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CAPITOLO I
INTRODUZIONE AI REATI CONTRO LA FEDE PUBBLICA
§ 1 - IL
BENE GIURIDICO DELLA FEDE PUBBLICA
E IL PROBLEMA DELL’OFFESA NEI DELITTI DI FALSO
SOMMARIO:
1.1. Bibliografia. – 1.2. Giurisprudenza nazionale.
1.1. BIBLIOGRAFIA
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DEI
DELITTI CONTRO LA FEDE PUBBLICA
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falso ed esigenze di “ne bis in idem sostanziale”, in Foro it., 2008, II, 80 s.; ID., Il commento a Cass. pen., 12-32008, in Dir. pen. e processo, 2009, 324 s.; ID., Il commento a Cass., S.U., 16-2-2009 (u.p. 27-11-2008),
n. 6591, in Dir. pen. e processo, 2009, 1383 s.; GONZALEZ-CUELLAR GARCIA, La falsedad en documento púbblico, en
Anales de la Academia matritense del notariado, XXXVIII, 1985, 376 s.; GRANDE, Falsità in atti, in Dig. disc. pen.,
V, Torino, 1991, 52 s.; GROSSO, Punti fermi e aspetti problematici del c. d. falso consentito in cambiale, in Giur.
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firma è penalmente rilevante anche quando superflua?, in Dir. pen. e processo, 2002, 1090 s.; LEONCINI, Il reato
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o di altri, in Cass. pen., 1991, 234 s.; G. LOMBARDI, Dei delitti contro la fede pubblica, Milano, 1923; Lüderssen,
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Meriti e limiti dell’offensività come principio di ricodificazione, in AA.VV., Prospettive di riforma del codice penale e valori costituzionali, Milano, 1996, 73 s.; PANNAIN, I problemi del falso innocuo, inutile o superfluo e del
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1.2. GIURISPRUDENZA NAZIONALE
Cass. pen., S.U., 25-10-2007, n. 46982
Pres. Battisti - Rel. Romis - P.M. Febbraio
SENTENZA
1 - Il 26 aprile 2005 veniva depositato, nell’interesse della S.M.I. - San Marino Investimenti S.A., il cui rappresentante
legale era Pasquini Enrico Maria, un esposto-denuncia contro ignoti, con richiesta di sequestro, per un’ipotesi di reato
di falso relativo all’intestazione di un pacchetto azionario della s.p.a. Lualex (il 95%, con valore nominale pari a
490.634,05 Euro), controversa tra la stessa S.A.S.M.I. e B.F.. Il P.M. presso il Tribunale di Milano non riteneva di
disporre il sequestro e, all’esito delle indagini svolte, avanzava al G.I.P. richiesta di archiviazione del procedimento.
Con atto depositato il 9 febbraio 2006 il difensore del legale rappresentante della denunciante S.M.I.S.A. presentava
opposizione alla richiesta di archiviazione ex art. 410 c.p.p., comma 1, sull’asserito rilievo della lacunosità delle
indagini, rappresentando la necessità di acquisizioni documentali, assumendo in particolare che la S.M.I. nell’esposto-denuncia aveva precisato di non aver mai sottoscritto un documento per il trasferimento a chicchessia delle azione
della Lualex, ad essa S.M.I. fiduciariamente intestate.
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Il G.I.P. del Tribunale di Milano, accogliendo la richiesta formulata dal P.M., disponeva, con provvedimento “de
plano“ in data 22 giugno 2006, l’archiviazione del procedimento.
2 - Ha proposto ricorso per cassazione (deducendo che l’archiviazione “de plano“ può essere disposta solo quando
l’opposizione sia inammissibile e la notizia di reato risulti infondata) il denunziante P.E.M. - nella sua veste di legale
rappresentante della S.M.I.S.A. - il quale ha sostenuto la illegittimità della mancata fissazione dell’udienza camerale
in presenza di tempestivo atto di opposizione, denunciando altresı̀ vizio di mancanza di motivazione avendo il G.I.P.
adottato un prestampato contenente mere formule di stile, nulla argomentando circa la ritenuta inutilità dell’ulteriore
attività di indagine richiesta, nonché relativamente all’inammissibilità dell’opposizione o l’infondatezza della “notitia
criminis“.
Il Procuratore Generale presso questa Corte, con la sua requisitoria scritta, ha sollecitato declaratoria di inammissibilità
del gravame, richiamando, a sostegno della propria richiesta, il principio di diritto cosı̀ enunciato dalla Quinta Sezione
di questa Corte con la sentenza n. 13 del 25 ottobre 2005-3 gennaio 2006 (P.O. in proc. c/ignoti): “in tema di delitti
contro la fede pubblica il denunciante-danneggiato non ha diritto a ricevere l’avviso della richiesta di archiviazione né
ad opporsi all’archiviazione medesima né ad intervenire nell’eventuale camera di consiglio: trattasi infatti di reati che
offendono direttamente e specificamente l’interesse pubblico - ossia la fiducia nella genuinità materiale e nella veridicità di determinati documenti - e solo mediatamente e di riflesso ledono l’interesse del singolo il quale, pertanto, non
riveste la qualità di persona offesa ma semplicemente di danneggiato. Ne consegue che il privato denunziante il quale
assuma di essere danneggiato da un reato di falso in atto pubblico non è legittimato a proporre ricorso in cassazione
avverso il decreto di archiviazione emesso dal G.I.P.”.
Il difensore del ricorrente ha quindi depositato memoria ex art. 611 c.p.p. finalizzata a contrastare le argomentazioni
svolte dal Procuratore Generale nella requisitoria con la quale, come sopra ricordato, è stata sollecitata declaratoria di
inammissibilità del gravame. Con tale memoria, in particolare, il ricorrente ha sostenuto il carattere di plurioffensività
del delitto di falso in esame, da cui deriverebbe un rapporto di connessione funzionale, come tale tutelabile, tra la
tutela generale della fede pubblica e quella particolare di uno specifico interesse; a sostegno della propria tesi il
ricorrente cosı̀ testualmente si è espresso: “limitare l’individuazione del bene giuridico protetto alla sola fede pubblica
non sembra sufficiente a determinare il disvalore del falso; infatti è la connessione della fede pubblica all’interesse
pregiudicato di volta in volta dall’utilizzo dello specifico documento, che può rendere concreto e aderente alla singola
vicenda il valore, indubbiamente astratto e di portata generale, quale è appunto quello della fede pubblica” (pag. 2
della memoria).
3 - Il procedimento è stato assegnato alla Quinta Sezione penale di questa Suprema Corte, la quale, con ordinanza
del 30 maggio 2007 (depositata il 22 giugno 2007), ne ha disposto la rimessione a queste Sezioni Unite, ai sensi
dell’art. 618 c.p.p. Ha infatti rilevato la sezione remittente che in ordine al motivo di doglianza, concernente la
prospettata illegittimità della mancata fissazione dell’udienza camerale in presenza di tempestivo e formale atto di
opposizione alla richiesta di archiviazione del P.M. in materia di reato di falso, si è determinato un contrasto nella
giurisprudenza di legittimità: ed invero, mentre alcune decisioni, muovendo dal presupposto della natura plurioffensiva
del reato, hanno concluso per il riconoscimento al denunciante della veste di persona offesa - con conseguente diritto
di ricevere l’avviso previsto dall’art. 408 c.p.p., comma 2, e proporre quindi opposizione alla richiesta di archiviazione del P.M. - altre si sono espresse in senso contrario.
Il Primo Presidente ha fissato l’udienza del 25 ottobre 2007 di camera di consiglio per la discussione del gravame.
La questione sottoposta all’esame di queste Sezioni Unite può cosı̀ sintetizzarsi: se i delitti contro la fede pubblica
tutelino l’interesse pubblico e solo di riflesso l’interesse del singolo al quale, di conseguenza, non verrebbe riconosciuta
la qualità di persona offesa, oppure, in quanto reati plurioffensivi, tutelino anche la sfera giuridica del soggetto (denunciante-danneggiato) nei cui confronti il documento o la falsa dichiarazione vengano fatti valere, soggetto che, in tal
caso, sarebbe legittimato a proporre opposizione contro la richiesta di archiviazione. Su detta questione, come richiamato dall’ordinanza di rimessione, è insorto un contrasto nella giurisprudenza delle sezioni semplici di questa Suprema
Corte, ed in particolare anche all’interno della stessa Quinta Sezione alla quale, secondo la previsione tabellare,
spetta la competenza a decidere i ricorsi in materia di reati di falso.
4.1 - Un primo indirizzo interpretativo è seguito da coloro i quali ritengono che il bene giuridico protetto nelle falsità
documentali sia la fede pubblica e in essa si esaurisca: i sostenitori di tale tesi escludono, dunque, che al privato
danneggiato dal reato spetti l’avviso della richiesta di archiviazione e la legittimazione a proporre opposizione. In
questi termini si esprime la decisione Della Gatta (ordinanza, Sez. V, 27-3-2001, p.o. in proc. Della Gatta, dep.
