Il Protagonista Libertino - Fondazione per la Sussidiarietà

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Il Protagonista Libertino - Fondazione per la Sussidiarietà
Il Protagonista
Libertino
di Giampaolo Pansa*
L’inizio di un lungo cammino
*Giampaolo Pansa è
giornalista e
scrittore, titolare
della rubrica
Il Bestiario su
“L’espresso”.
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Quando ho cominciato a fare il giornalista, alla fine del 1960, non esistevano protagonisti nel nostro mestiere. Protagonisti erano gli attori di un film o i personaggi di un
romanzo. Alla “Stampa” di Torino, il mio primo giornale, trovai soltanto dei capi di grande
esperienza e molto esigenti, che noi giovani praticanti guardavamo con un’ammirazione
mista a un po’ di tremore.
Il capo dei capi era il direttore, Giulio De Benedetti: un signore di Asti, già settantenne e in carriera da molti anni, che i redattori temevano come si temono i dittatori dal
potere assoluto. Ogni volta che “Gidibì” entrava nel salone della redazione, tutti ci alzavamo in piedi e riprendevamo a lavorare soltanto dopo che lui aveva ordinato: «Signori, seduti!». Quando scrissi il primo articolo, una recensione al Giorno più lungo di Cornelius Ryan
sullo sbarco degli Alleati in Normandia, “Gidibì” mi convocò nel suo ufficio e mi stracciò il
pezzo davanti agli occhi, ringhiando: «Non funziona e finisce nel cestino».
Se qualcuno gli avesse detto che lui era un Protagonista, De Benedetti si sarebbe
messo a ridere: «No, io sono molto di più. Io sono il Signor Direttore!». Nella grande stanza
dove lavorava c’era soltanto una sedia: la sua. Le riunioni dei capiservizio si svolgevano in
piedi e duravano sempre poco. Non c’era da sedere neppure per le firme romane del giornale, quelle rare volte che salivano a Torino per rendere omaggio a “Gidibì”.
A Roma la firma numero uno della politica interna era Vittorio Gorresio, nato nel 1910
a Modena, ma di origini cuneesi. Era un gentiluomo piccoletto, con i capelli tagliati all’umberta e la “erre” molto arrotata. Mi aveva preso in simpatia perché ero il più giovane tra i
redattori che gli passavano i pezzi. Quando ci incontrammo alla redazione romana della
“Stampa”, mi chiese: «Quanti anni hai?». «Ne ho appena fatti venticinque». «Bene, fra un
ventennio vedrai lo sfascio dei partiti italiani». Gorresio era un liberale che sapeva dipingere
come nessuno le due grandi parrocchie politiche del tempo: i democristiani e i comunisti. Li
chiamava “i carissimi nemici”. E nutriva un’ammirazione ironica per i due personaggi che li
rappresentavano: De Gasperi e Togliatti. Ma si guardava bene dal definirli dei protagonisti.
L’altra star della “Stampa” era Paolo Monelli. Anche lui era nato in Emilia, a Fiorano
Modenese, nel 1891. Aveva combattuto da alpino nella Prima guerra mondiale, poi racconta-
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ta nel libro d’esordio: Le scarpe al sole. Era il prototipo dell’inviato speciale dell’epoca: combattivo, elegante, donnaiolo e con il monocolo, la caramella all’occhio. Scriveva con una prosa
avvicente e pulita, come testimoniano i due libri più famosi: Roma 1943 e Mussolini piccolo
borghese. E con somma pignoleria difendeva i suoi articoli dagli interventi dei redattori.
Guai a cambiare la struttura dei capoversi, una mania che ho appreso da lui. Guai a
trasformare un punto e virgola in una virgola. Guai a usare le virgolette doppie se lui aveva
usato quelle semplici. Trasmetteva i suoi pezzi da Roma a Torino con la telescrivente. Poi
chiedeva quale dei redattori l’avrebbe passato e gli spediva un secondo telex con tutti gli
ammonimenti del caso. Se ero io a passare “il Monelli”, mi attenevo con cura ai suoi ordini. E il giorno dopo lui mi ringraziava.
