La Lunga durata oggi - Dipartimento di Storia Culture Civiltà

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La Lunga durata oggi - Dipartimento di Storia Culture Civiltà
La lunga durata oggi: bilancio di un
mezzo secolo (1958-2008)
L’articolo di Fernand Braudel dedicato alla lunga durata
appare nelle «Annales E.S.C.» del 19581. Braudel aveva appena ottenuto, dopo al morte di Lucien Febvre (settembre
1956), sia la presidenza della VI sezione dell’Ecole Pratique
des Hautes Etudes (di cui era stato il segretario dalla sua
creazione nel 1948, così come il fondatore e il direttore del
Centre de Recherches Historiques), sia la direzione delle
«Annales». Nato nel 1902, Braudel sa che, salvo incidenti,
ha davanti a sé una quindicina d’anni per imporre il suo
marchio. Si è preparato per questo e ha scelto di dare all’articolo la forma di un discorso programma. La sua intenzione
non è soltanto scientifica. Si tratta di fissare gli orientamenti
che propone non solo per la disciplina storica, ma, ancora di più, per l’insieme delle scienze umane e sociali, nel
quadro di un loro riavvicinamento che rappresenta ai suoi
occhi una priorità sia intellettuale che strategica. Fedele alla
sua abitudine di non essere mai prigioniero delle parole che
adopera, per designare tali orientamenti esita tra due espressioni: «scienze sociali» (nel titolo) e «scienze dell’uomo» (di
cui constata, sin dalla prima linea, la «crisi generale» e che
darà il nome alla nuova istituzione che si prepara a creare, la
Maison des Sciences de l’Homme). La prima delle due denominazioni prevarrà sulla seconda soltanto nel 1975, in occasione della trasformazione della sesta sezione della EPHE
in EHESS (Ecole des Hautes Etudes en Sciences Sociales),
ma essa resterà ancora in concorrenza con quella di «scienze
dell’uomo e della società», scelta dal CNRS, che coesiste fino
ad oggi con quella di «scienze umane e sociali», più semplice da tradurre in inglese. Ma l’essenziale, nel 1958, si trova
altrove: nel fatto che la lunga durata è per lui la carta princi1 F. Braudel, Histoire et sciences sociales. La longue durée, «Annales E.S.C.» XIII, 4,
1958, pp. 725-753.
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pale – e di fatto la sola – che gli permette di rivendicare per
la storia, accanto alle matematiche, un ruolo di catalizzatore
delle scienze dell’uomo. Ai suoi occhi, esse soffrono tutte di
un difetto più grande: quello di concentrare la loro attenzione sul presente e di non prendere in considerazione le realtà
e le dinamiche del passato, che egli ritiene indispensabili per
capire il presente.
L’articolo è stato letto, citato e tradotto in numerose lingue, ma la sua ricezione ha privilegiato ciò che riguardava la
storia e ha spesso lasciato in secondo piano ciò che riguardava le altre scienze dell’uomo. Le ragioni di questo divario tra
le intenzioni dell’autore e la ricezione da parte dei suoi lettori meriterebbero senza dubbio di essere precisate. Mi sembra
che due ragioni abbiano pesato in modo determinante. La
prima: l’alleanza proposta tra storia e scienze sociali si poneva in numerosi paesi in termini diversi, in particolare in
tutti quei paesi in cui la storia era raggruppata dagli stessi
storici tra le Humanities (Stati Uniti) o le Geistwissenschaften (Germania). La seconda ne è complementare: è la storia
che, negli anni ’60, ha costituito l’ala in movimento dell’influenza delle «Annales» all’estero e che ha portato, una parte
almeno degli storici, ad aderire all’identificazione della loro
disciplina con le scienze sociali.
Questa adesione ha luogo negli Stati Uniti intorno al
1968, successivamente negli altri paesi, ma avviene anche
nel momento in cui, nella stessa Francia, l’antropologia
prende il posto dell’economia come principale interlocutore degli storici e, in una certa misura, come loro modello.
Ora, l’articolo del 1958 mirava di fatto su diversi fronti. Da
una parte, affermava la rottura tra la storia e la concezione
evenemenziale con cui essa si era a lungo identificata e dava
ragione, retrospettivamente, a Simiand, la cui critica alla
Méthode historique et science sociale di Langlois e Seignobos,
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pubblicata nel 1903 sulla «Revue de Synthèse Historique»,
sarà significativamente ristampata da Braudel nelle «Annales» del 1960. D’altra parte, cercava di identificare i punti e
i contatti possibili tra i settori più avanzati della ricerca nelle
altre discipline. Ma mirava anche, su un altro piano, a esplicitare ciò che separava le ambizioni della storia dagli obiettivi che Claude Lévi-Strauss aveva fissato per l’antropologia:
cosa che lo portava a sottolineare una doppia opposizione.
Quella tra la ricerca di regole semplici e generali, ma valide
per società di limitate dimensioni, e i passaggi incessanti tra
modelli e realtà sociali la cui complessità appare inesauribile e continuamente riproposta allo storico delle società più
vicine a noi. E quella tra la lunga durata degli storici – un
tempo «quasi immobile, lento a scorrere» – e il «tempo immobile» dell’antropologia strutturale, che si sarebbe accontentata di lasciare alla storia solo le briciole dell’evento.
Ogni successo ha la sua controparte. Per un testo, due
sono le più comuni. Da un lato, esso è chiamato a circolare sempre più al di fuori del suo contesto, a essere letto
con occhi diversi in funzione di altri dibattiti, sia per essere
rivendicato come un modello da seguire, sia per essere criticato o confutato: basta pensare alla famosa formula attribuita a Keynes «in the long run we are all dead», che è stata
utilizzata da molti storici per rifiutare una storia sospettata
di mettere tra parentesi le decisioni, i modi di pensare e di
sentire, le traiettorie individuali e collettive, le emozioni e le
passioni degli uomini concreti, e per rivendicare per la storia
il tempo della vita contro quello della morte. Dall’altro – e
il prezzo da pagare è ancora più pesante –, il titolo del testo
finisce per bastare a se stesso, per circolare da solo e per dare
a coloro che lo citano l’illusione di poter fare a meno di leggere il testo: la pratica del name-dropping non vale soltanto
per gli autori, ma anche, come sappiamo, per le parole alla
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moda. L’impatto internazionale dell’articolo di Braudel nel
corso degli ultimi cinquant’anni lo ha particolarmente esposto a questo doppio rischio. Esso è diventato un riferimento
obbligato. Ma ha, di conseguenza, conservato una influenza
reale sugli orientamenti recenti della ricerca sia in storia che
nelle altre scienze sociali? In altri termini, rimane di attualità
oppure è diventato un testo tra gli altri, storicamente datato,
il cui impatto potrebbe essere seguito e misurato, ma in fondo superato, perché ha lasciato il posto ad altre proposizioni
metodologiche o teoriche dotate di una reale capacità euristica e che hanno spostato il dibattito su altri terreni?
Tenterò di rispondere nell’ordine a queste domande.
Dunque, in primo luogo, occorre rileggere il testo stesso,
nella sua totalità e nella sua complessità, per restituirlo al
suo contesto. Poi bisogna studiarne le forme e le modalità di
ricezione, talvolta consapevoli ed esplicite, talvolta silenziose
ed anche involontarie, ma ugualmente reali: o, se si preferisce, seguirne e misurarne l’influenza e la posterità. E, infine, terza tappa, è necessario interrogarsi sulla sua attualità.