13-7-2001, n. 28608, rv. 219639), la quale - premesso che l’opposizione alla richiesta di archiviazione compete
unicamente alla persona offesa, che deve essere identificata nel titolare del bene giuridico immediatamente leso dal
reato - afferma quanto segue: “poiché l’elemento del danno è del tutto estraneo alla struttura dei reati di falso (la cui
obbiettività giuridica consiste nella tutela della genuinità materiale e nella veridicità ideologica di determinati documenti), il privato, anche se - in concreto - risulti ingiustamente danneggiato dalla condotta dell’indagato, non è legitti-
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DELITTI CONTRO LA FEDE PUBBLICA
mato alla proposizione del ricorso per cassazione avverso l’ordinanza di archiviazione”. Detto principio muove dal
presupposto che “per il perfezionarsi del reato è sufficiente il mero pericolo che dalla contraffazione o dall’alterazione
possa derivare alla pubblica fede, che è l’unico bene giuridico protetto dalla norma incriminatrice”. Analogamente la
sentenza Saccucci (Sez. V, 18-10-2002, dep. il 29-11-2002, rv. 222981), per la quale “il denunziante-danneggiato
non è legittimato a ricevere l’avviso della richiesta di archiviazione... in quanto si tratta di reati che offendono direttamente e specificamente l’interesse pubblico - costituito dalla fiducia che la società ripone su oggetti, segni e forme
esteriori ai quali l’ordinamento riconosce particolare credito - e solo mediatamente e di riflesso ledono l’interesse del
singolo il quale, pertanto, non riveste la qualità di persona offesa dal reato”. Argomentazioni che sostengono anche
le conclusioni della sentenza Cucullo (Sez. V, 16-3-2004, dep. il 22-6-2004, n. 27967, rv. 228891), per la quale
i delitti contro la fede pubblica offendono direttamente l’interesse pubblico costituito dalla fiducia che la società ripone
su oggetti, segni e forme esteriori ai quali l’ordinamento riconosce particolare credito e solo di riflesso ledono l’interesse del singolo, il quale, pertanto, non riveste la qualità di persona offesa dal reato: ergo, il denunziante-danneggiato non è legittimato a ricevere l’avviso della richiesta di archiviazione;
– dette argomentazioni sono altresı̀ proprie della sentenza Zaccaria (Sez. V, 19-9-2005, p.o. in proc. Zaccaria, dep.
il 16-12-2005, rv. 233208), della sentenza Erdas (Sez. V, 17-2-2005, dep. il 24-3-2005, n. 11669, rv. 231497),
della sentenza della V Sezione, n. 13 del 3-1-2006 (p.o. in proc. ignoti, rv. 232614), della sentenza Scarano (Sez.
V, 19-9-2005, p.o. in proc. Scarano, dep. il 16-12-2005, rv. 233204). In senso analogo si esprime anche la
sentenza Reggiani (Sez. V, 15-1-2007, dep. il 9-2-2007, rv. 235864), la quale, in tema di falso in testamento
olografo, afferma che nei delitti contro la fede pubblica “deve comunque ritenersi che, solo quando si tratti di reati non
perseguibili d’ufficio, il riconoscimento della legittimazione a proporre la querela possa comportare l’equiparazione
del danneggiato alla persona offesa anche ai fini processuali”: conseguentemente, stante la procedibilità d’ufficio,
viene esclusa la legittimazione del danneggiato, costituito parte civile, a proporre ricorso per cassazione avverso la
sentenza di non luogo a procedere, che la legge attribuisce solo alla persona offesa costituita parte civile.
Alla base di questo orientamento vi è, dunque, la nozione di fede pubblica come bene immateriale a carattere collettivo che fa capo all’intera collettività non personificata, a tutti i cittadini ed a ciascuno non uti singulus ma uti civis: il
danno sociale del falso si concreta e si manifesta esclusivamente nella c.d. immutatio veri mentre nessun rilievo, ai fini
della sua illiceità, ha l’interesse del soggetto danneggiato in concreto dal falso, il quale non essendo titolare dell’interesse protetto dalla norma incriminatrice, non è, con riferimento al problema che in questa sede rileva, persona offesa
dal reato e, pertanto, non è legittimato a proporre opposizione alla richiesta di archiviazione.
4.2 - Le conclusioni appena esposte non sono condivise da un diverso indirizzo interpretativo, il quale appare orientato
a recuperare le fattispecie di falso ad una dimensione di “dannosità”. In questo filone si inserisce la sentenza Arnoldi
(Sez. V, 12-3-2001, p.o. in proc. Arnoldi, dep. il 20-6-2001, rv. 219472), la quale afferma che nei delitti contro la
fede pubblica, la facoltà di proporre opposizione alla richiesta di archiviazione “può competere anche al denunziante”. E ciò in quanto si tratta di reati idonei “a ledere anche la sfera giuridica dei soggetti nei cui confronti l’atto, il
documento o la falsa dichiarazione vengono fatti valere”, quindi reati aventi “carattere plurioffensivo, che li rende non
assimilabili, sotto tale profilo, ai delitti contro l’amministrazione della giustizia”, i quali integrano “fattispecie lesive
dell’interesse della collettività al corretto procedere della giurisdizione, con la conseguenza che l’interesse del privato
può assumere rilievo solo riflesso e mediato” (nella specie il denunciante, avendo scoperto una falsa firma recante il
proprio nome e cognome su un modulo di adesione ad un partito politico, caratterizzato da una ben precisa denominazione, aveva presentato atto di denuncia-querela nei confronti dei responsabili territoriali di tale partito; la Suprema Corte ha annullato il decreto di archiviazione del G.I.P., sulla base del principio come enunciato).
Nella stessa direzione si pone anche la decisione Moscato (Sez. V, 4-7-2005, p.o. in proc. Moscato ed altri, dep. Il
29-7-2005, n. 28712, rv. 232205), la quale afferma che nell’ipotesi in cui il reato di falso (nella specie quello di cui
all’art. 479 c.p.), leda, oltre l’interesse pubblico, anche diritti soggettivi, il titolare di tali diritti è persona offesa dal
falso, con la conseguenza che gli spettano, quale denunciante, le facoltà riconosciutegli nel procedimento penale in
ordine alla richiesta di archiviazione ai sensi dell’art. 408 c.p.p., commi 2 e 3: nella concreta fattispecie si ipotizzava
la falsità di un rapporto dei Carabinieri relativo ad un sinistro automobilistico, falsità - come poi affermato dalla Cassazione - che “si riflette sul diritto del ricorrente a non subire gli effetti (patrimoniali) di un evento asseritamente mai
verificatosi”, con conseguente legittimazione del denunziante all’esercizio delle facoltà proprie della persona offesa
nel procedimento archiviatorio (anche se poi il ricorso è stato dichiarato inammissibile per manifesta infondatezza, sul
rilievo che i temi proposti con l’atto di opposizione erano risultati “palesemente estranei all’accertamento del reato di
falso ex art. 479 c.p.” e, quindi, privi dei requisiti tassativamente previsti dall’art. 410 c.p.p., comma 1”, con la
conseguente legittimità, nella concreta fattispecie, del provvedimento di archiviazione de plano adottato dal G.I.P.). In
conformità si esprime poi la sentenza Ziino (Sez. V, 13-6-2006, p.o. in proc. Ziino, dep. l’11-9-2006, rv. 235146),
la quale afferma che, nei delitti contro la fede pubblica, “la facoltà di proporre opposizione alla richiesta di archiviazione spetta anche al denunziante qualora, in relazione al caso concreto, si accerti che la falsità abbia leso anche la
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sfera giuridica dei soggetti nei cui confronti l’atto, il documento o la falsa dichiarazione vengono fatti valere, trattandosi
di reati plurioffensivi”. Più precisamente, la sentenza Ziino, premesso che l’interesse tutelato dal falso documentale è
senz’altro la fede pubblica, afferma che “ciò non esclude che la falsa attestazione possa essere per sé direttamente
pregiudizievole di un diritto del singolo, la qualcosa va stabilita in concreto”. Con la conseguenza che “solo se la
giustificazione del decreto de plano fosse stata espressamente e concretamente rapportata all’esclusione di qualità di
parte offesa del denunciale, che aveva richiesto di essere avvisato della richiesta di archiviazione del P.M., per l’assenza di incidenza diretta sul suo diritto privato del falso ipotetico, si sarebbe potuto stabilire se il giudice aveva o non
violato il suo diritto al contraddittorio, unica ragione che giustifica il ricorso in questa sede”: in sostanza, il giudice ha
deciso de plano senza previamente verificare se il denunciante, che aveva fatto richiesta ai sensi dell’art. 408 c.p.p.,
comma 2, avesse realmente diritto all’avviso della richiesta di archiviazione, con conseguente annullamento del provvedimento impugnato. Alle medesime conclusioni perviene la sentenza Consolo (Sez. V, 15-1-2004, dep. il 23-22004, rv. 227939), la quale afferma che “il falso in atto pubblico, a seconda del suo tenore, può ledere la certezza
di diritti soggettivi, oltre che l’interesse pubblico”. Ne consegue che “se l’attestazione contraria al vero concerne un
fatto che si connette direttamente ad un diritto soggettivo o al suo esercizio, il titolare del diritto è persona direttamente
offesa dal reato cui spettano, quale denunciale, le facoltà riconosciutegli nel procedimento penale a fronte della
richiesta di archiviazione del P.M.”: nel caso portato all’esame della Suprema Corte, il falso ipotizzato riguardava la
dichiarazione dell’atto pubblico che indicava la data di edificazione di una unità immobiliare cui era seguita la demolizione del manufatto, con danno per i muri portanti che interessavano la proprietà del denunziante; la Cassazione
ha, quindi, dichiarato inammissibile il ricorso in quanto “nella specie il diritto del ricorrente non è oggetto dell’atto che
si assume falsificato, che concerne esclusivamente la proprietà privata del denunciato e non quella del denunciante,
laddove le conseguenze di danno nei confronti di quest’ultimo si dicono scaturite da un comportamento ulteriore (demolizioni che hanno pregiudicato parti comuni dell’edificio), sebbene trovi presupposto storico nel tenore dell’atto”.
