osservazioni intorno al concetto di dolore

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osservazioni intorno al concetto di dolore
SCUOLA DI PSICOTERAPIA PSICOANALITICA
SPECIALIZZAZIONE IN
Psicoterapia
OSSERVAZIONI INTORNO AL CONCETTO DI
DOLORE PSICHICO: UN CASO CLINICO
Tesi di Specializzazione di:
DEBORA BATTANI e ALESSIA RENZI
Anno Accademico 2011-2012
1 Riassunto
Il dolore è un argomento concettualmente difficile e arduo da descrivere: il solo aspetto chiaro è che
“Il dolore è sempre un’esperienza soggettiva. Ogni individuo apprende il significato di tale parola
attraverso le esperienze correlate ad una lesione durante i primi anni di vita” (IASP, 1979). Pertanto
è importante sottolineare che l’esperienza del dolore è determinata ed influenzata dalla dimensione
affettiva e cognitiva, da fattori individuali, dalle esperienze passate, dalla personalità, dalla struttura
psichica, dal significato della situazione specifica e da fattori socio-culturali (Mannion et Woolf,
2000).
Nasce come esperienza prettamente fisica collegata ad esperienze di dispiacere, ma nell’evoluzione
e nella crescita personale, assume connotati e significati specifici per ciascuno di noi.
Il nostro lavoro parte dalla componente neurofisiologica, per giungere alle manifestazioni del dolore
psichico e a come può essere affrontato ed elaborato in un percorso terapeutico.
L’ultima parte del nostro elaborato mira a riconoscere i contenuti teorici nella quotidianità e nella
pratica clinica.
2 Indice
Capitolo I - Il dolore: definizione e caratteristiche ...................................................... 2
Tipologie di dolore ........................................................................................................ 5
Neurofisiologia del dolore ............................................................................................. 7
Misurazione e valutazione del dolore .......................................................................... 10
Capitolo II - Il dolore psichico tra teoria e pratica clinica ........................................ 13
Dolore psichico come esperienza della perdita ........................................................... 13
Dolore, depressione e lutto .......................................................................................... 18
Dolore mentale e dispiacere ........................................................................................ 25
Distinzione tra dolore e ansia ...................................................................................... 26
I concetti di frustrazione, dolore mentale e sofferenza psichica ................................. 28
Evoluzione dei concetti nei diversi autori ................................................................... 31
Capitolo III - Manifestazione ed evoluzione del dolore ............................................. 38
Dolore psicogeno ......................................................................................................... 38
Forme di dolore: i sintomi ........................................................................................... 41
La capacità di “pensare” il dolore e l’individuazione ................................................. 44
Il dolore nel rapporto terapeutico ................................................................................ 55
Capitolo IV - “Se ti chiedessi di pensare al dolore, cosa ti verrebbe in mente?” .... 67
Alcune riflessioni e considerazioni a carattere ipotetico e qualitativo ........................ 75
Capitolo V - Caso clinico .............................................................................................. 80
Bibliografia e sitografia ................................................................................................ 87
3 Capitolo I
Il dolore: definizione e caratteristiche
Il termine dolore deriva dal latino “dolor-ōris” e ha vari significati: dolore fisico e morale,
angoscia, sofferenza, affiliazione, tormento, pena e dispiacere (Castiglioni et Mariotti, 1996)1. Nel
vocabolario della lingua italiana (AA.VV., 1976) esso viene utilizzato con due accezioni:
a) sensazione fisica che provoca malessere e che è spiacevole, sofferenza fisica; alterazione della
sensibilità soggettiva che si manifesta come conseguenza di uno stimolo e che evoca reazioni
emotive (es. ansia, inquietudine, ecc.) e risposte evasive di difesa;
b) stato d’animo di tristezza, angoscia, disperazione, dispiacere, affanno, sofferenza morale e
affiliazione dell’animo.
Esiste una definizione ufficiale fornita dall’Associazione Internazionale per lo Studio del
Dolore (1979) e dall’Organizzazione Mondiale della Sanità (1988) secondo cui il dolore è “una
sensazione spiacevole ed una esperienza emotiva dotata di un tono affettivo negativo, associata ad
un danno reale o potenziale del tessuto o comunque, descritta in rapporto a tale danno”. Questa
definizione mette in evidenza il dolore sia come un sintomo di una lesione organica o di uno
stimolo nocivo, ma anche come un’esperienza somatopsichica perché corpo e mente non sono due
entità distinte, ma costituiscono un continuum funzionale indissolubile (Mercadante, 2005; Panieri,
2007); quindi ad ogni dolore fisico, che attiva il sistema nervoso, corrisponde sempre uno stato
psicologico che è influenzato da uno stato emozionale e da precedenti esperienze spiacevoli. Più
precisamente, dal concetto di dolore andrebbe distinto quello di sofferenza che comprende
soprattutto la risposta emotiva ed affettiva ad una stimolazione dolorosa o anche ad altri eventi quali
paura, minaccia, ecc. Pertanto è rilevante considerare il dolore come un fenomeno complesso e
multidimensionale composto da:
a) una parte sensoriale-percettiva-discriminativa (componente fisica o corporea del dolore): ovvero
la nocicezione che rappresenta la consapevolezza cosciente di uno stimolo doloroso (che può
essere di diversa natura: meccanica, chimica, termica, ecc.); è caratterizzata da identificazione,
localizzazione e caratterizzazione dello stimolo e costituisce la modalità sensoriale che permette
la ricezione ed il trasporto al Sistema Nervoso Centrale di stimoli potenzialmente lesivi per
l’organismo;
b) una parte esperienziale-emozionale (componente psicologica del dolore): è lo stato psichico
collegato alla percezione di una sensazione spiacevole (Guyton et Hall, 2006) ed è legata
1
4 Dal greco: dyne = dolore, affanno; odis = dolore, doglie; algos = dolore, dispiacere, pena, patimento, tormento.
all’impatto del dolore sulla sfera psichica; essa è difficilmente quantificabile in quanto
rappresenta una esperienza privata e personale;
c) una parte affettivo-cognitiva: che può essere considerata una sintesi delle precedenti e si
esprime nell’attivazione dei comportamenti di difesa e nell’elaborazione degli stimoli,
coinvolgendo processi e funzioni complesse (es. apprendimento, attenzione, memoria, ecc.).
Le suddette dimensioni vengono espresse in modo differente nelle diverse tipologie di
dolore: nel dolore acuto la componente sensoriale è la più importante, mentre nel dolore cronico
sono i fattori affettivi e valutativi ad assumere una rilevanza maggiore.
Il dolore è un argomento concettualmente difficile e arduo da descrivere: il solo aspetto
chiaro è che “Il dolore è sempre un’esperienza soggettiva. Ogni individuo apprende il significato di
tale parola attraverso le esperienze correlate ad una lesione durante i primi anni di vita” (IASP,
1979), infatti viene posto l’accento soprattutto sulla natura soggettiva dell’esperienza del dolore (es.
se un neonato piange, magari si pensa che provi un dolore di tipo fisico, mentre potrebbe
manifestare il disappunto per un fastidio, l’insofferenza per un accudimento ritardato o perché ha
fame, ecc.). Pertanto è importante sottolineare che l’esperienza del dolore è determinata ed
influenzata dalla dimensione affettiva e cognitiva, da fattori individuali, dalle esperienze passate,
dalla personalità, dalla struttura psichica, dal significato della situazione specifica e da fattori socioculturali (Mannion et Woolf, 2000).
Il dolore può essere legato a un ricordo del passato ma anche a un pensiero del presente o a
un timore per il futuro, può mescolarsi ad altri sentimenti negativi, come la rabbia, o al contrario
essere accettato e vissuto, in senso filosofico o religioso, come un percorso di conoscenza e
purificazione. E’ un fenomeno che riguarda tutte le età e solitamente crea disagio fisico, psichico e
compassione sociale (Vanni, 2005).
L’ambiente fornisce un codice di significati attraverso cui il fenomeno del dolore acquista il
suo particolare senso. Nelle espressioni della vita quotidiana, il termine dolore può acquistare
sfumature a seconda del contesto: può infatti indicare un male fisico come pure una sofferenza
psicologica o entrambi. Una manifestazione della correlazione esistente tra la componete fisica e
psichica del dolore, la si può ritrovare in tutti quei modi di dire, che descrivendo l’emozione,
richiamano il vissuto corporeo: “un dolore che trafigge il cuore, che spezza il cuore, che sconvolge
la mente, un dolore che fa uscire di senno, che trapassa le membra; se ne sta chiuso nel suo dolore; i
dolori della vita” ecc. (Vanni, 2005). Le persone si scambiano le loro esperienze di dolore non solo
con il linguaggio, ma anche con altri mezzi costituiti da riti, pratiche filosofiche, ecc.
Sotto il profilo fisiologico, il dolore come sintomo (dolore sintomatico) è di solito
momentaneo e transitorio ed è un elemento rilevante dal punto di vista vitale ed esistenziale in
5 quanto ha una precisa finalità: destare allarme per una lesione tissutale. Infatti, esso serve ad
“informare” un individuo su un possibile rischio e di conseguenza ad attivare una reazione di difesa
e quindi evitare un danno (es. si è portati a ritrarre la mano dopo aver percepito il calore di un
oggetto o a evitare determinati movimenti dopo una distorsione articolare, ecc.) (Molinari et
Castelnuovo, 2010). Dal punto di vista psicologico esso è caratterizzato dalla preoccupazione di ciò
che è accaduto e dall’ansia per le successive conseguenze o le recidive (Mannion et Woolf, 2000). Il
dolore sintomatico diventa patologico (dolore patologico), quando si auto mantiene, perdendo il
significato iniziale di segnale di allarme e diventando a sua volta una malattia (sindrome dolorosa) o
una condizione permanente, infatti di solito è continuo e perdura nel tempo (mesi o anni) (Mannion
et Woolf, 2000). Il dolore, che nella gran parte dei casi è semplicemente un sintomo, talora tuttavia
rappresenta l'intera malattia (es. dolore psicogeno) e spesso, indagando nei significati personali che
l’individuo gli attribuisce se ne ritrova il significato latente e la cause della manifestazione. Esistono
delle differenze tra il dolore di origine psicogena e quello di origine organica. Il primo è più diffuso
e meno localizzato, ha un carattere costante (ovvero persiste in modo non intermittente), gli agenti
causali sono meno definiti, sembra essere più difficile descriverne la qualità (cioè spesso è difficile
trovare le parole per descriverlo), infine spesso si verifica una progressione di gravità ed una
estensione nel tempo. Il dolore di origine organica, invece è più localizzato, gli agenti causali sono
maggiormente definiti, è più facile da descrivere perché è riferito spesso ad un determinato organo
(Sims, 2004). Nel dolore psicologico acuto è presente una reazione fisiologica di tipo sia simpatico
che parasimpatico: aumento del ritmo cardiaco, svenimenti, sudorazione, pianto, contrazioni
muscolari, variazione del ritmo sonno veglia, fame, inappetenza, ecc.
Nonostante il dolore sia una esperienza comune a tutti gli individui, in quanto inevitabile, è
difficile fornirne una definizione universale perché il suo significato si costruisce e si definisce nel
singolo individuo, che lo avverte, lo conosce e lo memorizza in modo soggettivo (Agrò et al.,
2005).
Tipologie di dolore
Il dolore può essere classificato in diversi modi, a seconda che si prendano in considerazione
la sede o le modalità di insorgenza, l’aspetto temporale o qualitativo, la possibile irradiazione e
localizzazione ed infine, l’intensità (IASP, 1986). In relazione alla sede di insorgenza, il dolore può
essere:
a) somatico, cutaneo o superficiale: è causato da una lesione tessutale a carico del soma (es. pelle,
muscoli, articolazioni); è veicolato dalle fibre afferenti somatiche che trasportano le sensazioni
dolorose dalle estremità al Sistema Nervoso Centrale; gli impulsi nocivi vengono evocati da
6 stimoli quali pressione, trazione, taglio, sfregamento, variazioni termiche e del pH, azioni
enzimatiche, ecc.; di solito è ben localizzato in quanto aiutato da sensazioni di tipo tattile;
b) profondo o viscerale: è causato da lesioni o da alterazioni a carico degli organi interni; è
veicolato dalle fibre che decorrono nei nervi simpatici; gli impulsi nocivi vengono evocati da
stimoli quali infiammazione, contrazioni, distensione brusca dei visceri, irritanti chimici, ecc.;
spesso è mal localizzabile o scarsamente localizzato, a volte irradiato siccome le fibre che
trasmettono lo stimolo terminano nel talamo in modo disordinato.
Per quanto riguarda le modalità d'insorgenza, la comparsa del dolore può essere lenta e
graduale o rapida e brusca; esso può insorgere a riposo o come conseguenza di uno sforzo fisico (es.
dolore di origine cardiaca), in posizione eretta o in clinostatismo, dopo esposizione al caldo o al
freddo, di giorno o di notte.
Prestando attenzione all’aspetto temporale, il dolore può essere suddiviso come:
a) transitorio: vi è un’attivazione dei nocicettori senza danno tissutale e scompare con la
cessazione dello stimolo;
b) acuto: dolore nocicettivo di inizio recente e di durata limitata; la causa è facilmente
identificabile; solitamente si ha un danno tissutale e scompare con la riparazione del danno; è
considerato come la giusta risposta ad una alterazione organica che ha lo scopo di “allerta” e
quindi è considerato un sintomo; spesso si associa ad uno stato emotivo di tipo ansioso con
attivazione del Sistema Nervoso Simpatico, producendo una serie di reazioni di difesa (es.
alterazioni dell’umore, atteggiamenti mimici e posturali, espressioni verbali, alterazioni del
respiro, della frequenza cardiaca, della pressione arteriosa, ecc.);
c) recidivo: si ripresenta ripetutamente a livello temporale (es. cefalgie);
d) persistente: la permanenza dello stimolo nocicettivo rende il dolore “persistente”;
e) cronico: comprende tutte quelle patologie degenerative (es. artriti, low back pain, osteoporosi,
artrosi, ecc.) che determinano un dolore persistente di origine non tumorale; di solito permane
oltre il tempo normale di guarigione (durata maggiore di 6 mesi); può portare ad invalidità o
disabilità con il rischio di incidere negativamente sulla qualità di vita e sulle perfomance
lavorative, infatti porta allo sviluppo graduale di debolezza, perdita di appetito, disturbi del
sonno, depressione, ed isolamento sociale (specialmente in età geriatrica); inoltre può
determinare modificazioni affettive e comportamentali della personalità che costituiscono fattori
di mantenimento indipendenti dall’azione dei nocicettori.
