Community hub: rigenerazione urbana e innovazione sociale

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Community hub: rigenerazione urbana e innovazione sociale
Community hub: rigenerazione urbana e innovazione sociale
Claudio Calvaresi, Ivana Pederiva
Il presente paper è articolato in tre parti. Nella prima, forniamo un sintetico riferimento di
contesto: quali sono i termini della nuova agenda urbana in Italia e in Europa. La seconda
individua cosa si sta muovendo a Milano di interessante e coerente con gli orientamenti europei
più innovativi. La terza indica qualche lezione di policy, con particolare riferimento a Milano, sul
nesso individuato dal titolo tra community hub, rigenerazione urbana e innovazione sociale.
La tesi
La tesi del paper, che dà conto del titolo, è la seguente: le politiche di rigenerazione urbana
nascono dal riconoscimento di pratiche, attori, sistemi di opportunità, risorse disponibili, in un
campo locale, e dalla loro combinazione. Intercettano e valorizzano le forme dell’innovazione
sociale. Per questo, sono politiche pubbliche intelligenti, perché permettono alla società di fare,
ne accrescono l’autonomia, sollecitano sperimentazioni diffuse, ridefiniscono il ruolo del settore
pubblico come abilitatore.
Per la loro impostazione e il loro sviluppo seguono un approccio di co-creazione, che coinvolge
attori diversi lungo l’intero processo decisionale: dalla fase della progettazione a quella
dell’implementazione, a quella della valutazione.
Sono a base locale, ma non coincidono con un perimetro definito: il campo dove agiscono non
è un dato, ma un costrutto dell’azione degli attori. Più che area-based, sono infatti place-based:
il confine è messo in tensione, rappresenta un riferimento strategico, perché è attorno ad una
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certa località che convergono risorse provenienti da più attori (locali o meno) . Ciò le connota
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come politiche di sviluppo urbano integrato , svolte da partnership articolate, composte dal
pubblico, privato, terzo settore e comunità locale.
Non sono più prodotte da programmi straordinari. Un ciclo si è chiuso: oggi non vi sono più né
le condizioni finanziarie, né quelle politiche per disegnare ampi programmi di rigenerazione
urbana. Questa condizione va colta nell’opportunità che offre, che è quella di ribaltare il punto di
vista: non dobbiamo più immaginare programmi che si impongono su un quartiere come se
intervenissero su un vuoto, ma forme di azione che accompagnano, completano, abilitano ciò
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che esiste .
Questa prospettiva richiama la necessità di dotarsi di strutture di presidio locale dei processi
rigenerazione. Nella stagione alle nostre spalle, questi sono stati i Laboratori di quartiere.
Sosteniamo che oggi siamo di fronte ad una pluralizzazione dei dispositivi di sostegno alla
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«I view locality as primarily relational and contextual rather than as scalar or spatial. I see it as a
complex phenomenological quality, constituted by a series of links between the sense of social
immediacy, the technologies of interactivity and the relativity of contexts» (Appadurai, 1996: 178)
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Il riferimento è a Fareri, 2009.
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Da questo punto di vista, segnaliamo di passaggio che a Milano il programma per Lorenteggio è
particolarmente sfidante: perché è un unicum, che va trattato rifiutando la logica della straordinarietà e
assumendo quella dell’intervento che integra e fa da upscaling all’esistente.
1 rigenerazione urbana, secondo una prospettiva che affianca l’accompagnamento sociale dei
Laboratori di quartiere ad altri complementari modelli di intervento. Nascono così spazi e
strutture di servizio che ospitano informazione ed erogazione di servizi di welfare pubblico,
insieme ad attività ad elevato impatto sociale non necessariamente erogate dal pubblico e
neppure dal privato sociale in regime di accreditamento. Sono spazi di produzione e di lavoro,
che fanno convivere l’artigiano e la postazione per il giovane creativo, la start-up e la
cooperativa sociale, il coworking e il fab-lab. Per questo, sono spesso spazi ibridi, di difficile
definizione: fanno inclusione sociale, ma sperimentano anche produzioni creative. Lasciano
spazi ai talenti culturali, ma non sono una sede espositive o un museo. Possono produrre beni
e servizi insieme: dunque come la mettiamo con le destinazioni d’uso, gli oneri di concessione e
gli standard per i parcheggi? Magari sono cascine, lo sono state o lo sono ancora parzialmente.
Cambiano funzione e ospitano pratiche differenti, che si alternano nel corso della giornata o nei
giorni della settimana: al mattino prestano colazioni, al pomeriggio fanno il doposcuola, alla sera
ci si balla il tango. Sono insieme innesco, garanzia e presidio delle pratiche di rigenerazione
urbana. Effettivamente rammendano brani scuciti, ma rilasciano ben poche interviste ai
quotidiani nazionali. Provano a contrastare l’esclusione, generando lavoro. Accompagnano i
processi, ma ne sono anche i protagonisti. Sono i makers della rigenerazione, altrimenti chi
altri? Proviamo a definirli community hub, perché il termine è evocativo del dispositivo che
innesca il movimento, dando così del termine comunità una accezione tutta processuale, come
una tensione progettuale; niente affatto uno stato naturale da rivendicare, un heimat da
preservare.
