moliere e biancolelli al palais-royal, ovvero i doppi sensi dell

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moliere e biancolelli al palais-royal, ovvero i doppi sensi dell
da La Commedia dell’arte tra Cinque e Seicento in Francia e in Europa. Atti del Convegno
Internazionale di Studi
a cura di Elio Mosele
Fasano (BR), Schema Editore 1997
DELIA GAMBELLI
MOLIERE E BIANCOLELLI AL PALAIS-ROYAL,
OVVERO I DOPPI SENSI DELL’INVENZIONE
Nel gennaio del 1662 per ordine del Re la compagnia italiana diretta da Domenico Locatelli, e di
cui faceva parte l’Arlecchino Domenico Biancolelli, si insediava nella stessa sala del Palais-Royal
dove esattamente un anno prima aveva cominciato a recitare la troupe di Molière. La decisione di
Luigi XIV - dettata da pure ragioni pratiche - rinnovava una coabitazione già sperimentata dalle due
compagnie al Petit-Bourbon dal novembre del 1658 al luglio del 1659; una coabitazione destinata a
influire sulle sorti del teatro francese e italo-francese del Seicento, e che ha probabilmente fornito
un appiglio all’accusa rivolta a Molière di copiare gli Italiens; e di copiarli non solo nella
recitazione:«{...] puisqu’il est certain qu’il [Molière] est singe en tout ce qu’il fait, et que non
seulement il a copié les Prétieuses de M. l’Abbé de Pure, jouées par les Italiens, mais encore qu’il a
imité par une singerie, dont il est seul capable, le Médecin volant, et plusieurs autres pièces des
mêmes Italiens [...] 1
Formulata da rivali e concorrenti - il cui accanimento denigratorio è tradito in questo caso dalla
tendenziosità trasparente delle scelte lessicali: «il est singe [...] il a imité par une singerie» - l’accusa
occupa una posizione di spicco tra le voci polemiche che cercavano invano di contrastare i primi
successi molieriani e finisce per circolare anche negli ambienti non specialistici ed extrateatrali. Pur
denunciando colpe ben più pesanti, l’autore delle Observations sur une comédie de Molière intitulée
Le Festin de Pierre non rinuncia a portare l’attacco anche su quel fronte, riconoscendo
malignamente a quel «diable incamé» di Molière, tra i suoi scarsissimi meriti, quello di tradurre
abbastanza bene l’italiano 2.
Sorprendentemente in pochi anni all’accusa, pur così circoscritta e reiterata, di aver copiato gli
Italiens subentra, fino a sostituirla, o per meglio dire ad assorbirla completamente, una colpa più
grave (sulla quale si erano già soffermate, se pur marginalmente, le Observations sur Le Festin de
Pierre appena menzionate): quella di aver praticato - e con protervia - la farsa.
1
A. B. DE SOMAIZE, Les Véritables Prétieuses, éd. P. Lacroix, Genève, J. Gay et fils, 1868 (1a ed.: J. Ribou, 1660),
p. 8. Critiche analoghe si leggono nelle Nouvelles nouvelles di Donneau de Visé (1663) e tra le righe dell’ Advis au
Lecteur de Le Médecin volant di E. Boursault (A Paris, chez N. Pepingué, 1665):«Le Medecin Volant que j’expose à
ton jugement, mon cher Lecteur, est l’une des plus aimables Pièces qui soit au Theatre, & j’en puis parler de la sorte
sans choquer la bien-seance, puisque ce n’est pas moy qui en suis l’Auteur. Le sujet est italien; il a esté traduit en nostre
langue, représenté de tous costez; & je crois qu’il est plus beau de ma façon que d’aucune autre, à cause qu’outre la
traduction qui en est fidele, il a encore la grace de la Poësie». E sull’assimilazione del bouffon alla scimmia, vedi D.
BERTRAND, Dire le rire à l’âge classique. Représetrer pour mieux contrôler, Publications de l’Université de
Provence, 1995, pp. 79-80.
