa misura attuale il suo aspetto esteriore. Bisogna sfatare l’affermazione che le popolazioni celtiche
ed i Druidi non sapessero scrivere, in realtà la
scrittura nella Tradizione Druidica veniva usata
per fissare, rendere statico ed eternamente duraturo un evento una formula magica ,un obbligo.
Per questo motivo non troviamo degli scritti pur
avendo conferme della conoscenza da parte dei
Druidi delle varie scritture dell’epoca. La Parola,
frutto del “fuoco interiore” è per i Celti collegata
intimamente con l’individuo ed è inscindibile;
tradire la parola data significa “morte-esclusione”. La Parola è talmente importante che, usata
per suggellare un “patto” con una divinità, non
necessita la presenza del Druida; anche nella vita sociale della tribù è la Parola che suggella il
patto di appartenenza alla comunità. Le feste sono il momento per riconfermare lo stato di appartenenza sociale e religioso dell’individuo.
L’assenza volontaria alle feste, in particolare al
Samain del 1 novembre (capodanno celtico), determina la morte individuale e quindi la costruzione della tomba e l’allontanamento dalla tribù.
Anno lV, N. 15 - Gennaio-Febbraio 1998
Esiste una differente visione della Parola tra le
popolazioni dell’area celtica, con una coscienza
individuale, ed i popoli dell’area afro-mediterranea legati al concetto di anima gruppo (gregge).
Per l’individuo la Parola ha valore sia all’interno
che all’esterno della propria tribù ed anche nei
confronti di un ipotetico nemico, i codici della
Cavalleria derivano da queste considerazioni. La
condizione culturale legata all’anima gruppo
sviluppa una forte considerazione della parola
all’interno del gruppo, ma “permette” la menzogna nei confronti degli estranei, motivandola
come un valore protettivo del gruppo. Un esempio a noi “vicino” di doppia parola è la mafia che
l’utilizza in una mentalità di gruppo-gregge.
L’uomo d’onore è colui che non tradisce all’interno del gruppo ma può mentire all’esterno.
Per i Celti esiste il Vero ed il Falso e non il concetto di bene e male che spesso sono criteri morali soggettivi all’interno di un gruppo sociale o
religioso. “Galantuomo” ha un significato
profondamente diverso da “uomo d’onore”; i popoli dell’area celtica hanno tramandato questa
idea, a noi naturale, di valore della Parola, di
Giustizia, e di rispetto del Patto sia sociale che
religioso, ma ci hanno tramandato anche il giusto Furore contro chi tradisce, sia esso uomo o
divinità. La scrittura, che fissa e limita nel tempo la Verità, ha distrutto e deformato parte della
Tradizione Orale passando da Tradizione Viva a
Tradizione Fissa, basata su libri e non sul pensiero attivo, reale in trasformazione. La saggezza della cultura Celtica ha sempre rispettato il
principio che il Pensiero è superiore alla Parola,
la Parola è superiore allo Scritto, e lo Scritto è
superiore all’Immagine.
Quaderni Padani - 47
I nomi della nostra gente
La marco dë l’ësclavagge l’ê parlâ la lëngo dë quî coumando
(Il marchio della schiavitù è parlare la lingua degli oppressori)
Padani delle ultime generazioni sono stati rapinati anche dei nomi (e a volte dei cognomi):
spesso italianizzazioni banalizzanti o nomi del
tutto estranei alle nostre culture hanno sostituito
nomi antichi e amati. Anche il ridarsi nomi nostri
o battezzare i nostri figli con nomi padani è un se-
I
gno forte di libertà. Continua l’opera di informazione con l’onomastica delle Valli Occitane del Piemonte: a ogni nome in versione originaria viene
affiancato (fra parentesi) il corrispondente toscano.
La scelta dei nomi è stata effettuata da Ettore
Micol.
Anin, Aneto (Anna)
Bartumiu (Bartolomeo)
Beto (Elisabetta)
Bino (Albina)
Blot, Blutin (Elisabetta)
Ciafrè, Ciafrulin (Chiaffredo)
Ciot, Ciutino (Licia)
Culin, Culinet (Giacomo)
Dolfu (Adolfo)
Frè, Frolu (Chiaffredo)
Garito, Garitìn (Margherita)
Giacu (Giacomo)
Gian, Gianoto, Gianin (Giovanni)
Gigna (Virginia)
Giors, Giursiu (Giorgio)
Gnetu (Antonio)
Linèto (Caterina)
Madlin (Maddalena)
Magnet (Magno)
Mainòt, Mainutin (Maria)
Matiu, Matè, Materin (Matteo)
Peire, Pirin (Pietro)
Prit, Pritin (Spirito)
Ricu (Enrico)
Secondo, Secondin (Secondo)
Tainin, Tainòt (Caterina)
Tan, Tanin, Tanèt (Costanzo)
Tisto, Tistin (Battista)
Trumlin (Bartolomeo)
Tunin, Tuninet (Antonio)
48 - Quaderni Padani
Anno lV, N. 15 - Gennaio-Febbraio 1998
Biblioteca
Padana
Sergio Zuccolo
Da Celti a Friulani.
