Rassegna - Blood Transfusion

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Rassegna - Blood Transfusion
Rassegna
Protocollo relativo all'esecuzione di esami
immunoematologici per la prevenzione della MEN
Giorgio Reali
Genova
Questa Rassegna nasce sotto la spinta di due eventi
succedutisi, l'un l'altro, a breve distanza di tempo. Da un
lato, un incontro scientifico organizzato nel dicembre scorso
a Ragusa dai Colleghi della Delegazione Regionale Siciliana
della SIMTI sulla Malattia Emolitica del Neonato (MEN) e
sulla sua reale persistenza e, dall'altro, la pubblicazione, nel
numero di novembre 2001 di Transfusion, di un articolo
dedicato alle Linee-guida pratiche che la pertinente
Commissione scientifica dell'AABB (American Association
of Blood Banks) ha emanato, circa i nuovi criteri nel
programma degli esami immunoematologici da effettuarsi
per lo studio e la prevenzione di questa forma morbosa1.
Questa coincidenza mi offre, innanzi tutto, l'opportunità
di ribadire ancora una volta (anche se rischio, insistendo,
di apparire quanto meno inopportuno, se non importuno)
che la MEN - e per essa, come paradigmatica, la MEN da
incompatibilità materno-fetale per l'antigene D - resta tuttora
un'entità nosologica concreta e attuale, nonostante i grandi
e innegabili successi ottenuti con l'immunoprofilassi.
D'altronde, ciò era chiaramente presente al Comitato
Scientifico che aveva scelto gli argomenti del XXXIV
Convegno di Studi SIMTI (Rimini, 25-28 giugno 2000),
quando mi aveva affidato una relazione dal titolo (se
vogliamo un po' retorico e dalla risposta scontata): MEN,
una malattia scomparsa? La relazione è stata poi
integralmente pubblicata su questa Rivista2.
Accertate, dunque, realtà e attualità del problema, resta
indubbio che le numerose modificazioni che le tecniche
immunoematologiche eritrocitarie hanno sperimentato in
questi ultimi anni, non ultimo l'impiego di metodologie
derivate dalla biologia molecolare, impongono una
Corrispondenza:
Prof. Giorgio Reali
c/o IBMDR
Via Volta, 19/5
16128 Genova
revisione e un aggiornamento di protocolli, la cui stesura
risale ad alcuni anni fa.
Nell'esposizione, seguirò la consecutio classicamente
utilizzata a questo proposito, citando prima gli esami da
eseguirsi in corso di gravidanza, diversificandone gli
interventi a seconda della positività o negatività della ricerca
di anticorpi irregolari, e poi quelli da effettuarsi alla nascita
e nel periodo post-partum, ivi compresi quelli relativi alla
valutazione dell'emorragia feto-materna.
Esami da eseguirsi in corso di gravidanza
Il punto essenziale di questi esami è identificare le
gravide potenzialmente esposte a un'alloimmunizzazione.
Quindi, innanzi tutto, le donne Rh D-negative, sia per
condurre su di esse una ricerca di anticorpi antieritrocitari
particolarmente accurata, sia per avviarle a una
immunoprofilassi prenatale, se questa è la politica adottata
dalla struttura trasfusionale coinvolta, e comunque a quella
post-partum, ormai di routine in tutto il mondo occidentale.
Ritorneremo obbligatoriamente su quest'ultimo punto,
perché coinvolge problemi sia di natura scientifica che,
ovviamente, di portata economica.
La prima indagine è, quindi, la tipizzazione
eritrocitaria ABO/Rh della gravida, da effettuarsi
possibilmente sin dalla prima visita ostetrica. La
determinazione delle caratteristiche del principale sistema
gruppoematico, consentirà anche di individuare le donne
di gruppo O, quelle virtualmente in grado di produrre IgG
anti-A e/o B ad alto titolo e, conseguentemente, di indurre
nel neonato una MEN da incompatibilità ABO.
Sempre a proposito della tipizzazione eritrocitaria della
gravida, uno dei punti più approfonditamente discussi dal
documento della Commissione ad hoc statunitense è quello
della ripetizione sistematica di questa indagine ogni volta
LA TRASFUSIONE DEL SANGUE vol. 47 - num. 2 marzo-aprile 2002 (323-331)
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G Reali
che la gravida deve presentarsi per qualche manovra
ostetrica (amniocentesi, funicolocentesi ecc): nella
precedente versione delle linee-guida AABB3, emessa nel
1990, questi ribaditi controlli venivano raccomandati, ma
veniva anche sottolineato che, al di fuori di tali particolari
situazioni, era sufficiente una verifica delle registrazioni
esistenti qualora la gravida risultasse Rh D-positiva. È
ovvio che, al proposito, possono diventare dirimenti
valutazioni di ordine economico, ma si deve anche
considerare l'opportunità di effettuare almeno un controllo
ABO/Rh su di un nuovo campione di sangue, per non
incorrere nel possibile (e non infrequentissimo) sbaglio
dovuto a uno scambio di provette o a una errata
etichettatura, in occasione dell'unica indagine effettuata.