2
B. A. Sr. D. R., Observations sur une comédie de Molière intitulée Le Festin de Pierre (1665), in MOLIÈRE,
Oeuvres complètes, textes ét., prés. et ann. par G. COUTON, «Bibliothèque de la Pléiade». v. II, pp. 1199-1208.
Nel rammaricarsi per l’occasione persa da Molière (di vincere il primo premio come autore comico
nella guerra a venire tra Antichi e Moderni), Boileau depreca il suo cedimento di fronte alle
tentazioni di un genere facile e popolare. Rammarico significativo, che riflette il dibattito sempre
più radicale negli ultimi decenni del Seicento sul teatro e sul teatro comico in particolare 3. Si
andava appesantendo intatti la condanna di un riso non riscattato da un’intenzione satirica, e
disgiunto da un castigo benefico 4. Per quanto ancora seducenti sulla scena e apprezzati dal
pubblico, gli spettacoli italiani a Parigi rimanevano ascritti a un genere basso, soprattutto inutile. E
la tolleranza - comunque relativa - da parte dei censori nei loro confronti va anche vista alla luce di
una irrimediabile diversità di quel teatro, considerato come una sorta di zona franca proprio in
quanto straniero, estraneo ai lavori in corso di codificazione etica ed estetica della società.
È naturale che in tale situazione non siano stati né avvertiti né segnalati eventuali prestiti in senso
opposto: dell’Ancien Théâtre Italien da Molière. Non è un caso che quei prestiti siano invece
sottolineati, a metà del Settecento, da Thomas-Simon Gueullette, traduttore della raccolta di
canovacci di Biancolelli; non è un caso, perchè proprio il suo apprezzamento per l’Ancien Théâtre
Italien, di cui resta a tutt’oggi uno dei rari conoscitori, porta Gueullette a rintracciare nei lazzi
biancolelliani i segni dell’imitazione da Molière, e ad annotarli. Dopo Gueullette, anche gli editori
della sua Traduction dello Scenario di Biancolelli - i Frères Parfaict - e gli altri storici del teatro
settecenteschi - d’Origny, Desboulmiers - denunciano quei prestiti: anche se nei loro commenti si
intrecciano di nuovo ammirazione per alcune trovate isolate con una sostanziale distanza.
Emblematico il giudizio di d’Origny sul Basilisco di Bernagasso - Le Dragon de Moscovie:«Le
Dragon de Moscovie n’est qu’une foible imitation du Tartuffe de Molière» 5.
Molière non è il solo drammaturgo francese con il quale lo Scenario accenda contatti intertestuali:
Corneille, Pradon, Racine e Quinault vi sono presenti, e in misura più consistente di quanto
Gueullette e i successivi editori o commentatori abbiano finora segnalato 6. Ma quei contatti
traducono sempre un’intenzione dichiaratamente parodistica 7; mentre Molière è spudoratamente
imitato, con la stessa disinvoltura con la quale risultano copiati o tradotti autori spagnoli, da Lope
de Vega, a Tirso de Molina, a Quevedo, a Calderón, a Rojas Zorrilla. Con la differenza che i prestiti
dal teatro spagnolo appartengono per lo più a materiali ereditati da Biancolelli; i prestiti da Molière,
invece, sono una sua originale invenzione 8. E un’invenzione interessata: se infatti Arlecchino va a
3
La diffidenza del potere - in particolare religioso - nei confronti del teatro comico e la tendenza da parte dei suoi
difensori, a vedervi solo un’arma per la normalizzazione sociale, sono acutamente denunciate come indizi della
mediocrità del dibattito sul riso nel Seicento da CH. MAZOUER, L’Eglise, le théâtre et le rire au XVII siècle, in L’art
du théâtre. Mélanges en hommage à Robert Garapon, textes réunis et publiés pur Y. Bellenger, G. Conésa, J. Garapon,
Ch. Mazouer et J. Serroy, Presses Universitaires de France, 1992. pp. 349-360.
