moliere e biancolelli al palais-royal, ovvero i doppi sensi dell
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moliere e biancolelli al palais-royal, ovvero i doppi sensi dell
da La Commedia dell’arte tra Cinque e Seicento in Francia e in Europa. Atti del Convegno Internazionale di Studi a cura di Elio Mosele Fasano (BR), Schema Editore 1997 DELIA GAMBELLI MOLIERE E BIANCOLELLI AL PALAIS-ROYAL, OVVERO I DOPPI SENSI DELL’INVENZIONE Nel gennaio del 1662 per ordine del Re la compagnia italiana diretta da Domenico Locatelli, e di cui faceva parte l’Arlecchino Domenico Biancolelli, si insediava nella stessa sala del Palais-Royal dove esattamente un anno prima aveva cominciato a recitare la troupe di Molière. La decisione di Luigi XIV - dettata da pure ragioni pratiche - rinnovava una coabitazione già sperimentata dalle due compagnie al Petit-Bourbon dal novembre del 1658 al luglio del 1659; una coabitazione destinata a influire sulle sorti del teatro francese e italo-francese del Seicento, e che ha probabilmente fornito un appiglio all’accusa rivolta a Molière di copiare gli Italiens; e di copiarli non solo nella recitazione:«{...] puisqu’il est certain qu’il [Molière] est singe en tout ce qu’il fait, et que non seulement il a copié les Prétieuses de M. l’Abbé de Pure, jouées par les Italiens, mais encore qu’il a imité par une singerie, dont il est seul capable, le Médecin volant, et plusieurs autres pièces des mêmes Italiens [...] 1 Formulata da rivali e concorrenti - il cui accanimento denigratorio è tradito in questo caso dalla tendenziosità trasparente delle scelte lessicali: «il est singe [...] il a imité par une singerie» - l’accusa occupa una posizione di spicco tra le voci polemiche che cercavano invano di contrastare i primi successi molieriani e finisce per circolare anche negli ambienti non specialistici ed extrateatrali. Pur denunciando colpe ben più pesanti, l’autore delle Observations sur une comédie de Molière intitulée Le Festin de Pierre non rinuncia a portare l’attacco anche su quel fronte, riconoscendo malignamente a quel «diable incamé» di Molière, tra i suoi scarsissimi meriti, quello di tradurre abbastanza bene l’italiano 2. Sorprendentemente in pochi anni all’accusa, pur così circoscritta e reiterata, di aver copiato gli Italiens subentra, fino a sostituirla, o per meglio dire ad assorbirla completamente, una colpa più grave (sulla quale si erano già soffermate, se pur marginalmente, le Observations sur Le Festin de Pierre appena menzionate): quella di aver praticato - e con protervia - la farsa. 1 A. B. DE SOMAIZE, Les Véritables Prétieuses, éd. P. Lacroix, Genève, J. Gay et fils, 1868 (1a ed.: J. Ribou, 1660), p. 8. Critiche analoghe si leggono nelle Nouvelles nouvelles di Donneau de Visé (1663) e tra le righe dell’ Advis au Lecteur de Le Médecin volant di E. Boursault (A Paris, chez N. Pepingué, 1665):«Le Medecin Volant que j’expose à ton jugement, mon cher Lecteur, est l’une des plus aimables Pièces qui soit au Theatre, & j’en puis parler de la sorte sans choquer la bien-seance, puisque ce n’est pas moy qui en suis l’Auteur. Le sujet est italien; il a esté traduit en nostre langue, représenté de tous costez; & je crois qu’il est plus beau de ma façon que d’aucune autre, à cause qu’outre la traduction qui en est fidele, il a encore la grace de la Poësie». E sull’assimilazione del bouffon alla scimmia, vedi D. BERTRAND, Dire le rire à l’âge classique. Représetrer pour mieux contrôler, Publications de l’Université de Provence, 1995, pp. 79-80. 