Il testo tradisce la sua data – 1958 – e deve essere letto per
quello che è, ovvero un programma proposto da un uomo
che, circondato dall’aura che gli era derivata dieci anni prima dalla sua Méditerrannée, ha appena avuto accesso alle responsabilità universitarie, a cui si è preparato in vari anni2,
e che è ben deciso a non perdere l’opportunità che gli viene
offerta, nel contesto francese e internazionale dell’epoca,
2 Cfr. G. Gemelli, Fernand Braudel e l’Europa universale, Marsilio, Venezia 1990,
che sottolinea le tappe principali di questa preparazione dalla creazione del Centre de
Recherches Historiques della VIe Section che Braudel dirige, fino al viaggio negli Stati
Uniti dell’autunno 1955 organizzato in questa prospettiva da Clemens Heller insieme
a Edward D’Arms, uno dei responsabili della Fondazione Rockfeller, al suo contributo
alla redazione del IV Plan e ai diversi articoli che pubblica precisamente in questi stessi
anni e che sono raggruppati nel primo volume dei suoi Ecrits sur l’Histoire, pubblicati
undici anni più tardi, nel 1969 (Flammarion, Paris).
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della doppia direzione. Da una parte, quella delle «Annales»,
fondate nel 1929, dirette – dopo la morte di Marc Bloch
– con fermezza da Lucien Febvre dal 1944 al 1956, e che
sono riuscite a imporsi come una rivista di lotta, impegnata
in una revisione drastica e una modernizzazione dei modi di
fare, di concepire e di scrivere la storia. Dall’altra, quella della sesta sezione della EPHE, una istituzione completamente
nuova, creata esattamente dieci anni prima e allora in piena
espansione rispetto all’università tradizionale. Un’istituzione
che incarna la necessità di insegnare non soltanto i saperi
acquisiti, che sarebbero solo da trasmettere, ma le stesse ricerche in corso. Un’istituzione infine capace di attrarre, per
i numerosi posti messi a disposizione, maestri ormai confermati e che già disponevano di una posizione accademica
prestigiosa in una Facoltà o al Collège de France, così come
ricercatori che l’Università aveva mantenuto fin a quel momento ai margini, o che non poteva reclutare perché stranieri, e che si stavano imponendo come i migliori della loro
generazione: così un Jean Meuvret in Francia, bibliotecario
all’Ecole Normale, o un Etienne Balazs, sinologo di primo
piano di origine ungherese, che aveva trovato rifugio alla fine
degli anni ’30 in una fattoria del Sudovest e la cui posizione
ufficiale era quella di lavoratore agricolo. O ancora esclusi o dissidenti tanto dell’Est come dell’Ovest, numerosi nel
clima della guerra fredda – un Daniel Thorner, un Ignacy
Sachs o un Georges Haupt. Infine, e soprattutto, giovani,
che arrivavano alla trentina alla metà degli anni ’50 (Jacques
Le Goff, François Furet o Emmanuel Le Roy Ladurie) e che
erano all’inizio della loro opera, ma sui quali bisognava avere
l’audacia di scommettere.
Questa istituzione, che porta il nome di «Section des
sciences économiques et sociales», presenta il paradosso almeno apparente di essere stata fondata da storici – Lucien
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Febvre, Fernand Braudel, Charles Morazé – e di essere stata
diretta dalla sua creazione e per più di 25 anni ancora (fino
al 1985, poi di nuovo dal 1995 a 2004) da storici. L’intuizione di Braudel è di aver capito che questa posizione, per
essere accettata e mantenuta dalle altre discipline, deve essere giustificata da un programma che dovrà rispondere a tre
obiettivi.
In un primo momento, sarà necessario mostrare non la
superiorità intrinseca della storia, che non è per nulla acquisita, ma la sua capacità proprio nel momento in cui essa è,
senza dubbio, tra le scienze dell’uomo quella meno costituita
scientificamente e quella che non cessa di attingere alle altre
scienze (economia, geografia, scienze politiche, demografia,
ecc.), offrendo in cambio ciò che manca a tutte: un inserimento nel passato delle società che esse studiano essenzialmente nel presente (anche l’antropologia e l’etnologia, il cui
bersaglio principale era, con le società dette «primitive», il
presente come testimonianza ancora viva di un passato e di
una «origine» dell’uomo e, specialmente, dell’uomo che vive
in società). La storia, difende Braudel, è lì, a loro disposizione, per offrire loro le chiavi d’accesso a ciò di cui mancano e
di cui hanno, come ricorda, un bisogno assoluto: senza il suo
aiuto, esse sono condannate al fallimento.
Ma gli sarà inoltre necessario, in un secondo momento,
mostrare che gli storici sono anch’essi interessati alle questioni più nuove che mobilitano le scienze sociali. Le dimensioni inconsapevoli della vita degli uomini e delle società, le
strutture, i modelli e, ancora di più, le matematiche sociali,
statistiche o qualitative: matematiche che, con anticipo sugli storici, gli economisti3, i linguisti e gli antropologi come
Claude Lévi-Strauss hanno incontrato sulla loro strada e di
cui hanno saputo, loro, mobilitare le risorse per «superare il
valico delle scienze esatte» o, in altri termini, per riuscire nel
passaggio dall’osservazione, dalla descrizione e dalla classificazione – sempre necessarie, ma insufficienti in se stesse –
all’elaborazione di regole sufficientemente generali, valide al
limite in tutti i tempi e in tutti i luoghi, in tutte o quasi tutte
le società. La storia, come Braudel ripete loro, ha preso nota
delle loro scoperte e si è messa a sua volta sulla stessa strada.
Essa è pronta a giocare con loro, senza reticenze, il gioco delle matematiche, ma senza per questo rinunciare all’inesauribile complessità delle realtà sociali. Essa non saprebbe, in
effetti (e Braudel ci tiene ad affermare la sua differenza e un
altro livello di ambizione, attraverso l’opposizione tra due
pratiche, una riduttrice, l’altra globalizzante), accontentarsi di un approccio esclusivamente microsociale, il quale, al
proposito di gruppi troppo ristretti di individui, limiterebbe
la sua ambizione a stabilire regole la cui validità sarebbe in
seguito estesa all’insieme.
Riguardo al dialogo che questo articolo, presentato come
un appello alla discussione, vuole stabilire con le altre scienze
sociali, Braudel può quindi presentare tre piste che dovrebbero permettere loro di intendersi: quella delle matematiche,
certamente, ma anche quella dello spazio e quella del tempo.
Da un lato, dunque, la geografia o, se si preferisce, l’ecologia (quarant’anni prima che il termine venisse ripreso da
Peregrine Horden e Nicholas Purcell)4 in nome del principio
della «riduzione necessaria di ogni realtà sociale allo spazio
3 Ciò che non impedisce a Braudel di rimproverare a costoro (p. 736), di restare troppo spesso «prigionieri dell’attualità più corta […], incastrati in questa restrizione tem-
4 P. Horden e N. Purcell, The Corrupting Sea. A Study on Mediterranean History,
Blackwell, Oxford 2000.
porale». Un giudizio di cui Witold Kula si difenderà, mettendo in evidenza tutto ciò che
le due discipline hanno da imparare l’una dall’altra: cfr. W. Kula, Histoire et économie:
la longue durée, «Annales E.S.C.» XV, 2, 1960, pp. 294-313.