Una storia dell’Occidente
Venezia: Marsilio, 1996
Pagg.469 - Lit. 48.000
Un bel libro diviso in due parti:
la prima si occupa della storia
della nazione friulana e la seconda della sua lingua.
All’interno della comunità dei
popoli padano-alpini, i Friulani
costituiscono una delle tanti
arricchenti diversità. In termini di origine etnica essi hanno
la particolarità di derivare praticamente solo dall’unione di
due sole popolazioni: i Celti e i
Longobardi. I primi giunsero
qui attorno al VII secolo a.C.
occupando un’area sostanzialmente disabitata e ricoperta
dalla Foresta Lupanica. Qualche minuscolo insediamento
costiero veneto venne subito
assorbito. Vi fondarono Akyleja
che non è - come ha sempre
raccontato la propaganda italiota - una città di creazione
romana. L’imperialismo romano penetra nella regione nel
183 a.C. con la scusa che i Celti
Carni “facevano dispetti” alle
popolazioni venete, alleate di
Roma. I sistemi furono i soliti:
massacri, distruzioni e deportazioni a fronte di tassazioni
esose e dell’insediamento di coloni italici. Ma gli antichi friulani resistono con coraggio e
organizzano una lunga e sanguinosa guerriglia di resistenza
attorno alle vaste foreste rimaste. I Celti escono a sorpresa
dai loro rifugi, colpiscono gli
occupanti e si ritirano nei boschi e sui monti. Nel 52 a.C. ar-
rivano fin sotto le mura di Akyleja “a fare gli sberleffi persino
a Cesare che in questa città stava svernando”. L’ultima vera
vittoria avviene attorno alla
metà del primo secolo dell’era
cristiana poi la repressione si fa
più pesante e la distruzione
delle foreste sistematica. Solo
sulle montagne i Celti conserveranno autonomia e libertà:
essi combatteranno a difesa
delle loro valli contro Attila e
saranno trovati, ancora liberi,
dai Longobardi con cui avevano notevoli affinità culturali ed
etniche.
Il Ducato del Friuli di Gisulfo
fu la prima struttura longobarda in Padania e durò dal 568 al
776. I superstiti latifondisti romani furono cacciati e la terra
fu distribuita alle Fare e un
lungo periodo di pace fu instaurato grazie a quello che
l’autore individua come un fattore determinante e speciale:
“l’intesa etnica fra la stirpe germanica e quella celtica”.
Anno lV, N. 15 - Gennaio-Febbraio 1998
Con il diploma di
Regensburg, datato 4 agosto 792,
re Carlo confermò il patriarcato di Aquileia
che diventò stato
patriarcale (Patria del Friuli) il 3
aprile del 1077,
quando Enrico IV
concesse a Sigeardo l’investitura feudale con
prerogative ducali
su tutta la Contea
del Friuli.
Con le costituzioni emanate dal
Parlamento della
Patria, questa divenne una “delle
forme più mature
di organizzazione
politica unitaria ed accentrata
sorte in Europa nell’età di
mezzo”.
La Patria fu guidata per secoli
da patriarchi tedeschi e i legami con la cultura di oltr’Alpe si
fecero sempre più stretti. E’ in
questo periodo che, dalla sovrapposizione del latino sulle
antiche parlate celtiche e con
la forte influenza germanica, si
forma la lingua friulana.
L’indipendenza della Patria cessa nel 1445 quando viene di
fatto occupata da Venezia che
ne mantiene larghe fette di autonomia a fronte di una sovranità formale e di un forte sfruttamento economico. Da allora
il Friuli ha seguito le vicende
storiche del Veneto, sotto la
Serenissima e sotto l’Austria,
fino all’occupazione italiana e
al plebiscito-farsa del 1866. I
decenni successivi all’occupazione italiana sono stati per il
Friuli fra i più drammatici della sua storia: miseria, emigrazione e due guerre mondiali, la
Quaderni Padani - 49
prima delle quali è stata combattuta sul suo territorio con
grandi distruzioni e con un
prezzo enorme di vite umane.
