DA BERGMAN A BERGMAN A due anni dalla scomparsa di Ingmar

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DA BERGMAN A BERGMAN A due anni dalla scomparsa di Ingmar
DA BERGMAN A BERGMAN
A due anni dalla scomparsa di Ingmar Bergman, l’Assessorato alla Cultura del comune di Cagliari e
la Cineteca Sarda lo ricordano con una lunga e preziosa retrospettiva che comprende 18 film e
cinque conversazioni con studiosi di cinema, di psicanalisi, di teatro e di letteratura, quasi per
confermare una sorta di “totalità” culturale racchiusa nei suoi film.
Nato a Uppsala, prestigiosa città universitaria a nord di Stoccolma, nel 1918, Bergman era figlio di
un pastore luterano che lo educò secondo principi religiosi e morali rigidissimi. La madre,
proveniente da una famiglia benestante di Stoccolma, di carattere completamente diverso, soffrirà
non poco quel clima di isolamento che si respirava nei paesini in cui il capo famiglia doveva
risiedere per il suo ufficio religioso.
La famiglia è dunque il primo “trauma” giovanile che l’inquieto futuro regista si porterà appresso e
che comparirà spesso nei suoi film e prim’ancora nei suoi copioni teatrali. Difatti a vent’anni, lascia
la casa paterna, studia a Stoccolma, lavora al Teatro Reale e riesce a mettere in scena i suoi primi
lavori drammaturgici. In breve diventa sceneggiatore per il maggior regista svedese dell’epoca,
Gustav Molander, e nel 1946 esordisce come regista.
Il primo titolo che gli apre le porte del successo è però Prigione (1948), in cui si cominciano ad
intravedere sia i segni portanti delle sue ossessioni esistenziali: la prigione del titolo è infatti la vita:
e il cinematografo il luogo in cui si condensano tutti i sogni e le ossessioni dell’esistenza.
Il mito di Bergman – che è stato, occorre ricordarlo, anche un regista popolare, corteggiato dai
produttori alla pari di un Fellini o di un Kubrick – ha inizio, però nel 1957 con Il posto delle
fragole, film considerato tra gli autentici capolavori della storia del cinema.
Il più celebre film bergmaniano chiude, con una prima meditazione memoriale, quasi proustiana
(ma il regista avrebbe citato più facilmente il conterraneo Strindberg), la fase romantica del regista.
I due segni di crisi possono essere considerati appunto, Il settimo sigillo (1957) e Il posto delle
fragole, entrambi meditazioni sul mistero della vita. Sono sempre degli anni Cinquanta, altri due
titoli importanti, Il volto e L’occhio del diavolo, che si potrebbero definire delle commedie
disincantate, ma anche abbastanza cupe: il primo è la storia di una compagnia di illusionisti
mesmeriani che tiene i suoi spettacoli nella Svezia ottocentesca; il secondo una variazione sul tema
del Don Giovanni. Un altro celebre capolavoro in programma è Sussurri e grida (1972), primo
titolo a colori (con le dominanti rosse, bianche e nere che entusiasmarono Truffaut). È un film che,
nonostante la trama dedicata, ancora una volta, alla malattia e alla morte, ottenne un grande
successo in ogni parte del mondo, consacrando il regista come autentico artista totale. Difatti,
Bergman, scriveva da solo le sceneggiature dei suoi film, attingendo a memorie proprie o
direttamente ad un inconscio turbativo che lo avrebbe portato, spesso, a ricoveri ospedalieri e a
periodi di crisi creativa quasi paralizzanti. La terapia bergmaniana del “girare film” in cui scaricare
la propria interiorità nascosta, si alternava alle regie teatrali (da Shakespeare a Pirandello, da Kafka
a Strindberg) e operistiche (Mozart, soprattutto) e alla scrittura letteraria, prevalentemente
autobiografica e sempre di grande spessore estetico.
Al risultato di Sussurri e grida, Bergman, non a caso, arrivò con la lunga filmografia degli anni
Sessanta, divisa tra due temi portanti: il silenzio di Dio (Luci d’inverno e Il silenzio, Il rito) e la
ricerca della vera personalità femminile, nascosta dalla vita quotidiana o dalla finzione.
Un altro tema portante della sua filmografia è il teatro, a cui sono dedicati, in questa retrospettiva
due titoli: Il flauto magico, trasposizione fiabesca del capolavoro musicale mozartiano Un mondo di
Marionette, che esplora il “dietro le quinte” delle rappresentazioni.
Nel programma è presente anche la grande opera riassuntiva del suo mondo familiare e interiore, è
Fanny e Alexander, film girato per la tv e poi proiettato anche nei cinematografici nella versione
ridotta.
L’ultima serata della rassegna sarà dedicata a due bellissimi e quasi sconosciuti film televisivi,
Sarabanda (2003) e Vanità e affanni (1997). Sono entrambi e diversamente, due film testamentari
che rimandano alle origini del suo cinema e all’isolamento finale del suo creatore, autoreclusosi
nella sua isola di Faro. Vanità e affanni è la storia di un costruttore di immagini, pazzo, che sogna di
poter realizzare un film. Sarabanda racconta l’ultimo rifugio del protagonista di Scene di un
matrimonio, sempre più solo ma sempre più bisognoso degli altri. Un ennesimo sigillo biografico di
una lunghissima filmografia che, cinema, televisione e sceneggiature scritte per altri fidati amici (o
amiche, come Liv Ullmann), ha realizzato ben 74 opere.