Se la televisione non fosse stata agli inizi, Gorresio e Monelli sarebbero di certo diventati due protagonisti. Ma lavoravano per la carta stampata e ignoravano che cosa fosse il protagonismo da telecamera. È la tivù, infatti, ad aver creato gli eroi fasulli che ci affliggono,
quelli che appaiono di continuo nei talk show odierni. Per restare nel pollaio del giornalismo,
allora esisteva soltanto “Tribuna politica” che, nell’imminenza di un voto, si trasformava in
“Tribuna elettorale”. L’unico personaggio che rammento era un giornalista socialdemocratico: Romolo Mangione. Diventato famoso per le domande aggressive che facevano incavolare i leader comunisti, a cominciare da Togliatti.
Direttori, non protagonisti
I direttori che ho avuto dopo “Gidibì” erano tutti alieni, tranne uno, da qualsiasi protagonismo. Italo Pietra, che guidava “Il Giorno”, era un signore di campagna contrario a
qualsiasi esagerazione d’immagine. Nato nel 1911, in guerra era stato anche nei servizi
segreti militari e poi aveva lavorato a lungo con Enrico Mattei, il presidente dell’Eni, come
suo ambasciatore in Nord Africa. Amava la riservatezza e non poteva soffrire gli spacconi.
Quando nel 1964 mi assunse come inviato speciale, mi domandò: «Dove vorresti essere
mandato: a Voghera o a Saigon?». Da monferrino con i piedi per terra, dissi: «A Voghera». E
Pietra mi replicò: «Se tu avessi risposto Saigon non ti avrei mai preso!». Infatti il mio primo
servizio fu sul fallimento di una banchetta privata a Varzi, nell’Oltrepò Pavese.
All’inizio del 1969 tornai alla “Stampa” chiamato da Alberto Ronchey, il direttore che
a 42 anni aveva preso il posto dell’intramontabile “Gidibì”. Anche Ronchey non amava i protagonismi. Era un laico razionale che aveva un solo lato debole: aspirava alla perfezione ed
era afflitto da uno stato d’animo che lui chiamava l’ansia da accertamento. In parole povere, era la paura di sbagliare, unita all’affanno di controllare tutto il giornale anche dopo la
prima edizione.
Ronchey era molto orgoglioso della propria indipendenza, soprattutto dalla Fiat,
padrona della testata. Per continuare ad affermarla, mi fece scrivere una serie di ritratti dei
leader sindacali, a cominciare da Luciano Lama. La sera della strage di Piazza Fontana ringraziò la squadra che aveva lavorato in quelle ore convulse e mi disse: «Non montatevi la
testa e dubitate sempre di tutte le fonti delle notizie».
Piero Ottone arrivò alla direzione del “Corriere della sera” nella primavera del 1972,
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quando aveva 48 anni. E mi chiamò come inviato nel luglio 1973. Il suo stile come direttore era da genovese freddo, di poche parole. Riuscì a rendere più moderno il giornalone di via
Solferino ereditato da Giovanni Spadolini. Senza preoccuparsi di avere rapporti di convenienza con il mondo dei partiti. Anche lui aborriva il protagonismo. Ma suo malgrado si trovò
alle prese con due emergenze che, fatalmente, lo spinsero sulla scena. La prima fu l’uscita
dal “Corriere” di Indro Montanelli e di un gruppo di redattori, con la fondazione del
“Giornale”. La seconda fu lo strapotere del Comitato di redazione, guidato da un giornalista
molto astuto: Raffaele Fiengo.