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che occupa». Dall’altro, la lunga durata, che non è soltanto,
insiste Braudel, che «una delle possibilità di un linguaggio
comune in vista di un confronto tra le scienze sociali» e che
rappresenta l’apporto proprio della storia; o, piuttosto, di
una storia nuova che avrebbe superato la lusinga dell’attenzione esclusiva sull’avvenimento e sull’individuale. Questa
lunga durata è sempre relativa ad altre, sia più lunghe, sia
al contrario più brevi. Essa si identifica, nella sua estensione
più ampia, con quella delle società e civiltà umane, ma ne
ingloba altre, più brevi, anche se ciascuna di queste durate
riprende su di sé una parte dell’eredità di quelle che l’hanno
preceduta – quelle delle economie, delle religioni o delle culture. Ma essa stessa è inglobata in altre durate, infinitamente più lunghe, che sono iniziate ben prima dell’apparizione
delle prime società e anche dei primi uomini: così quelle
della terra o del clima, con le quali l’uomo ha dovuto venire
a patti per poter elaborare le sue proprie risposte, o ancora
quelle delle specie animali e vegetali, tra le quali ha imparato
a fare le sue scelte, addomesticando e adattandone alcune ai
suoi bisogni, cacciandone al contrario altre fino a eliminarle,
poiché giudicate nocive o pericolose.
Rivolto al presente e al futuro, per il quale Braudel definisce una strategia intellettuale di cooperazione tra discipline in vista della conquista di una posizione dominante nel
campo delle scienze sociali e umane con un centro occupato
dalla storia, un tale programma è anche per lui il punto di
arrivo del suo percorso personale, della maturazione del suo
pensiero e, evidentemente, della sua visione dello spazio e
del tempo, tra Algeria, Francia, Brasile e Germania: questo
percorso l’ha condotto da una ricerca inizialmente centrata
su Filippo II e il Mediterraneo, ovvero su uno studio che
avrebbe potuto essere tradizionale o classico al proposito
della politica estera di una grande potenza dell’epoca in una
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delle direzioni della sua espansione, a un libro il cui personaggio centrale è diventato il Mediterraneo stesso5. Questo
percorso l’ha ugualmente condotto a costruire il suo libro
attorno a tre temporalità differenti, corrispondenti a tre livelli di lettura della realtà sociale e umana. Quella degli avvenimenti, che è quella del vissuto degli uomini, ma anche
quella che essi hanno registrato, almeno in parte, nelle fonti
scritte che ci hanno lasciato. Quella dei movimenti di insieme delle società, dell’economia, della politica, della guerra,
che scandiscono la durata di un lungo Cinquecento. E infine la lunga durata che Braudel intitola, nella Méditerranée,
«l’ambiente» e che organizza intorno alle due discipline che
erano, nel momento in cui scrive il suo libro, le uniche ad
avere messo il tempo al centro delle loro analisi: la geografia
umana e l’etnografia.
Una tappa intermedia di questa riflessione ci è oggi fornita dalla recente pubblicazione, con il titolo di «La storia,
misura del mondo»6, della parte conservata delle note alle
conferenze che Braudel aveva pronunciato durante i suoi
cinque anni di prigionia in Germania, inizialmente nel campo di Mayence (1941-42), poi in quello di Lubecca (194344), note che sono state riscritte da due dei suoi uditori su
un piccolo quaderno con il timbro dei loro Oflag e che sono
state da lui corrette. Questo testo, che si può leggere oggi
come l’abbozzo di un libro che non sarà mai terminato né
pubblicato, ci permette di disporre di un’altra base di lavoro,
precedente al suo libro sul Mediterraneo (discusso come tesi
nel 1947, ma pubblicato soltanto nel 1949) e contempora5 F. Braudel, La Méditerranée et le monde méditerranéen à l’ époque de Philippe II, A.
Colin, Paris 1949.
6 M. Bloch, Réflexions d’un historien sur les fausses nouvelles de la Guerre, «Revue de
Synthèse historique» XXXIII, 1923, pp. 13-35.
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neo di fatto alla sua redazione o, piuttosto, alle sue redazioni successive: non è un caso se una parte importante del
suo svolgimento è dedicata alle forme e ai contenuti di un
dialogo allo stesso tempo possibile e necessario tra le scienze
sociali. D’altronde, come sappiamo, sopravvivere durante
questi cinque anni di campo di prigionia fu per Braudel non
soltanto scrivere e isolarsi dal presente: fu anche guardare
oltre gli avvenimenti che si identificavano con la successione
delle vittorie tedesche, largamente annunciate dalla radio e
dai giornali locali, e proiettarsi nel futuro. L’affermazione
sul tono dello scherzo «è solo un avvenimento», che venne ripetuta a proposito di questi accadimenti e che venne
poi ripresa dai suoi compagni di prigionia, si iscriveva nella
stessa linea della celebre frase di Churchill: «procediamo di
sconfitta in sconfitta verso la vittoria finale».
Resterebbe da esplorare la pista delle sue eventuali fonti
e, più ampiamente, dei suoi precedenti in storia come nelle
altre discipline. Per rimanere in Francia, Marc Bloch, difensore di una storia regressiva che risale dal presente verso il
passato, aveva cercato di mettere in evidenza sia le continuità lunghe (così nel suo articolo sulle notizie false)7, sia
le sedimentazioni successive: tra la Germania e la Francia,
l’area d’estensione dell’open field ignora e, dunque, precede la messa in atto delle frontiere politiche. Lucien Febvre,
da parte sua, aveva posto l’accento sulla pluralità dei tempi
degli uomini, in cui vedeva una vera sfida per gli storici.
Prima ancora di Braudel, il gruppo di saggi che accompagna
Bonaparte in Egitto ci ricorda il ruolo di laboratorio scientifico che aveva svolto il Mediterraneo dalla seconda metà del
XVIII secolo, mobilitando l’attenzione tanto delle scienze
7 M. Bloch, Les caractères originaux de l’ histoire rurale française, A. Colin, Paris,
19522, cap. II.
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della natura (zoologia, botanica, geologia, ecc.) quanto delle
scienze dell’uomo in via di costituzione (storia, geografia,
archeologia, etnografia): ruolo di cui Braudel raccoglierà e
capitalizzerà precisamente l’eredità al fine di riappropriarsene e di riformularla in termini diversi. Di fatto, la concezione della lunga durata ch’egli elabora in occasione della
scrittura di La Méditerranée si distingue molto chiaramente
da tutte le proposizioni alla Toynbee o alla Spengler, che si
riducono ai suoi occhi a forme di lettura sub specie aeternitatis della storia degli uomini e a generalizzazioni disincarnate. La lunga durata non esiste di per sé, ma solo in
riferimento ad altre durate più corte, che Braudel raggruppa,
per comodità e semplicità di esposizione, intorno ai due altri poli principali così come fa per le lunghe durate: quello
dei movimenti d’insieme, che vanno dal decennio al secolo,
e quello degli avvenimenti. La lunga durata definisce non
un tempo immobile, anche se ha potuto essere visto come
tale dagli attori e ripreso in questo modo da alcuni studiosi,
ma un tempo quasi immobile, lento a scorrere. Essa si oppone all’avvenimento soltanto nella misura in cui questo è
identificato correntemente con l’eccezionale, cosa che non
accade che una sola volta. Essa è costituita da piccoli fatti
e da gesti regolarmente ripetuti, senza riflettere, come evidenti. Essa è tessuta di regolarità silenziose: un silenzio che
lo storico ha il ruolo di esplicitare e di far parlare. Tuttavia,
anche se è fatta di regolarità e di ripetizioni che possono
sembrare quasi identiche, essa è al tempo stesso costruzione,
sedimentazione e cambiamento, elementi che, tutti e tre, si
sviluppano in una scala temporale infinitamente più grande (uno o più millenni) di quella del tempo famigliare agli
storici. Da ciò la domanda «il clima cambiò dopo il secolo
XVI?» che Braudel pone alla fine di una lunga enumerazione
di regolarità del clima, così come furono percepite, vissute
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e interiorizzate dagli uomini dell’epoca: essa apre la via alla
scrittura di una vera storia del clima, finalmente liberata da
ogni impressionismo giornalistico.