2 B. A. Sr. D. R., Observations sur une comédie de Molière intitulée Le Festin de Pierre (1665), in MOLIÈRE, Oeuvres complètes, textes ét., prés. et ann. par G. COUTON, «Bibliothèque de la Pléiade». v. II, pp. 1199-1208. Nel rammaricarsi per l’occasione persa da Molière (di vincere il primo premio come autore comico nella guerra a venire tra Antichi e Moderni), Boileau depreca il suo cedimento di fronte alle tentazioni di un genere facile e popolare. Rammarico significativo, che riflette il dibattito sempre più radicale negli ultimi decenni del Seicento sul teatro e sul teatro comico in particolare 3. Si andava appesantendo intatti la condanna di un riso non riscattato da un’intenzione satirica, e disgiunto da un castigo benefico 4. Per quanto ancora seducenti sulla scena e apprezzati dal pubblico, gli spettacoli italiani a Parigi rimanevano ascritti a un genere basso, soprattutto inutile. E la tolleranza - comunque relativa - da parte dei censori nei loro confronti va anche vista alla luce di una irrimediabile diversità di quel teatro, considerato come una sorta di zona franca proprio in quanto straniero, estraneo ai lavori in corso di codificazione etica ed estetica della società. È naturale che in tale situazione non siano stati né avvertiti né segnalati eventuali prestiti in senso opposto: dell’Ancien Théâtre Italien da Molière. Non è un caso che quei prestiti siano invece sottolineati, a metà del Settecento, da Thomas-Simon Gueullette, traduttore della raccolta di canovacci di Biancolelli; non è un caso, perchè proprio il suo apprezzamento per l’Ancien Théâtre Italien, di cui resta a tutt’oggi uno dei rari conoscitori, porta Gueullette a rintracciare nei lazzi biancolelliani i segni dell’imitazione da Molière, e ad annotarli. Dopo Gueullette, anche gli editori della sua Traduction dello Scenario di Biancolelli - i Frères Parfaict - e gli altri storici del teatro settecenteschi - d’Origny, Desboulmiers - denunciano quei prestiti: anche se nei loro commenti si intrecciano di nuovo ammirazione per alcune trovate isolate con una sostanziale distanza. Emblematico il giudizio di d’Origny sul Basilisco di Bernagasso - Le Dragon de Moscovie:«Le Dragon de Moscovie n’est qu’une foible imitation du Tartuffe de Molière» 5. Molière non è il solo drammaturgo francese con il quale lo Scenario accenda contatti intertestuali: Corneille, Pradon, Racine e Quinault vi sono presenti, e in misura più consistente di quanto Gueullette e i successivi editori o commentatori abbiano finora segnalato 6. Ma quei contatti traducono sempre un’intenzione dichiaratamente parodistica 7; mentre Molière è spudoratamente imitato, con la stessa disinvoltura con la quale risultano copiati o tradotti autori spagnoli, da Lope de Vega, a Tirso de Molina, a Quevedo, a Calderón, a Rojas Zorrilla. Con la differenza che i prestiti dal teatro spagnolo appartengono per lo più a materiali ereditati da Biancolelli; i prestiti da Molière, invece, sono una sua originale invenzione 8. E un’invenzione interessata: se infatti Arlecchino va a 3 La diffidenza del potere - in particolare religioso - nei confronti del teatro comico e la tendenza da parte dei suoi difensori, a vedervi solo un’arma per la normalizzazione sociale, sono acutamente denunciate come indizi della mediocrità del dibattito sul riso nel Seicento da CH. MAZOUER, L’Eglise, le théâtre et le rire au XVII siècle, in L’art du théâtre. Mélanges en hommage à Robert Garapon, textes réunis et publiés pur Y. Bellenger, G. Conésa, J. Garapon, Ch. Mazouer et J. Serroy, Presses Universitaires de France, 1992. pp. 349-360. 4 P. DANDREY - che si sofferma in particolare sul primo bilancio dell’opera di Molière formulato nel Jugements des Sçavants […] di A. Baillet (1684) - rileva come la stessa posterità di Molière sia debitrice di un’immagine depurata del suo teatro messa in moto fin dal 1682 (Situation de Molière en 1683-1685: diffusion, reception et influence de son oeuvre dans la vie culturelle française, in De la mort de Colbert à la révocation de l’édit de Nantes: un monde nouveau?. XIVe Colloque du C.M.R. 17, Actes réunis [...] pur L. Godard de Donville sous la direction du Professeur R. Duchêne, 1985, pp. 377-392). 