Nel medesimo filone si colloca la sentenza Todesca (Sez. V, 5-11-2002, p.o. in proc. Todesca, dep. il10-12-2002,
n. 43703, rv. 223220), la quale - premesso che l’interesse giuridico protetto dai delitti di falsità in atti ha carattere
plurioffensivo - afferma che “riveste la qualità di parte offesa il denunziante di un falso documentale, incidente, anche
in via di pericolo, sul suo specifico diritto, con la conseguenza che anche nei suoi confronti il G.I.P.... deve provvedere
a fare notificare l’avviso dell’udienza preliminare” (nella fattispecie il giudice dell’udienza preliminare aveva dichiarato
non luogo a procedere nei confronti di un funzionario del Provveditorato agli Studi, il quale aveva omesso ogni verifica
su una nota pervenuta all’Ufficio, contenente la falsa attestazione della rinunzia di una docente all’immissione in ruolo
per un determinato anno scolastico; la Suprema Corte ha ritenuto che il provvedimento adottato sulla base della falsa
attestazione della avvenuta rinunzia alla immissione in ruolo, compromettesse anche le effettive funzioni di verità e di
certezza, relative alla posizione del docente di cui era stato falsificato l’atto, che derivavano dalla falsa documentazione). Nella stessa direzione è anche la sentenza Ongaro (Sez. V, 19-9-2005, p.o. in proc. Ongaro, dep. il
22-11-2005, rv. 232442), la quale, in tema di commercio di prodotti con segni falsi, sostiene che “il titolare del
marchio contraffatto è persona offesa dal reato posto che la norma di cui all’art. 474 c.p., oltre alla fede pubblica,
tutela anche il diritto all’esclusiva del legittimo titolare: ne consegue che questi, nell’ipotesi di richiesta di archiviazione,
ha diritto a ricevere l’avviso di cui all’art. 408 c.p.p.”.
4.3 - Come è agevole rilevare, i due orientamenti, appena illustrati, che hanno dato vita al contrasto che ha reso
necessario l’intervento di queste Sezioni Unite, muovono dalla diversa interpretazione circa la natura dei delitti contro
la fede pubblica ed il bene oggetto della tutela penale in materia: a) il primo indirizzo tende a privilegiare in maniera
assoluta la valenza pubblicistica di detta tutela, con esclusivo riferimento alla fede pubblica quale esigenza dei cittadini di poter fare affidamento sulla genuinità e veridicità di atti e documenti che hanno rilevanza pubblica: di talché
l’interesse del privato rileverebbe solo di riflesso, con conseguente impossibilità, per lo stesso, di assumere la veste di
parte offesa pur se, in ipotesi, concretamente danneggiato dalla falsità; b) viceversa, il secondo orientamento, pur
confermando che nella fede pubblica deve individuarsi il bene primario oggetto di tutela, ritiene tuttavia che, non
potendo prescindersi dalla relazione che intercorre tra l’atto non genuino ed il privato, sulla cui sfera giuridica la falsità
vada in concreto ad incidere, dovrebbe riconoscersi ai delitti contro la fede pubblica natura plurioffensiva: con la
conseguenza che al privato danneggiato da tale reato spetterebbero i diritti e le facoltà previsti per la parte offesa.
5 - Ritengono queste Sezioni Unite che, in presenza di un contrasto interpretativo cosı̀ delineatosi, ai fini della risoluzione del contrasto stesso, pur relativo ad una questione di carattere processuale, debbano necessariamente prendersi
in considerazione soprattutto profili di carattere sostanziale, con specifico riferimento alla natura dei delitti contro la
fede pubblica. Ferma restando, evidentemente, la necessità di mantenere distinte le figure della persona danneggiata
e della persona offesa dal reato, posto che il legislatore, secondo i casi, ha indicato l’una o l’altra, con l’attribuzione
di un ruolo diverso, anche con riferimento a poteri e facoltà: di tal che, ai fini che in questa sede rilevano, con riferimento all’art. 408 c.p.p. e segg., lo sforzo interpretativo deve riguardare esclusivamente la figura della persona offesa
(in relazione ai delitti contro la fede pubblica). Giova ricordare che il previgente codice Zanardelli risolveva, sul piano
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DEI
DELITTI CONTRO LA FEDE PUBBLICA
normativo, la questione, circa la offensività dei reati di falso, condizionando espressamente la punibilità delle falsità in
atti pubblici (artt. 275, 276, 279, 283 c.p.p.) e in atti privati (art. 280 c.p.p.) alla circostanza che dalla falsificazione
potesse “derivare pubblico o privato nocumento”. Tale formula è stata poi soppressa nel codice Rocco, che sembrerebbe aver inteso incentrare la tutela su una “fede pubblica” da salvaguardare in modo assoluto: e ciò, malgrado il
forte dissenso, pressoché unanime, della dottrina e giurisprudenza dell’epoca, e sebbene nella stessa Relazione ministeriale di accompagnamento al codice è dato leggere che tale omissione “non può assolutamente apparire in contrasto con le fonti e resta perfettamente vero che falsitas non punitur quae non solum non nocuit, sed non erat apta
nocere“. Tuttavia, nonostante questa indicativa affermazione di principio, circa l’ineludibile vaglio di idoneità offensiva
cui dovrebbe essere condizionata la rilevanza penale del falso, per un verso l’assenza di un’espressa previsione sul
danno, e, per altro verso, la definizione che nella succitata Relazione viene data della pubblica fede - come “fiducia
che la società ripone negli oggetti, segni e forme esteriori (monete, emblemi e documenti) ai quali l’ordinamento
giuridico attribuisce un valore importante” (ulteriormente precisata da un passaggio dei lavori preparatori, in cui si
afferma che “non si può concepire falsità in atto pubblico che non abbia la possibilità di ledere quell’interesse sociale
che si chiama pubblica fede”: Lavori preparatori, 4, 373) - hanno forse incoraggiato, anche in sede applicativa,
tendenze formalistiche.
È da ritenere che il contrasto di cui ci occupiamo non sarebbe mai sorto, se fosse stata adottata l’esplicita previsione
sul danno contenuta nel Codice Zanardelli. Nel vigente codice penale i delitti contro la fede pubblica trovano collocazione nel Titolo 7.
La fede pubblica - nel significato che emerge dalla Relazione al progetto definitivo del codice penale, cui si è appena
fatto cenno - costituisce dunque un vero e proprio bene giuridico, ancorché di natura immateriale e collettiva, dotato di
una sua autonomia, tutelato dai delitti in argomento con riferimento alla certezza ed alla speditezza del traffico economico e giuridico.
Cosı̀ definita la nozione di fede pubblica, da tutti unanimemente condivisa anche in dottrina, da più parti è stato
tuttavia fatto rilevare come in realtà il falso non risulti quasi mai fine a se stesso, costituendo, il più delle volte, solo il
mezzo per conseguire altro obiettivo che costituisce il vero scopo rispetto alla “immutatio veri”. Ed è stato quindi
sottolineato che, se il perseguimento di tale fine si riflette in modo incisivo sulla sfera giuridica di un soggetto, non è
possibile ignorare, sul piano giuridico, tale ulteriore conseguenza, e non consentire, al soggetto che quella “immutatio
veri” ha concretamente subito, di dialogare nel processo con una veste qualificata.