In entrambi i casi, Ottone si vide marchiato come direttore di sinistra, etichetta che
non gradiva per niente. Alle due emergenze si aggiunsero i travagli della proprietà. Dalla
famiglia Crespi il “Corriere” passò a un editore con tre teste: Giulia Maria Crespi, Gianni
Agnelli e il petroliere Angelo Moratti. E infine a un padrone unico: Angelo Rizzoli junior. Fu
così che Ottone restò imprigionato nel ruolo di protagonista negativo. Era una parte che non
gli piaceva. E che lo spinse a lasciare il giornale verso la fine dell’ottobre 1977, quando in
via Solferino si cominciava ad avvertire la presenza di un massone anomalo: Licio Gelli, il
capo della Loggia P2.
Le quattro regole di un certo protagonismo
Con Ottone me ne andai anch’io e all’inizio di novembre approdai a “Repubblica”,
sempre come inviato. Lì incontrai l’incarnazione professionale del Grande Protagonismo:
Eugenio Scalfari. In quel momento aveva 53 anni ed era prestante, alto, magro, con una gran
barba bianca e dal portamento fra l’altero e il solenne. Carlo Caracciolo, il suo vecchio amico
e socio, avrebbe poi detto: «Eugenio porta la testa come il Santissimo in processione». Era
il tocco della perfezione per il ruolo che Scalfari si era dato: il mattatore, il direttore proprietario, il fondatore di un giornale tutto diverso dagli altri quotidiani e destinato a influenzare le testate tradizionali.
Scalfari aveva fondato “Repubblica” all’inizio del 1976 con l’aiuto della Mondadori
guidata da Mario Formenton. Quando ci arrivai, il giornale non navigava in acque tranquille:
vendeva poche copie e la pubblicità scarseggiava. Ma Eugenio aveva un’illimitata fiducia in
se stesso ed era convinto che, prima o poi, il successo sarebbe arrivato. Ecco la prima regola per chi aspira al Protagonismo: non dubitare mai delle proprie superiori capacità ed essere sempre certi di sfondare. Era questa sicurezza granitica a renderlo forte. E a non fargli
mai perdere di vista il traguardo folle che si era dato: conquistare il primato fra i quotidiani
nazionali.
La seconda regola del protagonismo scalfariano recitava: devi essere il comandante
indiscusso della squadra di giornalisti che ti sei scelto. Alla fine del 1977, la squadra di
“Repubblica” non superava i sessanta redattori. In parte erano firme strappate ad altre testate, ma la maggioranza era di giovani alle prime armi. Su di loro Eugenio aveva un potere
assoluto, ma lo esercitava con l’accortezza di far sentire tutti importanti. Ne era una prova
la riunione del mattino, dove si decideva il programma della giornata. Non era riservata soltanto ai capi servizio e ai vertici del quotidiano, come accadeva nelle altre testate. Anche
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l’ultimo dei redattori poteva parteciparvi, con diritto di parola e di critica.
Era un esempio di democrazia professionale, che serviva a registrare gli umori della
truppa e, al tempo stesso, a riaffermare l’autorità del comandante in capo. E ogni volta
Eugenio, dopo aver fatto un esame impietoso del numero appena uscito, informava la sua
gente sui progressi di vendita della testata. A partire dal 1978, quando ebbe inizio il boom
di “Repubblica” grazie soprattutto al lungo sequestro di Aldo Moro, tutte le mattine Scalfari
leggeva alla redazione il bollettino della diffusione del giornale. Eugenio mantenne quest’abitudine sempre, con una scansione via via più trionfale: «Abbiamo superato il Messaggero,
vendiamo più della Stampa, siamo a un’incollatura dal Corriere». Rammento un suo proclama, scherzoso ma non tanto: «Quando avremo battuto il Corrierone, tutti voi avrete diritto
allo stupro e al saccheggio!».
La terza regola del Protagonismo scalfariano era basata su una convinzione ferrea: il
direttore di “Repubblica” conta molto di più di qualsiasi leader politico. Riassunta così,
sembra una presunzione senza fondamento. Invece era una rivoluzione copernicana nel
mondo dei quotidiani. Dove molti direttori di giornale si sentivano piccoli rispetto ai big dei
partiti. Scalfari era certissimo dell’opposto: il Sole era lui, “Barbapapà”, mentre i leader politici erano soltanto dei pianeti senza importanza che gli ruotavano intorno. Un giorno spiegò
alla truppa: «Quando loro non ci saranno più, il nostro giornale sarà ancora qui, sempre più
influente, sempre più letto».