Una eventuale falsa determinazione come D-positiva di una
gravida in realtà D-negativa si risolverebbe in un danno
non facilmente valutabile nella sua complessità e portatore
di conseguenze anche molti gravi, sia per una mancata
istituzione dell'immunoprofilassi specifica sia per la mancata
esecuzione del sistematico monitoraggio di eventuali
anticorpi anti-D. Alternativamente, si può riverificare la
tipizzazione utilizzando un antisiero di caratteristiche diverse
da quello precedentemente impiegato. Al riguardo, le
caratteristiche del secondo reagente debbono essere,
obbligatoriamente, tali da evitare il ripetersi di una possibile,
spontanea autoagglutinazione intervenuta alla prima
indagine: quindi, si deve proscrivere l'uso di antisieri che
contengano mezzi di sospensione altamente proteici e si
debbono impiegare sieri monoclonali o, comunque, sieri
"clivati".
Altro problema connesso alla tipizzazione della gravida
è quello legato alla presenza dei fenotipi "D deboli (ex Du)"
e "D parziali (o mosaic o variant)". Si tratta di assetti
antigenici rari ma non rarissimi, specialmente il "D debole".
Le due situazioni non sono sovrapponibili: infatti, mentre il
portatore del fenotipo "D debole" (sia esso del tipo
cosiddetto "ereditario" che quello da "effetto Ceppellini")
è, a tutti gli effetti, un soggetto Rh positivo (e, quindi, nel
caso di una gravida o di una puerpera, non si deve istituire
immunoprofilassi), una persona "D mosaic" deve ritenersi
"parzialmente negativa", in quanto priva di uno o più epitopi
D4. Ne consegue (e ve ne sono ampie documentazioni in
letteratura5), che può sensibilizzarsi nei riguardi dell'epitopo
(o degli epitopi) D che non possiede qualora venga a
contatto, per trasfusioni o gravidanze, con emazie D ad
assetto antigenico normale (cioè fornite di tutti gli epitopi).
Innumerevoli sono e sono state le diatribe circa la
opportunità di sottoporre una gravida (e una puerpera) Dmosaic all'immunoprofilassi. Molti Autori sostengono che
la maggior parte delle IgG anti-D introdotte a scopo
profilattico si dovrebbe legare alle emazie materne e, di
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conseguenza, non sarebbe in grado di bloccare (se non
molto parzialmente) quelle fetali6. Da qui, il suggerimento
di aumentare eventualmente le normali dosi di IgG anti-D
per la profilassi delle donne con tale assetto fenotipico.
In argomento, si impongono due considerazioni. La
prima è che, se non si esegue una ricerca mirata con una
serie di antisieri selezionati per evidenziare, selettivamente,
gli epitopi D (sieri, fra l'altro, molto costosi e di non facile
approvvigionamento), si evidenzia un soggetto D-parziale
soltanto quando questi si sensibilizza (o qualora faccia
parte di un gruppo familiare, indagato dopo l'individuazione
di un propositus sensibilizzato). Non è, quindi, facile
riconoscere a priori un D mosaic. La seconda
considerazione è in rapporto all'utilità della
immunoprofilassi in tali donne. Bisogna tener presente che
non è ancora totalmente delucidata l'intima modalità
d'azione dell'immunoprofilassi anti-Rh. Accanto a chi
sostiene, come ha fatto, sin dall'inizio, la Scuola inglese7,
l'azione di blocco nei riguardi dei determinanti antigenici D
sulle emazie fetali da parte delle IgG anti-D introdotte, esiste
l'altra corrente di pensiero, quella nord-americana8, che si
richiama, piuttosto, ad un'azione di feed-back: in altri termini,
l'introduzione di immunoglobuline anti-D inibirebbe la
produzione di anticorpi specifici, a somiglianza di quanto è
noto avvenire in alcune gravi malattie infettive come il
tetano o la difterite, nelle quali la somministrazione di
anticorpi antitetanici o antidifterici impedisce una risposta
immune alle tossine specifiche9. Se questa ipotesi è quella
vera (ed è molto probabile lo sia o, quanto meno, lo sia
parzialmente), l'immunoprofilassi si impone, anche
utilizzando soltanto le dosi usuali.
Per completare questo argomento, si deve anche segnalare
il rischio di tipizzare falsamente una donna Rh negativa come
Rh positiva, se la determinazione viene effettuata, per la prima
volta, al terzo trimestre di gravidanza o, ancor più, al parto,
quando una consistente emorragia feto-materna potrebbe
erroneamente orientare verso un fenotipo D-debole, con tutte
le conseguenze negative del caso.
Strettamente connessa alla tipizzazione ABO/Rh della
gravida è l'esecuzione della stessa indagine sul coniuge o
sul partner della gestante. La tipizzazione ABO/Rh del
padre permetterà di accertare l'esistenza (o meno) di
incompatibilità gruppoematiche fra genitori per questi ed
eventualmente per altri sistemi. Per quanto attiene al sistema
Rh, l'impiego delle metodiche di biologia molecolare
permette oggi di accertare il genotipo del padre e di stabilire,
quindi, se esso è, in realtà, omozigote o eterozigote per il
gene RHD10. Chiaramente questa possibilità offre, in caso
di sensibilizzazione materna, uno strumento prognostico
molto più valido dell'antica derivazione, dal fenotipo
paterno, del genotipo "più probabile".
