Pdf Opera - Penne Matte

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Pdf Opera - Penne Matte
Drop
di Valentino Notari
La nave emette un ronzio sommesso. Nella penombra tremolante della stiva le ombre si muovono
continuamente, osservandomi, chiedendosi se sopravviverò anche questa volta. Le paratie stagne
sembrano stringermisi intorno, un freddo abbraccio di lamiera per dirmi addio. La voce del pilota, che
giunge gracchiante dall'interfono, è come un requiem per le mie orecchie: "Si sta alzando, quattordici
miglia a sud. Apertura portellone fra un minuto."
Sento il corpo caldo di Kailie attaccarmisi alla mia schiena, un meraviglioso contrasto con il gelo della
stiva. Le sue labbra mi baciano nell'avvallamento fra le scapole e, per un istante, un brivido mi
attraversa la colonna vertebrale. E se non tornassi davvero? Se oggi fosse il mio giorno?
Immagino l'onda chiudersi su di me, un milione di tonnellate di acqua salata in movimento a trecento
miglia all'ora. Sento l'oceano che mi schiaccia, nascondendomi la vista dei tre soli di Heaven,
proiettandomi nelle nere fauci di un abisso senza fondo. Il sale mi invade bocca e polmoni e il mio
ultimo pensiero è per quella ragazza che ora mi sta stringendo forte la mano, prima di chiudere la
lampo della mia muta rinforzata. Mi costringe a voltarmi, mi guarda dritto negli occhi. E' fiera di me,
riesco a leggerglielo su quel suo viso appena spruzzato di lentiggini.
"Vai a prenderla, campione" mi sussurra, prima di baciarmi sulle labbra. Rimane lì un istante, a
respirare il mio fiato, poi è lei stessa a premere il pulsante del casco. Le bande metalliche escono dai
rinforzi del collo e avvolgono il mio capo in una prigione di plastiacciaio e titanio.
"Trenta secondi" dice la voce del pilota. Intorno a noi, otto facce mi guardano con avidità, bevendosi
letteralmente ogni istante di quei trenta secondi, verosimilmente gli ultimi della mia vita. I membri del
mio team di recupero, i due ragazzi dalla pelle scura nell'angolo a sinistra, mi annuiscono con solennità,
alzando la mano a pugno con il mignolo e il pollice protesi ai lati. "Shaka Brah" mi dicono con le
labbra.
Fottuti hawaiiani e le loro usanze. Eppure devo a quei due bastardi più vite di quelle di tutti i gatti di
Neo-Capitol.
Le due telecamere della tv interplanetaria assorbono immagini come spugne di mare, mentre i cronisti
attaccano con la loro tiritera al segnale di qualche regista in cuffia. Non ascolto le loro parole, non mi
interessano. Sorrido a Kailie e mi volto proprio al momento giusto: con un sinistro cigolio il portellone
posteriore dello shuttle si apre e la stiva viene invasa dal vento. Stringo le dita sul bordo della mia
tavola in lega di titanio, nera e azzurra, con la sagoma affusolata di un manoo incisa al laser sulla coda.
Le raffiche si trasformano quasi in una brezza mentre la nave raggiunge la velocità di drop e si abbassa
sull'oceano.
Prendo un tocco di cera narmoniana da un alloggiamento a destra del portellone e la passo velocemente
sulla tavola, tastandone la superficie con la mano guantata per controllare che non sia troppo scivolosa.
Poi mi volto verso Kailie e i miei due angeli e alzo la mano, ricambiando il saluto che ogni surfista
compie prima di lanciarsi. "Shaka Brah", va tutto bene.
I miei piedi se la prendono comoda, camminano fino sull'orlo del grosso portellone. Sento l'onda prima
ancora di vederla: ruggisce simile ad una bestia imbizzarrita, un rombo sordo e gutturale, come se il
pianeta stesso mi gridasse: "Vieni! Vieni a prendermi, figlio di puttana!"
Chiudo gli occhi. "Qui Jonah, alettoni in posizione per il drop."
Tocco un pulsante e le due piccole ali piatte scattano dalla coda della tavola. Avverto subito il vento
mordere più forte, minacciando di strapparmela dalle mani.
Il pilota mi parla attraverso il dispositivo di comunicazione del casco. "D'accordo ragazzo" dice, la sua
voce non più gracchiante, ma chiara come se mi stesse sussurrando nell'orecchio. "Drop fra dieci, nove,
otto, sette..."
Conto mentalmente, le labbra si muovono al ritmo del countdown. Sporgo il collo oltre l'orlo e la vedo:
è un mostro di almeno mezzo miglio, la cresta sciabordante contro i venti d'alta quota, l'incavo dolce
ma profondo che sembra quasi invitarmi con ingannevoli avanches. La mia valle della morte.
"Via!"
Salto e porto la tavola alla pancia, tenendomi forte. Le ali fendono l'aria e rallentano la caduta,
facendomi planare assieme all'onda. Sto volando. Fremo per togliermi il casco e sentire l'aria calda di
Heaven sul viso, per avere le orecchie assordate dal rombo profondo della mia mostruosa cavalcatura
d'acqua. Una corrente ascensionale mi riporta in alto. Troppo in alto.
"Duecento piedi, in aumento!" grida la voce del pilota, allarmato.
La cresta dell'onda scorre sotto di me: la sto superando e sono troppo in alto per tentare il drop. Porto il
muso all'insù, catturando la corrente e lasciandomi portare. Vedo lo shuttle incrociare sopra di me,
adeguandosi alla mia velocità. Non riesco a scorgerli, ma so che i miei angeli sono lì, le motonavi
pronte in caso di necessità.