La stessa distinzione tra tempo immobile e tempo quasi
immobile permette a Braudel di distinguersi da Lévi-Strauss,
pur avendo subito salutato la sua impresa: il «suo tentativo,
in questi ambiti, mi sembra il più intelligente, il più chiaro,
il più radicato anche nella esperienza sociale, da cui tutto
deve partire e dove tutto deve ritornare». Braudel ne vede
le seduzioni, ma anche i pericoli, la minaccia per la storia di
essere rimandata dalla parte dell’avvenimento. Egli ne condivide l’ambizione, che è di «superare la superficie dell’osservazione per raggiungere la zona degli elementi incoscienti o poco coscienti» e di «sprigionarne le leggi di struttura
più generali». Ma ne denuncia i limiti, nelle risposte date.
Questi sono stabiliti a partire «da gruppi ristretti dove ogni
individuo è, per così dire, osservabile», si situano «alla confluenza dell’infinitamente piccolo e dell’assai lunga durata»,
ma non «circolano che su una sola delle innumerevoli vie del
tempo, quella dell’assai lunga durata, al riparo dagli accidenti, dalle congiunture, dalle rotture». Contro la riduzione a
una lettura schematica di una «vita sociale molto omogenea»
che permette di «definire a colpo sicuro le relazioni umane
semplici e concrete, poco variabili», egli rivendica per la storia, all’estremo opposto, l’infinita complessità del sociale, la
molteplicità delle innumerevoli vie del tempo. Alla riduzione del reale «in elementi minimi, in sottili tocchi, identici,
di cui si possano analizzare precisamente i rapporti» al fine
di sprigionarne queste «leggi di struttura più generale», egli
oppone, dalla parte della storia, un procedere più sperimentale, fatto di passaggi continui tra realtà osservate e uso dei
modelli. I modelli, sempre provvisori, sempre semplificati,
devono ugualmente essere sempre sottoposti alla prova della
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realtà, come navi che si varassero dopo essere state costruite
e di cui, per seguire la metafora che egli ama, si osservassero i movimenti fino all’affondamento. La razionalizzazione,
l’uso dei modelli sono sempre per lo storico approssimazioni
il cui merito è di rilanciare l’analisi: la lunga durata sarà dunque sempre una spiegazione tra le altre. Lo stesso avviene per
l’economia-mondo nel terzo volume di Civilisation matérielle, Economie et Capitalisme, intitolato Le Temps du Monde
(1979): essa non è che «un ordine di fronte ad altri ordini».
Questo modello, una volta varato, ha seguito il suo corso, di cui è necessario ora cercare di rintracciare le tappe, i
cambiamenti di rotta, gli incidenti di percorso, le soste. Era,
senza dubbio, inevitabile che tale corso sfuggisse in parte al
suo costruttore e ideatore, e che altri cercassero di utilizzarlo
per conto proprio e di prenderne il controllo, modificando,
come avviene spesso per le navi, il nome, i porti d’immatricolazione e gli attracchi. Se Fernand Braudel non ne ha mai
rivendicato né il commando né la proprietà esclusiva, non
ha neppure mai smesso di utilizzarlo nelle differenti tappe
del suo percorso.
Percorso istituzionale, anzitutto: ossia gli orientamenti
dati alla sesta sezione per il reclutamento dei giovani ricercatori, storici, antropologi, economisti, psicologi sociali,
demografi, geografi, i quali nella maggior parte, ognuno a
modo suo e in tutta libertà, hanno adattato al proprio uso la
nozione stessa di lunga durata, come d’altronde Braudel aveva suggerito loro di fare, riconoscendo che ogni realtà sociale
osservata rinvia alla sua propria definizione e delimitazione
della lunga durata, valida per sé e soltanto per sé.
Percorso intellettuale, poi. Questo condurrà Braudel a
declinare gli usi della lunga durata in funzione di quattro
argomenti principali, al di fuori dello stesso Mediterraneo,
di cui Les mémoires de la Méditerranée, un libro redatto nel
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1968/69 ma pubblicato soltanto trent’anni dopo8, gli serviranno per ripercorrere la traiettoria storica, prima della
Grecia e di Roma.
Il primo di questi argomenti toccherà le civiltà nel suo
manuale sul tempo presente, ristampato sotto il nome di
«grammatica delle civiltà»9: egli ne offre la definizione più
ampia possibile (civiltà sono al contempo spazi, società,
economie, mentalità collettive, così come continuità), ma
riafferma con forza che queste possono essere comprese e
analizzate nel presente a condizione di afferrarle nella loro
più lunga durata. Una durata più lunga degli elementi con
i quali l’osservatore contemporaneo tende a volte a identificarle: così le religioni, di cui scrive, con un senso sicuro
dell’anticipazione, che esse sono tra le ultime arrivate, che si
sono appropriate di civiltà già stabilite, solidamente impiantate, e che le avevano precedute10.
Il secondo di questi argomenti, già presentato nell’articolo del 1958 (p. 51), sarà al centro delle spiegazioni di Civilisation matérielle11: le «prigioni di lunga durata» che hanno
rappresentato per le principali civiltà le loro scelte tecniche
fondamentali tra cui, soprattutto, quella delle piante di cui
hanno fatto la base della loro alimentazione – il grano, il riso
8 F. Braudel, Les mémoires de la Méditerranée: préhistoire et antiquité, de Fallois,
Paris 1998.
9 Si devono accostare a questo tema le due affermazioni a p. 54 («la religione è il tratto
più forte, al centro delle civiltà, al tempo stesso il loro passato e il loro presente») e a p.
73 (Cristianità e Islam: «queste nuove religioni hanno ognuna afferrato il corpo delle
civilizzazioni già esistenti. Ogni volta, esse ne furono l’anima; sin dalla partenza, ebbero il vantaggio di prendere in carico una ricca eredità, un passato, tutto un presente,
già un avvenire»).
10 F. Braudel, Civilisation matérielle et capitalisme, A. Colin, Paris 1967, che, nella
versione finale in tre volumi dell’opera, Civilisation matérielle, économie et capitalisme
XVe-XVIIIe siècle, riceverà un nuovo titolo: Les structures du quotidien.
11 Id., L’ identité de la France, 3 voll., Arthaud-Flammarion, Paris 1986-1990.
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(con il passaggio ulteriore all’irrigazione), il mais, il miglio,
i tuberi. Queste scelte orientano, condizionano e limitano
ogni volta le decisioni ulteriori delle società che le hanno
fatte.
Il terzo argomento sarà quello del capitalismo tra i secoli XV e XVIII, a cui egli dedica il terzo volume della sua
trilogia pubblicata nel 1979, Le temps du monde: si tratta ai
suoi occhi di una costruzione originale, che, dunque, deve
essere studiata di per se stessa, inseparabile dal capitalismo
industriale che l’ha seguita e che essa prefigura, e, al tempo
stesso, comparabile con altri capitalismi che hanno dominato periodi più o meno lunghi della storia di altre civiltà,
quelle fenicie, greche e romane dell’antichità, o quella della
Cina. Per il caso cinese, di una importanza centrale per ogni
comparazione con l’Europa moderna, è necessario analizzare il capitalismo sia all’interno, messo sotto la sorveglianza
del potere politico, sia all’esterno, in tutto il sudest asiatico,
dove trova ben presto le libertà che gli mancavano.
Il quarto argomento, infine, sarà quello de L’identité de
la France12, al cui interno si dedica a dimostrare che essa è
intrecciata sia di continuità, di scelte molto antiche, sia di
rotture, di permanenze e di costruzioni progressive, di unità
e di diversità; e anche che essa porta il marchio dello Stato,
che è stato nel corso dei secoli uno degli attori principali, ma
non l’unico, della sua costruzione e che a tal titolo è tutto
tranne che eterna.