6 - Tutto ciò premesso, ritengono queste Sezioni Unite che ai delitti contro la fede pubblica debba riconoscersi, oltre ad
un’offesa alla fiducia che la collettività ripone in determinati atti, simboli, documenti, etc. - bene oggetto, senza dubbio,
di primaria tutela dei delitti in argomento - anche una ulteriore e potenziale attitudine offensiva, che può rivelarsi poi
concreta in presenza di determinati presupposti avuto riguardo alla reale e diretta incidenza del falso sulla sfera giuridica di un soggetto il quale, in tal caso, è di conseguenza legittimato a proporre opposizione contro la richiesta di
archiviazione.
Molteplici sono gli argomenti che sorreggono e confortano l’individuazione del bene protetto dai delitti contro la fede
pubblica - con riferimento al principio di offensività - nei termini cosı̀ precisati.
6.1 - Quanto ai profili di natura sostanziale, meritano attenzione, ai fini che qui interessano, e sotto differenti aspetti,
le categorie del falso grossolano e del falso innocuo.
Il falso grossolano è quello che si presenta cosı̀ evidente da risultare inidoneo ad ingannare chicchessia: il che dovrebbe essere sufficiente a farlo considerare inoffensivo, a prescindere, cioè, da qualsiasi altra valutazione circa la sua
eventuale idoneità a porre in pericolo anche ulteriori interessi. Nella prassi giudiziaria, laddove la falsità risulti macroscopica, ed “ictu oculi” percepibile, il fatto viene di regola considerato penalmente irrilevante (Sez. V, n. 11498/90,
imp. Casarola, rv. 185132) proprio perché incapace di ingenerare errore nei terzi, circa l’affidabilità del documento
(o del segno, ecc.): in detta ipotesi, per la valutazione di inoffensività del fatto, è evidentemente sufficiente, dunque,
considerare il bene giuridico rappresentato dalla pubblica fede. In estrema sintesi, può qualificarsi come falso grossolano il falso inoffensivo rispetto al bene “fede pubblica”, proprio per l’inidoneità dello stesso a trarre in inganno la
collettività; inidoneità che, derivando dalle modalità della falsificazione - prevalentemente di natura materiale - comporta una valutazione giudiziale in punto di fatto.
Si parla, invece, di falso innocuo, per indicare - in generale - il falso che risulti “inoffensivo per la concreta inidoneità
ad aggredire gli interessi da esso potenzialmente minacciati” (cosı̀ come precisato da autorevole esponente della
dottrina): con conseguente necessità, per l’interprete, di un accertamento in concreto, in relazione alle peculiarità del
singolo caso, onde verificare i possibili effetti della falsità con riferimento a quella determinata situazione giuridica
interessata dalla falsità.
Un falso - pur astrattamente idoneo ad ingannare il pubblico - rivelatosi però privo di qualsiasi concreta incidenza sulla
sfera giuridica di chicchessia, dovrebbe essere valutato penalmente irrilevante, cosı̀ come affermato in giurisprudenza
(Sez. V, n. 7875/87, imp. Dell’Acqua, rv. 176302; Sez. V, n. 421/07, imp. Scaricabarozzi, rv. 206630) e
INTRODUZIONE
AI REATI CONTRO LA FEDE PUBBLICA
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sostenuto in dottrina: e non mancano Autori secondo i quali il falso innocuo rappresenta una categoria più estesa del
falso grossolano, in quanto comprensiva non solo di quest’ultimo, ma anche di tutte le falsità incapaci di nuocere a
qualsiasi soggetto. In sostanza, il falso innocuo può definirsi tale in due diversi significati. In senso lato, il falso innocuo
abbraccia anche il falso grossolano, non potendo certo ipotizzarsi un falso grossolano che non sia nel contempo
anche innocuo. Può parlarsi di falso innocuo in senso stretto, ove si voglia considerare la sua inoffensività non con
riferimento al bene “fede pubblica”, bensı̀ in relazione ad un interesse ulteriore e connesso, tutelato dalla singola
fattispecie incriminatrice ove alla stessa si riconosca natura plurioffensiva: l’innocuità del falso, cioè, può risultare
anche al di fuori delle ipotesi di falso grossolano, nel caso in cui risulti esclusa - in forza di una valutazione giudiziale
in punto di diritto, questa volta, e non di fatto - l’effettiva e concreta esposizione a pericolo di quei beni ulteriori rispetto
alla fede pubblica, che, per i sostenitori della tesi della plurioffensività, si assumono oggetto di tutela da parte delle
fattispecie “de quibus“.
La nozione di falso innocuo, in particolare, sembra dunque confortare l’indirizzo interpretativo - che, come sopra
anticipato, queste Sezioni Unite ritengono condivisibile - secondo cui ai delitti contro la fede pubblica deve riconoscersi, in primo luogo e soprattutto, un’offesa alla fiducia che la collettività ripone nella genuinità ed autenticità di atti
e documenti di rilevanza pubblica, ma, altresı̀, una ulteriore, e potenziale, attitudine offensiva che può concretizzarsi
nei confronti di una determinata situazione giuridica.
6.2 - Un punto di rottura con una visione formalistica, ed assolutamente pubblicistica, dei delitti contro la fede pubblica, è sicuramente rappresentato dall’importante innovazione normativa costituita dall’art. 493 bis c.p. - introdotto
dalla l. 24-11-1981, n. 689, art. 89 - che ha subordinato al regime della perseguibilità a querela della persona
offesa la punibilità delle ipotesi di falso in atti privati di cui agli artt. 485, 486, 488, 489 e 490 c.p. (si procede
tuttavia di ufficio se i fatti riguardano un testamento olografo). L’introduzione della procedibilità a querela - che rappresenta la tipica espressione della disponibilità individuale delle conseguenze anche sanzionatorie della lesione
dell’interesse protetto - ha fatto emergere la lesività di tipo privatistico sottostante ai reati di falso, segnando un rafforzamento della teoria della plurioffensività. Commentando tale novella legislativa, in dottrina fu subito evidenziato che
si trattava di una previsione di “notevole importanza sul piano ricostruttivo” e che ad essa andava “riconosciuto non
tanto il merito di avere definitivamente sepolto l’aspirazione ad una generalizzazione pubblicistica dell’interesse tutelato, che fosse idonea a fondare l’unità delle categorie delle falsità documentali (già da tempo abbandonata assieme
al concetto di pubblica fede), quanto piuttosto quello... di avere formalizzato attraverso l’introduzione della perseguibilità a querela l’identificazione dell’offesa per questi reati con la lesione dell’interesse o degli interessi sottostanti al
documento falsificato”, posto che è “la titolarità di questi ultimi a legittimare alla presentazione della querela”. In altri
termini, tale legittimazione “può essere affermata solo in virtù della titolarità da parte del soggetto dello specifico
interesse a cui l’atto era chiamato a dare attuazione ovvero alla cui lesione la falsificazione di quell’atto era destinato”.
In questo senso, la sentenza De Simone (Sez. V, 7-2-1992, dep. il 27-3-1992, rv. 189707) - muovendo evidentemente dal presupposto della individuazione della legittimazione alla querela solo con riferimento allo specifico interesse al quale l’atto era destinato a dare attuazione ovvero alla cui lesione la falsificazione dell’atto era finalizzata afferma che “per la perseguibilità del reato di foglio firmato in bianco... il diritto di querela compete non soltanto al
soggetto della cui firma in bianco si sia abusato, ma anche ad ogni altro soggetto che abbia ricevuto un danno o sia
rimasto sottoposto a potenziali effetti pregiudizievoli, anche sul piano non patrimoniale, dell’atto affetto da falsità”.