Protocollo per la prevenzione della MEN
L'altra indagine di essenziale importanza è la ricerca
di anticorpi irregolari antieritrocitari nel siero della
gravida. Questa ricerca deve essere inizialmente eseguita
in concomitanza con la tipizzazione ABO/Rh al momento
del primo approccio della gravida con la struttura
trasfusionale e va obbligatoriamente effettuata,
indipendentemente dalle caratteristiche Rh della donna. È,
peraltro, ovvio che nel caso della gravida Rh negativa, essa
va ripetuta a scadenze prefissate, come avremo modo di
segnalare in seguito.
La tecnica da utilizzarsi va scelta fra quelle normalmente
impiegate, dall'antiglobulina in fase liquida ai test di gelsedimentazione o di agglutinazione su colonna, dai test in
fase solida a quelli in micropiastra o a quelli che utilizzano
LISS, PEG, Polibrene. È da sconsigliarsi l'uso delle tecniche
enzimatiche (siano esse a uno o a due tempi) perché,
essendo molto sensibili, potrebbero evidenziare anticorpi
di nessun interesse per quanto riguarda la MEN
(autoanticorpi freddi, anti-Lewis, anti-P ecc.). Al riguardo,
è pure da sottolineare che l'antiglobulina di scelta deve
essere quella specifica anti-IgG e non quella "a largo
spettro" (anti-IgG+C3d), perché quest'ultima può
evidenziare anticorpi IgM (quindi, non coinvolgibili in una
MEN) o, comunque, non clinicamente significativi, la cui
presenza può determinare una adesione non specifica di
frazioni complementari sulle emazie test nel corso
dell'incubazione.
Una ricerca anticorpale positiva pone, poi, tutta la serie
di problematiche connesse con l'identificazione e la
titolazione delle IgG evidenziate, cui dedicheremo un
paragrafo specifico. Va, al proposito, segnalato che,
soprattutto in caso di sensibilizzazione materna anti-D, è
oggi possibile eseguire routinariamente la
determinazione Rh sulle emazie del feto mediante
test di biologia molecolare, utilizzando soprattutto la
metodica PCR. Avent et al.11 hanno di recente revisionato
questo importante argomento e pongono l'accento sul fatto
che questo tipo di ricerca non richiede più la raccolta del
sangue fetale (che può necessitare di manovre altamente
aggressive, quali la funicolocentesi) ma può essere
facilmente condotta utilizzando materiale fetale derivandolo
dal liquido amniotico, o dai villi coriali o, ancora meglio
perché non comporta alcun traumatismo, da cellule fetali
separate dal sangue materno. La conoscenza del fenotipo
Rh di un feto da donna Rh negativa immunizzata ci fornirà
l'indispensabile nozione ai fini prognostici, in quanto ci
permetterà di conoscere se egli sarà affetto o meno da MEN.
Va anche segnalata la possibilità di una sensibilizzazione
materna verso altri antigeni gruppoematici (per esempio,
anti-Kell, anti-Fy, anti-Jk ecc), dovuta a terapia trasfusionale
o a precedenti gravidanze (anche con partner differenti dal
responsabile della gravidanza in atto). È oggi possibile
usare le tecniche di biologia molecolare per la tipizzazione,
nel feto, anche di questi antigeni, pur appartenenti a sistemi
sinora assai meno approfonditamente indagati con tali
metodiche.
Nel segnalare le vaste possibilità offerte dalle
biotecnologie, Avent e collaboratori11 richiamano, altresì,
l'attenzione degli esaminatori sulla necessità di utilizzare
gli stessi primers per le tipizzazioni gruppoematiche di
madre, padre e feto (in particolare per gli antigeni di sistemi
diversi dall'Rh), per non incorrere in possibili errori, oggi
non ancora del tutto escludibili.
Se la donna è Rh positiva e la ricerca iniziale di anticorpi
irregolari è risultata negativa, non sono necessarie ulteriori
indagini sino al termine della gravidanza, salvo che non
siano verificati episodi che possano far sospettare
l'induzione di una immunizzazione: prima fra tutti, una terapia
trasfusionale, ma anche manovre ostetriche particolarmente
aggressive, tali da indurre una possibile emorragia fetomaterna.
La situazione è, ovviamente, diversa nel caso di donna
Rh negativa.
Il consiglio è di effettuare, comunque, un ulteriore
controllo sierologico fra la 26a e la 28a settimana di
gravidanza, preventivamente alla somministrazione di IgG
anti-D, qualora la prassi in uso nella struttura trasfusionale
interessata contempli l'impiego della profilassi prenatale.
Tuttavia, anche nel caso non venga adottata tale politica,
un secondo controllo deve essere eseguito intorno, al più
tardi, alla 30a-32a settimana.
Questa raccomandazione è in diretto rapporto con
l'eventualità di una sensibilizzazione anti-Rh nel corso della
gravidanza. I dati relativi a questo proposito non sono
univoci, ma la più estesa e recente casistica in argomento12
fissa nell'1% dei casi tale eventualità. È anche da sottolineare
che sono veramente eccezionali (ma possibili) i casi di una
sensibilizzazione che si instauri nelle ultime settimane di
gestazione, almeno stando ai dati in letteratura5.