5 A.-J.-B-A. D’ORIGNY. Annales du théâtre italien depuis son origine jusqu’à ce jour, dédiées au Roi. Paris, chez la Veuve Duchesne libraire, 1788, t. 1., p. 13-14. 6 Per le indicazioni specifiche rinvio alle note alla mia edizione dello Scenario (Arlecchino a Parigi,II , Lo Scenario di Domenico Biancolelli ed, critica, introd. e note di D. GAMBELLI. Roma. Bulzoni, in corso di stampa). Qui il mio proponimento vuol essere quello di una riflessione finale sui materiali di lavoro di cui do lì conto. 7 F. MOUREAU segnala la presenza di una componente ambigua e ambivalente nell’uso che della parodia fa l’Ancien Théâtre Italien, per lo meno nei confronti dell’opéra di Lully (De Ghepardi à Wateau. Présence d’Arlequin sous Luis XIV, Paris, Klincksieck, 1992, pp. 63-75): si tenga presente comunque che Moureau prende in considerazione solo le pièces redatte dopo il 1680. 8 Ma in due casi un prelievo da un modello spagnolo sembrano anch’essi attribuibili all’ ”invenzione biancolelliana. Si tratta della lunga tirata arlecchinesca di Arlecchino poeta e putino, ispirata dall’Historia de la vida del Buscòn llamado scuola da Sganarelle e da Scapin, lo fa soprattutto - anche se non solo - per cimentarsi, se pure di sfuggita e quasi per un lapsus improvviso, in una frecciata satirica. Esemplare, da questo punto di vista, il caso del Convitato di Pietra, in cui Biancolelli registra - e Gueullette traduce - una battuta censurata in cui Arlecchino preannuncia che un giorno o l’altro all’inferno insieme a Don Giovanni andranno anche tutti i grandi signori, Re compreso («O Roy, vous sçaurez que mon maistre est à tous les diables, où vous autres, grands seigneurs, irez aussy quelques jours» 9. Colpito dagli scandali che si abbattevano sul suo coinquilino di palcoscenico e che coinvolgevano la sua stessa sala teatrale (penso soprattutto all’arrivo di un ufficiale giudiziario alle porte del Palais-Royal, il 6 agosto 1667, con la notifica di divieto di rappresentazione per Tartuffe), Biancolelli deve aver cominciato a interrogarsi sul rapporto tra teatro e società e sul mestiere dell’attore; a vivere con sempre maggiore lacerazione la tensione tra la consapevolezza dell’alto valore tecnico e retorico delle proprie composizioni e la messa in discussione della loro “utilità”. Da qui le ombre, le battute realistiche e la prima scena censurata di cui sia rimasta traccia nella storia dell’Ancien Théâtre Italien: che è appunto quella appena menzionata. (Da qui, a mio parere, l’idea stessa di cominciare a raccogliere le sue scene, seguendo un progetto duplice e già praticato dai comici delle generazioni precedenti: di lasciare una traccia della sua arte e di nobilitare il mestiere di attore affiancandolo a una produzione letteraria) 10. Proprio il Convitato di Pietra rappresenta un caso intertestuale estremamente intricato, che s’inserisce nel corpus teatrale aggrovigliato e multiforme costituitosi nel Seicento intorno alla figura di Don Giovanni. Questo spiega l’interesse di cui ha continuato a essere oggetto, a differenza di tutto il resto dello Scenario, rifluito imprevedibilmente nell’ombra; ma spiega anche l’approccio particolare con il quale è stato osservato. Il Convitato infatti è stato letto solo in controluce, o meglio alla luce di canovacci precedenti oggi perduti; anche da uno studioso meritevole come Gendarme de Bévotte, che finisce per esprimere giudizi contrastanti e confusi sui suoi