Nella stessa direzione si pone la sentenza Schiavone (Sez. V, 6-6-1996, dep. il 20-7-1996, rv. 206290) la quale
- premesso che il delitto di cui all’art. 485 c.p. richiede, oltre la formazione della scrittura privata, l’uso di questa precisa che assume la veste di persona offesa in tale reato, e quindi la titolarità del diritto di querela, pure il soggetto
che risenta un danno in conseguenza di tale uso”. Principi ribaditi anche dalla sentenza Tomaselli (Sez. V, 24-2-2003,
dep. il 18-3-2003, rv. 224263), che, in tema di reati di falsità in titoli di credito, sostiene quanto segue: “per persona
offesa dal reato deve intendersi non soltanto il soggetto al quale sia stata falsamente attribuita l’emissione dell’atto
falsificato, ma anche la persona che abbia ricevuto comunque un danno per l’uso che in concreto sia stato fatto del
titolo” (nella specie la Suprema Corte ha riconosciuto la qualità di persona offesa, legittimata a presentare la querela,
ex art. 493 bis c.p., al beneficiario che aveva presentato all’incasso un assegno falsificato). A conclusioni analoghe
perviene anche la sentenza Cali (Sez. V, 26-11-1997, dep. il 20-1-1998, rv. 209884), in cui, in tema di falsità in
scrittura privata, si afferma che persona offesa, come tale legittimata alla presentazione della querela, è non solo la
persona della quale sia stata falsificata la firma, ma anche ogni altro soggetto che abbia ricevuto un danno per l’uso
che in concreto sia stato fatto della scrittura (fattispecie in tema di falso in cambiali). Nel quadro cosı̀ delineato resta
difficile individuare quale sia il ruolo della fede pubblica, dato che l’area della persona offesa sembrerebbe estendersi
fino a comprendere chiunque abbia ricevuto un danno. Fatto sta che si tratta di reati aggregati e classificati sotto la
categoria dei delitti contro la fede pubblica, la quale dunque, in tutta evidenza, non può considerarsi, quanto alle
ipotesi di falso in atti privati, l’unico bene protetto, posto che il danno evidenziato dalle decisioni appena citate è per
l’appunto un danno patrimoniale. E, difatti, il passo immediatamente successivo a queste affermazioni lo si trova nella
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DEI
DELITTI CONTRO LA FEDE PUBBLICA
sentenza Di Guglielmo (Sez. V, 23-5-2006, p.o. in proc. Di Guglielmo, dep. il 24-7-2006, n. 25617, rv. 234522),
la quale non solo costituisce specificazione e applicazione di questi principi ma anche ulteriore rafforzamento, affermando che “nei delitti contro la fede pubblica, ed in particolare in quelli a querela della persona offesa, il reato di
falso, oltre l’interesse pubblico, lede anche i diritti della parte lesa, cui di conseguenza spettano le facoltà riconosciute
in tema di archiviazione del procedimento alla persona offesa”. A sostegno di questa conclusione la sentenza Di
Guglielmo afferma che “dopo la introduzione dell’art. 493 bis c.p. (casi di perseguibilità a querela) per effetto della
l. n. 689 del 1981... il pregiudizio nei delitti di falso documentale non si esaurisce nella lesione della pubblica fede,
vale a dire nel danno sociale che si ricollega all’alterazione della verità e, quindi, alla stessa condotta di falso, ma
comprende anche l’offesa di una specifica situazione probatoria di un soggetto determinato”; in altri termini, l’attribuzione del potere di querela comporta il riconoscimento della qualità di persona offesa al soggetto che dal reato ha
ricevuto danno. Con conseguente rilevanza dell’interesse concreto alla non falsità del documento; rilevanza resa palese, per cosı̀ dire, dall’assoggettamento della falsità, sia pure in scrittura privata, al regime della punibilità a querela.
Posto che le ipotesi di reato qui in esame rimangono, comunque, apparentate alle altre ipotesi di falso riunite attorno
ad un unico bene, sembra che la nuova formulazione normativa in esame costituisca comunque un rafforzamento della
teoria della plurioffensività. E, difatti, si è puntualmente rilevato in dottrina che “per chi sostiene la teoria della natura
plurioffensiva di questi reati, una tale innovazione legislativa potrebbe essere letta come la conferma o la presa d’atto
dell’esistenza, accanto alla fede pubblica, dell’interesse di volta in volta tutelato dal singolo documento, nella cui
titolarità trova origine la legittimazione alla presentazione della querela”. Si è, ancora, affermato che “riguardata da
questo punto di vista, la differenza con i falsi in atto pubblico, stante l’identità della struttura tipica dei fatti, risiede
unicamente nella diversa natura degli atti o, meglio, nella diversità delle funzioni ad essi assegnate, che comporta una
collocazione dei relativi interessi in una dimensione pubblica o almeno diffusa”. Di talché, con specifico riferimento
alla questione che in questa sede rileva, ci si può chiedere se la diversa natura degli atti - scrittura privata e atto
pubblico - comporti nel secondo caso l’elusione, la fine dell’interesse privato. Certamente, la sussistenza, con riguardo
all’atto pubblico, (soprattutto) di un interesse pubblico o collettivo è tale da giustificare il differente trattamento sanzionatorio (da uno a sei anni di reclusione, mentre per la scrittura privata da sei mesi a tre anni) e il differente regime di
procedibilità, previsti dalle norme incriminatrici in considerazione; ma, anche alla luce di quanto si è fin qui detto - e
richiamando altresı̀ tutte le considerazioni svolte in particolare esaminando le figure del falso grossolano e del falso
innocuo - non si individua alcuna valida ragione per affermare che detto interesse pubblico sia tale da giustificare
anche l’azzeramento, sempre ed in assoluto, dell’interesse privato nel caso di falso in atto pubblico.
6.3 - Conclusivamente, deve, dunque, affermarsi, il seguente principio di diritto: “i delitti contro la fede pubblica tutelano anche il soggetto sulla cui concreta posizione giuridica l’atto incide direttamente, soggetto che, in tal caso,
è legittimato a proporre opposizione contro la richiesta di archiviazione”.
7 - Nella fattispecie in esame non può assolutamente dubitarsi della lesione concreta, che alla sfera giuridica della
S.A. S.M.I. (legalmente rappresentata dal denunciante P.E.M.) potrebbe derivare da un eventuale reato di falso, relativamente alla intestazione di un pacchetto azionario della s.p.a. Lualex (il 95%, con valore nominale pari a
490.634,05 Euro) controversa tra la stessa denunciante e B.F., cosı̀ come prospettato nella denuncia: ne deriva che,
in applicazione del principio quale sopra enunciato, deve certamente riconoscersi al denunciante la veste di parte
offesa, con conseguente suo diritto a proporre opposizione, e con obbligo, per il G.I.P., di valutare l’opposizione
stessa e provvedere motivatamente al riguardo.
Per quanto si rileva dagli atti, il denunciante (avendo ricevuto avviso della richiesta di archiviazione del P.M.) ha
presentato formale atto di opposizione - con argomentate richieste di ulteriori indagini, anche specificamente indicate,
in relazione al reato ipotizzato e con riferimento alle dichiarazioni rese dal B. alla Polizia Giudiziaria - ed il G.I.P. ha
deciso in conformità alla richiesta del P.M., con provvedimento adottato “de plano“, con l’uso di un modulo prestampato, senza prendere in alcun modo in esame la proposta opposizione: e giova in proposito ricordare che, per
giurisprudenza consolidata di questa Corte, “qualora sia stata proposta opposizione alla richiesta di archiviazione
formulata dal P.M., il G.I.P., ai sensi dell’art. 410 c.p.p., può provvedere “de plano”, esclusivamente se ricorrono due
condizioni: a) inammissibilità dell’opposizione; b) info ndatezza della notizia di reato, e di entrambe deve dare atto
in motivazione” (in termini, “ex plurimis“, cfr. Sez. V, n. 6792/99, cc. 14/12/1998, imp. Massone, rv. 212434).
L’impugnato provvedimento deve essere quindi annullato senza rinvio, con trasmissione degli atti, per quanto di competenza, al G.I.P. del Tribunale di Milano, il quale si atterrà al principio di diritto quale enunciato da queste Sezioni Unite.
P.Q.M.
Annulla senza rinvio il provvedimento impugnato e dispone trasmettersi gli atti al Tribunale di Milano.
Cosı̀ deciso in Roma, il 25 ottobre 2007.
Depositato in Cancelleria il 18 dicembre 2007.
INTRODUZIONE
§ 2 - LE
AI REATI CONTRO LA FEDE PUBBLICA
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SINGOLE IPOTESI DI FALSO INOFFENSIVO
SOMMARIO:
2.1. Bibliografia. – 2.2. Giurisprudenza nazionale.
2.1. BIBLIOGRAFIA
Si rinvia alle opere citate nel paragrafo precedente.
2.2. GIURISPRUDENZA NAZIONALE
Cass. pen., S.U., 16-2-2009 (u.p. 27-11-2008), n. 6591
Pres. Carbone - Est. Rotella - P.M. Palombarini
SENTENZA
Svolgimento del processo
1 - S.I. dichiarò, in istanza di ammissione al patrocinio a spese dello Stato dell’11-3-2003 al Tribunale di sorveglianza
di Palermo, di non avere redditi. Ammessa al beneficio, si verificò che era titolare di un immobile, implicante contratto
con un’azienda, ed era proprietaria di autovettura.
Imputata del delitto aggravato, previsto e punito dall’art. 5, 7o co., l. n. 217/90, modif. con l. n. 134/01, norma
trasferita nell’art. 95 d.p.r. n. 115/02, T.U. delle “spese di giustizia”, il G.U.P. di Palermo la condannava in giudizio
abbreviato con generiche equivalenti a mesi 8 di reclusione ed euro 220 di multa.
La Corte di appello di Palermo ha confermato la condanna, non condividendo il principio di Cass., Sez. V, 13-42006, B., rv. 234124, secondo cui non sussistono estremi di reato, se il fatto non si sostanzi nella falsa dichiarazione
di un reddito inferiore a quello fissato quale soglia di ammissibilità al beneficio.