Esami da eseguirsi al parto e dopo la nascita
Al momento del parto, qualora, per qualsivoglia motivo,
non sia stata eseguita la tipizzazione ABO/Rh sulla
puerpera o questa sia stata effettuata una sola volta su
di un singolo campione, si impone l'esecuzione o la
ripetizione dell'indagine. Altrettanto evidente è la necessità
di eseguire (o di rieseguire, se è stata fatta una sola volta,
anticipatamente nel tempo) la ricerca di anticorpi
irregolari antiemazie sul siero materno. Questo test
sierologico va ovviamente condotto prima della
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G Reali
somministrazione delle IgG anti-D, nel caso si imponga una
immunoprofilassi post-natale (se trattasi, cioè, di puerpera
Rh negativa che ha partorito un neonato Rh positivo). In
diretto rapporto con l'immunoprofilassi e per valutarne la
reale efficacia, è necessario, poi, eseguire una ricerca
anticorpale sul siero della donna sei mesi dopo la
somministrazione della profilassi post-natale: l'eventuale
positività del test sierologico, a questa epoca, non sarà
sicuramente più imputabile alla presenza delle IgG
passivamente introdotte ma testimonierà l'esistenza di una
immunizzazione attiva.
Alla nascita, gli esami da eseguirsi sul sangue
del neonato comprendono la tipizzazione ABO/Rh
e l'esecuzione del test diretto all'antiglobulina.
L'elaborato della Commissione AABB1 stabilisce che,
se nel siero materno non si evidenziano anticorpi irregolari
antieritrocitari, la tipizzazione ABO/Rh e, a maggior ragione,
l'esecuzione del test diretto all'antiglobulina sul sangue del
cordone non sono giustificabili, a meno che non si tratti di
un figlio di donna Rh negativa, al solo scopo di stabilire la
necessità di istituire o meno nella puerpera
l'immunoprofilassi. Obiettivamente, a me non sembra del
tutto da giustificare un tale atteggiamento restrittivo, se
non su un piano meramente economico. Intanto, è da notare
che l'incidenza della MEN da incompatibilità ABO non è
diminuita (né poteva esserlo), anzi è proporzionalmente
aumentata, e, quindi, uno screening in questo senso è
doveroso.
L'incidenza, poi, di ittero neonatale è, notoriamente, assai
alta e disporre di dati immunoematologici può essere di
grande aiuto nella diagnosi differenziale. Infine, come
abbiamo precedentemente segnalato, una sensibilizzazione
che compaia nelle ultime settimane di gravidanza è evenienza
rara ma possibile5 e non va trascurata. La ricerca di eventuali
IgG adese alle emazie del funicolo è lo strumento più valido
e più rapido per individuarla (e, penso si possa affermare,
anche quello meno costoso), così come, in caso di test
positivo, l'eluizione rappresenta il procedimento
indispensabile per giungere a definire la specificità
dell'anticorpo in causa.
Alloimmunizzazione e gravidanza
Il reperto di anticorpi irregolari antieritrocitari nel siero
di una gravida richiede alcune puntualizzazioni particolari.
Innanzi tutto, si impone l'identificazione della loro
specificità. È buona regola che venga utilizzata la stessa
metodica sierologica (test indiretto all'antiglobulina,
sedimentazione su gel, agglutinazione su colonna, test in
fase solida ecc.) impiegata per rilevare la presenza degli
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anticorpi irregolari. Nella stragrande maggioranza dei casi,
la specificità è anti-D (ovviamente, in gravide D negative o,
in casi eccezionali, D mosaic)13. Non manca, tuttavia, il
rilievo di anticorpi diretti verso antigeni di altri sistemi
gruppoematici, meno frequentemente causa di MEN. È
chiaro che la specificità indirizza il comportamento in senso
clinico. Per esempio, anticorpi diretti contro antigeni del
sistema Cromer, pur di classe IgG, quindi in grado di superare
la barriera placentare e di fissarsi sulle emazie fetali (dove si
evidenziano, infatti, al test diretto all'antiglobulina e dalle
quali si possono facilmente eluire), non hanno mai dato
luogo a una qualche forma di malattia emolitica e, in modo
analogo, si comportano le IgG anti-Chido/Rodgers o quelle
anti-Knops5. Altre specificità sono più temibili e sono spesso
coinvolte in MEN, anche clinicamente assai gravi. Ci si
riferisce agli anticorpi anti-Kell (specialmente anti-K1), antiDuffy o anti-Kidd. In pratica, comunque, la maggior parte
degli anticorpi IgG presenti nel siero di una gravida possono
determinare MEN (anche se, il più spesso, di modesta entità
clinica) o perlomeno positività al test diretto all'antiglobulina
sulle emazie fetali/neonatali, come estensivamente riportato
nel volume di Issitt e Anstee5.
In argomento, altri punti meritano un cenno un po' più
approfondito.