Il dolore cronico può essere, a sua volta, suddiviso in:
a. nocicettivo: è proporzionato alla continua attivazione delle fibre nervose della sensibilità
dolorifica e può essere somatico o viscerale;
7 b. neurogeno: è causato da un processo patologico organico che interessa le vie nervose
afferenti; non sembra essere chiaro lo stimolo causale e spesso è poco localizzabile;
c. psicogeno: si presenta con intensità e invalidità sproporzionate alla causa supposta come
responsabile; è correlato ad una tendenza più profonda al comportamento anomalo da
malattia (es. sindrome dolorosa cronica di origine non neoplastica); alcune di queste persone
non presentano alcuna malattia organica ed i loro disturbi possono pertanto essere
classificati fra le forme di somatizzazione (disturbi somatoformi e psicosomatici).
Considerando la qualità, il dolore può essere di qualità differenti e rientrare nelle seguenti
denominazioni: trafittivo (es. come una lama che trafigge), bruciante o urgente, pulsante, folgorante
(es. una scossa elettrica), costrittivo, gravativo (es. un peso) e puntorio.
Rispetto alla sua possibile irradiazione, il dolore può essere classificato nel seguente modo:
a) localizzato: quando una persona indica il punto preciso del corpo dove avverte il dolore;
b) irradiato: nel caso in cui dal punto di origine il dolore sembra seguire un decorso lungo un tratto
del corpo (es. un mal di schiena con una irradiazione sciatica); l'irradiazione del dolore è di
solito caratteristica di alcuni dolori viscerali (es. cardiaco, epatico, gastrico, renale) con
irradiazione dall'organo da cui origina ad altre zone;
c) riferito: quando chi soffre indica un’area di dolore cutaneo più o meno vasta senza una chiara
localizzazione (es. cefalea in cui la sensazione viene riferita alla superficie del capo, ma in realtà
proviene da strutture profonde del cranio).
Per ogni tipo di dolore, l’intensità (lieve, moderata, notevole) è variabile da individuo a
individuo, cosicché spesso risulta molto difficile stabilire sulla base di questa sola caratteristica
l'entità del danno.
Neurofisiologia del dolore
I processi del dolore non cominciano con la semplice stimolazione dei recettori. Infatti ferite
o malattie producono segnali neuronali che entrano in relazione con il sistema nervoso, che
comprende un substrato di passate esperienze, cultura, ansia e depressione. Questi processi mentali
partecipano attivamente nella selezione, astrazione e sintesi delle informazioni che provengono
dagli input sensoriali. Il dolore quindi, non è semplicemente il prodotto finale di un sistema lineare
di trasmissioni sensoriali, ma è un processo dinamico che produce continue interazioni con il
sistema nervoso.
Dal punto di vista fisiologico, la percezione del dolore non è affidata ad uno specifico
organo di senso ma alla stimolazione di terminazioni nervose sensitive libere (recettori dolorifici o
nocicettori) presenti in quasi tutti i tessuti del nostro organismo. Il dolore non è provocato solo dalla
8 stimolazione delle terminazioni nervose sensitive libere, infatti si presuppone che il tessuto alterato
liberi alcune sostanze chimiche (es. bradichinina, istamina, ecc.) che attiverebbero le terminazioni
nervose (Molinari et Castelnuovo, 2010).
Da un punto di vista anatomo-fisiologico il sistema algico può essere definito come un
sistema neuro-ormonale complesso, a proiezione diffusa, in cui si possono riconoscere tre
sottosistemi:
1) un sistema afferenziale che conduce gli impulsi nocicettivi dalla periferia ai centri superiori;
2) un sistema di riconoscimento che “decodifica” ed interpreta l’informazione valutandone la
pericolosità e predisponendo la strategia della risposta motoria, neurovegetativa, endocrina e
psicoemotiva;
3) un sistema di “modulazione” e controllo che provvede ad inviare impulsi inibitori al midollo
spinale allo scopo di ridurre la potenza degli impulsi nocicettivi afferenti.
Infatti, lo stimolo doloroso, prima di giungere alla corteccia cerebrale muta in tre eventi:
trasduzione, trasmissione e modulazione. In particolare, la modulazione del dolore è a doppio senso
e quindi si può avere sia produzione di analgesia, sia intensificazione della sensazione dolorosa (es.
alcuni stati psicologici, come stress e depressione, sono in grado di automantenere le sensazioni
dolorose croniche). L’organismo umano funziona come un network, come una rete integrata che
unisce i vari organi e sistemi. I codici sono gli stessi. Il linguaggio della rete è comune a tutto il
sistema. Sia che siano circuiti celebrali attivati da emozioni, pensieri, oppure circuiti nervosi
vegetativi o da feedback di organi o sistemi, questi messaggi verranno riconosciuti da tutto il
sistema. Per esempio il dolore persistente e cronico invalidante comporta anche un progressivo e
sempre più importante coinvolgimento della sfera affettiva e conduce, nella migliore delle ipotesi, a
comportamenti di autoesclusione.
Alcuni studi (“Teoria della neuromatrice”, Melzack, 2005) hanno messo in evidenza che il
dolore, piuttosto che essere prodotto direttamente dagli stimoli sensoriali scatenati da una lesione
tissutale o da una patologia, è originato dall’architettura sinaptica della neuromatrice capace di
creare il pattern neuronale specifico del dolore, costituito dall’intersezione di neuromoduli
sensoriali, affettivi e cognitivi (Cugno et al., 2010). La neuromatrice (o “vie del dolore”) sarebbe
una rete di neuroni cerebrali disposti fra talamo2, corteccia cerebrale3 e sistema limbico4.
2
Talamo: struttura del SNC, in particolare del diencefalo e centro importante per le vie della sensibilità somatica.
Corteccia cerebrale: strato laminare continuo che rappresenta la parte più esterna del telencefalo ed è sede delle attività
superiori coscienti e volontarie (pensiero, memoria, concentrazione, linguaggio e coscienza).
4
Sistema limbico: è una serie di strutture cerebrali che includono l’ippocampo, l’amigdala, i nuclei talamici anteriori e la
corteccia limbica che supportano svariate funzioni psichiche come emotività, comportamento, memoria a lungo termine e olfatto.
3
9 La prima via veicola gli stimoli dolorosi o segnali sensitivi dalla periferia, mediante il
talamo (vie spino-talamiche) alla corteccia cerebrale che successivamente vengono trasformati in
sensazioni (percezione dolorifica che rappresenta la componente percettiva del dolore). Questa parte
è responsabile della percezione dolorifica che al di sotto della corteccia è ancora confusa perché non
cosciente e non soggetta a valutazione critica (Molinari et Castelnuovo, 2010). La seconda via,
percorrendo il sistema limbico, conferisce alle sensazioni le dimensioni emozionali collegate al
dolore e all’ansia (componente esperienziale del dolore). La componete esperienziale del dolore
(componete psichica) è responsabile della valutazione critica dell’impulso dolorifico, riguarda il
talamo, la formazione reticolare e la corteccia cerebrale (sede delle attività superiori coscienti e
volontarie) e permette di discriminare l’intensità, la qualità e il punto di provenienza dello stimolo
nocivo, quindi la percezione cosciente del dolore; da queste strutture vengono modulate le risposte
reattive (Molinari et Castelnuovo, 2010). Pertanto a seconda che nel sintomo dolore prevalgano i
fattori neurologici o quelli psichici, si realizzerà una banda di reazioni estesa da quella normale alla
iper-reazione e, attraverso stadi intermedi, si arriverà al dolore psicogeno puro, praticamente privo
di substrato neurologico. Il dolore quindi è lo stato mentale associato all’attivazione dei circuiti
della nocicezione cosciente (Tiengo, 2001).
Un recente articolo (“Il resto del Carlino” del 03/09/12) cita che condizioni come gli stati di
ansia e lo stress acuiscono la percezione degli stimoli dolorosi, un fenomeno noto come “effetto
catastrofe”. “Si può imparare a controllare queste percezioni nocive attraverso varie tecniche,
anche psicologiche e protocolli terapeutici […] l'obbiettivo è agire sui fattori psicologici e sociali
che peggiorano il dolore come eventi stressanti, ambiente lavorativo e familiare […]. Esiste poi
una relazione tra il grado di istruzione e la sensibilità individuale: il 30% dei cittadini con un
livello medio-basso di istruzione hanno esperienza di dolore severo mentre l'incidenza scende al
17-18% con un titolo di studio elevato […]. Nel corso della propria esistenza tutti hanno
esperienza di dolore viscerale: un dolore invisibile, perché diffuso e difficile da localizzare,
seconda causa di accesso al pronto soccorso dopo i traumi. […]; si è generalmente più angosciati
dal dolore viscerale che da un dolore localizzato per il quale la causa è visibile […]. Alcuni studi
recenti suggeriscono una differenza nella risposta al dolore fra uomini e donne: le aree emotive del
cervello sono più attive nelle donne ma sono necessari ulteriori studi per comprenderne le cause”.
Misurazione e valutazione del dolore
Il fatto che il dolore sia una esperienza personale implica un valore soggettivo che non è
facilmente quantificabile, quindi risulta difficile misurarlo e valutarlo nella sua completezza.
Quando se ne parla, si tenta di oggettivarlo, di trovarvi delle caratteristiche rappresentative e
10 comuni e di codificarlo.
Il problema principale nel valutare il dolore consiste nella difficoltà che la persona incontra
nel descrivere la qualità del proprio dolore: maggiore è la componente psicogena del dolore, più
difficile sarà trovare parole adatte per descriverlo (Sims, 2004). Un dolore può essere descritto ma,
per quanto le descrizioni possano somigliarsi, l’esperienza rimane unica, privata e personale (es. un
mal di testa può essere avvertito in modo assolutamente diverso da chi lo prova) soprattutto rispetto
alla sua elaborazione mentale, in quanto esso è un affetto che ha a che fare con i personali
investimenti, con ciò che si ama, con ciò che rappresenta un aspetto stabile, sicuro e duraturo e sul
quale esso irrompe, separa e distrugge. Ogni dolore comincia con una rottura (a qualunque livello
la si voglia porre), prosegue come trauma e culmina in una reazione. Ciò che viene fatto o pensato
con il pensiero razionale non ha nulla a che fare con la realtà esperienziale di ognuno di noi, quindi
risulta difficile renderlo oggettivo, misurarlo e concretizzarlo. E’ anche rilevante sottolineare la
capacità comunicativa che consente di esprimere il dolore. La valutazione del dolore è limitata
anche perché non è possibile prevedere con certezza l’entità del dolore come risposta ad un
determinato stimolo. La relazione fra dolore provato e riportato sono spesso dipendenti dal contesto,
inoltre ogni modalità di espressione (es. la comunicazione verbale e non verbale, ecc.) non può
essere considerata prioritaria sulle altre (Sims, 2004).
Ogni individuo ha una propria soglia del dolore, ovvero la sensibilità nel percepire il dolore
e nel sopportarlo. La soglia è il momento in cui una persona percepisce la stimolazione come
dolorosa e spesso è legata alla componente sensitiva e a variabili fisiologiche. La tolleranza è
rappresentata dal momento in cui un individuo non riesce più a sopportare ulteriormente una
stimolazione nel tempo e nell’intensità ed è associata ad una componente “reattiva” e a fattori
psicologici. La risposta allo stimolo mette in evidenza una variabilità che richiama l’attenzione sui
fattori che hanno a che fare con la costituzione dell’identità della persona e che incidono
sull’elaborazione delle percezioni. Quello che per alcuni è un dolore insostenibile, per altri può
essere meno forte e viceversa (es. una lieve pressione può essere percepita come un contatto, una
pressione forte o come un dolore a seconda di chi lo riceve). Una spiegazione a questo fatto è stata
suggerita dalla “teoria del controllo a cancello” (Melzack et Wall, 1965), secondo cui la
trasmissione degli impulsi nervosi dalla periferia al midollo spinale sarebbe modificata da un
meccanismo di “Gate Control” (controllo a cancello) nel corno dorsale.5
5
La posizione del cancello e la quantità di informazioni inviate all’encefalo sono determinate da diversi fattori. Se l’impulso
proveniente dalla periferia è trasportato da fibre di diametro grande, è inibita la trasmissione al SNC (“cancello chiuso”), mentre
l’attivazione di piccole fibre aumenta la trasmissione ai centri superiori (“cancello aperto”). Il meccanismo del cancello è anche
influenzato da messaggi discendenti (controllo modulatorio discendente) dal cervello al midollo spinale, riaffermando il ruolo
dell’integrazione mente-corpo.
11 La sensibilità al dolore quindi, può essere molto diversa tra i vari individui, e nello stesso
individuo, differente nella varie fasi del suo ciclo vitale. Ognuno di noi, in ogni momento della sua
vita, ha una determinata e precisa soglia di sopportabilità del dolore ed essa si modifica durante la
vita in funzione dell’evoluzione psichica del soggetto stesso (es. nell’anziano ci può essere una
diminuita percezione del dolore perché c’è una minore funzionalità dei sistemi nocicettivi, recettivi
e di trasmissione) (Sims, 2004). La conoscenza dell’“oggetto” che causa dolenza, il miglioramento
del sonno, del tono dell’umore, l’empatia e l’ascolto possono alzare la soglia individuale del dolore.
Diversamente lo stress, l’astenia, l’insonnia, l’ansia, la paura, la tristezza, la depressione e
l’isolamento possono abbassare tale soglia (Sims, 2004).