Solo nel secondo dopoguerra,
il Friuli torna a conoscere una
parvenza di autonomia, sia pur
viziata dall’innaturale fusione
con quel che resta della fascista
“Venezia Giulia”, e cioè, con
Trieste.
La seconda parte del libro è
completamente dedicata alla
lingua friulana, alla sua formazione e ai contributi di altri
idiomi al suo lessico. Il volume
si conclude con una serie di
racconti popolari in friulano e
con traduzione in italiano.
Si tratta di un lavoro esemplare per impostazione e per documentazione, di un altro importante contributo alla ricostruzione e divulgazione della
storia dei singoli popoli padani.
Ottone Gerboli
Frédéric Bastiat - Gustave de
Molinari
Contro lo statalismo
Macerata: Liberilibri (Corso
Cavour 33A, 62100 Macerata,
tel.: 0733 - 231989), 1994
a cura di Carlo Lottieri
pagg. 134, L. 20.000
tolato Contro lo statalismo,
raccoglie tre saggi. Il primo,
Proprietà e legge di Bastiat
(1848), pone un problema classico: vengono prima i diritti di
proprietà o le leggi? In altre parole, esistono dei diritti di natura che non possono essere in
alcun caso negati? La risposta
di Bastiat è senz’alcun dubbio
affermativa. Le leggi, secondo
il polemista, sono una creazione dell’uomo, col preciso scopo
di tutelare i suoi diritti: non
possono quindi sovrapporsi ad
essi o peggio. È chiaro l’attacco
a Rousseau, secondo cui la proprietà è una convenzione sociale, e discende dalla legge: una
simile posizione legittima ogni
posizione collettivista o addirittura comunista, che nessun
vero liberale potrà mai accettare. Particolarmente interessante per i padanisti è il passo in
cui Bastiat fa risalire questa
concezione del diritto addirittura ai Romani : “I Romani dovevano considerare la proprietà come un fatto puramente convenzionale, come un
prodotto o una creazione artificiale della Legge scritta. [...]
Come avrebbero potuto (senza
squassare i fondamenti della
propria società) introdurre
nella legislazione la tesi che il
vero titolo della proprietà è il
In una società sempre più centralizzata, in cui lo stato si arroga il diritto di imporre tasse
assurde, di negare storia e cultura di interi popoli, di spiare i
cittadini o, per usare un’espressione fortunata, di “entrare in camera da letto”, quei pochi che hanno il coraggio di ribellarsi vengono prontamente
censurati. E’ il caso di Frédéric
Bastiat e di Gustave de Molinari, due intellettuali francesi del
secolo scorso che, a causa del
proprio aperto sostegno alla filosofia del laissez faire, sono
due perfetti sconosciuti per la
gran parte dei residenti entro i
confini della Repubblica italiana. Ci sono voluti il coraggio
della battagliera casa editrice
Liberilibri di Macerata e l’intraprendenza di Carlo Lottieri per
proporli al pubblico padano,
pur nelle mille difficoltà derivanti dalla cappa di silenzio da
parte di gran parte della stampa e dalla ridotta distribuzione.
Il libro, significativamente inti50 - Quaderni Padani
Biblioteca
Padana
lavoro che l’ha prodotta, proprio essi che vivevano di rapina, le cui proprietà erano il
frutto della spoliazione e che
avevano fondato i loro mezzi
di esistenza sul lavoro degli
schiavi?”. Parole quanto mai
attuali.
Il secondo saggio, sempre di
Bastiat, è dedicato a Giustizia e
fraternità (1848): altro argomento che, a centocinquanta
anni di distanza, continua a essere attualissimo. Le parole
possono trarre in inganno, visto che il lessico è quello del
secolo scorso, ma “fraternità”
ha per il filosofo un significato
del tutto analogo a quello che
ha per noi “solidarietà”: la tesi
di Bastiat è che la fraternità è
una cosa bella e buona e, al
contrario, l’egoismo è moralmente deprecabile, ma questo
non implica che la solidarietà
debba essere obbligatoria, perché in tal caso si trasforma in
furto. E questo spiega perché
in Italia Bastiat abbia trovato
così poco spazio: l’Italia è uno
stato basato sulla solidarietà,
cioè sulla redistribuzione delle
risorse: sul furto. Bastiat è
quanto meno lapidario alla fine
delle proprie argomentazioni:
“La fraternità! Non sappiamo
che essa sta alla giustizia come gli slanci del cuore stanno
ai freddi calcoli della ragione?