Il primo riguarda la ricerca di anticorpi irregolari in una
gravida cui sia stata somministrata immunoprofilassi. In
questo caso, il riscontro di anticorpi anti-D perde,
ovviamente, molto significato e non può più guidare a una
diagnosi sicura, soprattutto in presenza di titoli bassi (1/2,
1/4). È da ricordare, peraltro, che anche titoli così modesti
non escludono, in via assoluta, una immunizzazione attiva,
soprattutto se rilevati in una fase iniziale. Titoli più
consistenti indirizzano, chiaramente, verso una
sensibilizzazione in atto, che dovrebbe, comunque, essere
suffragata anche da segni clinici di sofferenza fetale e/o
neonatale.
Allo scopo di evidenziare una possibile immunizzazione
verso antigeni di altri sistemi gruppoematici diversi dal D,
Shulman et al14 consigliano di condurre una sistematica
indagine sierologica post-immunoprofilassi, impiegando un
pannello eritrocitario a tre cellule non D-positive (cioè:
ccdee, Ccdee, ccdEe), in grado di individuare anticorpi di
altra specificità, ivi compresi anche quelli diretti verso gli
antigeni Rh diciamo così "residui" (C, E, G). Pannelli di
questo tipo sono già disponibili in commercio e, comunque,
non dovrebbe risultare difficile prepararli in una struttura
trasfusionale di media rilevanza.
Quanto riferito subito qui sopra, mi suggerisce di
introdurre un secondo problema relativo a particolari
specificità anticorpali, spesso trascurate. Per esempio, mi
ha sempre colpito, negli studi di specificità pubblicati in
Protocollo per la prevenzione della MEN
Italia, soprattutto quelli riguardanti anticorpi responsabili
di MEN, che non venga mai segnalata la presenza di
immunoglobuline anti-G (anti-Rh12), sia isolate che, come
avviene più spesso, in associazione con altre specificità
(anti-D+G, anti-D+C+G, anti-C+G ecc.), mentre in realtà il
suo riscontro non è eccezionale5. Fra l'altro, la definizione
di questa specificità richiede l'impiego di tecniche
sierologiche di assorbimento-eluizione particolarmente
eleganti e intriganti. È noto che l'antigene G (fatti salvi alcuni
eccezionali fenotipi Rh, quali il "Crosby" o rGrG) accompagna
costantemente l'antigene D e/o quello C, in tutte le loro
possibili combinazioni (fenotipi: CcDee, CCDee, ccDEe,
ccDEE, ccDee, Ccdee). La presenza dell'anti-G in un siero si
evidenzia attraverso le tappe che segnaliamo di seguito.
L'esempio che qui riportiamo è quello relativo a una ricerca
atta a documentare se una miscela anticorpale anti-D+C
contenga o meno anche una frazione anti-G. Si procede nel
modo seguente: si assorbe il siero in esame con cellule
(ovviamente di gruppo O) fenotipicamente ccDee (quindi,
cDeG) e si passa alla prima eluizione che restituirà, nel caso
che esista anche la specificità anti-G, le due frazioni
anticorpali anti-D + anti-G. (Nel caso, invece, che non vi sia
una frazione anti-G, l'eluato conterrà esclusivamente
anticorpi anti-D). Questo stesso eluato viene, poi,
sottoposto a un secondo assorbimento con emazie Ccdee
o r' che dir si voglia (quindi, CdeG). Dalle emazie che si
sono utilizzate per questo secondo assorbimento viene,
infine, preparato un secondo eluato che, nel caso della
presenza nel siero di partenza della frazione anti-G, conterrà
questa sola specificità (mentre nel caso che il siero nativo
fosse esclusivamente anti-D+C non presenterà nessuna
frazione anticorpale). A parte l'esercizio sierologico
stimolante, almeno a mio parere, vale segnalare che, a detta
del prof. Sansone15, ematologo pediatria di vasta fama, il
primo in Italia a eseguire una exsanguino-trasfusione per
MEN Rh nel lontano 1948, la malattia emolitica sostenuta
(anche se solo parzialmente) da una frazione anticorpale
anti-G risulta sempre assai più grave di quella dovuta ad
anticorpi anti-D isolati o a specificità anti-D+C. A
sottolinearne l'importanza, il documento del Comitato AABB
riserva un intero paragrafo al problema dell'anti-G1.
Una terza problematica, sempre in materia di anticorpi
responsabili di MEN, è l'esecuzione del titolo dell'anticorpo
identificato e il valore da dare al titolo stesso. Indubbiamente
un titolo alto in corso di gravidanza è spesso indice di una
MEN clinicamente severa, ma è anche noto come il suo
valore prognostico non sia assoluto. Bowman13 gli
attribuisce una correlazione positiva in non più dei due
terzi dei casi. Personalmente, ricordo un caso paradigmatico
capitato al Centro Rh del Servizio Trasfusionale
dell'Ospedale Sant'Orsola di Bologna nei primi anni '60. Una
gravida, Rh negativa, sensibilizzata da una terapia
trasfusionale somministratale in età pediatrica (nel 1946), si
presentò per i consueti esami immunoematologici legati
alla gestazione. La ricerca anticorpale dimostrò l'esistenza
di IgG anti-D ad alto titolo (1/2.048). Il coniuge risultava D
positivo, ma uno studio familiare ci permise di accertare
che egli era sicuramente D-eterozigote (la madre era, infatti,
D negativa). Ovviamente, monitorammo la gravidanza,
eseguendo frequenti controlli del titolo delle IgG anti-D,
che crebbe costantemente, per raggiungere, all'inizio del
settimo mese di gravidanza, un livello veramente eccezionale
(1/16.384).