In ambito medico, soprattutto in relazione alle “Terapie del dolore” (es. nel contesto
oncologico, chirurgico, ecc.) sono stati creati diversi questionari6 e scale di valutazione7 del dolore
che permettono di raccogliere i giudizi dei pazienti rispetto alle varie dimensioni dello stesso (come
intensità, qualità e localizzazione del dolore percepito, interferenza con lo stato emotivopsicologico, con le attività della vita quotidiana, con la qualità della vita e delle relazioni sociali,
ecc.). La valutazione e la misurazione del dolore rappresenta il primo passo verso il suo trattamento,
quindi nel riconoscerlo e nell’alleviare la conseguente sofferenza prodotta, in modo da individuare
le modalità di intervento più opportune e personalizzate al singolo paziente. In generale, i fattori
psicologici sono molto importanti nella valutazione del dolore (es. l’analgesia psicogena, nel corso
del parto naturale o assistito, grazie ad una preparazione psicologica può diminuire la percezione
del dolore, la paura e l’ansia) (Bonica, 1992).
Trascurando la valutazione soggettiva, spesso non si coglie l’importante distinzione tra
l’esperienza del dolore e le cause fisiche del dolore (Noordenbos, 1959).
6
Per esempio, McGill Pain Questionary (MPQ); Brief Pain Inventory (BPI); Therapy Impact Questionaire (TIQ), Pain
Management Index (PMI); Western Ontario and McMaster Universities Osteoarthritis Index (WOMAC); Memorial Pain Assessment
Card (MPAC) (Banello et al., 2010).
7
Per esempio, Visual Analogue Scale (VAS): scala analogica visiva; Verbal Descriptor Scale (VDS): scala descrittiva
semplice dell’intensità del dolore; Numeric Pain Intensity Scale (NRS): scala numerica dell’intensità del dolore; Happy Face Pain
Rating Scale (PRS): scala a faccine ad uso pediatrico (Banello et al, 2010).
12 Capitolo II
Il dolore psichico tra teoria e pratica clinica
Così come esiste il dolore del corpo, esiste il dolore mentale o psichico. Il dolore fisico forse
è quello che conosciamo meglio di tutti, diversamente dal dolore mentale. In generale il termine
“dolore” si riferisce ad entrambe le dimensioni che non possono essere considerate in maniera
distinta e autonoma ma sono collegate e si influenzano reciprocamente. In realtà il dolore psichico è
un sentimento oscuro, difficile da definire: è un fenomeno misto che ha luogo al confine tra corpo e
psiche. Qualunque sia la sua natura, sembra attivi le stesse aree corticali e sottocorticali, mette in
moto gli stessi meccanismi biochimici e altera la pressione del sangue, il battito cardiaco, ecc.
E’ importante sottolineare che l’esperienza del dolore di natura fisica è comunque
condizionata dalla formazione psichica di chi lo subisce, quindi è di natura psichica (come può
esserlo una separazione, una frustrazione, una perdita, una impotenza alla risposta ecc.; stimoli cioè,
che nella loro natura contengono valenze di senso e di significato e che quindi sono
specificatamente legati alla realtà umana) e lo sarà molto di più se lo stimolo provoca uno stato
affettivo spiacevole e una pulsione avversativa (Melzack, 1976).
Nella letteratura la questione del dolore ha attratto poco l’attenzione degli psicoanalisti e le
pubblicazioni dedicate a questo argomento sono scarse e aspecifiche (Fleming, 2008). Parlando di
dolore mentale, si rischia di avere a che fare con una materia molto vasta. Uno sguardo interessato
sull'esperienza del dolore, richiede di riconoscerlo quando lo si incontra e di coglierlo là dove si
trova, a dimostrazione del fatto che esso rappresenta un’esperienza soggettiva. Il dolore è il veicolo
di conoscenza del mondo interno della singola persona in quanto è un fatto personale.
Dolore psichico come esperienza della perdita
Il dolore nella sua espressione immediata, semplice e non difensiva può essere riconducibile
all’espressione “Vorrei, ma non è possibile” (stare con la persona amata, vivere una certa realtà,
ecc.). Se esso è intenso si esprime nel pianto e il pianto aiuta la persona a sentire e a manifestare il
senso di mancanza per ciò che è desiderato o sentito come necessario (Costantini, 2006).
13 Fin dalle origini S. Freud, nei suoi scritti, ha fornito precisazioni e accenni al concetto di
dolore e di sofferenza mentale. Egli ha studiato la genesi e la dinamica del dolore mentale come
parte del suo lavoro sui rapporti tra frustrazione, impotenza, modificazione, pensiero e non
simbolizzazione (Fleming, 2006).
Secondo S. Freud (1895) l’apparato psichico primitivo del neonato non ha la capacità di
pensare o di elaborare il dolore, quindi si trova impotente ed indifeso8. In questo contesto l’autore
mette in evidenza l’importanza dell’ambiente circostante e della relazione madre-bambino. In
particolare, nell’”Interpretazione dei sogni” (1900) ipotizza che il bambino molto piccolo è
incapace di tollerare il dolore psichico che deriva dall’assenza nella realtà di un oggetto (es. madre)
che gratifica i suoi bisogni. Per superare tale situazione egli investe con modalità allucinatoria la
traccia mnestica di passate esperienze di soddisfacimento che contiene la rappresentazione della
presenza dell’oggetto che gratifica, quindi il “bambino allucina” (identità di percezione)9. Questo è
il modo di funzionare secondo il Processo Primario. In seguito, grazie allo sviluppo, la comparsa del
Sistema Preconscio, permette al bambino di inibire e tollerare il dolore psichico in modo sufficiente
da consentire il mantenimento dell’esame di realtà in modo relativamente indipendente dalla
presenza o meno nella realtà dell’oggetto del desiderio (es. madre che gratifica). Questa modalità di
funzionamento secondo il Processo Secondario permette al bambino di ricercare nella realtà un
oggetto reale corrispondete alla rappresentazione dell’oggetto gratificante e perduto. Quindi per S.
Freud, se non supera un certo livello, il dolore psichico è essenziale alla costituzione dell'Io che,
attraverso la perdita dell'oggetto amato e la conseguente frustrazione, abbandona lo stato di
onnipotenza infantile per approdare al principio di realtà. In “Al di là del principio di piacere”
(1920), S. Freud interpreta il gioco ripetitivo del rocchetto come espressione della necessità del
bambino di padroneggiare la dolorosa separazione dalla madre, di tollerare e gestire la sua assenza
tramite l’attività simbolica del gioco (es. processo di trasformazione del passivo in attivo).
Rispetto al dolore, S. Freud sostiene che di esso si sa molto poco, ma l’unico contenuto certo
è dato dal fatto che il dolore nasce quando “uno stimolo irrompe nello schermo protettivo e agisce
come stimolo pulsionale continuo ma le reazioni muscolari, che di solito sono efficaci perché
sottraggono allo stimolo i punti stimolati, restano impotenti” (S. Freud, 1926). In termini di vissuto
soggettivo, il dolore psichico è per S. Freud paragonabile al dolore corporeo: nel caso di una lesione
fisica di una parte del corpo si produce un elevato investimento narcisistico delle zone dolenti del
8
Relazione tra concetto di dolore ed impotenza, dove il dolore primordiale di impotenza del bambino è ciò che spinge il
neonato all’oggetto, al rapporto con l’Altro (es. madre) (S. Freud, 1985) (Fleming, 2006).
9
Identità di percezione: idea che il soddisfacimento di un desiderio si realizza tramite il raggiungimento di una identità di
percezione, ovvero uguaglianza tra percezione, fantasia e realtà (identità di percezione tra mondo interno ed esterno); legata al
concetto di “attualizzazione”, “possiamo pensare che tutti i soddisfacimenti di desiderio si realizzano mediante una qualche forma di
attualizzazione”(Sandler et al., 2002).
14 corpo che cresce e agisce sull’Io10, come se si verificasse un crescente investimento nostalgico
sull’oggetto perduto. Il passaggio dal dolore fisico al dolore psichico corrisponde ad una
trasformazione da un investimento narcisistico a un investimento oggettuale. In generale per S.
Freud, il dolore psichico è un fenomeno parallelo al dolore fisico, perché nel contesto del lutto e
della perdita, l’oggetto riceve un sovrainvestimento di desiderio. In “Inibizione, sintomo e
angoscia” (1926), S. Freud, esaminando la situazione del lattante di fronte ad una persona
sconosciuta, sostiene che il dolore rappresenta la vera reazione alla perdita dell’oggetto.
Nella sua percezione immediata l'esperienza del dolore è esperienza di perdita, di una
privazione di qualcosa su cui si era orientata la propria carica libidica. Sandler (1980) si è occupato
del concetto di dolore psichico che rappresenta un sentimento, uno stato affettivo opposto a quelli di
benessere, sicurezza e piacere (sentimenti di base). Egli ha ipotizzato che se i processi biologici e
fisici funzionano armoniosamente e in modo integrato (omeostasi) generano un sentimento di
benessere; al contrario se essi non funzionano in modo integrato, a causa per esempio, di un
conflitto, generano uno stato di tensione che produce sentimenti ed emozioni spiacevoli e che altera
quindi lo stato di benessere. Sembra dunque fondamentale, nello sviluppo e nel funzionamento
umano, che si tenda sempre a mantenere o ristabilire uno stato di benessere e sicurezza
(Background della sicurezza11).
Secondo Sandler (1980) il dolore, sia fisico che psichico (o psicogeno), deriva da una
discrepanza tra due stati della rappresentazione del Sé12, in particolare discrepanza tra la
rappresentazione dello stato attuale del Sé (così come viene percepita dal soggetto) e la
rappresentazione di uno stato ideale del Sé13 (o di uno stato ideale desiderato che può basarsi sul
ricordo di un precedente stato di soddisfacimento o su fantasie).
Raggiunta la costanza oggettuale, la rappresentazione dell’oggetto diventa una componente
importante degli stati ideali di benessere. L’autore sostiene che la perdita dell’oggetto non è la sola
precondizione all’esperienza del dolore psichico perché quando un oggetto è perduto e la sua
10
Secondo S. Freud, anche il fatto singolare che quando la psiche è distratta da una interesse di altro tipo, capita che i dolori
corporei non vengano avvertiti.
11
Background della sicurezza: costante sfondo affettivo a tutte le esperienze che si trovano dentro ognuno di noi; la sicurezza
è diversa dagli stati affettivi di piacere, è paragonabile al sentimento di benessere, infatti non è solo assenza del male, dell’angoscia o
del pericolo, ma è qualcosa che l’Io deve costruirsi (sentimento di sicurezza); è un tono dell’Io; fornisce lo stato d’animo dell’essere
protetti (corrisponde allo stato d’animo del bambino piccolo quando si sente protetto, salvo e al sicuro, dalla presenza rassicurante
della madre); è un principio (principio di sicurezza) perché regola l’attività dell’apparato psichico; il sentimento si sicurezza è così
abituale da essere considerato come qualcosa di scontato che fa da sfondo alle esperienze quotidiane, infatti la maggior parte dei
nostri comportamenti ha la funzione e sono tentativi dell’Io di mantenere un livello minimo di sentimento di sicurezza per evitare la
disintegrazione del Sé (la percezione è una delle attività che può produrre sentimenti di sicurezza) (Sandler, 1980).
12
Rappresentazione del Sé (ideale o attuale): ha una connotazione più ampia perché comprende lo schema corporeo e le
immagini del soggetto come essere psicologico, sociale e relazionale. Il Sé: per Sandler si tratta di un modello psichico che si
sviluppa sulla base dell'esperienza sensoriale, inclusa l'esperienza del nostro stesso comportamento, e agisce come schema di
riferimento che modifica continuamente le nostre esperienze consce e inconsce e anche il nostro comportamento (Sandler, 1980).
13
Stato ideale del Sé: riferito ad uno stato affettivo di benessere che caratterizza il funzionamento armonioso ed integrato
delle strutture psicologiche e biologiche (stato ideale di benessere); può cambiare da momento a momento in base alle circostanze
interne ed esterne esistenti del soggetto (Sandler, 1980).
15 rappresentazione riceve un sovrainvestimento libidico, significa che l’immagine interna investita
dell’oggetto non è confermata da una corrispondente percezione che deriva da fonti esterne,
pertanto si crea un sovrainvestimento libidico doloroso, indice di una discrepanza tra uno stato
attuale e ideale del Sé. Ci si può chiedere come mai si verifichi, per Sandler, la perdita di uno stato
rappresentazionale del Sé? Egli cerca di spiegare la sua ipotesi partendo dal presupposto che se la
presenza dell’oggetto è una condizione per lo stato di benessere del Sé, allora la perdita dell’oggetto
rappresenta anche la perdita di un aspetto o stato del Sé perché ad una rappresentazione dell’oggetto
d’amore, corrisponde in modo complementare una parte di rappresentazione del Sé, in particolare
quella parte che riflette la relazione con l’oggetto e che costituisce il legame tra sè e oggetto. Nelle
situazioni di perdita dell’oggetto: ciò che si perde è uno stato del Sé per il quale l’oggetto funge da
veicolo, infatti il ruolo dell’oggetto è quello di essere veicolo per raggiungere uno stato di benessere
e sicurezza, quindi per Sandler, negli stati di dolore, ciò che viene perso è uno stato di benessere e
sicurezza, dovuti alla discrepanza rappresentazionale di stati del Sé.
Per Sandler (1980) ogni dolore è psichico e consiste in uno stato affettivo spiacevole che
può essere associato ad un ampio spettro di contenuti ideativi. Il dolore, dunque non va considerato
esclusivamente come una particolare qualità emotiva associata al dolore fisico, ma come un
elemento comune a tutti gli stati affettivi spiacevoli, quindi ogni dolore è psicogeno, in quanto
rappresenta una particolare forma di esperienza, indipendentemente dalla causa o dalla fonte
psicologica o fisica da cui deriva e dalla qualità del dolore (che può variare). Il dolore è formato da
due componenti: uno stato affettivo spiacevole ed un contenuto ideativo.