Ma questi usi personali e diversi, anche da parte di Braudel, del tema della lunga durata al fine di costruire dimostrazioni storiche ogni volta ugualmente diverse non devono
farci dimenticare che altri sono saliti sulla nave, ne hanno
preso possesso e hanno adattato il tema ai propri bisogni,
12 F. Braudel, La Méditerranée…, 19662, I, p. 520.
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senza riconoscere sempre – ma poco importa – i loro debiti.
Mi accontento di segnalare qui gli episodi principali, che
hanno accompagnato le successive mutazioni della ricerca
storica.
Il primo s’identifica con il rovesciamento delle alleanze
disciplinari che si svolge alla fine degli anni ’60: la storia
prende volens nolens le sue distanze dall’economia – la quale
d’altro canto si allontana da questa – e costruisce con l’antropologia una nuova collaborazione, di cui trarrà un triplo arricchimento. Inizialmente e in primo luogo, l’allargamento dei suoi campi di studio a un insieme di questioni
che essa aveva fin ad ora ignorato o trascurato, in quanto
le considerava al di fuori della propria portata. Queste divengono in alcuni anni parte integrante del «territorio dello
storico» caro a Emmanuel Le Roy Ladurie: la parentela e
l’alleanza, certamente, ma anche i miti e le credenze, le relazioni interpersonali e le pratiche sociali, le tecniche nel senso
più ampio del termine, il corpo, le rappresentazioni di sé e
dell’altro, quelle della vita, della morte e del tempo, i rapporti di sesso e di genere, ecc. In seguito, l’appropriazione
di un vocabolario concettuale, utilizzato in partenza con la
passione del neofita e dominato progressivamente, e delle
problematiche corrispondenti. Infine, terzo allargamento,
quello – spettacolare – del campo delle fonti utilizzate e la
trasformazione del modo di leggerle e di interpretarle: si passa così, in particolare, dai testi agli oggetti, con l’abolizione
della frontiera che aveva potuto separarli, e da una lettura
di questi documenti che si voleva esclusivamente critica e
oggettiva a una ricerca sistematica del legame stretto tra le
fonti e quegli autori, che le hanno prodotte e che le hanno,
consapevolmente o meno, esplicitamente o meno, caricate
di un senso che dobbiamo oggi ritrovare.
Anche se il riferimento alla lunga durata braudeliana
La lunga durata oggi: bilancio di un mezzo secolo (1958-2008)
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non compare sempre, essa resta al centro della pratica stessa
dei più esigenti tra quegli storici che esplorano le vie aperte
dall’antropologia e che cercano di creare la moda invece di
accontentarsi di seguirla. L’impresa si situa di fatto in una
doppia continuità. Da un lato, quella della linea fissata da
Lucien Febvre nel 1932, nella sua lezione inaugurale al Collège de France: «i testi, sì, ma tutti i testi» – e non una semplice selezione soggettiva fatta tra essi dallo storico – «i testi
sì, ma non soltanto i testi» – e quindi anche le altre impronte, oggetti e segni che ci hanno lasciato, volontariamente e
consapevolmente o meno, le generazioni e le società che ci
hanno preceduto, che riscopriamo o arriviamo a ricostituire e che impariamo a leggere. Dall’altro, quella della storia
incosciente, della storia delle forme incoscienti del sociale,
che Braudel aveva privilegiato nel suo articolo, prendendo
in prestito una citazione che Lévi-Strauss nella Anthropologie structurale aveva preso in prestito da Marx: «gli uomini
fanno la storia, ma ignorano di farla », per poi affrettarsi ad
aggiungere che questa storia che dipende «dal tempo strutturale […] è spesso più chiaramente percepita di quanto non
lo si voglia dire».
Se costoro hanno dunque ampiamente vinto, gli storici
sono riusciti a imporre agli antropologi la loro concezione
del tempo, reintegrando gli ambiti studiati dai loro collaboratori sia nella lunga durata di una temporalità lenta ma
certamente non immobile, sia in un contesto sociale dove
gli uomini imparano presto a manipolare le regole al posto
di accontentarsi di applicarle o di subirle. Ciò che Pierre
Bourdieu ricorderà dicendo che il compito del sociologo è di
spiegare ed esplicitare le regole e le eccezioni che sono rivolte
loro, senza, tuttavia, rimetterle definitivamente in causa. E
ciò che farà dire a Braudel di avere un punto in comune con
il pensiero di Bourdieu: tutti e due consideravano che ogni
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Maurice Aymard
società dedica dall’85 al 90% delle sue energie a riprodursi.
Questo 10-15% fa la differenza rispetto a una visione deterministica della storia, nella quale i lettori affrettati hanno
speso cercato di rinchiudere Braudel: la lunga durata lascia
posto alle iniziative dell’individuo, essa si accontenta di limitarne la portata racchiudendolo «in un destino che costruisce con difficoltà, in un paesaggio che disegna dietro di lui
e davanti a lui le prospettive infinite della lunga durata»13.
Sostenuta da questa alleanza che domina le trasformazioni della disciplina storica a partire dalla fine degli anni
’60, la storia si rinnova profondamente dall’interno. Da una
parte, le problematiche elaborate per il periodo compreso tra
il XIII e il XVIII secolo realizzano una espansione indiscutibile tanto verso il basso che verso l’alto, toccando sia la storia
dei secoli XIX e XX attraverso la social history anglosassone,
sia quella dell’alto medioevo e dell’antichità. Dall’altra, tali
problematiche escono dai limiti dell’Europa per toccare altre
aree geografiche e culturali, dal Messico e dalle Ande al sudest dell’Asia, in riferimento al quale Bernard Lepetit ha giustamente proposto di vedere nel libro di Denys Lombard, Le
Carrefour javanais14, l’ultimo grande libro braudeliano, dal
momento che risale dal passato più vicino verso il più lontano, come gli suggeriva Marc Bloch, analizzando, come un
archeologo, gli strati successivi accumulati nel corso del tempo in modo da riconciliare continuità e rotture. Su un altro
piano, la storia delle mentalità, così come essa si definisce a
partire dall’inizio degli anni ’70, rompe in apparenza con
13 D. Lombard, Le Carrefour javanais, 3 voll., EHESS, Paris 1990.
14 Cfr. D. Albera, A. Blok e C. Bromberger (a cura di), L’anthropologie de la Méditerranée. Anthropology of the Mediterranean, Maisonneuve & Larose, Maison Méditerranéenne des Sciences de l’Homme, Paris 2001; D. Albera e M. Tozy (a cura di), La
Méditerranée des anthropologues, Maisonneuve & Larose, Maison Méditerranéeenne des
Sciences de l’Homme, Paris 2005.
La lunga durata oggi: bilancio di un mezzo secolo (1958-2008)
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le problematiche d’ispirazione braudeliana, che avevano per
lungo tempo privilegiato l’economia e i determinismi della
vita materiale, e sposta la sua attenzione in altre direzioni.
Ma essa non soltanto riprende, da parte sua, il concetto stesso di lunga durata, bensì afferma di costituirne il campo di
applicazione privilegiato, sostenendo che sono le mentalità
ad evolversi più lentamente, a faticare a interiorizzare il cambiamento, a essere sempre in ritardo sul reale e sul presente
e a offrire, dunque, la chiave di una più lunga durata, che è
quella, al contempo ereditata e senza sosta riattualizzata, dei
modi di pensare, di decidere e di vivere degli uomini.