Nonostante che, sia pur con i mezzi d'indagine assai
modesti di allora, l'ostetrico non cogliesse nessun segno
di sofferenza fetale, si decise per anticipare il parto appena
possibile, il che avvenne al compimento del settimo mese.
Con nostra somma sorpresa e contrariamente a ogni
pronostico, la neonata risultò essere Rh negativa. Questo
è forse un caso limite (infatti, nonostante un'esperienza di
oltre 2.500 donne sensibilizzate viste in 20 anni nel Centro
Rh di Bologna e di oltre 100 nel Servizio Trasfusionale
dell'Ospedale Galliera di Genova, non mi è mai più capitato),
ma sembra illustrare sufficientemente i limiti che si debbono
tenere presenti nell'interpretare i risultati di una titolazione
anticorpale.
Per il Comitato nord-americano1, seguire le variazioni di
titolo durante la gravidanza potrebbe rivestire, soprattutto,
le caratteristiche di test di screening, indicando quando
intervenire con mezzi diagnostici non sierologici, al fine di
monitorare il decorso della malattia fetale senza timore di
provocare un innalzamento del titolo. Intendo riferirmi
all'analisi spettrofotometrica del liquido amniotico (il picco
determinato dalla bilirubina a 450 nm della curva di
assorbimento è usato per predire l'anemia fetale16), alla
cordonocentesi17, alla ultrasonografia18 e alla valutazione
al Doppler della velocità del flusso sanguigno all'interno
dell'arteria cerebrale del feto19. Si deve ribadire che
amniocentesi e cordonocentesi sono invasivi e possono
determinare passaggio di emazie fetali in circolo materno,
con ciò favorendo un incremento del titolo anticorpale,
tanto è vero che molti ostetrici non ricorrono a queste
manovre se non quando il livello degli anticorpi ha ormai
raggiunto un titolo critico (che viene di solito fissato al di
sopra di 1/321).
È assolutamente necessario che le titolazioni in sequenza
vengano sempre eseguite con la stessa tecnica, utilizzando
costantemente emazie test con eguali caratteristiche
antigeniche (per esempio, emazie sempre D-eterozigoti o,
alternativamente, sempre D-omozigoti), facendo sistematica
comparazione con il precedente campione di siero,
conservato congelato.
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G Reali
Sulla cadenza (quella che gli anglosassoni indicano
come timing) dei tempi di esecuzione non esiste univocità
di indirizzi. Sembra appropriato, comunque, soprattutto in
casi di titoli iniziali consistenti e a specificità particolarmente
aggressive (tipica, quella anti-D), un controllo della
titolazione ogni quattro settimane, a partire dalla 18a
settimana di gestazione, soprattutto per avere un indirizzo
circa l'impiego di mezzi diagnostici diversi (amniocentesi,
ultrasonografia, ecografia ecc.), atti a una completa
valutazione della malattia nel feto. Intervalli più ampi si
possono adottare in caso di titoli iniziali bassi o di specificità
responsabili di MEN clinicamente meno gravi.
È possibile, infine, utilizzare altri metodi per
pronosticare, in corso di gravidanza, la gravità o meno della
MEN. Intendiamo riferirci a test cellulari in vitro fondati
sulla citotossicità anticorpo-dipendente (ADCC, Antibody
Dependent Cellular Cytotoxicity) o sull'interazione con
monociti (MMA, Monocyte Monolayer Assay) da parte di
emazie sensibilizzate dagli anticorpi materni. Si tratta di test
sufficientemente sensibili e specifici ma che risultano utili
soprattutto nelle forme particolarmente severe di malattia
neonatale/fetale5.
Problemi connessi con l'immunoprofilassi
Come abbiamo già avuto modo di segnalare in
precedenza, un protocollo che fissi le linee-guida per
l'esecuzione delle indagini immunoematologiche in
gravidanza e in periodo perinatale per una corretta
valutazione di una possibile MEN non può trascurare le
ovvie implicazioni indotte dall'immunoprofilassi anti-D.
Il comportamento universale (limitato, peraltro, al solo
mondo occidentale) in materia di immunoprofilassi anti-Rh
contempla due possibili momenti di somministrazione delle
immunoglobuline alle donne D-negative: una alla 28a
settimana di gravidanza (cosiddetta profilassi prenatale) e
quella dopo il parto di un neonato D-positivo (cosiddetta
profilassi post-natale). Nella maggior parte della nazioni
viene costantemente e scrupolosamente eseguita la sola
profilassi post-natale, ma non sono pochi i Paesi dove viene
adottata, di routine, anche quella prenatale: Australia,
Canada, Germania, Stati Uniti, Sud Africa. Anche in Italia,
alcune strutture, come il Servizio di Medicina Trasfusionale
di Ragusa20, impiegano la politica della sistematica profilassi
antenatale alla ventottesima settimana. Sempre, comunque,
in Italia, viene eseguita immunoprofilassi in corso di
gravidanza alle donne Rh negative in occasione di eventi
che possono favorire una emorragia feto-materna e, quindi,
stimolare una alloimmunizzazione: amniocentesi,
funicolocentesi, prelievi di villi coriali, aborti, gravidanze
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extrauterine, manovre ostetriche traumatizzanti o traumi
diretti sull'addome della gravida.
