Presentazione

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Al mosaico della baresità, che in tutti questi anni ho
costruito pazientemente con i miei libri (ricordo gli ultimi: Bari vecchia, porte aperte e Tradizioni baresane, pubblicati sempre per Progedit), mancava l’ultimo tassello, quello
legato alla gastronomia e ai sapori: La cucina del sottano.
Questo mio testo vuole appunto integrare e completare il racconto di tradizioni vissute, nella mia adolescenza, nel sottano di casa, il basso dove abitavamo,
e nei vicoli di Bari Vecchia. Per noi ragazzi degli anni
Sessanta quelle usanze si rivelarono come delle direttive
culturali ed educative di crescita.
Nella riscoperta e rivalutazione popolare del passato,
che accese in noi una scintilla di orgoglio comune, la
“baresità”, prende forza la cucina del sottano, con i suoi
colori, sapori, profumi, usi. Una cucina in prevalenza
fatta di piatti poveri, riciclati, di vere e proprie opere
d’arte della culinaria, come “rise, patane e cozze”, “la
parmigiane”, “u tembane” e tanti altri piatti che hanno
fatto la storia della cucina barese.
Una storia che viene dal passato amaro e difficile, co­
me la crisi economica dell’inizio del Novecento, come i
v
“U Uarche de le Meraviglie”, l’Arco delle Meraviglie
due conflitti mondiali, quando la ristrettezza economica
e di cibo incentivavano la creatività delle nostre donne:
le quali, anche in momenti difficili, fanno nascere dei
piatti poveri, ricchi di sughi in cui intingere l’elemento
essenziale della cucina barese di una volta, il pane, con
cui ci si riempiva la pancia. Piatti che erano l’espressione
dell’arte di arrangiarsi con pochi soldi, pur di mangiare.
Oggi quei piatti sono tornati a essere di primaria importanza. Pensiamo a “cicorie e fave”, alla “cialda”, alle
“cozze ripiene”, alle “zucchine alla poverella”, che insieme a tanti al­tri compongono la famosa “dieta mediterranea”, in cui i frutti della terra si armonizzano con quelli
del mare.
In questo volume, voglio proprio esaltare questo aspetto della cucina barese, l’aspetto storico e la sua evoluzione, i cambiamenti legati alle varie diete, che hanno finito per condizionare e modificare, in molti casi, l’assetto
e l’impianto originario del piatto, persino il gusto dello
stesso. Il libro è dunque un omaggio alle tante donne
di Bari che hanno saputo arricchire il nostro patrimonio
vi
culinario, con fatica e sacrificio, ma con il successo del
gusto e della genuinità di forti radici nel territorio.
Il “sottano” della Città Vecchia si rivela ancor oggi lo
scrigno della tradizione popolare e un focolare domestico, impregnato di usi e costumi, di sapori e odori, frutto
della maestria generosa e pazientosa, come il profumo
del ragù che aleggia la domenica nei vicoli.
Tuffiamoci allora in quest’avventura culinaria de la
“checcine du settane” con la gioia e il gusto nel riscoprire i sapori della nostra succulenta cucina barese. Ne
voglio rispolverare la storia, che è creatività ma anche
spirito di arrangiamento, come ho detto, sempre tuttavia fatta con genuinità, e semplicità, ma soprattutto con
essenziale risparmio economico.
Il trofeo che una donna del passato si meritava nasceva dalla sua capacità di realizzare piatti gustosi e genuini, che soddisfacevano il bisogno di una famiglia, in
molti casi, numerosa e affamata. Cucina barese, cucina
del sottano, piatti poveri ma carichi di sapori, e di gusto,
frutto della passione e del sacrificio del sottano, dove
nulla si sprecava o si gettava, perché tutto veniva considerato dono di Dio.
Sappiamo che esiste un forte nesso tra cucina e fede
popolare. Pensiamo a piatti legati a feste religiose (Na-
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“U pesciaiule”, il pescivendolo
tale, Pasqua e santi importanti come San Giovanni,
Sant’Antonio, San Nicola, la Candelora, la Festa dei defunti ecc.). Come esiste ancora l’usanza del pranzo dei
defunti, il famoso “u cunze”, il consolo, cena che veniva
offerta dai vicini alle famiglie toccate da un lutto, appunto per alleviarne il dolore. Insomma, la cucina del
sottano non trascurava nessuno, pronta a intervenire
nei momenti opportuni e difficili.
N.B.: dove non indicato, le ricette che riportiamo
sono per 4 persone.
Ringraziamenti
Ringrazio l’editore Gino Dato e la Progedit, quanti mi hanno
supportato e “sopportato”. Un grazie a Rosa Rizzi, a mia figlia
Valeria. Un grazie forte, infine, al fraterno amico Saverio Romito per i disegni che con passione e maestria ha realizzato.
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I piatti
poveri
I piatti poveri
Questo capitolo l’ho voluto dedicare ai piatti poveri
del passato, piatti nati da momenti difficili, come dalla
crisi economica del 1900, dai due conflitti bellici mondiali, ma soprattutto da un’esigenza del territorio e dai
frutti che codesto territorio offriva e offre ancora. Mia
madre ci raccontava che negli anni Trenta il sale veniva
ricavato dall’acqua del mare bollita più volte, perché il
sale non era ancora in commercio. In effetti, l’impasto
del pane di casa veniva fatto con acqua marina proprio
per dare il gusto del sale.
La storia dei piatti detta la storia della città e dei suoi
momenti belli e brutti, ed è veramente divertente, come
una scoperta, riportare alla luce ricette che hanno un
lo­ro significato, specie per coloro che questi momenti
li hanno vissuti. Un piatto significa un’epoca, significa
un momento storico, l’arte di arrangiarsi. Magari piatti che oggi non si fanno più, perché non più consoni
a un’alimentazione controllata e sofisticata. Piatti che,
nel menzionarli, sembrano uscire da un libro dei sogni.