Egli si chiede quali siano le caratteristiche delle componenti ideative associate al dolore e
mette a confronto il dolore fisico e quello psicogeno. Nell’esperienza del dolore fisico, i sentimenti
spiacevoli sono associati all’idea di un danno fisico, quindi il soggetto prova un sentimento di
dolore per la presenza di una discrepanza tra due immagini dello stato del proprio corpo: lo stato
attuale dell’immagine del proprio corpo (es. corpo danneggiato, ferito, ecc.) e lo stato ideale
dell’immagine del corpo (es. corpo intatto, ben funzionante, desiderato, ecc.). Queste due
rappresentazioni del corpo possono essere basate su percezioni valide (es. il soggetto ha un vero
danno dei tessuti corporei e ne è consapevole) o alimentarsi su ricordi del passato, oppure essere
prodotti dalla fantasia (es. quando il soggetto crede erroneamente che il suo corpo sia danneggiato).
In base a queste considerazioni, Sandler definisce il dolore fisico come un affetto doloroso che si
accompagna alla discrepanza rappresentazionale nell’ambito dell’immagine del corpo, cioè dolore
riferito al corpo, indipendentemente che esso abbia una origine organica o psicologica; mentre
considera il dolore psichico come un affetto doloroso che si accompagna alla discrepanza
rappresentazionale nell’ambito degli altri aspetti della rappresentazione del Sé.
16 Il dolore viene considerato da Sandler come un motivatore dell’apparato psichico, cioè come
uno stimolo per la messa in moto e la regolazione delle risposte adattive dell’individuo. Dal punto
di vista dell’Io, di fronte allo stato di tensione e al suo relativo affetto doloroso (dolore) ci possono
essere diverse risposte possibili: reazioni che portano ad un adattamento progressivo con vantaggi
per lo sviluppo oppure risposte patogene con conseguente sviluppo di diverse forme di disturbi (es.
disturbi psicosomatici, somatoformi, ecc.). Per l’autore la risposta sana all’esperienza del dolore è la
protesta, l’aggressività e la lotta diretta contro le fonti del dolore (quindi entrano in gioco
meccanismi di spostamento, proiezione e identificazione che possono portare a sviluppi sia normali
che patologici), piuttosto che la fuga. Inoltre, tra le risposte possibili al dolore psicogeno, c’è anche
la “reazione o risposta depressiva”, ma non è l’unica. Altri modi per rispondere al dolore possono
essere: tentativi di dominare il dolore e ridurre la discrepanza tra la rappresentazione attuale e ideale
del Sé (es. individuazione, elaborare ideali appropriati alla realtà come succede nell’adattamento e
nello sviluppo progressivi) oppure usare diversi meccanismi difensivi (es. spostamento), per
alterare, in modo non realistico, le due rappresentazioni del Sé (attuale ed ideale), ridurne la
discrepanza ma ciò determina in parte la natura della successiva psicopatologia.
Dolore, depressione e lutto
"La disperazione non riguarda mai veramente l'oggetto esterno ma sempre e solo noi stessi ... La perdita intollerabile
non è mai veramente tale. Ciò che non possiamo tollerare è di essere spogliati dell'oggetto esterno. Rimaniamo nudi e
vediamo l'insopportabile abisso di noi stessi”
S. Kierkegaard (1849).
La malattia mortale (cit. in Gaylin W. Il significato della disperazione).
Nel dolore, spesso si sperimenta la non corrispondenza tra la propria dimensione interna e
quella con cui ci si mette in relazione e il peso di questo conflitto è il determinante che stabilisce
l’evoluzione verso una crisi di tipo reattivo o verso una forma depressiva di tipo melanconico. Il
rilievo permanente della depressione clinica è per dirla con Schneider (1967) “il sentimento per la
mancanza di sentimento”, cioè una sensazione di perdita di affetti, che produce sia un vissuto di
incapacità d’amare che un’incapacità a provare dolore; l’angoscia diviene il sentimento prevalente
che si traduce in una sofferenza, non più vitale, ma disperata e terrorizzata nella sua perdita di
conoscenza. Esistono due tipi di depressione: la depressione esogena o reattiva e quella endogena.
Nel primo caso si tratta di una situazione in cui qualcosa che ci colpisce alle spalle e non ci dà molte
possibilità di fuga, salvo il difenderci dal dolore stesso, negandolo su un piano profondo. Nel
secondo caso, essa si costituisce nel nostro essere più profondo, al di là delle contingenze esterne.
Ed è questa la situazione più difficile da gestire perché, laddove non sembrano esserci motivi, pure
il malessere si fa sentire ed è autentico: un dolore tanto duro e grave da essere vissuto come un
17 macigno che schiaccia (Spiga e Giampà, 2001). Diversi studi (Sims, 2004) hanno messo in evidenza
come la sofferenza dolorosa in diverse condizioni mediche può essere una causa importante di
conseguente depressione.
Abraham (1912) non ha stabilito nessi tra depressione e perdita oggettuale: afferma che il
problema del paziente depresso non è con l’oggetto, ma con se stesso; questo problema consiste nel
fatto che egli conserva le sue mete ed aspirazioni sessuali ed amorose, ma si sente incapace di
raggiungerle ed i soddisfarle, per questo si sente paralizzato, impotente e dispera di se stesso (Coen
Pirani, 2007). Secondo l’autore alla base della depressione c’è un conflitto di ambivalenza tra amore
ed odio verso l’oggetto che produce nel paziente sentimenti di inadeguatezza e di impotenza. Nello
sviluppo della depressione, prima si verifica una rimozione dell’affetto di odio, poi viene messa in
atto una proiezione dell’odio verso gli oggetti più significativi per il soggetto. Se il contenuto delle
percezioni è rimosso e proiettato all’esterno, il paziente si fa l’idea di non essere amato dal suo
ambiente, ma odiato. Questa idea viene distaccata dal suo contesto causale (l’atteggiamento di odio
del soggetto) e viene collegata con altre deficienze psichiche e fisiche (es. autorimproveri,
autoingiurie, ecc.). Al contrario la mania, secondo l’autore, si instaura quando vengono abolite la
rimozione e le inibizioni degli istinti, che caratterizzano la fase depressiva.
Rado (1928) ha messo in evidenza che i pazienti depressi non sono umili, ma si comportano
come se fossero stati offesi e trattati ingiustamente. La fase acuta della melanconia è di solito
preceduta da un periodo di ribellione arrogante. Nell’Io di questi pazienti si possono rintracciare
alcune caratteristiche: una brama violenta ed intensa di gratificazione narcisistica ed una
intolleranza narcisistica notevole; essi si affidano completamente agli altri, da cui dipendono per il
mantenimento della loro autostima; la scelta oggettuale corrisponde al tipo narcisistico, per cui per
accrescere il rispetto di se stessi, devono ottenere una gratificazione narcisistica dall’esterno; infine,
queste persone devono continuamente sollecitare il favore degli altri della loro libido e cercare in
loro costanti conferme. Quando sono sicuri dell’affermazione del loro oggetto libidico, hanno verso
di esso un atteggiamento egoistico e tirannico, diventando sempre più possessivi e autocritici. Tutto
questo avviene senza che la loro facoltà autocritica se ne renda conto, quindi reagiscono con aspra
veemenza alla minaccia di ritiro d’amore e sentono la perdita dell’oggetto come la massima
ingiustizia del mondo. Questo è il processo che precede la fase acuta della melanconia
(rivolgimento delle tendenze aggressive contro il proprio Sé). L’attacco depressivo viene visto
dall’autore come un grido disperato che chiede amore e che è determinato da una perdita affettiva o
immaginaria che il paziente sente come pericolosa per la sua sicurezza emotiva e materiale.
Secondo Rado, il paziente depresso sarebbe rimasto fissato alla fase orale, quindi rimproverando e
punendo se stesso per la perdita sofferta, desidera riconciliarsi con la madre e riottenere le sue cure
18 affettive; però questo è complicato a causa della presenza di un forte risentimento, quindi quando il
paziente sente che la sua rabbia è sconfitta, la rivolge all’interno con conseguente aumento delle
autopunizioni. Secondo l’autore, il processo depressivo va interpretato come un processo di
riparazione mal realizzato.
Per Fenichel (1946), nei pazienti depressi sarebbe presente una fissazione ad uno stadio in
cui l’autostima è regolata da appoggi esterni, quindi se i bisogni narcisistici non sono soddisfatti
l’autostima diminuisce; inoltre, vi è una tendenza a reagire con violenza alle frustrazioni ed una
dipendenza orale tale per cui questi pazienti si ingraziano e si sottomettono agli altri per ottenere ciò
di cui hanno bisogno. La loro dipendenza amorosa li porta ad essere incapaci di amare attivamente e
hanno un bisogno passivo di sentirsi amati. La scelta oggettuale è di tipo narcisistico, quindi non
prestano attenzione ai sentimenti degli altri e reclamano considerazione per i propri; i pazienti sono
apparentemente sottomessi, ma in realtà riescono bene a dominare l’ambiente circostante; infine,
l’ostilità verso gli oggetti frustranti viene rivolta verso il proprio Io, di conseguenza si sviluppa un
odio verso se stessi che si manifesta nella forma del senso di colpa (c’è una discordanza tra Io e
Super-Io). L’autore distingue tra “depressione nevrotica” e “depressione psicotica”. La prima è un
tentativo di forzare un oggetto e dare degli appoggi che sono necessari per vivere, mentre nella
seconda c’è una perdita totale e concreta dell’oggetto, quindi i tentativi del soggetto hanno lo scopo
di ottenere un appoggio al Super-Io. Nella mania, secondo Fenichel, la tensione tra Io e Super-Io si
è liberata improvvisamente e l’umore allegro del maniacale va interpretato economicamente come
un segno di risparmio di spesa psichica.
Spitz (1946) ha parlato di “depressione anaclitica” che è caratterizzata da sintomi crescenti
che vanno dall’apprensione, alla tristezza, al pianto, al respingimento dell’ambiente e al ritiro, al
ritardo nello sviluppo, alla lentezza nei movimenti, alla perdita di peso e all’insonnia; sintomi che si
accompagnano all’espressione fisiognomica tipica di questi casi, il cui quadro diventa irreversibile
raggiunto il punto critico dei tre mesi, il cui fattore etiologicamente significativo è l’assenza della
madre del bambino nel primo anno di vita, in particolare tra il sesto e l’ottavo mese.
Secondo Jacobson (1953), i pazienti depressi tentano di recuperare la propria perduta
capacità di amare e di funzionare mediante un amore magico da parte del loro oggetto d’amore.
Jacobson ha descritto le fasi caratteristiche del trattamento con pazienti depressi: l’iniziale ed
eccezionale successo del transfert; il successivo periodo di transfert negativo con corrispondenti
reazioni terapeutiche negative, cioè gli stati via via più gravi di depressione; lo stadio di pericolose
difese introiettive; la fase finale di soluzione graduale e conflittuale costruttiva. Inoltre vi deve
essere un legame continuo, sottile, empatico tra l’analista e i pazienti depressi. Ciò che occorre a tali
pazienti non è tanto la frequenza o la lunghezza delle sedute, quanto una dose sufficiente di
19 spontaneità e di flessibile adattamento a livello del loro umore; di cauta comprensione e in
particolare di un rispetto inamovibile.
Relativamente al concetto di lutto, tutti siamo chiamati a sperimentare più volte nella vita il
dolore della perdita: perdita di una persona cara, di una condizione di benessere, di un luogo
conosciuto e amato, ecc. La forma caratteristica di condivisione ed elaborazione del dolore della
perdita è il lutto (Neri, 2002). Il lutto implica funzioni svolte dall’individuo e dal gruppo in
interazione tra loro. Esistono due tipi di lutto: “lutto psichico” e “lutto sociale” (Corrao, 1986) che
sono strettamente collegati. Il “lutto psichico” non si sviluppa nel vuoto, l’individuo non inventa ex
novo le forme e il linguaggio del proprio lutto. La persona che ha subito la perdita si trova
frequentemente a dovere affrontare in solitudine l’esperienza della perdita e del “lutto psichico”. Il
“lutto sociale” è pura forma, se non è abitato dal dolore delle persone che hanno subito una perdita,
e cercano attraverso il lutto una via di tornare alla pienezza della vita, pur nelle nuove condizioni
determinate dalla perdita. I diversi momenti del “lutto sociale” sono dettagliatamente indicati dalla
tradizione, per ciò che riguarda la morte di una persona ed il comportamento dei suoi congiunti. Vi
sono altre perdite, che possono quasi essere altrettanto importanti della morte di una persona
prossima. Tra queste, vi sono ad esempio le interruzioni di gravidanza e l’aborto, la malattia grave
di un figlio con la conseguente perdita di un’immagine di bambino sano, un intervento chirurgico
con perdita del rapporto di fiducia col proprio corpo e della fantasia di invulnerabilità. Per tutte
queste perdite, la nostra attuale tradizione non mette a disposizione riti e forme di “lutto sociale”
altrettanto elaborate e ricche, rispetto a quelli che vengono attivati per la morte di un parente (Neri,
2002). La persona malinconica permane in una condizione di “lutto strisciante”: i processi del lutto,
infatti, non sono conclusi, ma sospesi; il quadro è caratterizzato dall’impossibilità a partecipare
pienamente alla vita (Neri, 2002).
Per S. Freud il comune denominatore tra dolore, melanconia, lutto e angoscia è
rappresentato dal fatto di rappresentare una reazione emotiva di fronte alla perdita dell’oggetto. In
“Minuta G” (1895), egli mette in relazione melanconia, dolore e inibizione dell’attività psichica.
Melanconia e dolore si alimentano reciprocamente. La loro azione congiunta provoca una sorta di
emorragia interna, con una caduta della spinta alla valorizzazione della vita ed un rallentamento
dell’attività affettiva ed intellettiva.
In “Lutto e melanconia” (1917) l’autore si interroga sul perché certe persone reagiscono con
un affetto di lutto che sarà superato dopo un certo periodo, mentre altri sprofondano nella
depressione. S. Freud definisce il lutto come un processo psichico che consegue “alla perdita di una
persona amata o di una astrazione che ne ha preso il posto, la patria, la libertà o un ideale…” (S.