Altre piste potrebbero essere seguite per mostrare, ad
esempio, come le due concezioni della lunga durata, quella
degli antropologi e quella degli storici, hanno potuto coesistere e interagire: è sufficiente pensare su questo punto
all’opposizione tra il Mediterraneo degli storici e quello degli
antropologi15. Una decina di anni dopo il libro di Braudel,
che orienterà per vari decenni la maggior parte delle ricerche
degli storici, i programmi del «Mediterraneo degli antropologi» sono definiti, a partire dalla fine degli anni ’50, intorno
allo studio dell’Europa del sud, vista e analizzata come incarnazione dell’ «altra Europa», testimone del «passato che
abbiamo perduto» o che stiamo per perdere, e non più di
quella della prima modernità di una Europa in espansione.
Ma numerosi partecipanti a questa nuova impresa tendono
a dimenticarsi allo stesso tempo che questi modi di pensare
e di vivere e questa organizzazione culturale del sociale sono
per lo più costruzioni recenti, di cui la storia può precisamente ricostituire le tappe della creazione, sul doppio fondo
della continuità di comportamenti attestati per il passato e
15 J.V. Murra e N. Wachtel (a cura di), Anthropologie historique des sociétés andines,
numero speciale delle «Annales E.S.C.» XXXIII, 5-6, 1978.
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della scissione che si è creata tra l’Europa del Nord e del
Nordovest e l’Europa del sud o del sudest – avendo la prima svolto un ruolo attivo e anche decisivo nella costruzione
dell’immagine della seconda.
Per l’America precolombiana, poi coloniale, «l’etnostoria» di John Murra, introdotta in Europa soprattutto da
Ruggiero Romano, poi da Nathan Wachtel (che ha diretto
con lo stesso John Murra il numero speciale delle «Annales»
intitolato «Anthropologie historique des sociétés andines»)16,
costituirebbe un altro esempio di sintesi, questa volta infinitamente più convincente e meglio compiuto, degli apporti
dell’etnologia e della storia. A un livello più profondo, ci
si può tuttavia domandare se la riconversione, innescata a
partire dalla metà degli anni ’70, di numerosi antropologi, soprattutto africanisti, verso terreni europei, non abbia
contribuito a modificare in modo ancora più significativo le
condizioni stesse del dialogo, creando campi nuovi di cooperazione e di mutua fecondazione tra antropologia e storia.
Basta pensare all’impatto dei lavori di un Jack Goody sulla
storia lunga dell’alfabetizzazione e della famiglia: gli storici
vi hanno trovato la chiave delle inflessioni fondamentali che
potevano servire loro per identificare le rotture che ritagliano la lunga durata in sequenze successive e i divari cronologici tra regioni e ambienti sociali differenti. «Lenta a scorrere
e a trasformarsi», la lunga durata non scorre dappertutto allo
stesso ritmo e non prende sempre le stesse strade.
A che punto siamo oggi? Il riferimento alla lunga durata
è ormai dietro di noi, accettata come una evidenza, menzionata come un riferimento obbligato, ma priva di ogni
16 P. David, Clio and the Economics of QWERTY, «American Economic Review. Papers and Proceedings» LXXV, 1985, pp. 332-337; Understanding the Economics of QWERTY: the Necessity of History, in Economic History and the Modern Economist, a cura di
W.N. Parker, Blackwell, London 1986, pp. 30-49.
La lunga durata oggi: bilancio di un mezzo secolo (1958-2008)
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efficacia reale, almeno per una storia sempre più attratta, in
Europa occidentale, dal presente e preoccupata dalla esplicitazione delle sue procedure narrative? Lascerei da parte
tutti i falsi problemi, imputabili essenzialmente a una lettura superficiale dei testi di Braudel, tuttavia molto sfumati a
questo proposito. Basterà ricordare una volta per tutte che la
lunga durata non si definisce o, in ogni caso, non si definisce
soltanto su un numero di secoli o di millenni, ma sulla durata della vita dell’oggetto storico studiato, che fissa caso per
caso la scala temporale – e spesso anche spaziale – di analisi.
E che essa non è nemmeno il passato, ma ciò che nel passato «spiega il presente» e, dunque, in particolare la presenza
del passato nel presente, mantenuta viva e attiva dalle decisioni, i gesti, i modi di vivere, di pensare e di reagire degli
individui concreti. Cercando le tracce della lunga durata nel
XVI secolo, Braudel non aveva proceduto diversamente: il
suo schedario, la cui digitalizzazione è appena iniziata nel
quadro di un programma sulla genesi dei testi letterari, è
una sequenza di annotazioni di piccoli fatti ripetuti, di osservazioni dell’epoca. Egli se ne servirà per ricostituire delle
regolarità, di cui la traccia si è mantenuta viva fino ai nostri
giorni, ma le cui origini si situano spesso molto a monte.
La lunga durata è di fatto tessuta di avvenimenti minori e
singolari. Questa pratica non ha nulla di impressionista:
essa spiega e giustifica la formula «dieci volte per una», così
spesso ripresa da lui. Essa gli permette una doppia messa
al presente del Mediterraneo: al presente di oggi, per noi
suoi lettori, in rapporto al lungo XVI secolo di cui ci parla
e nel quale ci vuol far entrare, ma anche al presente del XVI
secolo, in rapporto ai suoi multeplici passati che si spingono molto indietro e i cui attori dell’epoca hanno avuto una
coscienza più o meno chiara.
La questione centrale mi sembra di fatto un’altra. Ri-
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guarda meno la lunga durata di per se stessa che i suoi meccanismi di funzionamento, che sono quelli della ripetizione
da parte degli individui, ma anche dei gruppi e delle istituzioni, dei gesti, dei comportamenti, dei modi di pensare
e delle decisioni che tendono a non scostarsi molto dalla
regola e dunque a confermarla, a costo di interpretarla e a
piegarla marginalmente.
Il doppio riferimento di Fernand Braudel alla geografia e
alla etnologia l’ha condotto a porre l’accento, nella Méditerranée, da una parte sulle scelte effettuate nel corso dei millenni dalle società che hanno costruito e umanizzato lo spazio mediterraneo e che funzionano in seguito come tante costrizioni o predeterminazioni sulle decisioni di quelle società
che sono venute dopo; e, dall’altra, sulle tradizioni trasmesse
di generazione in generazione dagli attori stessi, nel quadro
in particolare della famiglia. March Bloch, per spiegare la
trasmissione della tradizione nelle società rurali, aveva già
sottolineato che l’educazione dei bambini era spesso presa
in carico dai nonni che ne assicuravano la custodia mentre
i genitori lavoravano nei campi. Braudel, da parte sua, aveva messo l’ultimo capitolo della sua prima parte, «L’unità
umana», sotto il segno delle strade e delle città e, cioè, della
sistemazione durevole dello spazio concepito come spazio di
circolazione e di scambi.
La prima pista, quella delle costrizioni, abbozzata sin
dall’articolo del 1958, era stata formalizzata ulteriormente
da lui, come abbiamo ricordato, sin dal 1967 (nella Civilisation matérielle) sotto il nome di «prigioni di lunga durata».
Queste si identificano con le scelte, effettuate dalle società in
un momento spesso molto antico del loro passato, dei cereali ai quali ricorreranno per assicurare la parte maggioritaria
della loro alimentazione: scelte tecniche, economiche, culturali e sociali allo stesso tempo, che si riveleranno costrittive e
La lunga durata oggi: bilancio di un mezzo secolo (1958-2008)
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irreversibili e che fissano per le società il campo dei possibili.