4
P. DANDREY - che si sofferma in particolare sul primo bilancio dell’opera di Molière formulato nel Jugements des
Sçavants […] di A. Baillet (1684) - rileva come la stessa posterità di Molière sia debitrice di un’immagine depurata del
suo teatro messa in moto fin dal 1682 (Situation de Molière en 1683-1685: diffusion, reception et influence de son
oeuvre dans la vie culturelle française, in De la mort de Colbert à la révocation de l’édit de Nantes: un monde
nouveau?. XIVe Colloque du C.M.R. 17, Actes réunis [...] pur L. Godard de Donville sous la direction du Professeur R.
Duchêne, 1985, pp. 377-392).
5 A.-J.-B-A. D’ORIGNY. Annales du théâtre italien depuis son origine jusqu’à ce jour, dédiées au Roi. Paris, chez la Veuve
Duchesne libraire, 1788, t. 1., p. 13-14.
6
Per le indicazioni specifiche rinvio alle note alla mia edizione dello Scenario (Arlecchino a Parigi,II , Lo Scenario di
Domenico Biancolelli ed, critica, introd. e note di D. GAMBELLI. Roma. Bulzoni, in corso di stampa). Qui il mio
proponimento vuol essere quello di una riflessione finale sui materiali di lavoro di cui do lì conto.
7
F. MOUREAU segnala la presenza di una componente ambigua e ambivalente nell’uso che della parodia fa l’Ancien
Théâtre Italien, per lo meno nei confronti dell’opéra di Lully (De Ghepardi à Wateau. Présence d’Arlequin sous Luis
XIV, Paris, Klincksieck, 1992, pp. 63-75): si tenga presente comunque che Moureau prende in considerazione solo le
pièces redatte dopo il 1680.
8
Ma in due casi un prelievo da un modello spagnolo sembrano anch’essi attribuibili all’ ”invenzione biancolelliana. Si
tratta della lunga tirata arlecchinesca di Arlecchino poeta e putino, ispirata dall’Historia de la vida del Buscòn llamado
scuola da Sganarelle e da Scapin, lo fa soprattutto - anche se non solo - per cimentarsi, se pure di
sfuggita e quasi per un lapsus improvviso, in una frecciata satirica. Esemplare, da questo punto di
vista, il caso del Convitato di Pietra, in cui Biancolelli registra - e Gueullette traduce - una battuta
censurata in cui Arlecchino preannuncia che un giorno o l’altro all’inferno insieme a Don Giovanni
andranno anche tutti i grandi signori, Re compreso («O Roy, vous sçaurez que mon maistre est à
tous les diables, où vous autres, grands seigneurs, irez aussy quelques jours» 9. Colpito dagli
scandali che si abbattevano sul suo coinquilino di palcoscenico e che coinvolgevano la sua stessa
sala teatrale (penso soprattutto all’arrivo di un ufficiale giudiziario alle porte del Palais-Royal, il 6
agosto 1667, con la notifica di divieto di rappresentazione per Tartuffe), Biancolelli deve aver
cominciato a interrogarsi sul rapporto tra teatro e società e sul mestiere dell’attore; a vivere con
sempre maggiore lacerazione la tensione tra la consapevolezza dell’alto valore tecnico e retorico
delle proprie composizioni e la messa in discussione della loro “utilità”. Da qui le ombre, le battute
realistiche e la prima scena censurata di cui sia rimasta traccia nella storia dell’Ancien Théâtre
Italien: che è appunto quella appena menzionata. (Da qui, a mio parere, l’idea stessa di cominciare a
raccogliere le sue scene, seguendo un progetto duplice e già praticato dai comici delle generazioni
precedenti: di lasciare una traccia della sua arte e di nobilitare il mestiere di attore affiancandolo a
una produzione letteraria) 10.