Freud, 1917). In realtà egli si limita a prendere in considerazione solamente le reazioni alla perdita
20 oggettuale reale (Coen Pirani, 2007). Sostiene inoltre che, sebbene il lutto comporti gravi deviazioni
dell'atteggiamento normale verso la vita, non si pensa mai di considerarlo come uno stato
patologico che richiede un trattamento medico; inoltre c’è l’idea che, dopo un certo periodo di
tempo, verrà superato e lo stesso S. Freud ritiene inopportuna e dannosa qualsiasi interferenza.
L’autore, in questo testo, mette a confronto il processo del lutto con la melanconia. Gli aspetti
distintivi del lutto e della melanconia sono: uno stato d’animo doloroso (abbattimento
profondamente doloroso), la perdita di interesse per il mondo esterno14 e la perdita della capacità di
scegliere un qualsiasi nuovo oggetto d’amore (perdita della capacità di amare). Inoltre nella
melanconia si manifesta qualcosa che nel lutto manca: abbassamento della considerazione di sé, una
scarsa autostima (che non è presente nel lutto), che si esprime con autorimproveri, autoaccuse e
autoavvilimento che possono arrivare fino all’attesa delirante di una punizione (Quinodoz, 2005); si
tratta di una sorta di impoverimento dell’Io15, infatti come dice S. Freud: “nel lutto il mondo si è
impoverito e svuotato, nella melanconia impoverito e svuotato è l’Io stesso” (S. Freud, 1917) che
viene quindi considerato come inutile e spregevole. Sia il lutto che la melanconia, per S. Freud,
possono essere reazioni alla perdita di un oggetto amato (oggetto d’amore)16. A differenza del lutto
normale, il cui processo si colloca a livello conscio (cioè l’esame di realtà mostra che l'oggetto non
c'é più nella realtà e quindi c'é una perdita cosciente), nella melanconia c’é una perdita inconscia
dell'amore oggettuale, quindi il melanconico non riesce “a rendersi conto consciamente di quel che
ha perduto” (S. Freud, 1917), cioè il melanconico non riconosce che ha subìto una perdita quindi
non riesce a svolgere un processo di separazione dall’oggetto perduto (elaborazione del lutto), ma
rimane attaccato ad esso e lo considera come deludente e che quindi va punito. Ciò che colpisce è
che i sentimenti di vergogna per questo suo stato di indegnità, mancano o sono poco rilevanti nel
melanconico. Spesso le più violente autoaccuse del melanconico difficilmente si potrebbero
applicare al paziente stesso, ma si adattano ad una persona che il paziente ama o ha amato o
dovrebbe amare. Tali rimproveri sono rimproveri diretti ad un oggetto amato, che sono stati deviati
sull’Io del paziente. Essi non si vergognano poiché quel che di degradante dicono di sé, in fondo si
riferisce a qualcun altro. Gli autorimproveri del paziente depresso sono in realtà etero rimproveri
diretti verso una persona importante: nella melanconia “Io sono un incapace!” significa nella realtà
“Tu sei un incapace!”. Nella melanconia il soggetto non ritira la sua libido dall’oggetto perduto, ma
viene ritirata nell’Io, vi è una introiezione orale dell’oggetto e quindi una identificazione narcisistica
14
Nel senso di inibizione e limitazione verso ogni attività: “…. esprime una dedizione esclusiva al lutto che non lascia
spazio ad altri propositi ed interessi” (S. Freud, 1917), in quanto la persona in lutto non aspetta passivamente che il tempo attenui il
dolore della perdita, ma egli (in particolare l’Io della persona) è coinvolta in un faticoso “lavoro psichico” di elaborazione del lutto.
15
“… avvilimento del sentimento di sé che si esprime in auto-rimproveri e auto-ingiurie e culmina nell’attesa delirante di
una punizione” (S. Freud, 1917).
16
Perdita dell’oggetto amato che S. Freud ipotizza come fattore eziologico sia del lutto che della melanconia.
21 dell’Io con l’oggetto (relazione oggettuale di tipo narcisistico a cui il soggetto è rimasto fissato e a
cui regredisce) quindi l’odio che il soggetto provava verso l’oggetto perché lo ha abbandonato, si
riversa contro l’Io del soggetto stesso identificato con l’oggetto perduto. Si crea una scissione
dell’Io con conseguente ambivalenza degli affetti di amore e di odio verso l’oggetto e verso l’Io: da
un parte il soggetto continua ad amare ritornando ad una forma primitiva di amore, cioè
l’identificazione secondo la quale “amare l’oggetto è essere l’oggetto”; dall’altra parte, a causa
dell’identificazione narcisistica dell’Io con l’oggetto amato, l’odio del soggetto destinato all’oggetto
si rivolge contro il proprio Io (parte dell’Io che critica e che qui S. Freud definisce “coscienza
morale”, istanza psichica che rappresenta il precursore del Super-Io). Le scelte oggettuali fatte dai
depressi sono effettuate su una base narcisistica, cosicché una perdita oggettuale si trasforma in una
perdita dell’Io, e l’Io viene trattato come se fosse l’oggetto abbandonato. Attraverso l’autopunizione
e l’autodenigrazione questi pazienti riescono a vendicarsi dell’oggetto originario e a tormentare la
persona amata mediante la propria malattia, alla quale ricorrono per non esprimere apertamente la
loro ostilità. Nell’”Io e l’Es” (1922), con l’introduzione del modello strutturale, S. Freud non
cambia la sua precedente teoria sulla melanconia, ma aggiunge che essa è legata al conflitto tra Io e
Super-Io, in particolare l’autodenigrazione del melanconico ed i suoi deliri di inferiorità sono
espressione della condanna dell’Io da parte di un Super-Io critico, severo e disapprovante.
Secondo S. Freud (1917) il processo di elaborazione del lutto o “lavoro del lutto” consiste
nell’elaborare il conflitto tra il riconoscere l’assenza dell’oggetto nella rappresentazione della
realtà17 (richiesta che viene fatta dall’esame di realtà) ed il tollerare il dolore18 conseguente a ciò,
quindi si verifica un ritiro degli investimenti libidici dall’oggetto (da tutto ciò che è connesso ad
esso) in modo che la libido divenuta libera può essere investita o spostata su un nuovo oggetto (cioè
sostituire la persona scomparsa). L’aspetto “doloroso” di questo processo, che assorbe l’Io, sta nel
separarsi dall’oggetto perduto in quanto non è facile abbandonare volentieri una posizione libidica,
neppure quando si dispone già di un sostituto che lo inviti a farlo19, inoltre comporta un dispendio
di tempo e di energia di investimento. Tutti i ricordi e le aspettative con riferimento ai quali la
libido era legata all’oggetto vengono evocati e sovrainvestiti uno a uno, e il distacco della libido si
effettua in relazione a ciascuno di essi. In seguito in “L’Io e l’Es” (1922) S. Freud mette in evidenza
che il processo del lutto porta ad una internalizzazione (identificazione/introiezione) ego-sintonica
dell’oggetto perduto che porta ad una modificazione del carattere della persona che ha fatto il lutto
sulla base della rappresentazione oggettuale, ciò permette di mantenere l’esistenza psicologica
17
Ovvero che nella realtà l’oggetto non c’è più.
Inteso come eccesso di eccitamenti di origine interna ed esterna.
19
S. Freud stesso dice: “Questa avversione può essere talmente intensa da sfociare in un estraniamento dalla realtà e in una
tenace adesione all’oggetto, consentita dall’instaurarsi di una psicosi allucinatoria di desiderio, cioè in un diniego della perdita”
(Freud, 1917).
18
22 dell’oggetto perduto (Coen Pirani, 2007). Relativamente al concetto di lutto, l’autore in “Inibizione,
sintomo e angoscia” (1926) sostiene che il lutto è un’altra delle reazioni emotive di fronte alla
perdita dell’oggetto e deriva dalla consapevolezza di doversi separare effettivamente dall’oggetto
poiché di fatto non c’è più.
Dolore mentale e dispiacere
Per quanto riguarda le differenze tra il dolore mentale e il dispiacere, S. Freud sottolinea che
entrambi sono causati da un aumento quantitativo della tensione, ma sono esperienze diverse: “il
dolore possiede una qualità speciale che si manifesta parallelamente al dispiacere” (S. Freud,
1895). Questa speciale qualità viene conferita dal seguente fatto: mentre il dispiacere è associato ad
investimento nei ricordi legati al dolore (immagini di memoria dell'oggetto ostile), il dolore
corrisponde ad un'esperienza di rottura dei dispositivi di protezione della mente e non è oggetto di
rappresentazione mentale. Ammette, quindi, la presenza di fallimenti nel processo di
simbolizzazione a causa del dolore sottostante.
S. Freud (1911) afferma che “l’attività psichica si ritrae da qualsiasi evento che possa
suscitare dispiacere” (qui si ha la repressione) (Fleming, 2008). Più tardi, S. Freud (1924) aggiunge
il concetto di negazione, associandola a situazioni in cui l'individuo sia a conoscenza degli eventi,
ma allo stesso tempo, li nega e si rifiuta di pensare a loro: “il fatto, cioè, del contenuto ideativo di
ciò che viene represso che non raggiunge la coscienza” (Freud, 1911). L’autore ammette anche,
quando si descrive il meccanismo di esclusione, che si può verificare l’abolizione della attività
psichica, cioè può avvenire il fallimento del processo di simbolizzazione di una esperienza
dolorosa. Si riconoscono, quindi, nelle formulazioni teoriche di S. Freud, ipotesi fondamentali sulla
possibile esistenza di esperienze non simbolizzate (Fleming, 2008).
Il pensiero di Bion è molto vicino a quello di S. Freud. Nel quadro della sua teoria sul
pensiero (Bion, 1962, 1963, 1965), sviluppa queste idee quando equipara il fallimento della
“funzione alfa”, responsabile della trasformazione di ciò che è non pensabile in ciò che è in grado di
essere significato e interpretato, e quando egli associa il concetto di “non-cosa” con eccessiva
intolleranza alla frustrazione. “Parole”, per insistenza, il simbolo “non-cosa” o una rappresentazione
di cosa assente diverso dal nulla. La non-cosa rappresenta uno spazio legato alla sofferenza psichica
a causa di assenza dell'oggetto, e potrebbe essere, a seconda della condizione della mente, sia
contenuto e subito o, se vi è una intolleranza al dolore, si trasformò in una “cosa in-sé” o elementi
beta ed evacuate per mezzo di identificazioni proiettive (Lopez-Corvo, 2003).
Gli psicoanalisti della scuola francese hanno studiato in particolare come il dolore mentale si
riferisca al piacere/dispiacere. Pontalis (1981) ha proposto una chiara distinzione tra dolore mentale
23 e dispiacere: “il primo è al di là del principio del piacere/dispiacere, mentre il secondo è associato
ad una esperienza di non soddisfacimento”. L’autore ha anche sottolineato la natura dei sentimenti
dolorosi: “Dove c’è dolore, è l’assente, oggetto perduto che è presente”. Anzieu (1985) ha messo in
evidenza le differenze tra dispiacere e dolore mentale: mentre il dispiacere non altera le funzioni del
sè, il dolore mentale è causa della disfunzione del se e dell’attenuazione della frontiera tra Iomentale ed Io-corporeo, come pure tra Es, Io e Super-Io. Il Piacere offre alla mente umana un
comunicato dalla tensione e un recupero di equilibrio, mentre il dolore ha un effetto opposto; in
particolare egli ha scritto che il dolore mentale “costringe la rete delle barriere di contatto, abbassa
il livellamento tra sottosistemi psichici e ha la tendenza a diffondersi in tutte le direzioni e quindi, il
se non esiste più come autonomo”. Questi autori non hanno tuttavia stabilito chiare differenze tra il
dolore mentale e sofferenza psichica (Fleming, 2006).
Distinzione tra dolore e ansia
S. Freud in “Inibizione, sintomo e angoscia” (1926) descrive la sua seconda teoria
sull’angoscia20 e propone una distinzione tra ansia e dolore. Egli esamina la situazione del lattante
di fronte ad una persona estranea tendendo presente che un neonato non fa distinzione tra una
mancanza temporanea della madre ed una assenza permanente e osserva che all’angoscia si
accompagna anche il dolore. Le ripetute esperienze rassicuranti permettono al lattante di imparare
che a questo sparire della madre fa seguito la sua ricomparsa, contribuendo così a calmare la sua
angoscia. L’autore sostiene che: “il dolore è la vera reazione alla perdita dell’oggetto, mentre
l’ansia è la reazione al pericolo della perdita dell’oggetto stesso” (Freud, 1926).
Szasz (1955) ha considerato il dolore mentale, come un’emozione che proviene dal modo in
cui l’Io si riferisce al corpo, in contrasto con l’ansia che deriva dall’orientamento dell’Io verso
l’oggetto. In particolare egli ha ritenuto il dolore come localizzato presso il confine tra Io e corpo a
seguito della rottura dell’integrazione Io-corpo. Ramzy e Wallerstein (1958), accettando la
definizione di S. Freud di dolore mentale come una “breccia nella barriera protettiva dell'Io”,
hanno proposto che vi è una stretta associazione tra dolore e le esperienze di paura, e quindi con la
natura ed il grado di conseguenti fenomeni di ansia. Il dolore mentale è stato considerato da Spiegel
(1966), come diverso da altri fenomeni dolorosi come l’ansia. Il dolore mentale deriva da una
20
Prima teoria sull’angoscia (S. Freud, 1895): l’angoscia è energia psichica trasformata, cioè trasformazione dell’energia
pulsionale di contenuti rimossi (cioè è un derivato di desideri libidici rimossi) in angoscia; è causata da un accumulo di libido
(energia sessuale) insoddisfatta, non scaricata per limitazioni imposte dall’ambiente o per conflitti difensivi inconsci. L’ansia
rappresenta il modo in cui l’energia libidica trasformata si manifesta alla coscienza. Seconda teoria sull’angoscia (S. Freud, 1926):
l’angoscia è una funzione normale dell’Io, ha una origine biologica e una funzione di adattamento. L’ansia rappresenta un segnale
che mette in moto i meccanismi di difesa da parte dell’Io, ansia come segnale di pericolo che si origina all’interno dell’Io. L’angoscia
può nascere in conseguenza di situazioni traumatiche (angoscia automatica) o in situazioni di pericolo (angoscia segnale, ansia come
azione difensiva, cioè una sorta di campanello di allarme che mette in moto i meccanismi di difesa); può essere in relazione con il
mondo esterno (angoscia reale), con l’Es (angoscia nevrotica) o con il Super-Io (angoscia morale).