Questa stessa pista è stata ripresa alla metà degli anni
’80 dagli economisti, con l’articolo di Paul David sulla tastiera della macchina da scrivere, sotto il nome di dipendenza temporale («dépendence temporelle» o «dépendence à la
trajectoire»). L’espressione serve loro per designare le scelte
tecniche, ma anche istituzionali o sociali, di cui si propongono di spiegare la durata, nonostante la loro irrazionalità in
certi casi intrinseca e secondo la razionalità dei costi di transazione, i quali scoraggiano a fare gli investimenti necessari
per una loro rimessa in questione: la spiegazione è allettante, ma nessuna verifica sperimentale è stata fatta, né alcuna
contabilizzazione precisa, anche se sarebbe stato semplice
farlo. Così, ad esempio, a proposito della Svezia, quando è
passata alla guida a destra, o della Gran Bretagna, quando al
riguardo della sua moneta ha rinunciato al vecchio sistema
carolingio «livre-sou-denier» e ha adottato il sistema decimale. Questi due casi avrebbero tuttavia permesso di valutare
in modo assai preciso i «costi di transazione», così spesso invocati come spiegazione ultima, ma così raramente calcolati.
Gli storici dell’alimentazione hanno al contrario ben
studiato come gli Europei siano riusciti nel XX secolo, alla
fine di una serie di cambiamenti e di progressi agronomici
e commerciali, che iniziano a partire dalla metà del XVIII
secolo a fare evolvere i vincoli di un regime alimentare, dove
il grano doveva assicurare la maggior parte delle calorie e
delle proteine, e a passare progressivamente a un regime
dove la maggior parte delle proteine è assicurata dalla carne e dai prodotti del latte e la maggior parte delle calorie
dai grassi e dagli zuccheri rapidi. Essi, inoltre, seguono da
vicino le trasformazioni in corso dell’alimentazione dei paesi industrializzati e urbanizzati con la forte riduzione degli
apporti calorici consigliati (le 1.800 e 2.000 calorie quoti-
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Maurice Aymard
diane, che rappresentavano mezzo secolo fa la frontiera della
sottoalimentazione, sono oggi proposte come un optimum
per le nostre popolazioni di adulti sedentari, sgravati da ogni
sforzo fisico nei loro lavori), la diminuzione dei grassi, degli
zuccheri e delle proteine animali, i progressi degli ortaggi e
della frutta, il privilegio dato alle vitamine, agli elementi minerali o a questi nuovi ritrovati dai poteri un po’ misteriosi
(ma il cui impatto pubblicitario è tanto più forte) che sono
gli omega 3, 5 e altri…
Le due prime piste (quella delle costrizioni e quella della
tradizione) si trovano riunite in Braudel alla base della sua
definizione del concetto di «civiltà». Tutte le civiltà s’iscrivono ai suoi occhi in uno spazio e in una durata infinitamente
più lunga di quella della politica o anche della religione. Ma
egli si preoccupa di precisare che queste si definiscono sia per
ciò che danno alle altre, sia per ciò che prendono in prestito
(onde un margine d’innovazione al centro stesso della lunga
durata), ma anche per ciò che esse rifiutano, affermando la
loro distanza e la loro differenza. Questa prudenza, giustificata dall’esperienza del passato, è stata spesso dimenticata,
nei dibattiti posteriori all’11 settembre, da tutti i discepoli
di Huntington attratti dall’idea di una guerra inevitabile tra
civiltà concepite come tanti insiemi fossilizzati e incapaci di
comunicare l’uno con l’altro e, per di più, identificati soprattutto con la sola dimensione religiosa.
La seconda pista, quella della tradizione, si è ritrovata
più recentemente sottoposta a una duplice critica. La prima,
quella di Eric Hobsbawm e di Terence Ranger sull’invenzione della tradizione17, oppone i meccanismi della costruzione
«attiva» della tradizione alla visione troppo semplice di una
17 E.J. Hobsbawm e T. Ranger (a cura di), The Invention of Tradition, Cambridge
University Press, Cambridge 1983.
La lunga durata oggi: bilancio di un mezzo secolo (1958-2008)
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pura trasmissione passiva; essa fa, inoltre, di queste tradizioni costruite oggetti di storia, databili nel tempo, collocabili nello spazio, attribuibili ad attori sociali e istituzionali
identificabili, reinterpretati più o meno liberamente dalle
generazioni successive in funzione dei bisogni del momento:
cosa che porta a farle passare dallo statuto di «descrizioni oggettive», che gli specialisti delle «tradizioni popolari» si erano
dati l’obiettivo di registrare per proteggerle dall’oblio e per
capire dall’interno le società che le vivevano al presente, allo
statuto di «rappresentazioni» che devono trovare il loro posto in una storia sociale della cultura e in una storia culturale
della società. La seconda critica si trova sullo sfondo delle
posizioni degli antropologi che, sull’esempio di Marshall
Sahlins, suggeriscono di sostituire alla formula «quanto più
cambia, più è lo stesso» (il tempo immobile) la formulazione
inversa, «quanto più è lo stesso, più cambia», che ci avvicina
al tempo quasi immobile, lento a scorrere, ma che comprende sempre una parte di cambiamento, che aveva proposto
Fernand Braudel. Ma questa aggiunge il fatto che l’innovazione, per forzare le porte del conservatorismo delle società,
ha bisogno di nascondersi dietro il rispetto della tradizione.
Il modo in cui il passato contribuisce a modellare il presente costituisce dunque una questione più che mai attuale
e viva nel campo delle scienze sociali. Una questione la cui
risposta deve essere cercata sia nel passato – i «messaggi» che
esso ci ha trasmesso, le strade che ci ha preparato, ma anche
ciò che abbiamo imparato a conoscere di questo, che abbiamo cercato di sapere e scelto di ricordare, poiché la memoria
è tessuta di dimenticanze e di riscoperte –, sia nel presente
– il modo in cui le società, in modo consapevole o meno,
esplicito o meno, reinterpretano questo passato e lo «mettono al presente» e i meccanismi della sua incorporazione, della sua accettazione e della sua appropriazione, generazione
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Maurice Aymard
dopo generazione, che Bourdieu aveva messo al centro delle
sue analisi sull’habitus e che dettano le astuzie che permettono ogni volta al «mort de saisir le vif». Anche se l’interesse
degli studiosi si è spostato dalle costrizioni materiali verso i
modelli culturali, l’ambizione resta la stessa.
Ma questa questione, che riguarda il funzionamento
stesso della lunga durata, non deve far dimenticare altri usi
diversi da questo: inizialmente, quello che consiste, per studiare un oggetto storico qualunque, nello scegliere di considerarlo nella totalità della sua durata più lunga, al fine di
segnalarne i limiti e reperirne le principali rotture o inflessioni, mettere in evidenza una periodizzazione e scegliere in
seguito, ma giustificandoli, il momento e il luogo sui quali
concentrare l’osservazione e l’analisi. La storia del libro sarà
dunque, per fare soltanto un esempio, una storia di cinque
secoli e mezzo, se la si collega a quella della stampa e se si
ammette che la digitalizzazione, senza costituire un termine,
rappresenta una flessione fondamentale, nella misura in cui
rimette in causa tanto più efficacemente il monopolio del
libro come forma di riferimento della comunicazione e della
circolazione del testo scritto, in quanto essa ormai controlla,
all’origine, la composizione stessa del testo, fino alla camera
ready copy. Ma la storia del libro sarà anche una storia di un
millennio o più, se si identifica la sua nascita con quella del
passaggio dal volumen al codex, che modifica profondamente
i modi di presentazione e più ancora di lettura del testo.
Ed essa sarà una storia più lunga ancora, dell’ordine di tre
millenni o più, se la si identifica con quella degli stessi testi letterari, della loro fissazione, della loro trasmissione per
iscritto, della loro «pubblicazione», della loro conservazione
nelle biblioteche pubbliche o private: tale sarà anche il tempo delle religioni del libro. E questa suddivisione in durate
di lunghezza diversa potrà essere ancora affinata e resa più
La lunga durata oggi: bilancio di un mezzo secolo (1958-2008)
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complessa se si allarga la storia del libro a quella, ugualmente
ricca di insegnamenti, della lettura. La lunga durata non è
unica, ma plurima, secondo l’oggetto studiato e secondo le
questioni poste a proposito di questo oggetto.