Il difensore ha proposto ricorso per violazione dell’art. 95, d.p.r. n. 115 del 2002, e dell’art. 192 c.p.p., ripetendo
il principio della sentenza 13-4-2006, B. Ed ha concluso che nella specie, al di là di errore nelle dichiarazioni su
prestampati offerti dalla difesa, è incontroverso che l’istante avrebbe potuto fruire del beneficio del patrocinio a spese
dello Stato per il reddito poi accertato, sicché di delitto non è punibile.
2 - La IV Sezione di questa Corte, assegnataria del procedimento, a fronte della sentenza 13-4-2006, B., e altre
consecutive, ha fatto proprio il principio di Cass., Sez. III, 20-6-2006, C., rv. 236267, che afferma in senso opposto
che l’ammissibilità al beneficio non esclude la punibilità del reato di pura condotta, come si desume dall’aggravamento di pena, quando la falsità sia stata determinante per l’ammissione, e confermano le disposizioni degli artt. 96
e 98 del d.p.r. n. 115/02.
E, pur condividendolo, poiché la questione ha dato luogo a contrasto segnalato dal Massimario (rel. n. 53 del
28-5-2008), con ordinanza del 19-6 – 23-7-2008 ha rimesso il ricorso alle Sezioni Unite ai sensi dell’art. 618 c.p.p.
Motivi della decisione
1 - La questione controversa è “se il reato previsto dal d.p.r. n. 115 del 2002, art. 95 sia integrato da falsità od
omissioni nelle dichiarazioni o comunicazioni per l’attestazione di reddito necessarie per l’ammissione al patrocinio a
spese dello Stato o il mantenimento del beneficio, anche se il reddito accertato non dovesse superare la soglia minima
prevista dalla legge”.
Il d.p.r. n. 115 del 30-5-2002, incorporando la disciplina del patrocinio a spese dello Stato negli artt. 74 e ss., del
Testo Unico, ripete nell’art. 95 la norma incriminatrice dell’art. 5 della l. n. 134 del 29-3-2001. Questa legge, a sua
volta, aveva ripetuto la disposizione dell’art. 5, 7o co., del d.p.r. n. 217 del 30-7-1990, ma non anche quella del
2o co., s. articolo, che specificava le allegazioni all’istanza di gratuito patrocinio.
Il contrasto, come dimostra l’analisi, è sorto in effetti per questa ragione, e s’incentra bensı̀ sul falso nella dichiarazione
sostitutiva contenuta nell’istanza di ammissione al beneficio, ma involge la ratio complessiva della norma incriminatrice.
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DEI
DELITTI CONTRO LA FEDE PUBBLICA
1.1 - Cass., 13-4-2006, B., sopra citata, ha anzitutto affermato che la norma dell’art. 95 del d.p.r. n. 115/02,
immutata dal ’90, è speciale rispetto a quella di cui all’art. 483 c.p. e che l’art. 95 rinvia all’art. 79, 1o co., lett. b),
c) e d), che incorpora nella fattispecie criminosa solo alcune condotte di alterazione del vero.
Queste condotte si riassumono nella falsa attestazione di avere un reddito complessivo inferiore a quello fissato dal
legislatore quale soglia di ammissibilità, ovvero nella negazione o nascondimento di mutamenti significativi per esso
intervenuti, ai fini della valutazione dell’eventuale superamento della stessa soglia.
Pertanto non rileva qualsiasi infedele attestazione, ma solo quelle che abbiano, quale conseguenza, l’inganno potenziale o effettivo del destinatario della dichiarazione sostitutiva (lett. c). E tra esse non rientrano quelle che occultino
redditi il cui ammontare non implichi superamento del limite, che esclude il diritto all’ammissione.
Nello stesso solco si calano: Cass., Sez. V, 18-9-2008, C.; Sez. V, 19-2-2008, G., rv. 239126; Sez. V, 20-122007, A., rv. 238880; Sez. V, 22-1-2007, M., rv. 236143; Sez. V, 11-5-2006, S., rv. 234207. Le sentenze,
accentuando la finalità dell’attestazione, affermano il falso inidoneo all’inganno, se il reddito è comunque inferiore alla
soglia di ammissibilità al beneficio. Cass., Sez. V, 11-12-2007, G., rv. 239099, richiama invece la categoria del
falso inutile o innocuo.
1.2 - Cass., 20-6-2006, C., sopra citata, ha affermato invece che, in caso di falsa attestazione, il reato si ravvisa
anche se il reddito realmente percepito avrebbe ugualmente consentito l’ammissione del soggetto beneficiario al gratuito patrocinio per più ragioni.
Anzitutto, conformandosi a Cass., Sez. I, 25-1-2001, M., rv. 218932, che tanto aveva affermato prima dell’entrata
in vigore della l. n. 134 del 2001 con riferimento alle dichiarazioni relative alle variazioni del reddito, ha rilevato che
la disciplina in materia esclude ogni discrezionalità da parte del soggetto da ammettere al beneficio.
Ha quindi rammentato che il falso, che non concerne solo la dichiarazione sostitutiva, ha ragione propria di punibilità
nell’oggetto giuridico “pubblica fede”.
Nella specie l’art. 95 prevede elemento psicologico del reato il dolo generico e “l’ottenimento o il mantenimento” del
beneficio solo circostanza aggravante. Di più, in caso di condanna per il delitto aggravato, dispone revoca ex tunc
del beneficio già concesso. La revoca del beneficio è parallelamente prevista dall’art. 112 per l’omissione di comunicazioni in termini di eventuali variazioni dei limiti di reddito, per quanto non tali da implicare il superamento delle
condizioni per il mantenimento.
L’insieme impedisce di ritenere irrilevante che il reddito accertato non superi il tetto previsto dalla legge, sia per l’ammissione che per il mantenimento del beneficio.
All’indirizzo hanno dato seguito Cass., Sez. V, 6-3-2007, P., rv. 236532; Sez. V, 24-1-2008, M., rv. 239387, che
ha rimarcato in particolare le prescrizioni dell’art. 96 d.p.r. cit., circa i fondati motivi per cui il magistrato respinge
l’istanza di ammissione al beneficio, e dell’art. 98, secondo il quale dispone la verifica di esattezza dell’ammontare
del reddito attestato, dopo l’ammissione al beneficio.
1.3 - In posizione in effetti intermedia si pone Cass., Sez. IV, 10-10-2007, S., rv. 237732, che formula un’eccezione
al secondo indirizzo, affermando che la dichiarazione sostitutiva di cui all’art. 79, richiamata nell’art. 95, concerne
solo i redditi.
Spiega che l’art. 5 della l. n. 134/01, incorporato nel d.p.r. 115/02 ha abrogato la previsione dell’art. 5, 2o co.,
l. 217/90. Pertanto la dichiarazione delle condizioni di reddito non concerne più i diritti reali su immobili e mobili
registrati, ed il reato non sussiste se in proposito è falsa (conf. Cass., Sez. V, 5-3-2008, P.).
2 - La soluzione in effetti implica anzitutto verifica dell’evoluzione normativa.
La l. n. 134 del 2001, le cui disposizioni sono state incorporate nel T.U. sulle spese di giustizia, ha bensı̀ soppresso
l’obbligo di cui all’art. 5, 2o co., l. 217/90, di specifiche allegazioni all’istanza di ammissione al beneficio.
Ma l’art. 79, 3o co., del d.p.r. 115/02, prevede in via surrogatoria che il consiglio forense competente a provvedere
in via anticipata, e quindi il giudice possano chiedere all’istante, a pena di inammissibilità dell’istanza, di produrre
documentazione.
Di più l’art. 96 prevede che, ammessa l’istanza, prima di decidere sull’ammissione al beneficio, il magistrato può
chiedere verifiche tempestive dei dati offertigli alla G. di Finanza, non la verifica dell’esattezza del reddito attestato, nonché la compatibilità dei dati indicati con le risultanze dell’anagrafe tributaria. Questo compito è affidato all’ufficio finanziario solo dopo che il giudice ha ammesso l’istante al beneficio e cioè deciso l’accoglimento
(art. 98). All’evidenza allegazioni e verifiche provvisorie sono condizionate dai tempi (si pensi all’istanza d’imputato
detenuto).
Perciò, dal 2001, la legge inversamente accentua l’onere di attestazione dell’istante a fine di prova delle sue condizioni di reddito, qualificando sostitutiva la dichiarazione incorporata nell’istanza, con il richiamo all’art. 46, 1o co.,
lett. o) d.p.r. 445/00 nell’art. 79, 1o co., lett. c) d.p.r. 115/02, cui rinvia l’art. 95. E, nel contempo, gli lascia la
possibilità, senza obbligo, di avvalersi di moduli predisposti.