rapporti con il Don Juan di Molière 11. Ora, una lettura in controluce è condivisibile e opportuna e persino necessaria, se si tratta di indagare nel loro complesso i rapporti tra Molière e l’Ancien Théâtre Italien, perché la stesura di Biancolelli appare davvero il luogo di incontro di sedimenti arcaici del teatro dell’Arte e di nuove strategie, attente in particolare ai successi molieriani, anche a quelli forse soprattutto a quelli - subito censurati o tacitati. Ma là dove si persegua un confronto specifico tra il Dom Juan e il Comitato di Biancolelli, non si può prescindere da un’indagine circoscritta a questa versione. Solo dopo Giovanni Macchia 12, che per primo ha analizzato in modo organico le affinità strutturali tra il Convitato di Pietra di Biancolelli e la pièce molieriana, Spaziani ha affrontato il problema della priorità cronologica, definendo il primo una sorta di parodia della seconda 13. L’ipotesi non è fondata (Spaziani non tiene conto della raccolta nel suo insieme; don Pablos, ejemplo de vagamundos y espejo de tacaños, di F. de Quevedo Villegas (1626), di cui erano state pubblicate molte traduzioni in Francia (Paris. P. Billaine, 1633 e G. Quinet, 1644 e 1645; Rouen, J. Besongne, 1655). E di un segmento scenico della Dotte per la metempsicose, ispirato inequivocabilmente da La Devociòn de la Cruz di Calderòn de La Barca (1631-1633). 9 Arlecchino a Parigi, II , Lo Scenario di Domenico Biancolelli, cit. p. 309. 10 Non sembra rimanere traccia nello Scenario di quello che era stato il progetto più alto di Flaminio Scala: di affermare - con la pubblicazione de Il teatro delle favole rappresentative - un genere letterario nuovo e una scrittura dotata di una tecnica specifica, superiore alla scrittura estesa per efficacia teatrale. 11 G. GENDARME DE BEVOTTE, Le Festin de Pierre avant Molière, nouvelle éd. mise à jour par R. GUICHEMERRE, «Société des Textes Français Modernes», Paris, Nizet, 1988 (1a ed.: 1906), p. 336; e ID., La légende de Don Juan, Paris, Hachette, 1906 (Genève,Slatkine,1993) v.I pp. 158-159. vedi anche G.ATTINGER, L’esprit de la Commedia dell’Arte dans le Thèâtre Française, Paris, Librairie Théâtrale La Baconnière, 1950 ( Genève,Slatkine,1969), pp.83-84. 12 G. Macchia, Vita avventure e morte di Don Giovanni, Milano, Adelphi, 1991 (la ed.: Bari, Laterza, 1966), in particolare p. 25. 13 Per M. Spaziani il canovaccio va considerato, se non una vera e propria parodia, una libera interpretazione in chiave farsesca del Don Juan di Molière, a cui Biancolelli avrebbe assistito il 15 febbraio 1665, prima, dunque di qualsiasi intervento di censura (M. SPAZIANI, Don Giovanni. Dagli scenari dell’arte alla Foire”, Roma, Edizioni di Storia e soffermandosi solo sul Convitato, non ha termini di paragone per valutare l’intenzione parodistica), ma risulta utile: ha infatti il merito di richiamare l’attenzione sul forte influsso del Dom Juan nella stesura dello Scenario. Dunque, per lo meno nella seconda metà degli anni Sessanta l’imitazione al Palais-Royal è già prevalentemente a un senso e a senso unico; questo è quanto documenta la raccolta di Biancolelli. Ma paradossalmente la stessa raccolta permette di misurare la profondità dell’influsso della Commedia dell’Arte su Molière: e lo permette per la sua particolare struttura, sospesa al crocevia tra antico e nuovo, tra Italia e Francia. Quei canovacci rispecchiano, sì, la modificazione subita appunto nel viaggio tra l’Italia e Parigi, ma serbano nello stesso tempo - come si è già accennato - i segni della tradizione, la memoria delle stesure anteriori. Nella prima parte dello Scenario — che comprende i materiali più “arcaici” — risaltano e occupano un posto rilevante il Basilisco di Bernagasso, il