Proprio il Convitato di Pietra rappresenta un caso intertestuale estremamente intricato, che
s’inserisce nel corpus teatrale aggrovigliato e multiforme costituitosi nel Seicento intorno alla figura
di Don Giovanni. Questo spiega l’interesse di cui ha continuato a essere oggetto, a differenza di
tutto il resto dello Scenario, rifluito imprevedibilmente nell’ombra; ma spiega anche l’approccio
particolare con il quale è stato osservato. Il Convitato infatti è stato letto solo in controluce, o
meglio alla luce di canovacci precedenti oggi perduti; anche da uno studioso meritevole come
Gendarme de Bévotte, che finisce per esprimere giudizi contrastanti e confusi sui suoi rapporti con
il Don Juan di Molière 11. Ora, una lettura in controluce è condivisibile e opportuna e persino
necessaria, se si tratta di indagare nel loro complesso i rapporti tra Molière e l’Ancien Théâtre
Italien, perché la stesura di Biancolelli appare davvero il luogo di incontro di sedimenti arcaici del
teatro dell’Arte e di nuove strategie, attente in particolare ai successi molieriani, anche a quelli forse soprattutto a quelli - subito censurati o tacitati. Ma là dove si persegua un confronto specifico
tra il Dom Juan e il Comitato di Biancolelli, non si può prescindere da un’indagine circoscritta a
questa versione. Solo dopo Giovanni Macchia 12, che per primo ha analizzato in modo organico le
affinità strutturali tra il Convitato di Pietra di Biancolelli e la pièce molieriana, Spaziani ha
affrontato il problema della priorità cronologica, definendo il primo una sorta di parodia della
seconda 13. L’ipotesi non è fondata (Spaziani non tiene conto della raccolta nel suo insieme;
don Pablos, ejemplo de vagamundos y espejo de tacaños, di F. de Quevedo Villegas (1626), di cui erano state
pubblicate molte traduzioni in Francia (Paris. P. Billaine, 1633 e G. Quinet, 1644 e 1645; Rouen, J. Besongne, 1655). E
di un segmento scenico della Dotte per la metempsicose, ispirato inequivocabilmente da La Devociòn de la Cruz di
Calderòn de La Barca (1631-1633).
9
Arlecchino a Parigi, II , Lo Scenario di Domenico Biancolelli, cit. p. 309.
10
Non sembra rimanere traccia nello Scenario di quello che era stato il progetto più alto di Flaminio Scala: di affermare
- con la pubblicazione de Il teatro delle favole rappresentative - un genere letterario nuovo e una scrittura dotata di una
tecnica specifica, superiore alla scrittura estesa per efficacia teatrale.
11
G. GENDARME DE BEVOTTE, Le Festin de Pierre avant Molière, nouvelle éd. mise à jour par R.
GUICHEMERRE, «Société des Textes Français Modernes», Paris, Nizet, 1988 (1a ed.: 1906), p. 336; e ID., La légende
de Don Juan, Paris, Hachette, 1906 (Genève,Slatkine,1993) v.I pp. 158-159. vedi anche G.ATTINGER, L’esprit de la
Commedia dell’Arte dans le Thèâtre Française, Paris, Librairie Théâtrale La Baconnière, 1950 (
Genève,Slatkine,1969), pp.83-84.
12
G. Macchia, Vita avventure e morte di Don Giovanni, Milano, Adelphi, 1991 (la ed.: Bari, Laterza, 1966), in
particolare p. 25.
13
Per M. Spaziani il canovaccio va considerato, se non una vera e propria parodia, una libera interpretazione in chiave
farsesca del Don Juan di Molière, a cui Biancolelli avrebbe assistito il 15 febbraio 1665, prima, dunque di qualsiasi
intervento di censura (M. SPAZIANI, Don Giovanni. Dagli scenari dell’arte alla Foire”, Roma, Edizioni di Storia e
soffermandosi solo sul Convitato, non ha termini di paragone per valutare l’intenzione parodistica),
ma risulta utile: ha infatti il merito di richiamare l’attenzione sul forte influsso del Dom Juan nella
stesura dello Scenario.
Dunque, per lo meno nella seconda metà degli anni Sessanta l’imitazione al Palais-Royal è già
prevalentemente a un senso e a senso unico; questo è quanto documenta la raccolta di Biancolelli.
Ma paradossalmente la stessa raccolta permette di misurare la profondità dell’influsso della
Commedia dell’Arte su Molière: e lo permette per la sua particolare struttura, sospesa al crocevia
tra antico e nuovo, tra Italia e Francia. Quei canovacci rispecchiano, sì, la modificazione subita
appunto nel viaggio tra l’Italia e Parigi, ma serbano nello stesso tempo - come si è già accennato - i
segni della tradizione, la memoria delle stesure anteriori.