[...] Ma noi ci opponiamo alle
vostre idee quando fate intervenire la legge e le imposte, e
cioè la costrizione e la spoliazione”.
Di altro tenore (ma non meno
interessante) è il saggio di de
Molinari, Sulla produzione del-
Anno lV, N. 15 - Gennaio-Febbraio 1998
Biblioteca
Padana
la sicurezza (1849), che tratta
con almeno un secolo di anticipo un problema che verrà poi
affrontato, con conclusioni non
diverse, dalle correnti più spinte del liberalismo: è giusto che
le forze dell’ordine siano monopolizzate dallo stato? O sarebbero preferibili una serie di
“agenzie di sicurezza” in concorrenza tra di loro? Naturalmente de Molinari appoggia la
seconda ipotesi, facendo leva
su una considerazione universalmente accettata : la concorrenza crea efficienza. Come accade oggi, infatti, quando l’ordine pubblico è monopolizzato
“la giustizia diviene costosa e
Fiorenzo Toso
Frammenti d’Europa
(Milano: Baldini&Castoldi,
1996), pagg. 476, 30000 L.
“Guida alle minoranze etnico linguistiche e ai fermenti autonomisti” : questo è il sottotitolo dell’ultima documentatissima opera di Fiorenzo Toso, linguista e studioso ligure, dedicata ad una vasta panoramica
sul “risveglio etnico” che sta
caratterizzando la storia recente del Vecchio Continente.
L’Europa, dopo gli ultimi due
secoli segnati dall’invadenza
dei giganteschi “Stati nazionali” sempre pronti all’aggressione e all’espansione per affermare il proprio primato, pare infatti aver riscoperto le mille etnie di cui è composta, dimenticate ma non sparite, stanche
del meschino ruolo di subalternità nei confronti dei rispettivi
lenta, la polizia vessatoria, la
libertà individuale cessa d’essere rispettata [...]; in una parola, si vedono sorgere tutti gli
abusi del monopolio o del comunismo”. Al contrario, “in un
regime di libertà, l’organizzazione naturale dell’industria
della sicurezza non sarebbe
differente da quella delle altre
industrie [...] avremmo l’autorità accettata e rispettata in
nome dell’utilità, e non l’autorità imposta dal terrore”.
A concludere il libro, un bel
saggio di Carlo Lottieri (che è
anche il traduttore), il quale
fornisce cenni sulla biografia e
sul pensiero di Bastiat e de Molinari, e conclude con un richiamo all’attualità, in cui auspica la nascita di una forte
corrente antistatalista per il ricupero e la difesa delle libertà
individuali : esattamente ciò
per cui lottano gli indipendentisti padani.
Unico neo del libro è l’introduzione di Sergio Ricossa che,
pur sostenendo alcune tesi pienamente condivisibili, si lascia
andare a slanci patriottici e risorgimentalisti, dando prova di
una certa incoerenza : se c’è
stato infatti nella storia d’Italia
un capitolo nero in cui il liberalismo non è assolutamente
stato recepito (anche se spesso
molti criminali si sono definiti
liberali) è proprio il Risorgimento.
Una curiosità: Bastiat, nel suo
primo saggio, parlando di coloro che al lavoro preferiscono
una continua siesta, scrive “far
niente” in corsivo e in italiano
(mentre il resto era originariamente in francese). Aveva già
capito tutto.
Giò Batta Perasso
dominatori. E così ecco sbocciare lotte indipendentiste (e
quindi antistataliste) un po’
ovunque, dalla monolitica
Francia alla più liberale Germania, dalla disastrata ex URSS all’ancor più disastrata
ex - Iugoslavia, dalla centralista
Spagna all’ipercentralista e nazionalista Italia.
L’opera di Toso si apre con alcune definizioni necessarie per
la polisemia con cui vengono
adoperati concetti come “popolo”, “etnia”, “nazione”, con una
seria distinzione tra “lingue” e
“dialetti” e con una veloce disamina dei diversi tipi di rivendicazioni autonomiste (culturali
e politiche). Dopo questa breve
sezione inizia subito l’interminabile carrellata di popoli in
lotta, che secondo una progressione geografica passa dall’Italia all’Europa Occidentale a
quella Orientale.