Medico volante e il Convitato di Pietra. Intorno ai tre canovacci, che appartengono al repertorio tradizionale, si addensano nodi intertestuali particolarmente intriganti, che coinvolgono oltre a tutto altri autori (come si è già sottolineato per il Convitato di Pietra), da Boursault a Dorimond. E le versioni di Biancolelli da una parte tengono conto, in modo più o meno meno trasparente ma inequivocabile, delle pièces di Molière, dall’altra si presentano come una evidente variazione su materiali precedenti dell’Arte (materiali ben noti a Molière almeno fin dal 1658): si pensi solo alla mancanza nel Medico volante di tutto il terzo atto, come di cosa tanto nota da renderne inutile la registrazione. E lo stesso Convitato — nella stesura di Biancolelli — assomiglia più a una messa in evidenza delle varianti arlecchinesche su trame ben assestate, che a una sequenza ordinata e organica di scene. Ora, questi tre canovacci sono i corrispondenti italiani del Tartuffe, del Dom Juan, oltre che del Médecin volant, punto di partenza di tutto il corpus di pièces intorno al tema della medicina. (Tema che più di ogni altro si è prestato a sovradeterminazioni semantiche e a sovrastrutture simboliche e che collega con un laccio sottile e profondo i primi essais rappresentativi all’ultima prova, Le Malade imaginaire). Che al centro del teatro molieriano, e nei suoi punti nevralgici, si trovino pièces basate sugli stessi argomenti intorno ai quali erano costruiti i canovacci presenti nel repertorio degli Italiens a Parigi almeno fin dal 1662, è constatazione che potrebbe anche rimanere nell’ambito della indicazione delle fonti. Indicazione che rischia di essere poco feconda nel caso di Molière, perché i luoghi originali e gli effetti inediti a cui approda finiscono per rendere il legame con i materiali da cui prende l’avvio puramente anedottico (e del resto, Molière ha ampiamente attinto anche dal patrimonio comico francese, da Tabarin a Scarron 14, il cui influsso è rintracciabile peraltro nello stesso Biancolelli). Ma non si può non tener conto del rapporto stretto e costante con la compagnia italiana. Ed è con la Commedia dell’Arte che il teatro di Molière rivela profonde affinità di gusto e di metodo. Di recente è stata analizzata la presenza di tecniche comuni nel modo di costruire le azioni 15 (noto en passant che alcune tra le più recenti e significative acquisizioni della critica molieriana provengono da studiosi che possiedono contemporaneamente una rara conoscenza dell’Ancien Letteratura, 1978, p. 56: e Idem, Un capitolo nella storia di Don Giovanni: Moliere parodiato da Biancolelli?, in Mélanges à la mémoire de Franco Simone. France et Italie dans la culture européenne, II,. XVII et XVIII siècles, Genève, Slatkine, 1981, v.II, pp. 279-294). Uno studio attento del canovaccio di Biancolelli si deve a Enea Balmas, che ha intravisto lo stravolgimento del personaggio di Don Giovanni e un suo avvicinamento allo Zanni (Gli altri don Giovanni: lo scenario del Biancolelli, in Studi di cultura francese ed europea in onore di Lorenza Maraini, Fasano Schena, 1983. pp. 233-249). 14 E non solo dallo Scarron drammaturgo. Sul ruolo dei romanzi comici nella storia del riso nel classicismo francese, e sulla loro conservazione di forme comiche tradizionali e “popolari”, vedi in particolare J. SERROY, Rire au XVIIe siècle. L’exemple des Histoires comiques, in Correspondances. Mélanges offerts à Roger Duchêne, études réunies par W. LEINER et P. RONZEAUD. Tübingen, Gunter Narr Verlag / Publications de l’Université de Provence, 1992. pp. 253-264. 