Penso, per esempio, a “u pelmone che le patane” (oggi
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“Andonie de l’acque marine”, Antonio dell’acqua marina
non è più consentito vendere il polmone); al brodo con
il pesce che non c’era (“u brode cu pesce fesciute”); alle
arance condite, piatto che noi a casa mangiavamo specie
d’inverno, di cui è rimasto un tenero e simpatico ricordo
(“u marange acchenzate”). Penso ancora al piatto delle
interiora di vitello, che in dialetto vengono chiamate in
maniera pulita “le ndrame”, ma che ancor oggi vengono
volgarmente dette “le ciole”. Il brodo di pollo era composto e fatto con le ali del pollo, che costavano 150
lire il kg, dove l’odore del pollo si sentiva ma, in realtà,
senza il pollo. E quando neanche si potevano comprare le ali di pollo, nel brodo si mettevano “le ciambe de
gaddine” (le zampe di gallina) per dare l’odore del pollo.
E ricordate il piatto delle lumache (cazzavune), improponibile oggi?
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Eppure quei piatti nella coreografia e nel gusto hanno
lasciato un segno indelebile, un senso dell’arrangiarsi e
accontentarsi di quello che si aveva, grazie all’abilità e
alla creatività delle nostre donne. Questi piatti rientrano
nella gastronomia del ricordo, un ricordo povero ma ricco di ogni ben di Dio. Certamente oggi non sono da imitare, o da riproporre, ma con la crisi economica, che sta
attanagliando le famiglie e l’intero paese, forse queste
ricette possono ritornare in auge. Speriamo che questo
non accada, che queste ricette possano solo farci capire
come è stato difficile sopravvivere in quei momenti ma
non impossibile e che il sostentamento umano è frutto
del lavoro dell’uomo, che va rispettato e difeso. Scoprirete delle ricette sorprendenti e meravigliosamente fantasiose.
Ricordare questi piatti “de le poveridde” significa rispolverare lo spirito di adattamento dei nostri avi, che,
pur nei momenti difficili, non si sono persi d’animo e
hanno inventato ricette davvero speciali e tipicamente
barivecchiane. Questi piatti parlano in dialetto e sono
stati un tutt’uno con il nostro costume.
Buon appetito e, come si diceva un tempo, “storie
me, non iè chiù, male a lore e bene a nù, ce qualche
june ma demanne, me senghe megghie mò che tanne,
ce me demanne u Patrune: stogghe desciune!” (“storia
mia non è più, male a loro e bene a noi, se qualcuno mi
chiede, sto meglio ora che non prima, se me lo chiede
il titolare, sto digiuno!”… altrimenti non mi paga…).
Il lungo detto lo si recitava dopo aver fatto una bella
mangiata. Quasi che non ci si reggesse neanche più in
piedi!
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Piatto delle donne sposate (“U piatte de le mardate”)
(fave, patane e checozze)
Ingredienti: 1 cipolla, 500 g di fave con la buccia,
1 kg di patate, 500 g di zucchina, olio, sale q. b., pomodorini.
Preparazione
Mettete nel tegame un po’ di olio, imbiondite la cipolla, aggiungete le fave
con la buccia (tolto il naso), acqua quanto basta. Fate cuocere per una mezzora, poi aggiungete patate a tocchetti (quanto bastano), la zucchina a tocchetti (quanto basta). Infine, condite con olio, sale e qualche pomodorino e
fate cuocere per una buona mezz’ora.
Sugo con le lumache (“U sughe che le cazzavune”)
Ingredienti: lu mache, verdura e molliche di pane, acqua, sale, olio, pomodoro, origano, pepe q. b.
Preparazione
Fate spurgare le lumache per due giorni, all’asciutto, con foglie di verdura e
mollica di pane, coprendo il tutto. Lavatele più volte, poi mettetele in una
teglia con acqua al sale. Man mano che escono (vive), si mettono in un’altra
pentola con acqua, poi a bagnomaria. Una volta stordite, preparate in altro
tegame aglio, olio, pomodoro e origano, pepe, sale, per 5 minuti di cottura.
Aggiungete le lumache nel sugo e, al primo bollore, le “cazzavune cu sughe
iè pronde”, le lumache con il sugo sono pronte.
La stessa ricetta la si può gustare anche in bianco, usando la stessa procedura, ma senza pomodori, con olio, aglio, origano, pepe e sale.
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Polmone con le patate (“U pelmone che le patane”)
Ingredienti: 3 cipolle, 1 kg di polmone di vitello, sale e pepe q. b., 1 bicchiere di vino bianco,
1,5 kg di patate, 1 kg di pelati in barattolo.
Preparazione
In una pentola, mettete l’olio e 3 cipolle a fettine, cuocete a fuoco lento. Una
volta imbiondito l’olio, aggiungete 1 kg di polmone di vitello (lavato e scolato per bene) a pezzetti, un po’ di sale, rimescolate per 5 minuti di cottura.
Quando la cipola diventa una cremina, aggiungete 1,5 kg di patate a tocchetti, poi un pelato da 1 kg, un po’ d’acqua, sale e pepe. E dopo una bella oretta
di cottura, “u pelmone che le patane iè pronde”.
Budella con il sugo (“Le ndrame cu sughe”)
Ingredienti: pelati, aglio q. b., olio q. b., 1 kg di budella a pezzetti, prezzemolo, sale e pepe.
Preparazione
In una pentola imbiondite aglio e olio, aggiungete i pelati, sale e pepe, poi le
budella, facendo bollire per ben 2 ore e anche più.
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