L'adozione del primo (prenatale) piuttosto che del
secondo (solo post-natale) protocollo non è soltanto in
rapporto a un problema finanziario (non trascurabile,
tuttavia), ma anche alle reali possibilità di reperimento del
prodotto, non sempre disponibile sul mercato. Proprio in
Italia, per esempio, numerose ditte straniere hanno ritirato
i loro prodotti dal commercio, perché il prezzo imposto non
era, a loro dire, sufficientemente remunerativo. Né va
trascurato il fatto che è oggi assai difficile reperire donne
immunizzate con alti titoli di anti-D (la MEN Rh sta
fortunatamente e consistentemente decrescendo) dalle
quali ricavare (oltre che da volontari miratamente
immunizzati) la materia prima per il prodotto da utilizzare.
Da tutto ciò deriva che vi sono sicuramente serie difficoltà
di approvvigionamento. La speranza è la produzione in
laboratorio di IgG anti-D monoclonali, ma il traguardo
sembra ancora lontano2.
Egualmente non uniforme è il comportamento dei vari
Paesi per quanto riguarda il dosaggio. Negli USA, la dose
standard è di 300 µg, pari 1.500 unità internazionali (UI),
mentre nel Regno Unito è di 100 µg (cioè di 500 UI);
quest'ultima dose è quella più spesso utilizzata in Italia (ma
a Ragusa, per esempio, si impiegano, sia alla
somministrazione antenatale che in quella post-natale, 1.250
UI, cioè 250 µg20). In genere, la dose di 500 UI sembra
proteggere sufficientemente e impedire lo sviluppo di una
immunizzazione attiva, anche se, come vedremo, il dosaggio,
soprattutto nel post-partum, deve essere guidato da una
scrupolosa valutazione dell'entità dell'eventuale emorragia
feto-materna. La via di somministrazione di scelta è quella
intramuscolare, ma, per esempio in Francia, viene largamente
impiegata anche quella endovenosa (con 100 µg)21.
Il problema del dosaggio assume rilevanza,
nell'immunoprofilassi post-natale, se si verifica una
emorragia feto-materna importante. Fra le possibili cause
di fallimento dell'immunoprofilassi che porta, nonostante
la sua istituzione, allo sviluppo di una sensibilizzazione
attiva, numerosi Autori (per i riferimenti bibliografici cfr.5)
invocano l'uso di dosi inadeguate a bloccare l'azione di
priming delle emazie fetali incompatibili. Si ritiene che le
dosi di IgG anti-D standard, anche quelle più basse, di 500
UI, siano in grado di neutralizzare sino a 3-4 mL di sedimento
eritrocitario22,23.
Ma, talora, la quantità di sangue fetale che passa in
circolo materno al momento del parto è assai maggiore e si
impone la necessità di ricorrere a dosi supplementari di
immunoglobuline per assicurare una profilassi efficace.
Bonomo24, al già citato "Incontro sulla MEN" di Ragusa,
ha documentato la necessità di fornire alle puerpere dosi
Protocollo per la prevenzione della MEN
aggiuntive in ben cinque casi su 388 puerpere, seguite nel
biennio 2000-2001 (incidenza non trascurabile). Diviene,
quindi, importante valutare l'entità dell'emorragia fetomaterna in diretto rapporto con l'opportunità o meno di
ricorrere a dosi suppletive di IgG anti-D, al fine di assicurarne
la funzione profilattica.
Le metodologie per valutare questa emorragie sono
molteplici, dal diffusissimo test di Kleihauer-Betke, al test
delle rosette, all'antiglobulina con metodica enzimatica, alla
valutazione dell'α-fetoproteina in circolo materno2.
Alla riunione di Ragusa si è estensivamente discusso
sui due test più recentemente introdotti nella pratica, quello
dell'agglutinazione su gel24 e quello che utilizza una tecnica
citofluorimetrica25.
Abbiamo già trattato delle difficoltà che l'utilizzo
dell'immunoprofilassi determina nella interpretazione dei
test sierologici, quando si esegue una ricerca di anticorpi
irregolari. Ribadiamo che tale ricerca deve essere
condotta prima dell'introduzione delle IgG anti-D, almeno
per quanto possibile, così come confermiamo la validità
della proposta di Shulman et al.14 dell'utilizzo di pannelli
a tre cellule ad assetto genico complesso ma D-negative,
per l'individuazione di eventuali anticorpi irregolari non
anti-D.
Comunque, anche in costanza di IgG anti-D
introdotte passivamente e presenti in circolo, è talora
possibile trarre qualche deduzione conclusiva, in caso
di titoli anti-D elevati, pur ribadendo che anche titoli
bassi (1/2, 1/4) non autorizzano a escludere una
immunizzazione attiva.
Sempre a proposito delle interferenze che le IgG utilizzate
nell'immunoprofilassi possono esercitare sui test
sierologici, è da segnalare l'ovvia positività del test diretto
all'antiglobulina sul sangue del funicolo, soprattutto se la
somministrazione degli anticorpi anti-D è stata effettuata
nelle ultime settimane di gravidanza (gli anticorpi
resterebbero in circolo per almeno 6-8 settimane22).