15 Cfr. G. CONÉSA, Molière et l’héritage du jeu comique italien, in L’art du théâtre. Mélanges en hommage à Robert Garapon, cit., pp. 177-187. Théâtre Italien 16). E lo Scenario permette di rintracciare un’altra più sottile ma non meno fondante affinità: perché la pratica teatrale di Biancolelli - come quella di Molière - si rivela attentissima, se pure attraverso procedimenti diversi e con esiti del tutto dissimili, all’invenzione di un sistema rigoroso di leitmotive e di figure ricorrenti; alla rappresentazione, insomma, di una coerenza interiore. Quanto alle affinità di gusto, viene subito alla mente la forte componente farsesca che sottende i due teatri. Jacques Morel ha acutamente osservato come la dimensione farsesca non abbia mai smesso di assumere un ruolo strutturante nell’opera di Molière 17. Non è irrilevante che una pièce impegnata nel progetto di disegnare i contorni di una percezione moderna del mondo, qual’è Tartuffe, veda il protagonista Orgon nascondersi sotto un tavolo in una scena inequivocabilmente farsesca, che è una scena cruciale per lo sviluppo dell’azione 18 (e si noti che nella stesura di Biancolelli è Arlecchino a fare la parte del padrone, un padrone ridicolo e balordo, naturalmente). E motivi farseschi scorrono nel Dom Jiuan: penso alla scena della duplice seduzione di Charlotte e di Mathurine (II, 4), e non solo a quella. Ma le affinità vanno oltre l’uso di materiali simili e travalicano la messa in scena comune di tecniche raffinate e funzionalissime portate dall’Italia (tecniche che in realtà nel viaggio avevano perduto qualcosa del loro fulgore originario). Le affinità si verificano anche nell’interesse mostrato da Molière ai tratti specifici e alle strategie di mercato peculiari adottati dagli Italiani a Parigi. Di fronte alle difficoltà collegate con una stabilità impegnativa, con la concorrenza sempre più agguerrita delle altre compagnie parigine, con la sempre decrescente conoscenza dell’italiano da parte del pubblico, gli Italiens avevano sbilanciato l’organizzazione interna dei canovacci in favore delle parti comiche. Avevano così inventato un rapporto inedito tra serio e buffo, tra azione burlesca e azione innamorata, tra comico e tragico. Quel rapporto, invece di esaurirsi nel gusto barocco dei contrasti, o nella ricerca sperimentale di nuovi equilibri, finiva per mettere in scena lo screditamento e la presa in giro di ogni gravità. Finiva per attentare ai fondamenti di una gerarchia verticistica dei generi, mostrando come possano essere pericolose per il tragico le relazioni con il comico. E Molière ha colto la potenzialità eversiva - ed espressiva - di quell’invenzione e l’ha utilizzata contro le macchine della tragedia - e le macchinazioni di ogni sapere autoritario, di ogni terrorismo culturale -, trasformandola in arma efficace per le sue battaglie 19. D’altra parte, quel rapporto nuovissimo tra tragico e comico (peraltro non estraneo al progetto di un mondo «allégé» 20), rinviava a lontane radici comuni, a una centralità del riso nella giusta ricezione dello spettacolo e nella giusta percezione del mondo, a un’equivalenza antica tra riso e senso (oltre che alla messa in contatto di una cultura carnevalesca, orale, con una cultura erudita, scritta). Non a caso, la lettura attenta dello Scenario rivela sullo sfondo tracce di una presenza imprevista: quella di Rabelais. Che siano l’esito di prestiti diretti, o che si tratti di frammenti riconducibili a una comunità europea del riso, a una sua libera circolazione al tempo di una promettente rinascenza, 16 Penso in primis a Charles MAZOUER, molierista illustre e, insieme, curatore di una nuova ed esemplare edizione del Théâtre Italien di Gherardi (textes établis, presentés et annotés par Ch. M., Paris. «Société des Textes Français Modernes», 1994), oltre che di altri lavori documentati. 