24 lesione narcisistica: un danno di sè attribuita all’assenza di un oggetto costante, mentre l’ansia è
causata dalla perdita di una necessità transitoria esterna o soddisfacente dell’oggetto. Alcuni autori
(Valenstein, 1973;) hanno messo in evidenza che il dolore mentale implica “diffusi stati emotivi di
un disagio sgradevole e angosciante”. Viene messo in evidenza anche che il dolore sarebbe uno
stato funzionale ed il suo sviluppo si trova tra i domini biologici e psicologici della mente.
Si può considerare il dolore mentale come un tipo di sofferenza mentale, che non va confuso
con l’ansia che serve da una parte, come difesa dai pericoli istintuali e dall’altra parte, a promuovere
difese contro quei pericoli, nonché le varie forme cliniche che l’angoscia può assumere, come
quella depressiva.
Alcune persone, non hanno cognizione del dolore, possono però registrarlo. Il dolore
registrato, come il trauma, provoca una torsione nello sviluppo della persona. La persona si sviluppa
ma è costretta a curvarsi e piegarsi per evitare le “zone demarcate” dal trauma. Secondo Ferenczi
(1909), il trauma è un dolore senza contenuto di rappresentazione e quindi risulta inaccessibile alla
coscienza. La persona ricorda il “fatto” (spesso come stereotipo), ma questo rimane senza
collegamenti vitali con il resto della sua esistenza. In un tempo successivo, se si presenteranno le
condizioni opportune, il dolore, come il trauma, può venire condiviso, sofferto ed elaborato. Una
via seguita da chi non sa come “soffrire” il dolore è quella di essere costantemente angosciati.
Quando una persona impara a distinguere il dolore dall’angoscia compie un passo estremamente
significativo, perché presto si rende conto che il dolore è parte della vita, mentre l’angoscia è
soprattutto manifestazione di conflitto e nevrosi.
I concetti di frustrazione, il dolore mentale e sofferenza psichica
Il concetto di il dolore mentale è al centro della psicoanalisi, ma è stato introdotto da S.
Freud ed ulteriormente elaborato da un certo numero di ricercatori, per lo più da Bion.
S. Freud ha studiato la genesi e la dinamica del dolore mentale come parte del suo lavoro
sui rapporti tra frustrazione, modificazione, pensiero, e anche non-simbolizzazione. L’incapacità di
tollerare la frustrazione provoca il fallimento della funzione simbolica, e anche quella del processo
di pensiero. In S. Freud (1911), si possono trovare alcune affermazioni di carattere teorico:
a) ogni volta che vi è una intolleranza alla frustrazione, si ritira l'apparato mentale (si allontana)
dalla realtà;
b) il grado di tolleranza alla frustrazione è associato a diverse modalità di funzionamento mentale;
c) l’apparato mentale ha due modi di affrontare la frustrazione: l’evasione o la modifica
(quest’ultima opera secondo il pensiero);
25 d) il pensiero consente la restrizione dell’azione e permette all’apparato mentale di sopportare la
crescente tensione durante il ritardo nel processo di scarica.
In Nevrosi e Psicosi, S. Freud (1924) aggiunge altre idee:
1) lo scopo del dispositivo della percezione viene utilizzato per l’adattamento alla realtà, e serve
quindi il principio di realtà;
2) le funzioni dell’Io che sono subordinate al principio di realtà possono essere classificate come:
impressione consapevolezza sensoriale, attenzione, memoria (notazione), giudizio e pensiero
(“diretta verso la relazione tra le impressioni dell'oggetto”);
3) il pensiero rende possibile la tolleranza alla frustrazione.
Bion (1970) chiarisce i concetti di frustrazione, dolore mentale e sofferenza psichica.
Partendo dalla pratica clinica con pazienti schizofrenici, i concetti di frustrazione e di dolore
mentale sono considerati come equivalenti (”frustrazione e dolore intenso sono equiparati”; Bion,
1970). Bion affronta la genesi e la dinamica del dolore mentale come il grado di
tolleranza/intolleranza della mente alla frustrazione e ciò dipende da una serie di fattori, in
particolare da disposizioni innate della mente stessa e dalla qualità e predominanza dei legami tra il
se e l’oggetto.
L’autore stabilisce una chiara distinzione tra dolore mentale e sofferenza psichica, in quanto
sono due diversi tipi di esperienza emozionale (anche se spesso questi due termini vengono usati
come sinonimi): “i pazienti vengono per il trattamento, di cui desidero formulare teorie, ma
l’esperienza del dolore non soffre ... l’intensità del dolore del paziente contribuisce alla sua paura
del dolore ... la sofferenza é il dolore inflitto o accettato mentre il dolore mentale emerge quando il
paziente non ha la capacità di soffrire, e la sofferenza è associata con la capacità del paziente di
contenere ed elaborare le emozioni dolorose”. Per Bion, come per Freud, di fronte ad una
esperienza di dolore, l’apparato mentale possiede diversi modi per affrontare e tollerare la
frustrazione che ne deriva: l’evasione (es. negazione) o la modificazione, quest’ultima opera
attraverso il pensiero (Fleming, 2006).
A suo parere, il dolore mentale è un elemento sia del funzionamento mentale che della
personalità; è ciò che accade quando il paziente non ha la capacità di soffrire e lo attribuisce ad un
dolore che il paziente riferisce come impossibile da descrivere a parole e che è privo di tutte le
associazioni; mentre la sofferenza psichica può essere sia nominata che descritta dal paziente,
quindi è associata ad un livello superiore di tolleranza, di contenimento ed elaborazione mentale.
Bion sottolinea un punto importante: il dolore non è necessariamente un indicatore sicuro
della maggiore o minore gravità della situazione clinica del paziente, “perché l'intensità del dolore
non è sempre proporzionale alla gravità del disturbo” (Bion, 1967). Aggiunge anche che un
26 paziente che sostiene di aver sofferto potrebbe non sapere cos’è la sofferenza e prendere per
sofferenza ciò che è dolore, dato che l’intensità del dolore contribuisce alla paura di soffrirne.
La sofferenza psichica viene riferita dal paziente di se stesso (“Io soffro”), mentre il paziente
che è in fase di dolore mentale non si riferisce a se stesso o agli altri (es. nessuno e nessun evento
viene percepito dal paziente come la causa del suo dolore mentale). Ciò implica che la sofferenza
psichica è adatta per una descrizione in parole dal paziente, in contrasto con il dolore mentale, che è
privo di senso e non può essere spiegato in alcun modo dal paziente ad un altro. Nella sofferenza
psichica, il paziente sente un certo sollievo, quando ne parla a qualcun altro, e cioè all’analista,
mentre il dolore mentale non è adatto per la comunicazione ed è al di là del piacere o del dispiacere.
Queste caratteristiche indicano che la sofferenza psichica può essere elaborata dall’apparato
psichico del paziente, ad esempio attraverso il lavoro del lutto, mentre il dolore mentale resiste
all’elaborazione da parte della mente. E’ plausibile ritenere che il dolore mentale è un fenomeno
emotivo situato al confine tra soma e psiche, ed è fatto anche di sensazioni indefinite che il paziente
non è in grado di nominare o descrivere attraverso le parole o le rappresentazioni.
Relativamente alla differenza tra dolore mentale e sofferenza psichica, Bion (1962) ritiene
che la mente funziona come un “contenitore” ed ha introdotto i concetti di “funzione alfa21” per
indicare il processo di mentalizzazione che “digerisce” gli “elementi beta22” (che possono emergere
nel paziente come dolore mentale) e li trasforma in pensieri elaborati (“elementi alfa23”).
Il quadro concettuale di Bion sottolinea che il dolore mentale (emozioni dolorose) deriva da
esperienze traumatiche che non sono state elaborate, “non contenute” (quindi vengono conservate
nella mente tramite la via somatica, l’identificazione proiettiva ed altri meccanismi). Questa
mancanza di elaborazione non permette l’attivazione della “funzione alfa” (ovvero lo sviluppo dei
contenuti associati alle esperienze traumatiche e delle strutture di più alto livello di complessità
mentale, come simbolizzazione, appropriazione di esperienza affettiva e associazioni), pertanto tali
esperienze rimangono come “elementi beta tossici” per l’apparato psichico che vengono espressi
come dolore mentale (es. Disturbo post-traumatico da stress o Disturbo acuto da stress, dove flash
back o pensieri intrusivi non sono controllabili né collocabili nella mente del paziente, ovvero “non
digeribili”). Al contrario, la sofferenza psichica è il risultato di una esperienza negativa che è stata
tollerata dalla mente e simbolizzata dalla “funzione alfa” dell'apparato mentale e quindi trasformata
in “elementi alfa”, ovvero elementi che sono adatti per essere pensati dell’apparato mentale (Bion,
21
Funzione alfa: capacità della mente umana di tradurre, elaborare e trasformare le emozioni dolorose (Elementi Beta) in una
forma più tollerabile (Elementi Alfa), in particolare di cambiare le esperienze sensoriali e le emozioni in elementi in grado di
produrre pensieri; è formata da diversi fattori: attenzione, simbolizzazione, rêverie, ecc.
22
Elementi beta: dati sensoriali relativi ad esperienze spiacevoli, emozioni ed esperienze dolorose (contenuti psichici) che
creano frustrazione e angoscia in quando la mente non riesce a dagli un significato e quindi a tollerarli.
23
Elementi alfa: prodotto della Funzione Alfa; pensieri, emozioni sperimentabili, fantasie, sogni che la mente è in grado di
tollerare.
27 1963). Questi concetti sono presenti nel “modello contenitore-contenuto24” di Bion, il quale è stato
ispirato dalla nozione di Melanie Klein di “identificazione proiettiva25”. Il successo della
trasformazione del dolore mentale insopportabile in un dolore che è sia tollerabile e in grado di
essere accettato dalla coscienza dipende quindi dalla capacità dell’apparato mentale di trasformare
le emozioni dolorose.
Secondo Lecours e Bouchard (1997), il dolore mentale sarebbe descritto come “una
esperienza non tollerata e non contenuta che, pur mentalizzata, non riesce ad essere elaborata
dall'apparato psichico e di progredire nella simbolizzazione”.
Sulla genesi del dolore mentale, Weiss (1934) ha ipotizzato che il dolore mentale si verifica
quando “una ferita si trova all'interno dell'Io”. Egli è stato uno dei primi ad indagare la diversa
origine del dolore e della sofferenza e ha inoltre suggerito, in accordo con Federn (1926), che il
primo è associato ad investimenti oggettuali e la seconda a cariche narcisistiche.
Evoluzione dei concetti nei diversi autori
Weiss (1944) è stato il primo autore a concettualizzare la depressione come una misura
difensiva volta a proteggere il paziente da pericoli, disturbi e sofferenze più gravi (Coen Pirani,
2007). Egli ha distinto la depressione di tipo “semplice o essenziale” da un tipo “melanconico”.
Nella prima sembra prevalere una quadro di mancanza di interesse e di apatia; la libido è fissata ad
un oggetto o ad uno scopo che è respinto ma non può essere abbandonato; infine la causa sembra
essere legata ad un esaurimento della libido dell’Io dovuta ad un conflitto che non si risolve (l’Io è
vuoto). Secondo l’autore, questi pazienti sono paralizzati perché non riescono a rinunciare ad un
investimento su di un oggetto o una meta di origine infantile, investimento con il quale sono in
conflitto; ne consegue una continua delusione e frustrazione dalla quale si difendono rifugiandosi in
un atteggiamento di assenza di interesse per qualsiasi cosa (Coen Pirani, 2007). Nella depressione
“melanconica” il narcisismo del paziente è danneggiato, di conseguenza le caratteristiche principali
sono la perdita dell’autostima e il successivo sviluppo di un odio di se e di autoaccuse dovute a
sentimenti di colpa e di inferiorità a prescindere da quella che può essere la particolare origine di
tali sentimenti; le accuse sono realmente rivolte a se stessi per un senso di inferiorità e non perché
rivolte all’oggetto con cui la persona si è identificata; è dovuta ad un odio di sé in conseguenza di
24
Modello contenitore-contenuto: rappresentazione del processo di identificazione proiettiva che permette di raffigurare il
rapporto tra un’aspettativa (stato mentale, per esempio della madre o dell’analista, che corrisponde al “contenitore” ♀) e una
realizzazione (elementi psichici non elaborati, che corrisponde al “contenuto”♂); in generale permette di rappresentare qualsiasi
fenomeno legato alla vita relazione, psichica ed emotiva dell’individuo.
25
Identificazione proiettiva: coesistenza di un meccanismo di difesa e di una comunicazione interpersonale; questo
fenomeno coinvolge comportamenti tali da generare una sottile pressione interpersonale su un altro individuo affinché assuma le
caratteristiche di un aspetto del Sé o di un oggetto interno che vengono in lui proiettate; l’individuo che costituisce il bersaglio della
proiezione incomincia quindi ad avere comportamenti, pensieri e sentimenti che sono in accordo con quanto è stato proiettato
(Gabbard, 2005).
28 una vasta perdita dell’autostima mediante il respingimento; ha le sue radici in uno stato
psicofisiologico primario, considerato come una risposta all’esperienza di impotenza di fronte ad
una situazione interiore intollerabile.