INTRODUZIONE
AI REATI CONTRO LA FEDE PUBBLICA
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All’uopo l’art. 79, 1o co., lett. c), prevede che la dichiarazione attesti la “sussistenza delle condizioni di reddito
previste per l’ammissione con specifica determinazione del reddito complessivo valutabile a tali fini, determinato secondo le modalità dell’art. 76”. E l’art. 76 fa rinvio alla dichiarazione dei redditi IRPEF.
I singoli dati reddituali sono dunque oggetto indiscriminato di attestazione, secondo il modello tipico recepito. La
ragione di specifica determinazione si collega inoltre al rinvio dell’art. 95 anche alle lettere b) e d) dell’art. 79, 1o co.
La lett. b) prescrive l’indicazione delle generalità proprie e dei componenti della famiglia anagrafica e relativi codici
fiscali. E si connette all’art. 92, che eleva il limite di reddito per l’ammissione, in quantità fissa per ognuno dei conviventi che non abbia reddito proprio, il che significa per contro che va sempre indicato il reddito dei conviventi. La lett.
d) afferma l’impegno a comunicare variazioni rilevanti dei limiti di reddito nell’anno precedente, la qualcosa presume
appunto l’indicazione di ogni fonte, anche potenziale, di reddito. Il corollario è che i diritti reali su immobili devono
essere dichiarati, non solo se fonti attuali (ad es. usufrutto), ma anche solo potenziali di reddito (ad es. nuda proprietà),
perciò suscettibili di variazioni da comunicare per impegno assunto nell’istanza, come di seguito si precisa.
2.1 - Questa analisi sommaria del procedimento dimostra che la norma incriminatrice, per quanto rapporti la falsità
della “dichiarazione sostitutiva” al modello dell’art. 483 c.p., la cala in effetti in una previsione complessa, già per il
suo tenore ed il correlato contenuto dell’istanza a pena di inammissibilità (v. l’esordio dell’art. 79).
Difatti la dichiarazione non ha per sé ad oggetto la sussistenza delle condizioni di reddito per l’ammissione al beneficio, bensı̀ i dati da cui l’istante la induce (“determina”) quale risultato, suscettibile di valutazione discrezionale seppur
vincolata dell’organo destinatario, come nel caso della dichiarazione IRPEF, su cui si modella.
E, posto che la dichiarazione sostitutiva è incriminabile per la falsità (commissiva od omissiva, v. oltre) dei dati che
servono alla determinazione, s’intende il vincolo di incriminazione al principio di Cass., S.U., 3-2-1995, P., rv.
200117, per cui la falsità si configura nella “parte descrittiva” dell’atto, salvo espressa eccettuazione dei fatti da
attestare.
La singolarità della dichiarazione sostitutiva nel caso è inoltre dimostrata dal rilievo che la legge che autorizza il privato
attestazione tipica a pena di falso (Cass., S.U., 15-12-1999, G., rv. 215413; Cass., S.U., 17-2-1999, L., rv.
212782), di solito prevede che la riversi in atto pubblico a pubblico ufficiale, che si limiti ad attestare nell’atto di averla
ricevuta. E, in ragione del fine dell’atto, la stessa legge pone al privato onere di allegarlo ad istanza diretta a diverso
organo, che adotta provvedimento sulla premessa del fatto attestato.
Il d.p.r. 115/02 unifica la doppia azione, perché l’interessato al beneficio rende la dichiarazione con valenza attestativa nell’istanza rivolta al magistrato che la contiene a pena di inammissibilità (art. 96). E fa conto che il magistrato,
dovendo subito decidere, possa solo chiedere documentazione o verifica degl’indici fornitigli, non altro.
In questa luce la norma penale sottolinea la necessità della compiuta ed affidabile informazione del destinatario che,
a fronte della complessità del tenore dell’istanza cui è speculare la valutazione da svolgere, ha urgenzati decidere.
La necessità di dettaglio del tenore dichiarativo dell’istanza è significato in maniera risolutiva dall’art. 96, 2o co., d.p.r.
112/02, che prescrive: “il magistrato... respinge l’istanza se vi sono fondati motivi di ritenere che l’interessato non
versa nelle condizioni degli artt. 76 e 92, tenuto conto del tenore di vita, delle condizioni personali e familiari, e delle
attività economiche eventualmente svolte”. Il che, si è visto, connette tra l’altro le previsioni dell’art. 79, 1o co., lett. b)
e c), in duplice senso all’art. 92.
La conclusione evidente è che la dichiarazione deve contenere senza eccezione i dati eventualmente già riversati nella
diversa dichiarazione a fini IRPEF relativa ai redditi dell’anno precedente, in tal caso da allegare, salvo la possibilità
di prendere in considerazione l’istanza di ammissione al beneficio, di chi non l’abbia presentata.
2.2 - Passando ora alla struttura del reato, risulta assorbente il rilievo che la locuzione “falsità od omissioni” non
distingue il falso dalle altre condotte cui segue evento di pericolo, ed oltre di danno. Il falso è reato commissivo proprio,
seppure consiste in omessa attestazione di fatto vero, sicché la ratio di incriminazione, già per lettera, non può essere
confinata nell’ipotesi che ha dato luogo al contrasto.
L’incriminazione del reato di pura condotta, commissivo od omissivo che sia, ha funzione di sbarramento dell’evento di
danno ulteriore. La funzione si è visto è accentuata dal collegamento del dovere di attestazione nell’istanza alla dichiarazione IRPEF dell’anno precedente, che può non essere stata rilasciata, e quindi dalla possibilità di respingere la
stessa istanza allo stato per le attività, le condizioni di vita personali e familiari, ed il tenore di vita di chi chiede
l’ammissione al beneficio.
Sicché l’incriminazione si correla da un lato al generale “principio antielusivo” che, affermato da questa Corte (v. da
ultimo, Cass. civ., Sez. V, 24-9-2008, rv. 605520; Cass. civ., Sez. V, 16-1-2008, rv. 604359, 604360), s’incardina sulla capacità contributiva ai sensi dell’art. 53 Cost., e perciò dell’art. 3. E si correla, dall’altro, all’art. 24,
3o co., ulteriore corollario dell’art. 3 del Patto fondamentale, in osservanza del quale l’art. 98 c.p.p. prevede la
disciplina del patrocinio dei non abbienti a spese dello Stato. Dal che è evidente che la punibilità del reato di pura
condotta si rapporta, ben oltre il pericolo di profitto ingiusto, al dovere di lealtà del singolo verso le istituzioni.
14
DEI
DELITTI CONTRO LA FEDE PUBBLICA
È dunque apodittico il rilievo di sproporzione della gravità della pena prevista dall’art. 95 d.p.r. cit. per un’ipotesi
speciale del reato di cui all’art. 483 c.p., in quanto analoga a quella prevista per la truffa aggravata. E non è in
particolare giustificata l’implicazione d’innocuità o inutilità della falsità, correlata ad una soglia di ammissione al beneficio, che non risulta prevista dalla norma incriminatrice.
In genere l’innocuità del falso in un atto pubblico non va per sè ritenuta con riferimento all’uso che s’intende fare del
documento, che non è necessario ad integrare la condotta incriminata, e può altrimenti integrare estremi di reato
diverso (come rileva Cass., 20-6-2006, C., cit., rifacendosi a Cass., Sez. V, 30-9-1997, B., rv. 209266).
In ispecie la lettera dell’art. 95 non condiziona la rilevanza dell’offesa della pubblica fede al fine patrimoniale dell’atto
falso (cfr. Cass., S.U., 26-3-2003, n. 25887). Non opera, difatti, specifica addizione di qualifica all’evento di pericolo, o all’intenzione di risultato dell’agente (dolo specifico), sicché la falsità non può ritenersi innocua secondo
parametro dell’evento, men che inutile secondo parametro del dolo.
È questa la ragione di previsione dell’evento di danno come mera aggravante.
Né la condizione di punibilità può desumersi dal richiamo dell’art. 95 all’art. 79, 1o co., lett. c), la cui disposizione,
si è visto, si combina con altre norme per rinvio espresso (artt. 76 e 92) o per rinvio implicito (v. anzitutto la distinzione
di ammissibilità dell’istanza, che contiene tra l’altro la dichiarazione, dall’ammissione al beneficio od al rigetto dell’istanza in sé formalmente ammissibile, nell’art. 96).
È dunque esclusa qualsiasi esenzione categorica di legge (innocuità), fuori del parallelo con quanto è dovuto nella
dichiarazione IRPEF.
La questione d’inidoneità è circoscritta nei limiti dell’art. 49 c.p., perciò diversa in quanto sempre e solo di fatto. In
concreto è possibile ritenere inidonea all’offesa taluna omessa, e per sé falsa attestazione, quale quella di un diritto
reale su mobile registrato. Ma va tenuto da conto che tale diritto deve essere dichiarato, già perché la titolarità del
bene incide sulla valutazione del giudice, secondo il parametro del tenore di vita, ed a maggior ragione se all’esercizio del diritto si connette un’attività economica, altro metro decisivo per l’ammissione al beneficio (art. 96, 1o co.).