17 J. MOREL. De quelques emprunts de Molière au « Roman comique », in Thèmes et genres littéraires aux XVIII siècles. Mélanges en l’honneur de Jacques Truchet publiés sous la direction de N. FERRIER-CAVERIVIÈRE, Paris. Presses Universitaires de France, 1992, in particolare p. 430: «L’invention. le rythme et la verdeur de langage propres à la farce n’ont pas cessé de donner à son oeuvre une de ses dimensions fondamentales». 18 Per la lettura di questa e di altre scene farsesche nella pièce, vedi R. GUICHEMERRE, Tartuffe ou le dépassement de la farce, in Seminari Pasquali di analisi testuale, 9. Tartuffe, Pisa, Edizioni ETS, 1994. pp. 65-75. 19 A una di tali battaglie - a mio parere la più significativa - ha dedicato uno studio convincente e documentato C. BOURQUI, Polémique et stratégies dans le « Dom Juan » de Molière et les machines de la tragèdie, in « Littératures Classiques »,l’esthétique de la comédie,27,1996. pp.43-52. 20 L’espressione è tratta dallo studio di Ch. MAZOUER, Molière et ses comédies-ballets, Paris, Klincksieck, 1993, che è molto più di un’analisi di un corpus di pièces appartenenti a un genere. Quanto alla presenza di fondamenti comuni in Rabelais, in Molière come nella Commedia dell’Arte, vedi naturalmente M. BACHTIN, L’opera di Rabelais e la cultura popolare. Riso, carnevale e festa nella tradizione medievale e rinascimentale, Torino, Einaudi, 1979 (ed. originale: 1965). rimane comunque la constatazione di una fonte comune - e di una fonte altamente significativa con il teatro di Molière. Dunque, non si tratta solo di prestiti reciproci e consenzienti, messi in atto da Molière e Biancolelli. Punti di contatto profondi tra due pratiche e due poetiche del teatro appaiono sullo sfondo del Palais-Royal. Punti di contatto profondi e in parte ancora oscuri. E come è prassi negli studi sulla Commedia dell’Arte, a ricerche documentarie e filologiche severe, persino puntigliose, si affiancano silenziosamente, compagni di viaggio improvvisi ed enigmatici, gli spazi per la congettura. Penso a una coincidenza suggestiva. Le rappresentazioni dell’Amphitryon di Molière, andato in scena per la prima volta al Palais-Royal il 13 gennaio 1668, si sono certo intersecate con quelle de Li dui Arlecchini, canovaccio di Biancolelli costruito sul tema del sosia. La contiguità dei due spettacoli può essere letta come una conferma ulteriore dell’indifferenza di Molière e di Biancolelli nei confronti di un’eventuale contesa per la priorità dell’invenzione (del resto, sul tema del sosia esistevano modelli illustri e notissimi, oltre che precedenti vistosi nel repertorio della stessa compagnia italiana); al punto che l’attore-autore che in quell’occasione ha preso ispirazione dall’altro - che sia stato Molière o Biancolelli - non si è preoccupato di distanziare nel tempo - visto che comunque non era possibile nello spazio la prova della sua imitazione. Ma è verosimile che quella contiguità non evitata indicasse qualcos’altro. Biancolelli doveva avvertire non senza compiacimento come il lamento dello Zanni per il tradimento di Diamantina tendesse a caricarsi della suggestione lasciata in scena a sere alterne da Innamorati nobili, eroici e sovrumani. A Molière non doveva dispiacere la prospettiva che ai suoi personaggi in scena si sovrapponessero le ombre delle maschere che avevano abitato lo stesso palcoscenico la sera precedente; e che le immagini di Arlecchino e del suo sosia balordo interferissero - fantasmi della memoria - oltre che con le figure dì Mercure e di Sosie, anche con quelle di Amphitryon e di Jupiter, data l’ambiguità che nei Dui Arlechini presiede a una parte sospesa tra i ruoli del servo e del padrone com’è lì quella di Arlecchino, unico personaggio a