Va, peraltro, ricordato che l'adesione delle IgG anti-D
alle emazie fetali (e neonatali) non sembra avere effetti clinici
apprezzabili: pur con la vastissima esperienza internazionale
di profilassi pre-partum non sono stati mai segnalati casi
attinenti di grave anemia fetale o di ittero.
La MEN da incompatibilità ABO
In una revisione, sia pur sintetica, dei protocolli relativi
alle indagini immunoematologiche prenatali e perinatali, al fine
di meglio gestire una eventuale MEN, non si può trascurare
un accenno alle caratteristiche sierologiche che distinguono
la malattia da incompatibilità materno-fetale ABO.
È, innanzi tutto, da sottolineare che nella maggior parte
dei casi la combinazione è la seguente5: madre O, fetoneonato A, pur non mancando la segnalazione di altre
possibili situazioni (madre O, figlio B; madre B, figlio A;
madre A figlio B, in questo ordine di frequenza).
Sono ben note le differenze che separano la MEN da
incompatibilità ABO da quella da incompatibilità D o da
altri antigeni eritrocitari: nessun valore della storia ostetrica
precedente, possibilità di colpire il primo nato incompatibile
ma di non riguardare successivi figli pure incompatibili,
debole (e talora assente) positività al test diretto
all'antiglobulina, buona situazione clinica alla nascita con
valori di emoglobina e di bilirubina entro i limiti di norma,
presenza di sferocitosi, rara necessità di ricorre
all'exsanguino-trasfusione2.
Il protocollo sierologico da rispettare in questi casi, ha
il suo punto cruciale nella ricerca sierologica di anticorpi
IgG anti-A, anti-B e/o anti-A,B nel siero materno, nella
esecuzione del test diretto all'antiglobulina sulle emazie del
cordone e, soprattutto, nell'eluizione da quest'ultime delle
IgG a specificità anti-A e/o anti-B.
La ricerca di IgG ABO nel siero materno deve essere
ovviamente preceduta dalla neutralizzazione delle IgM che
altrimenti interferirebbero nell'indagine. Il metodo
largamente in uso a questo scopo è quello del trattamento
del siero con prodotti sulfidrilici (2-mercaptoetanolo o
ditiotreitolo).
Il sistema più rapido ed efficace per l'eluizione delle IgG
implicate nella MEN ABO è quello del congelamentoscongelamento rapido secondo Lui, estensivamente
riportato nella precedente edizione (la terza) di Applied
Blood Group Serology di Issitt26.
Il comportamento bizzarro della MEN da incompatibilità
ABO (per esempio, stato clinico grave in un figlio
incompatibile di una coppia e nessun sintoma nel
successivo figlio, pure incompatibile) è, come noto, in
diretto rapporto alla maturità dei siti antigenici (A e/o B)
sui globuli rossi fetali.
Diagramma di flusso relativo alle indagini
sierologiche da eseguirsi per MEN
Come riepilogo di questo documento, sembra utile
tracciare uno schema riassuntivo delle indagini da eseguirsi
per una corretta gestione di una possibile MEN.
Lo schema, riportato qui di seguito, tenta di comprendere
tutte le situazioni, distinguendo gli esami da effettuarsi in
periodo prenatale da quelli da condurre al parto.
Chiaramente, si tratta di una estrema sintesi. Per la sua
estensiva comprensione si deve fare riferimento al testo.
329
G Reali
Esami da eseguirsi nel periodo prenatale
Prima visita alla 16a-18a settimana di gravidanza.
Anamnesi. Tipizzazione ABO/Rh (anche del partner).
Individuazione incompatibilità ABO, Rh e/o
per altri antigeni gruppoematici
Gravida D-positiva
Non anticorpi
Gravida D negativa
Non anticorpi
Presenza Ab anti-D, anti-c,
anti-K (o altri a titolo >1/64).
Tipizzazione sangue fetale
in biologia molecolare
Presenza anticorpi
verso altri antigeni a titolo =1/32.
IgG anti-A/B ad alto titolo
Ripetere esami
alla 28a settimana
Ripetere esami
28a e 35a settimane
Controllo mensile
sino alla 28a settimana
Ripetere esami
alla 28a settimana
Controllo quindicinale
nel III trimestre
Se situazione non invariata
ripetere alla 36a settimana:
se sì, monitoraggio ostetrico
Stretto monitoraggio, con controlli
ripetuti ed esecuzione di test funzionali
atti a predire la gravità della MEN (ADCC, MMA).
Invio all’ostetrico per indagini strumentali sul feto
Esami da eseguirsi alla nascita
SUL NEONATO
Tipizzazione ABO/Rh. Test diretto all’antiglobulina.
Se positivo, eluizione degli anticorpi e individuazione
specificità.Valutazione Hb e bilirubina.
Eventuale exsanguino-trasfusione
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330
SULLA PUERPERA
Tipizzazione ABO/Rh (se non nota). Ricerca anticorpi
irregolari e loro eventuale specificità e titolo.
Valutazione emorragia feto-materna per stabilire dosi
immunoprofilassi. Controllo sierologico dopo 6 mesi per
valutare efficacia immunoprofilassi
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