Bribing (1953) ha definito la depressione come espressione emotiva di uno stato in cui l’Io
è inerme ed impotente in conseguenza di un collasso parziale o totale dei meccanismi di difesa che
stabilivano l’autostima. Contrariamente a quanto sosteneva S. Freud, nella depressione ciò che
viene perduto non è un oggetto, ma l’autostima perché l’Io si sente incapace di vivere secondo le
aspirazioni del Super-Io (ideale dell’Io). Ciò porta allo sviluppo della depressione, cioè di uno stato
in cui l’Io è inerme ed impotente, però alcuni oggetti, aspirazioni e scopi narcisisticamente
importanti (es. desiderio di essere degno e apprezzato, di essere forte, grande e sicuro, di essere
buono e affettuoso) sono mantenuti. Quindi la tensione tra queste aspirazioni narcisistiche e la
consapevolezza (reale o immaginative) da parte dell’Io della propria impotenza ed incapacità di
vivere secondo le aspirazioni narcisistiche, produce lo sviluppo della depressione. In generale nella
depressione il conflitto è tra il Sé ideale e la percezione attuale del Sé, quindi si tratta di una
tensione interna all’Io, un conflitto sistemico interno (non un conflitto intersistemico). L’autore
sostiene che nei pazienti depressi, nelle prime fasi dello sviluppo, si sia verificata una esperienza
oggettiva di grave frustrazione che ha prodotto un vissuto traumatico di impotenza e di incapacità di
soddisfare i bisogni, quindi una fissazione al sentimento di impotenza. Questa si riattiverebbe
regressivamente ogni volta in cui insorgono, nella vita adulta, situazioni che richiamano la primitiva
esperienza traumatica, quando per ragioni interne e/o esterne, il soddisfacimento di aspirazioni
importanti diventa molto problematico e difficile (Coen Pirani, 2007). Secondo l’autore, una
remissione o un attenuamento della sintomatologia depressiva si può verificare quando: le mete
narcisisticamente importanti sono di nuovo a portata di mano o sono state abbandonate oppure sono
state modificate e ridotte per essere realizzabili e ciò porta quindi l’Io del paziente a “riguadagnare”
la sua autostima. Per Bribing (1953), l’autostima è un sentimento dell’Io che non deriva da aspetti
libidici o aggressivi e l’apparato psichico ha il compito di mantenere questo sentimento ad un
livello ottimale; in particolare egli descrive quattro stati fondamentali dell’Io: lo stato di autostima
normale, quello di autostima esaltata (mania), lo stato di autostima minacciata (ansia) e quello di
autostima distrutta (depressione).
Winnicott (1954) ha messo in evidenza la distinzione tra: umore depresso come forma di
controllo, di difesa e di relativa inibizione della pulsione e angosce associate alla posizione
depressiva. Egli sostiene che se il bambino ha raggiunto la posizione depressiva26 la sua reazione ad
26
Definita da Winnicott (1954) “Fase di preoccupazione per l’oggetto”: in cui il bambino si mette in relazione con la madre
in modo ambivalente.
29 una perdita sarà di lutto e tristezza; se il bambino non ha raggiunto la posizione depressiva,
funzionerà ad un basso livello di vitalità e avrà un tono dell’umore simile a quello della depressione
che porterà poi allo sviluppo di depersonalizzazione, di un Falso Sé e della mancanza di speranza
nella relazione oggettuale.
Klein (1935) ha parlato di “posizione Schizo-paranoide” e “posizione Depressiva”. Nella
“posizione Schizo-paranoide” (0-3 mesi di vita), il bambino sperimenta angosce che derivano dal
conflitto tra pulsione di vita e pulsione di morte, ma poiché il bambino è in grado distinguere solo
gli oggetti parziali, tenta di tenere a bada le sue angosce mettendo in atto una scissione dell’oggetto
parziale (seno) in una parte buona e una cattiva (questa scissione serve a preservare l’oggetto buono
e aumentare la sicurezza dell’Io). In conseguenza di ciò, si crea anche una corrispondente scissione
dell’Io in una parte buona che ama e in una parte cattiva che odia. Quindi si verificano processi di
introiezione e proiezione e, se le esperienze buone predominano su quelle cattive, c’è uno sviluppo
dell’integrazione della capacità di amare che deriva dalla pulsione di vita. Invece, se predominano
le esperienze cattive su quelle buone, si sviluppano angosce di persecuzione e confusione tra sè e
l’oggetto. Nella “posizione Depressiva” (3-6 mesi di vita), il bambino riconosce la madre come
oggetto totale (separato da lui) ed inizia a relazionarsi con lei, quindi sente che le esperienze buone
e cattive derivano dallo stesso oggetto (madre). Ciò porta il bambino a sperimentare un conflitto di
ambivalenza tra impulsi distruttivi e amore per l’oggetto madre e desiderio di riparazione. Il
bambino sperimenta un’angoscia che deriva dal desiderio di distruggere l’oggetto che ama e dal
quale dipende. Ciò gli porta a sperimentare sentimenti di disperazione, colpa, impotenza quando
sente di aver distrutto la madre; se il bambino, però, sente di poter riparare, inizia ad elaborare la
posizione depressiva, ovvero stabilirsi del primato dell’oggetto buono. Secondo l’autrice, la
“posizione depressiva” ha, nello sviluppo del bambino, un’importanza cruciale, inoltre gran parte
della patologia che si sviluppa più tardi nello sviluppo, viene considerata come una conseguenza del
fallimento nell’elaborazione di questa posizione. Il lavoro della Klein, ha diretto l’attenzione ad
alcuni aspetti dei processi tramite cui i bambini e gli adulti stabiliscono sentimenti di benessere ed
uno stato ideale del Sé, relativamente indipendenti dagli oggetti. Tali processi implicano lo sviluppo
di una capacità di tollerare dolorosi sentimenti di perdita (Sandler, 1980).
Considerando il rapporto tra dolore, depressione e individuazione Klein afferma: ogni dolore
causato da esperienze infelici ha qualcosa in comune con il lutto; se ci si imbatte in esperienze
dolorose c’è una riattivazione della posizione depressiva e superarle implica una evoluzione
psichica simile al lutto.
Bowlby (1960) ha studiato gli effetti della perdita dell’oggetto in diverse condizioni ed età
sottolinenando che la reazione depressiva è solo una delle possibili conseguenze della perdita
30 dell’oggetto, quindi quest’ultima non va considerata come unica causa della depressione. Egli ha
introdotto una distinzione tra “depressione come segnale” (che è un affetto e stato psicologico di
base, parte integrante della vita psichica, come l’angoscia) e la “depressione patologica o malattia
depressiva. Secondo l’autore, il dolore indica la sequenza di stati soggettivi che segnalano la perdita
ed accompagnano il lutto. Il lutto viene definito come l’insieme dei processi psicologici che hanno
inizio con la perdita dell’oggetto d’amore e che abitualmente portano alla rinuncia dell’oggetto
stesso, quindi si ha una riorganizzazione che è in parte orientata con l’immagine dell’oggetto
perduto e in parte con l’investimento che viene operato su nuovi oggetti. Il lutto patologico deriva
dall’incapacità di fare un esame di realtà, cioè di accettare che l’oggetto d’amore perduto non è più
recuperabile; mentre la depressione rappresenta l’aspetto soggettivo dello stato di disorganizzazione
caratterizzato da delusione, pena e disperazione. L’autore ha individuato tre fasi nella reazione del
bambino di fronte ad un episodio di separazione di una certa entità (es. ospedalizzazione). La fase
iniziale, definita di “protesta”, è caratterizzata dal fatto che i sistemi di risposta pulsionale che
legano il bambino all’oggetto, rimangono focalizzati sull’oggetto, quindi di solito, si osservano
momenti di rabbia e scontentezza e tentativi di recuperare l’oggetto perduto; si può ipotizzare che il
bambino si trovi in una situazione di angoscia di separazione poiché essa viene sentita quando la
perdita è ritenuta come recuperabile e la speranza resta. La seconda fase è quella della
“disperazione”, in cui diminuiscono o cessano i movimenti fisici attivi del bambino ed egli appare
ritirato su se stesso e non fa più richieste all’ambiente; il bambino prova dolore che è un insieme di
collera, angoscia e disperazione; egli sembra essere in una situazione di lutto (questo stato, per
Bowlby, sembra corrispondere alla risposta affettiva depressiva). La terza ed ultima fase è quella
del “distacco”, in cui il bambino accetta le cure degli infermieri, sorride e diventa socievole, ma
quando la madre gli va a far visita, egli non le fa le “feste”, fatica a riconoscerla, non l’abbraccia,
appare apatico e sembra aver perso un interesse per la madre. In questa prospettiva è possibile
vedere nei processi comportamentali che accompagnano la depressione una funzione adattiva. Per
quanto tale disorganizzazione sia dolorosa e comporti il rischio che non si raggiunga mai una
riorganizzazione soddisfacente, sembra chiaro che è un passo indispensabile verso un adattamento
nuovo, in quanto gli schemi di comportamento che sono cresciuti nell’interazione con l’oggetto o
scopo perduto hanno cessato di essere adeguati e se dovessero persistere sono malamente adattabili. Sandler (1980) considera la reazione o risposta depressiva come una risposta particolare al
dolore; si tratta di una risposta affettiva di base a carattere depressivo. Essa deriva dall’incapacità di
difendersi dall’esperienza di impotenza, disperazione e rassegnazione di fronte ad una situazione
interiore di dolore esperita come intollerabile; rappresenta una sorta di “ultima risorsa” come
tentativo di adattamento di fronte ad intollerabili stati di tensione dolorosa. Lo stato d’animo
31 principale è caratterizzato da tristezza ed infelicità; essa può essere transitoria o di lunga durata,
intensa o moderata, si può manifestare, ad ogni stadio dello sviluppo, in diverse personalità e
situazioni cliniche ed spesso è in associazione ad altri sintomi (es. chiusura, noia, svogliatezza,
disturbi del sonno, ecc.); non va confusa con le forme di malattia depressiva conseguenti ad
introiezioni ed identificazioni patogene. La reazione depressiva non è una risposta diretta ad un
insieme di circostanze precipitanti, ma è piuttosto una risposta particolare al dolore generato da tali
circostanze. Il presupposto che essa sia un tipo di risposta allo stato di dolore, che esprime
impotenza, capitolazione e rassegnazione di fronte ad esso, implica che la discrepanza dolorosa fra
le rappresentazioni del Sé attuale e ideale, che tali pazienti rinunciano ad affrontare, ha le sue radici
in qualche sorta di conflitto psicologico, che implica abitualmente sia intensi desideri aggressivi sia
reazioni di estrema vergogna e colpa. I pazienti depressi hanno una predisposizione geneticamente
determinata a reagire in questo modo, cioè con rassegnazione ed impotenza di fronte al dolore, in
quanto si sentono incapaci di ristabilire una situazione desiderata. Questi pazienti rinunciano ad
affrontare e questo atteggiamento si origina da un conflitto psicologico tra: desideri aggressivi e
reazioni di estrema vergogna o colpa, quindi si sviluppa uno stato di perdita o di delusione esterna o
interna (o entrambe le cose). Può portare ad una risposta depressiva l’incapacità di: difendersi
contro il dolore, scaricare in modo adeguato l’aggressività e ridurre un intollerabile investimento di
desiderio. I pazienti che soffrono per un dolore psicogeno possono anche mostrare segni di
depressione. Si tratta in questo caso di pazienti che si trovano in uno stato clinico misto in cui non è
stata raggiunta una soluzione difensiva e dove sono falliti i tentativi di ridurre lo stato di dolore
psichico, quando accade ciò il soggetto può reagire con una reazione o risposta depressiva. Quindi il
dolore psicogeno non è una difesa contro la depressione ma si tratta di una difesa contro l’affetto
centrale di dolore psichico e che, se la difesa fallisce, è possibile che il soggetto produca una
risposta depressiva.
Per Sandler (1980) è importante differenziare il processo del lutto e la risposta depressiva.
Nel primo caso, il desiderio per lo stato perduto è attenuato tramite una inibizione funzionale
generalizzata senza che si abbia una modificazione del contento del Sé Ideale. Nel secondo caso, vi
è un sentimento come incapacità di ripristinare una situazione desiderata e c’è una inibizione delle
funzioni dell’Io.
Le risposte possibili al dolore dal punto di vista dell'Io sono dunque più d’una, la più
significativa e migliore è sempre la sua rielaborazione. In una modalità simile al processo di
rielaborazione del lutto, il che implica la richiesta di un abbandono di quegli stati ideali perduti e la
loro sostituzione con nuovi ideali, in sintonia sia con l’Io che con la realtà. Non sempre questo
processo, che nella vita si verifica prevalentemente nei momenti di sviluppo e passaggio, avviene; il
32 suo fallimento e la capitolazione di fronte al dolore, portano per Sandler a quella reazione
depressiva che è in realtà solo un modo per prendere tempo, per determinare una riduzione del
dolore, ma che “di per sé non ha come scopo il recupero” (persistenza delle strutture)27.
Capitolo III
Manifestazione ed evoluzione del dolore
Dolore psicogeno
Come accennato nella trattazione delle tipologie di dolore, con il termine dolore psicogeno
si intendono tutti quei dolori di natura psicosomatica maggiormente riscontrabili in soggetti con
carattere ansioso ed emotivo o che vivono situazioni di stress. Sono dolori che si auto perpetuano e
durano a lungo anche quando è superato l'evento scatenante, per questo sono classificati come
cronici. Sembra essere evidente una correlazione fra vari tipi di fattori stressanti e processi
biologici, biochimici, neuroendocrini ed immunitari che possono correlarsi al dolore
(Dolcemascolo, 2007).
Spesso casi di dolore psicogeno vengono classificati come disturbi somatoformi, in
particolare somatizzazione (numerosi e spesso marcati sintomi fisici, compreso il dolore che
interessa diversi organi e apparati) o ipocondria (preoccupazione patologica per sintomi di scarsa
rilevanza) e disturbi psicosomatici. L’esperienza del dolore psicogeno spesso è associata a tipi di
personalità depressiva, isterica, ipocondriaca, ossessiva e ansiosa (Sims, 2004).