vedersi riflesso in un sosia. La congettura può spingersi oltre: Molière era forse consapevole che la scena in cui il sosia di Arlecchino si spaccia per un diavolo avrebbe potuto riaffiorare nella mente degli spettatori - come una sorta di rovescio irriverente e invasivo - nel momento in cui Jupiter si autoproclamava un dio, anzi il sovrano di tutti gli dei, rendendo così più inquietante, oltre che vertiginosa, la mise en abyme 21 delle figure del doppio nella sua pièce. Tra Molière e Biancolelli si era finalmente instaurata - suggerisce quella congettura - una sottile rete di complicità, un gioco lucido di rispecchiamenti, di allusioni: ai fini di una sovradeterminazione concertata degli effetti finali, di un potenziamento reciproco di suggestioni liminari e di proiezioni fantasmatiche. E il Palais-Royal è stato - più che un palcoscenico a doppia faccia - un luogo di incroci interrappresentativi. Un’ultima suggestione. Quando muore Molière, il 17 febbraio 1673, i Comédiens du Roi de la Troupe Italienne - ora diretti da Biancolelli - stanno rappresentando un’edizione ampliata del Convitato di Pietra: l’Agiunta, o la Suitte du Festin de Pierre, che va in scena per la prima volta nel febbraio del 1673. Senza dubbio la stesura biancolelliana è stata redatta dopo molte repliche, certamente dopo la morte di Molière, forse a ridosso di quella morte. E’ presumibile inoltre che la compagnia italiana non abbia interrotto gli spettacoli, a differenza di quella francese che riprende a recitare solo il 24 febbraio, e che l’Agiunta sia andata in scena proprio il sabato 18 febbraio. In nessun altro momento della raccolta di Biancolelli la parte di Arlecchino appare così circondata di silenzio e di oscurità. Fin dalla prima lettura del canovaccio, colpiscono i toni cupi che lo 21 E sulla supremazia degli aspetti scenici e attoriali nell’Amphitryon, vedi J.MESNARD, Le dédoublement dans l’Amphitryon de Molière, in Thèmes et genres littéraires aux XVII et XVIII siècles. Mélanges en l’honneur de Jacques Truchet, cit., pp.453-472. dominano, i fremiti di spavento ricorrenti e tutti immersi in scene notturne. Solo sul palcoscenico, nella penombra di una notte simulata, Arlecchino pronuncia - con la voce forse più estraniata del solito quella sera di metà febbraio - un elogio della quiete, un elogio balordo e insieme percorso da una vena di malinconia inattesa. Ancora più sorprendente è la sua battuta iniziale, battuta che dice la propria paura che nel buio le parole si perdano e che la perdita sia senza rimedio: «Dans ma première scène, quand mon maistre a donné la serenade et s’est retiré, je dis que la nuit est bien obscure et qu’il ne faut pas parler, parce que si mes parolles estoient perdues, je ne pourois plus les retrouver dans l’obscurité» 22. Paura scaramantica s’intende, che esprime l’auspicio rovesciato che le parole restino visibili oltre la notte. Colpisce nella battuta il rinvio a una corporalità della parola, perché significa il rinvio a una parola specificamente teatrale. E colpisce non meno il richiamo a una fonte comune, a cui ho già accennato: Rabelais. Rabelais, che nel Quart Livre parla di parole non meno corpose, parole rapprese dal gelo che all’improvviso si disgelano al finire dell’inverno e al tepore delle mani. Rabelais che con le sue favole narrative ad altissimo tasso di polifonia (e che sembrano fatte per essere lette a voce alta), può assurgere in qualche modo a simbolo delle affinità profonde che sono state sperimentate da due attori-autori in quel luogo comune del teatro moderno che è stato dal 1662 al 1673 il Palais-Royal. DELIA GAMBELLI Università di Roma “La Sapienza” 22 Arlecchino a Parigi, II, Lo scenario di Domenico Biancolelli, cit., p. 319