Uno sguardo sulla rigenerazione urbana, tra l’Italia e l’Europa
Nel nostro Paese, il discorso pubblico sulla rigenerazione urbana è ancora in gran parte
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dominato da quello dell’intervento straordinario sulle periferie . Questo tipo di approccio tende
ad evidenziare, nominandole alla rinfusa, diverse situazioni problematiche che si riconoscono
tipiche dei quartieri periferici: degrado, disagio, marginalità, insicurezza e, da ultimo, terrorismo
(non è da lì da che giungono i nuovi operatori del terrore nichilista?). Periferie, nel nostro paese,
è parola passe-partout. Basta nominarla e ci siamo capiti. Su cosa, non è chiaro, ma
certamente stiamo alludendo ad un grumo di problemi che intimorisce e favorisce lo stigma. È
utilizzata per evocare scompostamente un problema che non si ha la perizia di definire.
Sorprende tuttavia che questo “ordine del discorso” sia transitato, tal quale, dal giornalismo
pigro al policy making. Il quadro normativo ne è determinato e le politiche pubbliche – come
denunciato da Christophe Guilluy a proposito di quelle per le banlieue in Francia – rispondono,
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prima che a una domanda sociale, ad una domanda mediatica .
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Ne sono testimonianza due recenti iniziative del governo italiano. La prima è il Decreto del Presidente
del Consiglio dei Ministri del 15 ottobre 2015, che reca il bando per la riqualificazione sociale e culturale
delle aree urbane degradate, con una dotazione di 194.138.500 euro per il triennio 2015-17. La seconda è
costituita dai commi dal 974 al 978 della legge di stabilità 2016, che istituisce il Fondo per l’attuazione
del Programma straordinario di intervento per la riqualificazione urbana e la sicurezza delle periferie, pari
a 500 milioni di euro per il 2016.
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Ch. Guilly, Fractures françaises, 2013 (ed. or. 2010), p. 27.
2 In Europa, si sta mettendo mano all’Agenda urbana. Il dispositivo emanato alla fine dello scorso
anno è stata la prima call per Azioni urbane innovative. In un documento del 14 dicembre del
2015, la Presidenza olandese ha presentato il percorso verso l’Agenda urbana e la
sottoscrizione del Patto di Amsterdam (il policy statement che dovrà portare a sintesi il
confronto svoltosi negli anni recenti su questo tea), che avverrà il 30 maggio di quest’anno
(http://urbanagenda.nl/). In tale documento, la call è presentata come uno degli step di una
strategia più ampia: l’accento è posto sulla dimensione partenariale e multi-level dell’Iniziativa
(tra Commissione, Stati membri e Città) e sul fatto che le politiche dell’Unione sono chiamate ad
una “prova urbana”. Tale prova si riassume in tre strumenti di policy: migliore regolazione, più
adatta alle esigenze locali; migliore conoscenza, per qualificare raccolta, gestione e scambio
dei dati; migliore capacità di finanziamento, con la promozione di strumenti finanziari
intersettoriali. L’agenda europea identifica inoltre dodici temi di sperimentazione: Jobs and skills
in the local economy, Urban poverty, Inclusion of migrants and refugees, Energy transition,
Housing; Sustainable use of land and nature based solutions; Circular economy; Climate
adaptation; Sustainable urban mobility; Air quality; Digital transition; Innovative and responsible
public procurement. La sfida principale è quella di combinare un approccio people-based con
uno place-based.
In sostanza, mentre la Commissione europea supporta progetti pilota che servono ad
identificare e testare nuove soluzioni relative allo sviluppo urbano sostenibile, il Governo italiano
tende a identificare la rigenerazione urbana con progetti “cantierabili” in grado di contrastare
problemi assunti come dati oggettivi. L’approccio europeo va seguito con attenzione. Quello
italiano ricalca modelli di intervento ampiamente superati, che non vale la pena considerare.
Uno sguardo su Milano
Vediamo nel frattempo che succede a Milano.
Usare Milano come punto di osservazione sulla rigenerazione urbana permette di comprendere
che i processi di rigenerazione urbana implicano la presenza di attori diversi, che conviene
superare la sola visione istituzionale, secondo la quale sono il prodotto di specifici programmi,
disegnati dal pubblico per comunità difficili.