Tutti questi usi e queste rappresentazioni della lunga durata come ripetizione non in modo identico, ma quasi identico, fanno oggi parte del bagaglio comune di tutte le scienze sociali, storia compresa. Le critiche formulate nel 1951
da Bernard Baylin o nel 1968 da Stuart Hughes18, i quali
denunciavano entrambi l’assenza di qualsiasi legame tra le
tre temporalità della Méditerranée, sono oggi citate soltanto
come testimonianze dell’effetto sorpresa provocato all’epoca dal libro e come testimonianze dell’incomprensione che
ne è seguita da parte di alcuni, non a loro agio di fronte a
questa rimessa in causa delle loro certezze e delle loro abitudini. Come Anthony Molho ha giustamente notato, ciò che
questi storici rifiutavano, attaccati alla sola rappresentazione
lineare di un tempo che scorre allo stesso ritmo, era precisamente questa pluralità di tempi, che Braudel cercava di
distinguere soltanto per mettere in evidenza le sue molteplici
interazioni19. Ma dobbiamo anche considerare tutto ciò che
è cambiato nel corso di questi ultimi cinquant’anni, sia nel
contenuto e nei metodi delle scienze sociali, sia nella relazione che intrattengono o che cercano di intrattenere con le
scienze esatte: i termini stessi in cui Braudel nel 1958 aveva
potuto formulare queste due questioni, che costituiscono il
cuore del suo articolo, sono stati sensibilmente spostati. E il
compito che ci incombe è di tenerne conto per aggiornare le
18 B. Baylin, Braudel’s Geohistory – A Reconsideration, «Journal of Economic History» XI, 3-1, 1951, pp. 277-282; H. Stuart Hughes, The Obstructed Path. French
Social Thought in the Years of Desperation, 1930-1960, Harper & Row, New York 1967.
19 A. Molho, Like Ships Passing in the Dark. Reflections on the Reception of La Méditeranée in the U.S., «Review» XXIV, I, 2001, pp. 139-162; 155-157.
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Maurice Aymard
risposte che potremmo oggi offrirle.
Le scienze sociali, storia inclusa, hanno vissuto da parte
loro due trasformazioni fondamentali, in apparenza contraddittorie ma, di fatto, complementari.
La prima è stata quella dell’allargamento verso l’alto del
tempo storico. La storia non inizia più a Sumer. La rivoluzione scientifica dell’archeologia è in effetti venuta ad abolire la
frontiera dell’invenzione della scrittura, che serviva a distinguere la storia dalla preistoria, e quella, spesso associata alla
precedente, dell’opposizione tra «società fredde» e «società
calde»: essa ha riavvicinato gli antropologi, gli archeologi e
gli storici, che lavorano sia sull’Europa che sulle altre grandi
aree geografiche e culturali del mondo. E ha mobilitato numerose tecniche di analisi, di misura, di uso di modelli e di
digitalizzazione, prendendole in prestito dalle scienze esatte.
La comparazione tra Mémoires de la Méditerranée di Fernand
Braudel (redatte nel 1968/69) e La mer partagée di Jean Guilaine (1994)20 permette di misurare il percorso compiuto in
una ventina d’anni e chiarisce una prospettiva in cui s’iscrive
chiaramente la Storia notturna di Carlo Ginzburg21. Da questo punto di vista, la «rivoluzione neolitica» avviata a partire
da 12.000 anni prima della nostra era in differenti regioni
del nostro pianeta (il Vicino Oriente, il Messico e le Ande,
la Cina, la Nuova Guinea) fissa oggi l’unità di analisi comune agli storici, agli archeologi e agli antropologi. Ma dal
momento che nessuna rivoluzione fa mai totalmente tabula
rasa di quello che l’ha preceduta, essa pone il problema delle
continuità più o meno sotterranee con le tappe precedenti
del dominio delle risorse della natura e che erano alla base
20 J. Guilaine, La mer partagée: la Méditerranée avant l’ écriture, 7000-2000 av. J.-C.,
Hachette, Paris 1994.
21 C. Ginzburg, Storia notturna. Una decifrazione del sabba, Einaudi, Torino 1989.
La lunga durata oggi: bilancio di un mezzo secolo (1958-2008)
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dell’organizzazione delle società di quei cacciatori-raccoglitori che non sono scomparsi da un giorno all’altro22.
La seconda è stata quella del posto riconosciuto agli attori individuali e ai rapporti che questi intrecciano tra loro
nelle decisioni prese nel quotidiano e che lo studioso legge retrospettivamente come dettate dalla necessità, mentre
sono state vissute da loro come delle scelte più o meno consapevoli e razionali tra differenti soluzioni possibili.
Questa doppia trasformazione spiega la situazione attuale delle scienze sociali, dove due posizioni principali tendono
ad opporsi. Da un lato, troviamo in effetti tutti coloro che
mettono al centro delle loro analisi e delle loro spiegazioni
i meccanismi (educazione e apprendimenti diversi, rappresentazioni sociali, costrizioni accettate e anche rivendicate,
ecc.) che conducono gli individui a fare volontariamente «la
scelta del necessario» e di riprendere, da parte loro, l’eredità
del passato. D’altra parte, troviamo in cambio tutti coloro
che, diffidenti di ogni forma di determinismo (che facciano
o meno appello all’individualismo metodologico), privilegiano la razionalità delle decisioni degli attori e si accontentano di spiegarne i limiti con quelli dell’informazione di cui
dispongono al momento in cui le prendono.
Uno dei modi per superare queste opposizioni sarebbe
senza dubbio di seguire le piste che le scienze esatte hanno
definito e tracciato per i propri bisogni e che, tranne qualche
eccezione, hanno trovato, ancora oggi, soltanto una eco limitata nelle scienze sociali: queste meriterebbero oggi di essere
sistematicamente esplorate. Così, ad esempio, quelle che ci
hanno offerto, nel corso degli ultimi decenni, le analisi della
22 Cfr. Nouveaux regards sur la revolution néolithique, entretien avec Jean-Paul Demoule et Jean Guilaine, «Le Monde» 28-29 settembre 2008.
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Maurice Aymard
disseminazione, della biforcazione e del caos, della complessità o ancora l’analisi stocastica. Esse aprono in effetti la via
ad altre letture e ad altre interpretazioni della lunga durata,
che hanno in comune il fatto d’introdurre l’idea stessa di
rottura e di cambiamento e di orientare le scienze sociali allo
stesso tempo verso rappresentazioni non lineari del tempo e
verso analisi delle società in termini di sistemi dinamici. Le
prospettive che esse ci propongono sono, in più di un punto,
radicalmente diverse da quelle che hanno guidato la concezione e la redazione dell’articolo del 1958. Ma esse hanno il
merito di offrirci altre soluzioni possibili alle questioni che
poneva questo articolo e alle quali Braudel ha proposto una
prima serie di risposte, di cui noi percepiamo meglio oggi i
limiti inevitabili, nonostante la loro fecondità e il loro impatto sulla ricerca ulteriore. Tuttavia, una cosa è sicura: nella
misura in cui queste prospettive invitano a rimettere in causa le certezze che egli condivideva all’epoca con gli specialisti
e che sono ancora quelle di molti tra di noi, sicuramente esse
avrebbero affascinato Fernand Braudel.
Maurice Aymard
La madre della verita’
«La storia vera è quella segreta»
(Ronald Syme, 1959)