Nella prima parte dello Scenario — che comprende i materiali più “arcaici” — risaltano e occupano
un posto rilevante il Basilisco di Bernagasso, il Medico volante e il Convitato di Pietra. Intorno ai
tre canovacci, che appartengono al repertorio tradizionale, si addensano nodi intertestuali
particolarmente intriganti, che coinvolgono oltre a tutto altri autori (come si è già sottolineato per il
Convitato di Pietra), da Boursault a Dorimond. E le versioni di Biancolelli da una parte tengono
conto, in modo più o meno meno trasparente ma inequivocabile, delle pièces di Molière, dall’altra si
presentano come una evidente variazione su materiali precedenti dell’Arte (materiali ben noti a
Molière almeno fin dal 1658): si pensi solo alla mancanza nel Medico volante di tutto il terzo atto,
come di cosa tanto nota da renderne inutile la registrazione. E lo stesso Convitato — nella stesura di
Biancolelli — assomiglia più a una messa in evidenza delle varianti arlecchinesche su trame ben
assestate, che a una sequenza ordinata e organica di scene. Ora, questi tre canovacci sono i
corrispondenti italiani del Tartuffe, del Dom Juan, oltre che del Médecin volant, punto di partenza
di tutto il corpus di pièces intorno al tema della medicina. (Tema che più di ogni altro si è prestato a
sovradeterminazioni semantiche e a sovrastrutture simboliche e che collega con un laccio sottile e
profondo i primi essais rappresentativi all’ultima prova, Le Malade imaginaire).
Che al centro del teatro molieriano, e nei suoi punti nevralgici, si trovino pièces basate sugli stessi
argomenti intorno ai quali erano costruiti i canovacci presenti nel repertorio degli Italiens a Parigi
almeno fin dal 1662, è constatazione che potrebbe anche rimanere nell’ambito della indicazione
delle fonti. Indicazione che rischia di essere poco feconda nel caso di Molière, perché i luoghi
originali e gli effetti inediti a cui approda finiscono per rendere il legame con i materiali da cui
prende l’avvio puramente anedottico (e del resto, Molière ha ampiamente attinto anche dal
patrimonio comico francese, da Tabarin a Scarron 14, il cui influsso è rintracciabile peraltro nello
stesso Biancolelli). Ma non si può non tener conto del rapporto stretto e costante con la compagnia
italiana.
Ed è con la Commedia dell’Arte che il teatro di Molière rivela profonde affinità di gusto e di
metodo. Di recente è stata analizzata la presenza di tecniche comuni nel modo di costruire le azioni
15
(noto en passant che alcune tra le più recenti e significative acquisizioni della critica molieriana
provengono da studiosi che possiedono contemporaneamente una rara conoscenza dell’Ancien
Letteratura, 1978, p. 56: e Idem, Un capitolo nella storia di Don Giovanni: Moliere parodiato da Biancolelli?, in
Mélanges à la mémoire de Franco Simone. France et Italie dans la culture européenne, II,. XVII et XVIII siècles,
Genève, Slatkine, 1981, v.II, pp. 279-294). Uno studio attento del canovaccio di Biancolelli si deve a Enea Balmas, che
ha intravisto lo stravolgimento del personaggio di Don Giovanni e un suo avvicinamento allo Zanni (Gli altri don
Giovanni: lo scenario del Biancolelli, in Studi di cultura francese ed europea in onore di Lorenza Maraini, Fasano
Schena, 1983. pp. 233-249).
14
E non solo dallo Scarron drammaturgo. Sul ruolo dei romanzi comici nella storia del riso nel classicismo francese, e
sulla loro conservazione di forme comiche tradizionali e “popolari”, vedi in particolare J. SERROY, Rire au XVIIe
siècle. L’exemple des Histoires comiques, in Correspondances. Mélanges offerts à Roger Duchêne, études réunies par
W. LEINER et P. RONZEAUD. Tübingen, Gunter Narr Verlag / Publications de l’Université de Provence, 1992. pp.
253-264.