Sto rallentando, finalmente. Guardo giù, oltre la spalla: l'onda guadagna terreno sotto di me, rapida e
mostruosa. E' il mio appuntamento e non posso perderlo: un avvitamento su me stesso e il muso va giù,
in picchiata, le ali affilate come coltelli che fendono il vento. Cento piedi. Ottanta piedi.
"Cinquanta piedi! Cabra! Cabra!"
Stai calmo, stronzetto. So quello che faccio. A trenta piedi tiro con tutte le mie forze. L'aria diventa un
cuscino per i miei alettoni su cui poggiare. La caduta si assesta, ma sono veloce. Velocissimo. I primi
schizzi bagnano la tavola, come il primo sangue in un duello all'arma bianca. Ora.
Tocco il pulsante, gli alettoni rientrano e il vuoto mi afferra lo stomaco come un uncino. Spingo in su
con le braccia e piego il ginocchio destro, cercando la posizione. L'impatto è soffice, e per soffice
intendo come se un treno in corsa vi avesse appena colpito i polpacci. Salto in piedi al rimbalzo,
tenendo in giù la coda, che affonda nella cresta spumosa dell'onda. Il mondo si riduce a un inferno di
vapore e schiuma, i miei piedi ancorati alla tavola dalla cera narmoniana, il corpo in posizione
aerodinamica, la mano sinistra protesa in avanti come un timone. Stringo i denti mentre l'onda mi
cattura, spingendomi in avanti con tutta la sua forza primordiale. Conto mentalmente. Uno. Due. Tre!
Sposto il piede destro avanti e la punta va in giù. La gravità è mia alleata e mi dà velocità. Sbuco dalla
spuma della cresta nell'incavo e, sebbene sia il mio ventitreesimo drop, come sempre la vista mi toglie
il fiato: un fronte d'acqua quasi verticale, lungo fino all'orizzonte, alto come due grattacieli. E corre
assieme a me, verso l'infinito.
"Rimozione casco!" grido, in preda all'euforia. Tocco il pulsante sul mio polso con una semplice
torsione del pollice e in un attimo le bande dell'elmetto protettivo si ritirano nella muta. Il vento mi
investe con forza e io rispondo con un urlo di gioia selvaggia. E' un concerto d'acqua e tuono, quello
del mostro immenso che cavalco, compagno e avversario, amante e nemico mortale. E' l'onda più
grande su cui sia mai stato.
Mi piego su me stesso, la mano sinistra a sfiorare il bordo della tavola, e viro leggermente. Il muso
corre quasi parallelo alla cresta, tagliando diagonalmente. Tocco l'acqua con le dita, come ad
accarezzare quella bestia leggendaria. Una breve torsione e di nuovo in giù, verso il suo ventre
concavo, che mi accoglie come un ingannevole grembo materno. I soli picchiano sui miei capelli
lunghi incrostati di sale, già asciutti per il frustare tiepido del vento. Davanti a me, la grossa luna
Seraphine incombe nel cielo coi suoi anelli di ghiaccio. Alle mie spalle, la cresta s'innalza,
protendendosi in avanti, cercando di non farmi sfuggire alla sua presa. E' come una di quelle mantidi di
Kromor, che uccidono il maschio dopo l'accoppiamento: ora che si è divertita con me, ora che mi ha
lasciato osare cavalcarla, non può permettermi di sopravvivere per raccontarlo. Col cuore all'impazzata,
riattivo il casco.
Col cazzo, bastarda.
"Qui Jonah, la puttana mi si chiude addosso. Dove sono i miei angeli?"
E' Momoa, il più grosso dei due hawaiiani, a rispondermi col suo vocione da armadio semovente. "A
ore tre, cento piedi più su ragazzino."
Sorrido e lancio un'ultima occhiata al mostro sciabordante dietro di me. La sua ombra oscura due dei
tre soli ed incombe sulla mia testa, come la sentenza di un boia. Premo la piccola leva sulla coda con il
piede sinistro e i razzi di evacuazione si accendono rombando. La tavola vibra mentre il piccolo motore
a reazione entra in funzione, spingendomi verso l'alto, oltre la cresta dell'onda, che urla la sua
schiumosa protesta, vedendo la propria preda volarsene via. Tiro un sospiro di sollievo, osservandola
scivolare sull'oceano infinito sotto di me. Più a sud intravedo le secche, con la loro acqua cristallina
attraverso cui si specchia l'immensa Barriera Corallina. Il luogo dove ogni onda s'infrange, il cimitero a
cielo aperto dei surfisti di Heaven.
"Recupero in atto. Fuori i tiranti!"
Le due motonavi degli angeli girano in circolo sopra di me. Il motore della tavola protesta mentre le
ultime gocce di carburante vengono bruciate. Tossicchia e poi tace, ma ormai sono in salvo: due corde
di puro titanio saettano nell'aria e mi si agganciano ai polsi, attirate dai magneti posti sotto le protezioni
degli avambracci. Lo strattone è forte, ma le mie braccia allenate resistono. Volgo lo sguardo a sud e,
mentre Pauli, il minore dei tre soli, si getta nell'oceano infiammandone i flutti, vedo la mia onda
infrangersi sul corallo. E' un tripudio di schiuma, acqua e fotoni, come una bomba atomica azzurra in
cui nuoti un esercito di lucciole. Il risucchio si agita a cento piedi dal livello del mare, ribollendo
soddisfatto. Ed io, felice di non essere stato la ciliegina su quella torta, monumento alla potenza
dell'Universo, sorrido e mi godo i cinque minuti di solitudine del volo di ritorno, il viso accarezzato dal
tramonto di Heaven.