La quarta e ultima regola del Maxi Protagonista fu quella di dare a “Repubblica” una
linea politica libertina. Era un aggettivo che piaceva molto a Scalfari quando parlava di carta
stampata. Sosteneva, per esempio, che fare un settimanale come “L’espresso” era possibile soltanto a un direttore libertino. Penso volesse dire: un direttore spregiudicato, fantasioso, capace di cambiare sempre cavallo e non impacciato da troppi lacciuoli. Ma anche la sua
“Repubblica”, guidata per vent’anni, fu un giornale dedito al libertinaggio politico più sfrenato. Con il solito obiettivo: conquistare sempre nuovi lettori e dimostrare ai partiti che era
lui, e non loro, a condurre il gioco. Del resto, la politica attiva era una droga per Eugenio.
Nell’estate del 1978, quando il Parlamento non riusciva ad eleggere un nuovo capo dello
Stato dopo le dimissioni di Giovanni Leone, lo scoprii di malumore mentre passava un mio
articolo. Gli domandai: «C’è qualcosa che non va nel pezzo?». E lui: «No, il tuo pezzo va
bene. Il fatto è che vorrei essere là e non qua». «Là dove?» indagai. «Là in Parlamento!»
sbottò Eugenio.
Il protagonismo libertino
Dall’avamposto di piazza Indipendenza, il Protagonista Libertino andò subito all’assalto del popolo comunista. Strappando uno per uno i lettori a una tetra “Unità” e a un traballante “Paese sera”. Scalfari vinse a mani basse. Tanto da far dire a Giancarlo Pajetta:
«Repubblica è il secondo giornale dei comunisti che però lo leggono per primo». I lettori
democristiani li conquistò con la linea della fermezza nei tanti giorni del sequestro Moro.
Quando Ciriaco De Mita divenne segretario della Dc e restò a Piazza del Gesù per sette anni,
dal 1982 al 1989, Eugenio si prese una sbandata per l’“Uomo di Nusco”. Era convinto che
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avrebbe modernizzato l’Italia, al punto di trasformarla nella Svizzera del Mediterraneo. Ma
si ravvide presto e, soprattutto, non si sentì mai secondo al gran capo della Balena Bianca:
era Scalfari a consigliarlo, e non il contrario.
Con Bettino Craxi, diventato segretario del Psi proprio nell’anno di nascita di
“Repubblica”, il rapporto fu sempre ruvido. Com’era fatale fra due protagonisti che un tempo
avevano convissuto nello stesso partito. Bettino riteneva Eugenio un subdolo filocomunista
e lo avversava di continuo. I craxiani arrivarono a dire che Scalfari era il capo del Pinf, il
“Partito Irresponsabile dell’Informazione”. Eugenio lo ricambiò coniando per lui l’appellativo di “Ghino di Tacco”, il bandito di Radicofani. Senza mettere nel conto che Craxi avrebbe
subito cominciato a firmare in quel modo i suoi corsivi sull’“Avanti!”.
Ma il terreno sul quale il Protagonista Libertino superò se stesso fu nel rapporto con
il Movimento, gli antagonisti degli anni Settanta e Ottanta. I gruppi e i gruppetti della sinistra extraparlamentare rappresentavano un altro possibile serbatoio di lettori, per di più giovani. Scalfari li conquistò con una linea astuta che si può riassumere così: né aderire né
sabotare, ma raccontare. E aprì le pagine di “Repubblica” alla cronache di ciò che accadeva in quel mondo che lo considerava un vecchio liberale reazionario. Su questo terreno fu
prezioso il lavoro di un giovane cronista che sapeva tutto degli antagonisti: Carlo Rivolta, un
giornalista di rara bravura, poi morto suicida.