Negli anni recenti, processi di sviluppo si sono messi in moto per iniziative di operatori privati,
che hanno configurato nuovi spazi urbani (la fondazione Prada, il mercato metropolitano),
trasferendovi cifra stilistica e intelligenza gestionale, dunque dando luogo a politiche pubbliche
via mobilitazione privata. Sono avvenuti per la capacità della città di metabolizzare e
risignificare grandi progetti unitari, che ad altre società meno resilienti sarebbero rimaste
indigeribili: e così Expo e Porta Nuova sono diventate nuove grandi piazze metropolitane.
Hanno messo radici grazie al supporto di attori potenti, che hanno saputo riconoscere
competenze e risorse, leggendo in chiave di abilitazione il loro operato: è il caso di alcuni bandi
di Fondazione Cariplo (il progetto “Dencity” al Giambellino ha fatto emergere culture e risorse
locali orientate alla trasformazione), o delle iniziative di responsabilità sociale del Politecnico (il
progetto “Mapping San Siro” è oggi un laboratorio insediato in uno dei quartieri difficili della
3 città). In qualche caso, hanno provato a costruire coesione in quartieri difficili: è di questa
natura, il lavoro tenace e riflessivo di gruppi di ricercatori impegnati nei laboratori di quartiere,
un servizio dell’Amministrazione comunale che ha saputo farsi prossimo alle comunità locali.
Un progetto recente di mappatura delle pratiche di innovazione dal basso nell’area milanese,
dal titolo “Segnali di futuro”, ci permette di enucleare un’altra peculiarità di Milano con
riferimento ai processi di rigenerazione urbana, che è quella della straordinaria mobilitazione
dell’intelligenza collettiva. I segnali di futuro sono la cifra del cambiamento in atto: nella
produzione ed erogazione dei servizi, nei modi di abitare, nella creazione di coesione sociale,
nelle strategie quotidiane di cura del benessere individuale e collettivo, nelle pratiche culturali.
Hanno molto a che fare con la rigenerazione urbana, alla quale forniscono un profilo
interessante, grazie alle numerose tracce lasciate sul terreno.
La prima traccia sono le azioni-innesco, i “potenziali” della rigenerazione, quelle pratiche che
stanno aprendo nuove prospettiva di intervento. Sono a volte pratiche che lavorano su terreni
contigui, che si occupano di sviluppo culturale o di coesione sociale, ma possono generare, se
sostenuti e accompagnati, utili agganci per una strategia di rigenerazione urbana.
La seconda traccia sono gli attori ibridi, quelli che per statuto si occupano di altro, ma ad un
certo punto del loro percorso si accorgono che sono anche attori delle politiche urbane.
La terza traccia è data dall’osservazione degli ambiti territoriali entro cui, a partire da iniziative
puntuali, si dispiegano effetti di rigenerazione: è il caso delle pratiche di riuso di edifici dismessi
o sottoutilizzati. Localizzate in una certa area della città, saranno le funzioni ospitate, il modello
gestionale, la loro capacità di intercettare reti più o meno estese di attori a costruire il loro
campo di azione, a indicare lo spazio del loro intervento di rigenerazione.
La quarta traccia è basata sull’indizio della prossimità. Laddove operano strutture di presidio
locale; dove troviamo il lavoro non agevole di chi si fa prossimo ai quartieri difficili, svolto con
impegno quotidiano; dove si abbassa la soglia di accesso, ci si fa attivisti di politiche non
rinunciando alla riflessività del ricercatore; dove si opera come knowledge broker, ebbene lì c’è
da scavare e di sicuro qualcosa si trova.
La quinta traccia è data dagli attori che mettono in campo schemi di intervento che provano a
reggersi come imprese che producono valore sociale, che approntano modelli di business
senza contributo pubblico. Questi indicano un futuro, perché costringono a ripensare, nello
stesso tempo, impresa e dominio pubblico, innovando entrambi.
Qualche lezione di policy
Ne indichiamo quattro.
1. Il patrimonio di conoscenze e sperimentazioni dei Laboratori di quartiere indica che ci sono
delle condizioni necessarie per garantire un approccio integrato. La prima condizione è la
presenza di dispositivi in grado di garantire l’integrazione dalla fase di progettazione e quella di
implementazione. La seconda condizione è che non si possono fare politiche integrate senza la
partecipazione della comunità locale, secondo una prospettiva che assuma la mobilitazione
degli abitanti nel disegno e nella gestione delle politiche. Integrazione significa coinvolgimento
degli attori del territorio, introduzione delle loro conoscenze e dei loro sistemi di preferenza nella
4 costruzione delle decisioni, e presa in carico diretta dei problemi del quartiere da parte della
stessa comunità che la abita. La terza è che disegnare e condurre efficacemente processi
partecipativi implica un lavoro radicato nel quartiere, che non si riduca alla costruzione di un
qualche evento occasionale di partecipazione, ma una attività svolta fianco a fianco con i gruppi
e i singoli che intendono mobilitarsi, un intenso lavoro di prossimità, per garantire diritti di
cittadinanza.