Vi sono capitoli dedicati agli
indipendentismi “storici” e
quindi più noti (Baschi, Catalani, Bretoni, Scozzesi,...) ma anche a popoli sconosciuti ai più
(i Gagauzi della Moldavia, i
Mordvini e i Ciuvasci della
Russia centro - orientale, gli
Aromuni della Grecia,...) senza
alcuna “discriminazione” in
base al numero di cittadini
coinvolti o ai successi ottenuti.
Il libro è insomma una lettura
piacevole che scorre agile e veloce tra le mani ; è in grado di
incuriosire e di informare, visto anche il gran numero di dati storici e linguistici che l’autore fornisce.
Particolarmente interessante,
per ovvi motivi, è la parte dedicata all’attuale Repubblica Italiana, in cui vengono presentate le lotte, i successi e le disfatte di Occitani, Walser, Tirolesi,
Ladini, Sardi, Brigaschi,... Tutti
Anno lV, N. 15 - Gennaio-Febbraio 1998
Quaderni Padani - 51
questi “piccoli popoli”, vittime
del nazionalismo e delle pretese vagamente razziste e sicuramente imperialiste di chi li
vorrebbe “schiavi di Roma”, sono stati e sono tuttora attraversati da grandi fermenti e da un
forte senso di ribellione nei
confronti della Città Eterna
che li ha privati delle loro culture, delle loro lingue e della
loro libertà, che li tartassa non
solo culturalmente ma anche
finanziariamente e che, non
paga di tutto ciò, impone loro
sceneggiate retoriche e rievocazioni pseudo - storiche di
eventi con cui si vorrebbe affermare l’italianità di tutti noi
poveri disgraziati all’insegna
del “volemose bene”.
Naturalmente l’Italia è stata
costretta diverse volte, soprat-
52 - Quaderni Padani
tutto per pressioni internazionali (come nel caso dei sudtirolesi), a concedere qualche simulacro di autonomia; ciò non
toglie la sua totale sordità alle
giuste richieste di molti cittadini che nonostante tutto hanno l’ardire di non considerarsi
italiani, sordità che ne fa un
paese barbaro e intollerante, in
cui (sono parole di Toso) “la risposta delle istituzioni nazionali [ai fermenti autonomisti] è
del tutto inesistente”.
Dove però Frammenti d’Europa lascia molto a desiderare è
nel trattare la questione padana ; l’autore infatti, forse spinto da pregiudizi ideologici o interessi concreti, applica i classici “due pesi e due misure”,
non riconoscendo alla Padania
quei diritti elementari che invece attribuisce
giustamente a
tutti gli altri. Toso non vede infatti nelle nostre
richieste quei caratteri “nazionali” che avrebbero
invece quelle altrui in quanto,
secondo lui, noi
padani saremmo
spinti da motivi
solo economici
(e se anche fosse?) e anzi invocheremmo la nazione padana
“come cemento
ideale per istanze
di carattere economico e fiscale”.
La Padania è secondo lo studioso una maschera,
un simulacro
che pochi “egoisti” userebbero
per ottenere una
Biblioteca
Padana
semplice diminuzione delle
imposte.
L’autore sostiene dunque che le
“assurde” pretese della Lega
Nord deriverebbero semplicemente da un eccessivo attaccamento al portafoglio e non riconosce l’autentica carica culturale e politica del movimento
leghista; Toso non si rende
conto che, nel panorama politico italiano, l’unica forza che ha
costantemente difeso i cosiddetti dialetti e le cosiddette
culture regionali è la Lega; Toso non capisce che, se oggi in
Italia si può parlare di autonomie, è solo grazie alla Lega ;
Toso non ammette che l’interesse alle lotte autonomiste
straniere (che gli ha permesso
di scrivere e vendere questo libro) nasce con la Lega. Toso
non vede (o non vuole vedere)
l’importanza e il significato autenticamente liberale della lotta leghista, basata sul riconoscimento indiscriminato a tutti, indipendentemente dalle più
o meno attendibili ricostruzioni storiche e linguistiche degli
intellettuali di regime, del diritto di secessione ossia di “stare con chi si vuole”.
Toso infine, che è (o vorrebbe
essere) un autonomista ligure,
non capisce che l’unica chance
della Liguria di ottenere l’indipendenza viene dalla Padania
liberale: e questo è forse il suo
più grande errore di valutazione, poiché lo spinge a mendicare un brandello di autonomia
dallo stato che, storicamente,
ne ha concessa meno e peggio
di tutti gli altri, quello italiano.
Giò Batta Peraso
Anno lV, N. 15 - Gennaio-Febbraio 1998