Insomma se il reato concerne la parte determinativa della dichiarazione, che si connette al tenore della dichiarazione
IRPEF, giusto il principio premesso di Cass., S.U., 3-2-1995, P., cit., la valutazione d’inidoneità all’inganno non può
essere implicata dal rilievo che la determinazione non è stata fatta propria dal magistrato, che abbia respinto l’istanza.
L’inidoneità del falso o dell’omissione va apprezzata con riferimento a quanto il magistrato potesse intendere, prima di
decidere nel merito. E, a maggior ragione, l’inidoneità non può desumersi dalla prova certa di sussistenza delle
condizioni di reddito per l’ammissione a beneficio, che si consegue dopo che il magistrato l’abbia disposta, per la
verifica compiuta deferita all’ufficio finanziario (art. 98).
2.3 - Concludendo, la specifica falsità nella dichiarazione sostitutiva (artt. 95, 79, lett. c) è connessa all’ammissibilità
dell’istanza non a quella del beneficio (art. 96, 1o co.), perché solo l’istanza ammissibile genera obbligo del magistrato di decidere nel merito, allo stato. L’inganno potenziale, della falsa attestazione di dati necessari per determinare
al momento dell’istanza le condizioni di reddito, sussiste quand’anche le alterazioni od omissioni di fatti veri risultino
poi ininfluenti per il superamento del limite di reddito, previsto dalla legge per l’ammissione al beneficio.
Pertanto, la questione riceve risposta affermativa, nel senso che il reato di pericolo si ravvisa se non rispondono al vero
o sono omessi in tutto o in parte dati di fatto nella dichiarazione sostitutiva, ed in qualsiasi dovuta comunicazione
contestuale o consecutiva, che implichino un provvedimento del magistrato, secondo parametri dettati dalla legge,
indipendentemente dalla effettiva sussistenza delle condizioni previste per l’ammissione al beneficio.
Ogni altra questione è di fatto e, si è visto, pone in discussione cosa il magistrato potesse intendere allo stato a stregua
delle comunicazioni dovute, e per contro la volontà del privato di trarlo in inganno, in reato punibile a titolo di dolo
generico.
3 - Su questa premessa, la sentenza impugnata risulta incensurabile.
L’atto incriminato, a quanto motiva la sentenza di primo grado e conferma quella di appello, omette il riferimento a
diritti reali su immobile, cui è connessa una attività oggetto di contratto, e su mobile registrato, dati ritenuti rilevanti per
la determinazione del Tribunale di Palermo ai sensi dell’art. 96 del d.p.r. 115/02.
Il fatto non è innocuo, ed è stato ritenuto incensurabilmente idoneo all’inganno, ancorché il reddito complessivo sia, di
seguito, risultato tale da non superare il limite previsto dalla legge.
Finalmente l’asserto incidentale di potenziale errore (quindi assenza del dolo generico), per indicazioni ricevute dall’imputata circa il tenore della dichiarazione da rendere, è di fatto, e non risulta specificamente sostenuto in appello.
P.Q.M.
rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese del procedimento.
Roma, 27 novembre 2008.
INTRODUZIONE
AI REATI CONTRO LA FEDE PUBBLICA
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Cass. pen., S.U., 25-10-2007, n. 46982
Pres. Battisti - Rel. Romis - P.M. Febbraio
V. supra, § 1.2. Giurisprudenza nazionale.
Cass. pen., Sez. V, 29-5-2008 (u.p. 12-3-2008), n. 21787
Pres. Pizzuti - Rel. Fumo - P.M. Viglietta.
IL TRIBUNALE
DI
NAPOLI
HA ASSOLTO
F. C.
DAI REATI
ex artt. 474 e 648 c.p. perché il fatto non sussiste.
L’imputato fu sorpreso da personale della GdF mentre deteneva per vendere numerosi capi di abbigliamento
recanti il falso marchio della Walt Disney. Lo stesso non fu in grado di esibire le fatture di acquisto né di indicare
la provenienza della merce.
Il Tribunale partenopeo, ritenendo la grossolanità del falso, in quanto riconoscibile da un compratore di media diligenza, è pervenuto alla sentenza di assoluzione sopra indicata.
Ha ricorso per cassazione il Procuratore generale sostenendo che, trattandosi di delitto contro la fede pubblica, il
“punto di vista” da assumere per la valutazione della eventuale grossolanità della imputazione, non è quello del compratore, ma quello, per c.d., della intera collettività, tratta in inganno - dopo la vendita - circa la genuinità del prodotto
posto in circolazione.
Trattasi di reato di pericolo per la cui perfezione non è necessaria la avvenuta realizzazione dell’inganno.
La Cassazione ha accolto il ricorso con le seguenti argomentazioni.
Invero, la norma che incrimina l’introduzione nello Stato e commercio di prodotti con segni falsi tutela il bene della
pubblica fede, intesa come affidamento collettivo nei marchi o segni distintivi, sicché la realizzazione di un inganno nel
singolo acquisto non è elemento integrativo della fattispecie. È pertanto da escludersi la configurazione del reato
impossibile in caso di grossolanità della contraffazione e di condizioni di vendita tali da impedire l’errore degli acquirenti, dal momento che occorre avere riguardo alla potenzialità lesiva del marchio, connaturata all’azione di diffusione in riferimento a un numero indeterminato e indeterminabile di consociati nel corso della loro successiva utilizzazione e circolazione (Cass., Sez. II, 22-9-2005, Mbaye, rv. 232501; Sez. II, 11-10-2000, Ndong Khadim, rv.
217506). La norma insomma è volta a tutelare, non la libera determinazione dell’acquirente, ma la pubblica fede,
intesa come affidamento dei consumatori nei marchi, quali segni distintivi della particolare qualità e originalità dei
prodotti messi in circolazione; ne consegue che non può parlarsi di reato impossibile per il solo fatto che la grossolanità
della contraffazione sia riconoscibile dall’acquirente in ragione delle modalità della vendita, in quanto l’attitudine della
falsificazione ad ingenerare confusione deve essere valutata non con riferimento al momento dell’acquisto, ma in
relazione alla visione degli oggetti nella loro successiva utilizzazione (Cass., Sez. II, 2-10-2001, Fall Babacar,
rv. 220236).
Consegue annullamento con rinvio che, trattandosi di ricorso per saltum, va effettuato innanzi alla competente Corte di
appello (Napoli).
P.Q.M.
la Corte annulla la sentenza impugnata con rinvio alla Corte di appello di Napoli per il relativo giudizio.
♦ Posto che il verbale di ricezione di dichiarazione di appello da parte del cancelliere costituisce atto pubblico facente fede fino a querela di falso, sussiste il reato di falso in atto pubblico
anche qualora tale verbale sia stato redatto e sottoscritto da un coadiutore giudiziario col consenso del cancelliere, e la sentenza che si voleva appellare era in realtà soltanto ricorribile
(Cass. pen., Sez. V, 5-7-1990, in Foro it., 1993, II, 436 s., con nota di GIACONA, Appunti in tema
di falso c.d. consentito e in atti invalidi).
♦ L’innocuità della condotta di falsificazione ha diretta rilevanza ai fini dell’accertamento dell’elemento soggettivo del reato, dal momento che la mancanza d’interesse alla falsificazione
denoterebbe l’insussistenza del dolo generico di falso; deve, pertanto, ritenersi involontaria e
frutto di semplice distrazione l’apposizione di firma nel registro delle presenze nel posto di
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DEI
DELITTI CONTRO LA FEDE PUBBLICA
lavoro da parte di un pubblico dipendente, qualora egli avrebbe avuto comunque diritto a
giorni di permesso straordinario retribuito (che peraltro non si sarebbero dovuti neanche detrarre dall’ammontare complessivo dei giorni di congedo ordinario spettanti) (App. Palermo,
3-12-1992, in Foro it., 1993, II, 491 s., con nota di GIACONA, Appunti in tema di falso c.d.
grossolano, innocuo e inutile).
♦ Non è punibile, in quanto innocua, la falsità che si riveli in concreto inidonea a ledere l’interesse tutelato dalla genuinità del documento, vale a dire quando non abbia la capacità di
conseguire uno scopo antigiuridico (in applicazione di questo principio la corte ha ritenuto
innocuo il falso consistente nella attestazione, attraverso la firma dei registri scolastici, dell’avvenuto espletamento di un incarico di insegnamento in una scuola privata legalmente riconosciuta da parte di un determinato insegnante quando le lezioni venivano in effetti tenute da
un’altra persona in possesso dei requisiti per svolgere l’attività didattica nella stessa materia di
insegnamento) (Cass. pen., Sez. V, 24-1-1997, in Dir. pen. e processo, 1997, 594 s., con nota di
Monteverde).