15
Cfr. G. CONÉSA, Molière et l’héritage du jeu comique italien, in L’art du théâtre. Mélanges en hommage à Robert
Garapon, cit., pp. 177-187.
Théâtre Italien 16). E lo Scenario permette di rintracciare un’altra più sottile ma non meno fondante
affinità: perché la pratica teatrale di Biancolelli - come quella di Molière - si rivela attentissima, se
pure attraverso procedimenti diversi e con esiti del tutto dissimili, all’invenzione di un sistema
rigoroso di leitmotive e di figure ricorrenti; alla rappresentazione, insomma, di una coerenza
interiore.
Quanto alle affinità di gusto, viene subito alla mente la forte componente farsesca che sottende i due
teatri. Jacques Morel ha acutamente osservato come la dimensione farsesca non abbia mai smesso
di assumere un ruolo strutturante nell’opera di Molière 17. Non è irrilevante che una pièce impegnata
nel progetto di disegnare i contorni di una percezione moderna del mondo, qual’è Tartuffe, veda il
protagonista Orgon nascondersi sotto un tavolo in una scena inequivocabilmente farsesca, che è una
scena cruciale per lo sviluppo dell’azione 18 (e si noti che nella stesura di Biancolelli è Arlecchino a
fare la parte del padrone, un padrone ridicolo e balordo, naturalmente). E motivi farseschi scorrono
nel Dom Jiuan: penso alla scena della duplice seduzione di Charlotte e di Mathurine (II, 4), e non
solo a quella.
Ma le affinità vanno oltre l’uso di materiali simili e travalicano la messa in scena comune di
tecniche raffinate e funzionalissime portate dall’Italia (tecniche che in realtà nel viaggio avevano
perduto qualcosa del loro fulgore originario). Le affinità si verificano anche nell’interesse mostrato
da Molière ai tratti specifici e alle strategie di mercato peculiari adottati dagli Italiani a Parigi. Di
fronte alle difficoltà collegate con una stabilità impegnativa, con la concorrenza sempre più
agguerrita delle altre compagnie parigine, con la sempre decrescente conoscenza dell’italiano da
parte del pubblico, gli Italiens avevano sbilanciato l’organizzazione interna dei canovacci in favore
delle parti comiche. Avevano così inventato un rapporto inedito tra serio e buffo, tra azione burlesca
e azione innamorata, tra comico e tragico. Quel rapporto, invece di esaurirsi nel gusto barocco dei
contrasti, o nella ricerca sperimentale di nuovi equilibri, finiva per mettere in scena lo screditamento
e la presa in giro di ogni gravità. Finiva per attentare ai fondamenti di una gerarchia verticistica dei
generi, mostrando come possano essere pericolose per il tragico le relazioni con il comico. E
Molière ha colto la potenzialità eversiva - ed espressiva - di quell’invenzione e l’ha utilizzata contro
le macchine della tragedia - e le macchinazioni di ogni sapere autoritario, di ogni terrorismo
culturale -, trasformandola in arma efficace per le sue battaglie 19.
D’altra parte, quel rapporto nuovissimo tra tragico e comico (peraltro non estraneo al progetto di un
mondo «allégé» 20), rinviava a lontane radici comuni, a una centralità del riso nella giusta ricezione
dello spettacolo e nella giusta percezione del mondo, a un’equivalenza antica tra riso e senso (oltre
che alla messa in contatto di una cultura carnevalesca, orale, con una cultura erudita, scritta).
Non a caso, la lettura attenta dello Scenario rivela sullo sfondo tracce di una presenza imprevista:
quella di Rabelais. Che siano l’esito di prestiti diretti, o che si tratti di frammenti riconducibili a una
comunità europea del riso, a una sua libera circolazione al tempo di una promettente rinascenza,
16
Penso in primis a Charles MAZOUER, molierista illustre e, insieme, curatore di una nuova ed esemplare edizione del
Théâtre Italien di Gherardi (textes établis, presentés et annotés par Ch. M., Paris. «Société des Textes Français
Modernes», 1994), oltre che di altri lavori documentati.