2. Occorre stare nelle periferie. Standoci, si capiscono molte cose e molte altre se ne possono
fare: accompagnare processi, promuovere networking, favorire capacitazione, sostenere
innovazione sociale. A volte questa strategia prende la forma del laboratorio di quartiere, a volte
si danno modelli nuovi: imprese di comunità che operano sui terreni del lavoro e della coesione
sociale. A volte sono promossi dall’ente locale: ci sta provando il Comune di Milano, nell’ambito
del progetto Welfare di tutti, con la piattaforma di comunità in Zona 5. Ma va ricordato anche lo
straordinario Centro Pertini a Cinisello Balsamo, un piccolo Beaubourg della grande regione
urbana milanese, che è biblioteca, spazio di incontro, caffetteria e fab-lab insieme.
In altre occasioni, sono associazioni, cooperative, imprese sociali che, avvicinandosi alle
periferie vi si stabiliscono e sviluppano nuovi modelli di business. È il caso del Laboratorio di
Barriera di via Baltea, a Torino, promosso e gestito dalla cooperativa Su Misura: una ex
tipografia di 900 mq è divenuta uno spazio multifunzionale con laboratori artigianali, un'attività di
ristorazione e servizi per il quartiere, co-working, che vuole favorire l’integrazione tra attività
commerciali, produttive e servizi per la socialità, generare inclusione e lavoro. A San Giuliano
milanese, sono cinque ragazze che animano La Banlieue, una caffetteria sociale, che è luogo di
coesione e inclusione.
3. Bisogna dare gambe all’innovazione sociale, mettendo la società in grado di fare e
costruendo le condizioni per cui questa possa esprimersi: tra queste vi sono regole e standard,
criteri di equità, accesso ai dati, trasparenza, assunzione piena di una nozione di publicness
come dato inerente ai beni e non agli attori. È quello di ridefinire il proprio perimetro, nella
consapevolezza che l’intelligenza delle istituzioni consiste nella capacità di riconoscere e
coltivare l’intelligenza della società. Non si tratta di sussidiarietà, casomai di co-creazione, o
addirittura di competizione tra chi (istituzioni e società) è in grado di generare beni pubblici.
Occorrerebbe riconoscere, sulla scorta del modello inglese, community rights, sollecitare il
profilo progettuale e le capacità di management della società, nella responsabilità di gestione
del patrimonio pubblico o nella erogazione di servizi per la comunità. Nel contesto milanese,
stiamo pensando alle ormai numerose esperienze di gestione di immobili e attrezzature,
dismessi o sotto-utilizzati, di proprietà pubblica da parte di associazioni, cooperative e imprese
sociali per fini di utilità collettiva. Il più recente a Milano è Base, polo della cultura e della
creatività, che cerca una relazione interessante con il proprio contesto e che sta provando a
definire qual è il suo campo di gioco, tra sviluppo e rigenerazione.
4. Una priorità su cui concentrare gli sforzi, che è la creazione di lavoro. All’interno di un
ragionamento sulla sostenibilità e sulla scalabilità degli interventi, occorre disegnare dei
percorsi che integrino produzione di valore aggiunto sociale e creazione di impresa; se
community
involvement
implica
community
5 ownership,
occorre
favorire
il
passaggio
dall’ingaggio civico all’impresa, verso la community enterprise, qualunque forma giuridica
questa implichi.
In conclusione, pensiamo che una prospettiva di policy interessante sia quella di diffondere
esperienze di community hub. Basta anche gettare lo sguardo fuori dall’Italia e la casistica
diventa amplissima (Karvonen, Van Heur, 2014). In Italia, i riferimenti sono l’esperienza dei
Bollenti Spiriti in Puglia e la rete delle Case di quartiere di Torino.
Crediamo si debbano soprattutto costruire condizioni per la diffusione dell’innovazione e la
capacitazione degli attori; orientare le risorse finanziarie sui processi abilitanti; irrobustire il
profilo progettuale e di capacità di management della società, anche pensando a favorire
occasioni di patrimonializzazione per le comunità, chiamate non più solo alle sfide della
progettazione e della gestione, ma anche a quella dell’acquisizione di asset pubblici.
Riferimenti bibliografici
ARJUN APPADURAI, Modernity at Large, Univ. of Minnesota press, Minneapolis, 2010 (ed. or.
1996)
CHRISTOPHE GUILLY, Fractures françaises, Flammarion, Paris, 2013 (ed. or. 2010)
PAOLO FARERI, , Rallentare, Angeli, Milano, 2009
ANDREW KARVONEN, BAS VAN HEUR, Urban Laboratories: Experiments in Reworking Cities,
“International Journal of Urban and Regional Research”, vol. 38, n. 3, 2014
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