A “Repubblica” qualcuno avrebbe preferito una linea più dura, di contrasto aperto con
la sinistra lunatica. La volevo anch’io che, nell’ottobre del 1978 ero diventato vice direttore
insieme al più esperto Gianni Rocca. Ma non ci fu niente da fare: l’unico padrone della linea
politica del giornale era Scalfari. Lui stava ad ascoltare i consigli di Rocca e i miei. E talvolta li seguiva. Però l’ultima parola era la sua. Quando insistevo nelle obiezioni, il Protagonista
mi fermava: «Ho capito, Giampaolo. Ma a guidare il treno tocca a me e non a te!».
Sul terrorismo delle Brigate Rosse, Scalfari si mostrò fermo nel rifiuto e nella condanna. La sua linea fu sempre una sola: con il terrorismo non si tratta. Andò così per Moro
e in tutti gli altri casi. Il Protagonista non poteva che disprezzare quelle mezze tacche dei
brigatisti e chi li appoggiava. E non cambiò atteggiamento neppure quando a “Repubblica”
emersero due posizioni divergenti, poi riassunte da una battuta coniata non so da chi: «Né
con Bocca né con Pansa, ma con l’Ansa», ossia con le notizie un po’ asettiche. Nel marzo
del 1980, il contrasto fra il mio modo di vedere il terrorismo rosso e quello di Giorgio Bocca,
la prima star del giornale, emerse con asprezza per l’uscita dei nostri due libri sulla violenza politica a sinistra. Ma anche in quel caso a vincere fu la scaltrezza di Eugenio: fece scontrare Giorgio e me in un dibattito interno al giornale, poi pubblicato in un doppio paginone
della sezione Cultura.
Il tempo dei bilanci
Nella primavera del 1989, Scalfari e Caracciolo vendettero a Carlo De Benedetti le
loro azioni del Gruppo Espresso-Repubblica. E diventarono miliardari. L’Ingegnere gli suggerì di costituire un fondo di solidarietà per i giornalisti, ma entrambi rifiutarono. Dopo la
vendita, il malumore incrinò la redazione. E nel novembre di quell’anno, quando Silvio
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Berlusconi scatenò la guerra per la conquista della Mondadori e di “Repubblica”, una
parte dei giornalisti, Bocca in testa, si schierò con il Cavaliere. Poi arrivò la mediazione
di Giulio Andreotti, condotta da Giuseppe Ciarrapico. Il Protagonista Libertino salvò il giornale, ma non il suo mito personale. Rimase il comandante in capo, però troppo carico di
soldi per poter conservare l’immagine illibata che i protagonisti dovrebbero sempre
mostrare al pubblico.
Mi rendo conto che sto parlando di un tempo concluso da un pezzo. Il Protagonista
Libertino non guida più “Repubblica” dal 1996, dopo aver ceduto il passo a Ezio Mauro. Ho
lavorato quattordici anni con lui e per lui, poi mi sono fatto tredici anni di “Espresso” e infine sono andato in pensione. Ci siamo incontrati per qualche istante soltanto una volta e a
un funerale, quello di Rocca. Non conosco come Scalfari la pensi sul mio conto, ma so che
i miei libri revisionisti sulla guerra civile non gli sono piaciuti. Mia nonna Caterina avrebbe
sospirato: «pazienza!, non tutti i gusti sono alla menta…».
Lo Scalfari di oggi mi sembra la statua di marmo dell’Eugenio con il quale ho vissuto un’infinità di giornate in piazza Indipendenza. A 84 anni la sua barba è di un biancore
quasi innaturale. E il suo sguardo non è più rivolto all’interlocutore, bensì a un orizzonte lontano che io non riesco a intravedere. Ma per me rimane il Protagonista Libertino dal quale
ho imparato molte cose, in parte buone e in parte cattive. E se osservo il mondo della carta
stampata, lui mi appare comunque un Gulliver nel paese dei nani.
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