17
J. MOREL. De quelques emprunts de Molière au « Roman comique », in Thèmes et genres littéraires aux XVIII
siècles. Mélanges en l’honneur de Jacques Truchet publiés sous la direction de N. FERRIER-CAVERIVIÈRE, Paris.
Presses Universitaires de France, 1992, in particolare p. 430: «L’invention. le rythme et la verdeur de langage propres à
la farce n’ont pas cessé de donner à son oeuvre une de ses dimensions fondamentales».
18
Per la lettura di questa e di altre scene farsesche nella pièce, vedi R. GUICHEMERRE, Tartuffe ou le dépassement
de la farce, in Seminari Pasquali di analisi testuale, 9. Tartuffe, Pisa, Edizioni ETS, 1994. pp. 65-75.
19
A una di tali battaglie - a mio parere la più significativa - ha dedicato uno studio convincente e documentato C.
BOURQUI, Polémique et stratégies dans le « Dom Juan » de Molière et les machines de la tragèdie, in « Littératures
Classiques »,l’esthétique de la comédie,27,1996. pp.43-52.
20
L’espressione è tratta dallo studio di Ch. MAZOUER, Molière et ses comédies-ballets, Paris, Klincksieck, 1993, che
è molto più di un’analisi di un corpus di pièces appartenenti a un genere. Quanto alla presenza di fondamenti comuni in
Rabelais, in Molière come nella Commedia dell’Arte, vedi naturalmente M. BACHTIN, L’opera di Rabelais e la
cultura popolare. Riso, carnevale e festa nella tradizione medievale e rinascimentale, Torino, Einaudi, 1979 (ed.
originale: 1965).
rimane comunque la constatazione di una fonte comune - e di una fonte altamente significativa con il teatro di Molière.
Dunque, non si tratta solo di prestiti reciproci e consenzienti, messi in atto da Molière e Biancolelli.
Punti di contatto profondi tra due pratiche e due poetiche del teatro appaiono sullo sfondo del
Palais-Royal.
Punti di contatto profondi e in parte ancora oscuri. E come è prassi negli studi sulla Commedia
dell’Arte, a ricerche documentarie e filologiche severe, persino puntigliose, si affiancano
silenziosamente, compagni di viaggio improvvisi ed enigmatici, gli spazi per la congettura.
Penso a una coincidenza suggestiva. Le rappresentazioni dell’Amphitryon di Molière, andato in
scena per la prima volta al Palais-Royal il 13 gennaio 1668, si sono certo intersecate con quelle de
Li dui Arlecchini, canovaccio di Biancolelli costruito sul tema del sosia. La contiguità dei due
spettacoli può essere letta come una conferma ulteriore dell’indifferenza di Molière e di Biancolelli
nei confronti di un’eventuale contesa per la priorità dell’invenzione (del resto, sul tema del sosia
esistevano modelli illustri e notissimi, oltre che precedenti vistosi nel repertorio della stessa
compagnia italiana); al punto che l’attore-autore che in quell’occasione ha preso ispirazione
dall’altro - che sia stato Molière o Biancolelli - non si è preoccupato di distanziare nel tempo - visto
che comunque non era possibile nello spazio la prova della sua imitazione. Ma è verosimile che
quella contiguità non evitata indicasse qualcos’altro.
Biancolelli doveva avvertire non senza compiacimento come il lamento dello Zanni per il
tradimento di Diamantina tendesse a caricarsi della suggestione lasciata in scena a sere alterne da
Innamorati nobili, eroici e sovrumani. A Molière non doveva dispiacere la prospettiva che ai suoi
personaggi in scena si sovrapponessero le ombre delle maschere che avevano abitato lo stesso
palcoscenico la sera precedente; e che le immagini di Arlecchino e del suo sosia balordo
interferissero - fantasmi della memoria - oltre che con le figure dì Mercure e di Sosie, anche con
quelle di Amphitryon e di Jupiter, data l’ambiguità che nei Dui Arlechini presiede a una parte
sospesa tra i ruoli del servo e del padrone com’è lì quella di Arlecchino, unico personaggio a
vedersi riflesso in un sosia.
La congettura può spingersi oltre: Molière era forse consapevole che la scena in cui il sosia di
Arlecchino si spaccia per un diavolo avrebbe potuto riaffiorare nella mente degli spettatori - come
una sorta di rovescio irriverente e invasivo - nel momento in cui Jupiter si autoproclamava un dio,
anzi il sovrano di tutti gli dei, rendendo così più inquietante, oltre che vertiginosa, la mise en abyme
21
delle figure del doppio nella sua pièce.
Tra Molière e Biancolelli si era finalmente instaurata - suggerisce quella congettura - una sottile rete
di complicità, un gioco lucido di rispecchiamenti, di allusioni: ai fini di una sovradeterminazione
concertata degli effetti finali, di un potenziamento reciproco di suggestioni liminari e di proiezioni
fantasmatiche.
E il Palais-Royal è stato - più che un palcoscenico a doppia faccia - un luogo di incroci
interrappresentativi.
Un’ultima suggestione. Quando muore Molière, il 17 febbraio 1673, i Comédiens du Roi de la
Troupe Italienne - ora diretti da Biancolelli - stanno rappresentando un’edizione ampliata del
Convitato di Pietra: l’Agiunta, o la Suitte du Festin de Pierre, che va in scena per la prima volta nel
febbraio del 1673. Senza dubbio la stesura biancolelliana è stata redatta dopo molte repliche,
certamente dopo la morte di Molière, forse a ridosso di quella morte. E’ presumibile inoltre che la
compagnia italiana non abbia interrotto gli spettacoli, a differenza di quella francese che riprende a
recitare solo il 24 febbraio, e che l’Agiunta sia andata in scena proprio il sabato 18 febbraio.
In nessun altro momento della raccolta di Biancolelli la parte di Arlecchino appare così circondata
di silenzio e di oscurità. Fin dalla prima lettura del canovaccio, colpiscono i toni cupi che lo
21
E sulla supremazia degli aspetti scenici e attoriali nell’Amphitryon, vedi J.MESNARD, Le dédoublement dans
l’Amphitryon de Molière, in Thèmes et genres littéraires aux XVII et XVIII siècles. Mélanges en l’honneur de Jacques
Truchet, cit., pp.453-472.
dominano, i fremiti di spavento ricorrenti e tutti immersi in scene notturne. Solo sul palcoscenico,
nella penombra di una notte simulata, Arlecchino pronuncia - con la voce forse più estraniata del
solito quella sera di metà febbraio - un elogio della quiete, un elogio balordo e insieme percorso da
una vena di malinconia inattesa. Ancora più sorprendente è la sua battuta iniziale, battuta che dice la
propria paura che nel buio le parole si perdano e che la perdita sia senza rimedio: «Dans ma
première scène, quand mon maistre a donné la serenade et s’est retiré, je dis que la nuit est bien
obscure et qu’il ne faut pas parler, parce que si mes parolles estoient perdues, je ne pourois plus les
retrouver dans l’obscurité» 22. Paura scaramantica s’intende, che esprime l’auspicio rovesciato che
le parole restino visibili oltre la notte. Colpisce nella battuta il rinvio a una corporalità della parola,
perché significa il rinvio a una parola specificamente teatrale. E colpisce non meno il richiamo a
una fonte comune, a cui ho già accennato: Rabelais. Rabelais, che nel Quart Livre parla di parole
non meno corpose, parole rapprese dal gelo che all’improvviso si disgelano al finire dell’inverno e
al tepore delle mani. Rabelais che con le sue favole narrative ad altissimo tasso di polifonia (e che
sembrano fatte per essere lette a voce alta), può assurgere in qualche modo a simbolo delle affinità
profonde che sono state sperimentate da due attori-autori in quel luogo comune del teatro moderno
che è stato dal 1662 al 1673 il Palais-Royal.
DELIA GAMBELLI
Università di Roma “La Sapienza”
22
Arlecchino a Parigi, II, Lo scenario di Domenico Biancolelli, cit., p. 319