Relativamente a ciò, può essere utile riprendere le teorizzazioni di Sandler (1980)
sull’uso dei meccanismi di difesa, in particolare dello spostamento, come modo di
rispondere al dolore per alterare, in modo non realistico, le due rappresentazioni del Sé (attuale ed
ideale) e ridurne la discrepanza, considerando che ciò determina in parte la natura della successiva
psicopatologia. Secondo l’autore, nella messa in atto della difesa dello spostamento si verifica un
movimento da altri aspetti della rappresentazione del Sé verso la rappresentazione di un danno a
carico del corpo o dei tessuti. Si tratta di uno spostamento dalla sfera psichica a quella fisica che
produce un reale sollievo (anche se a prima vista può sembrare che il soggetto non ricavi nessun
sollievo perché il dolore fisico è più intenso e concreto) perché questi pazienti riescono a tollerare
27
Persistenza: strutture più tardive possono inibire quelle più precoci, che non scompaiono, ma rimangono e in alcune
situazioni possono emergere in maniera impulsiva; in ogni evento psicologico o in ogni tentativo di risolvere problemi (es. conflitto),
la decisione viene preceduta da una ricapitolazione di precedente soluzioni che si sono affermate nel corso dello sviluppo
ontogenetico, ovvero le modalità primitive di funzionamento tendono a persistere nel presente sotto forma di “prove” che vengono
inibite; quindi l’organizzazione di precedenti soluzioni, ovvero la struttura, persiste anche se vengono create continuamente nuove
strutture di crescente complessità (Sandler, 1981).
33 maggiormente il dolore fisico rispetto a quello mentale e perché lo sviluppo di un malessere o di un
sintomo fisico è preferibile per ridurre la discrepanza rappresentazionale tra Sé attuale e ideale.
Spesso questo spostamento avviene in quei soggetti per i quali la vergogna e l’umiliazione sono
intollerabili, quindi è preferibile una forma fisica di sofferenza, quindi l’autostima del soggetto
viene ristabilita dal pensiero che la capacità di funzionare bene in diversi campi è compromessa dai
propri disturbi fisici e ciò permette anche di diminuire il senso di colpa e la responsabilità per un
insuccesso. Molti fattori (nella realtà passata e presente, nella fantasia e nella memoria) possono
influenzare il processo di spostamento e contribuire alla localizzazione e alla qualità del dolore
fisico. Il fatto che una persona “scelga la via” che porta ad un dolore fisico più circoscritto (e non
sceglierne un’altra) può essere determinato da diversi fattori: identificazioni con altri membri della
famiglia che a volte sono malati fisicamente, desiderio inconscio di essere puniti, gratificazione
masochistica nello sperimentare il dolore, inconsci tentativi di espiazione ed il vantaggio secondario
di sentirsi malati (sentirsi dei martiri, scaricare gli impulsi ostili e aggressivi in una forma
mascherata ed indiretta verso parenti o amici, sfruttare il vantaggio di essere curato in ospedale,
ecc.).
Secondo Winnicott (1954) il vero malato psicosomatico si caratterizza per una particolare
scissione mente-corpo che egli definisce “depersonalizzazione”; le sensazioni somatiche non
vengono elaborate e rappresentate simbolicamente in modo adeguato, per cui l’attività psichica
tende a diventare qualcosa di separato dall’esperienza corporea (il senso del Sé è percepito
falsamente nella mente). Nei disturbi psicosomatici sarebbe presente un “Falso Sé patologico” e
difensivo caratterizzato da una eccessiva intellettualizzazione non integrata con le esperienze
corporee28.
Qualora il dolore psicologico resti a livello non cosciente e quindi non elaborato, ci possono
essere delle sovrapposizioni a livello psicosomatico, che nel tempo lasciano segni evidenti nella
struttura fisica e comportamentale della persona come ad esempio: dolori alla schiena, pesantezza
alle gambe, problema nella deglutizione (sensazione di nodo alla gola), dolori di testa, spossatezza,
irrequietezza, insonnia, isolamento, ecc. In questa situazione si rischia spesso di dimenticare il
dolore psicologico tanto da viverlo ad un livello secondario, prendendo in considerazione
esclusivamente il dolore fisico, che potrebbe avere il sopravvento e diventare un dolore cronico
patologico fino alla vera e propria malattia.
Il dolore fisico può anche avere un funzione rassicurante o per così dire “terapeutica” ed
essere quindi attivamente ricercato per essere utilizzato come difesa verso un dolore più grande. In
particolare, certi comportamenti come l’uso di sostanze stupefacenti, il gioco d’azzardo,
28
34 E’ presente una iperattività del funzionamento intellettivo che diventa la sede del “Falso Sé patologico”.
l’autolesionismo, l’automutilazione, i tagli ecc., possono servire a compensare un senso di dolore
emotivo e psichico, di malessere interiore o di “frammentazione del Sé” non altrimenti gestibile,
laddove invece una forte sensazione fisica, anche se dolorosa, risveglia e “compatta” la psiche,
permettendole di attutire, tollerare e gestire un malessere ed un sofferenza maggiori che in un
determinato momento sono vissuti come intollerabili (Migone, 2006). Altri esempi possono essere i
casi di bambini autistici istituzionalizzati che spesso sbattono la testa contro il muro (“headbanging”), quasi nel tentativo di provare almeno qualcosa, per tollerare e per cercare di uscire dal
vuoto e dalla solitudine in cui sono immersi; oppure i casi di disturbi psicosomatici o somatoformi
in cui il dolore psichico utilizza il corpo come canale preferenziale di espressione. Anche certi
adolescenti, incapaci di “mentalizzare” la propria sofferenza, possono mettere in atto agiti e
comportamenti a rischio per la propria vita. Ci sono poi i casi di suicidio che lasciano esterrefatti
amici, conoscenti e anche i parenti più stretti che vivono quel dramma in modo inaspettato. Spesso,
dietro gesti così radicali e violenti, c’è un dolore psichico altrettanto violento che forse non ha mai
potuto esprimersi in modo efficace. Il comportamento autodistruttivo (es. tentati suicidi, tagli, ecc.)
e le esplosioni di rabbia incontrollabili, da un punto di vista psicodinamico possono essere descritti
come “identificazione con l’aggressore”, ma c’è anche un fenomeno psicobiologico: la ripetizione
del trauma e rilascio di endorfine che calmano. Esistono anche persone che non sanno “soffrire” il
dolore, ma sono esperte su come “sessualizzarlo”. Esse non soffrono il dolore, ma lo infliggono ad
altri e a se stessi oscillando tra sadismo e masochismo. Altri sono capaci, di trasformare il dolore in
spettacolo: succede tra due soggetti in cui uno soffre e l’altro guarda soffrire (Cerini, 2001).
Da studi condotti su soggetti con malattie psicosomatiche, con depressione e con vari
sintomi psichiatrici (Trombini, 1998), è emerso che essi si caratterizzano per una particolare
modalità di funzionamento psichico: il pensiero è aderente alla realtà, non è capace di ricorrere alla
vita della fantasia e comunicare tramite essa. Questa condizione è stata descritta con il termine di
“alessitimia29” (Marty et De M'Uzan, 1963; Sifneos, 1973), ovvero incapacità di riconoscere,
distinguere ed esprimere verbalmente le emozioni e gli stati affettivi. La nozione comprende anche
l’impoverimento della capacità di sviluppare fantasie ed un’esagerata preoccupazione per i sintomi
somatici. L’alessitimia è spesso associata all’anedonia, cioè ad una diminuita capacità di provare
piacere. “Chi non ha imparato a soffrire il dolore, non sa neanche soffrire il piacere” (Loas, 1998).
Essa è stata messa in relazione anche con le situazioni di stress e con le condizioni successive a
traumi (McDougall, 1990). L’alessitimia non è un fenomeno del tipo tutto o nulla. Si può parlare di
aree mentali alessitimiche, di condizioni nelle quali compare l’alessitimia, di tipi di emozione che
29
Alessitimia: deriva dal greco e letteralmente significa “affetto senza espressione”.
35 ne sono interessati. (Solano, 2001)30. Anche le persone che soffrono di gravi disordini nel
comportamento alimentare, quelle che fanno un uso continuo di sostanze stupefacenti e quelle che
vanno incontro ad attacchi di panico possono mostrare i segni dell’alessitimia (Krystal, 1978).
Forme di dolore: i sintomi
Come il dolore somatico si presenta in forme e modi differenti tra di loro, anche il dolore
mentale si presenta in forme e modalità diverse (Roccato, 2007). Il carattere con cui esso si
manifesta, tristezza, strazio, rassegnazione, speranza è determinato dalla storia e dal carattere
dell’individuo, dal suo modo d’essere, il suo credo, i suoi valori e solo all’interno di tutto questo
troveranno forma e ragione gli interrogativi spiacevoli o dolorosi che lo accompagnano, così come
le risposte che troverà per reggerlo e superarlo.
Il termine sintomo significa evenienza, circostanza. Non è mai una entità unica ma è
l’effetto finale non standardizzato, di un convergere di molteplici azioni e reazioni. Indica una
alterazione della normale sensazione di sé e del proprio corpo in relazione ad uno stato patologico
riferito dal paziente.
Per primo S. Freud cerca di occuparsi di ciò che sta dietro al sintomo. Ritiene che il
sintomo, insieme agli atti mancati e al sogno, sia la dimostrazione dell’esistenza dell’inconscio (alla
quale era interessato in qualità di ricercatore). Mette in evidenza l’esistenza di sintomi tipici nelle
diverse patologie che vengono presi in considerazione per orientarsi sulla diagnosi. Egli ritiene che
il sintomo sia qualcosa di necessario perché rappresenta l’unico modo per esprimere qualcosa di
inaccettabile. Il sintomo è internamente desiderato perché è lo strumento di contatto e di espressione
di ciò che è desiderato ma intollerabile da parte della coscienza. Inoltre nella formazione del
sintomo, sarebbe implicata una fissazione ad una fase del passato della vita del paziente. All’inizio
ha ricondotto questo aspetto all’esperienza del trauma (fissazione al trauma), ma questa ipotesi è
stata rivista introducendo il concetto di conflitto, cioè l’esistenza di forze contrapposte. Per lui, gli
accadimenti della vita interna vengono guardati anche da un punto di vista economico in termini di
energia, quindi una sovrastimolazione che arriva alla psiche può rompere l’omeostasi energetica,
attivando un bisogno di ristabilire l’equilibrio attraverso le difese. In linea con questo aspetto,
sostiene l’esistenza di fissazioni normali e patologiche: le prime, corrisponderebbero ad aspetti del
carattere, invece le seconde, ad aspetti che hanno a che fare con il sintomo (es. nel lutto c'è una
30
Sul versante opposto, rispetto all’alessitimia, si colloca un altro concetto che ha analoghe caratteristiche: l’intelligenza
emotiva (Goleman, 1995), che viene descritta come una complessa miscela, in cui giocano un ruolo importante fattori come
l’autocontrollo, l’empatia e l’attenzione per gli altri. Essa permette di governare le emozioni. Nell’ambito dell’intelligenza emotiva
rientra anche la capacità di capire, al di là delle parole, i sentimenti degli altri. L’intelligenza razionale ed emotiva non sono
competenze opposte, ma solo separate. Tutti noi siamo dotati di una combinazione d’abilità intellettuali ed emozionali. Persone
dotate di un’elevata intelligenza, ma con una scarsa intelligenza emotiva (come pure quelle che si trovano nella situazione inversa)
sono relativamente rare, nonostante gli stereotipi correnti.
36 fissazione non patologica; anche le fasi psicosessuali entro certi limiti corrispondono a
caratteristiche della persona).
S. Freud mette in evidenza che i sintomi sono sempre consci, mentre è inconscio il motivo
del loro manifestarsi, quindi per dare senso al sintomo bisogna indagare da che cosa trae origine e a
che cosa serve nel funzionamento psichico. Secondo l’autore, la comprensione del sintomo e
l’esplicitazione al paziente sono sufficienti ad una sua risoluzione; in questo senso lo scopo del
trattamento analitico è quello di rendere conscio ciò che è inconscio (e rimosso). Egli evidenzia che
i sintomi sono il risultato di un conflitto tra il desiderio di espressione di impulsi sessuali e
aggressivi di origine infantile che subiscono una rimozione in quanto inaccettabili dalla coscienza
(modello topografico) e che il desiderio di espressione li porta a superare la censura esistente tra
Sistema Inconscio e Sistema Preconscio in forma mascherata ed è per questo che viene vissuto
come un corpo estraneo per la persona. In questo senso ne sottolinea sempre l’analogia con il sogno
manifesto perché il processo di formazione del sintomo è simile al lavoro onirico. Successivamente
sostiene che per far capire al paziente il motivo della presenza di certi sintomi, ci vuole un suo
cambiamento interiore. Dire al paziente da cosa prende origine il suo sintomo lo aiuta, gli fa
prendere consapevolezza che c’è qualcosa, ma non risolve il sintomo, però “mette in moto”
l’analisi, cioè si può avviare un processo verso cui il paziente, visto che sa che c’è qualcosa, si
interroga su questo e sul sintomo con lo scopo di tener conto di questo qualcosa diversamente. S.
Freud evidenzia che esistono degli effetti reattivi nei sintomi (vantaggi secondari) che a volte
risultano essere talmente utili e/o funzionali al paziente tanto da impedire la ricerca di un altro
adattamento e quindi il trattamento risulta boicottato e impossibile.
Per Sandler, il sintomo è considerato come un adattamento che può essere positivo (egosintonico) o negativo (ego-distonico). Questa valutazione è soggettiva dipende anche dalle fasi della
vita (es. un bambino può tollerare certi sentimenti, mentre un adulto no). Il sintomo rappresenta la
soluzione ad un conflitto psichico e per questo viene considerato come il miglior adattamento
possibile in quel momento per la persona; risponde quindi ad un bisogno di sicurezza di base (es.
anche le manifestazioni più estreme, come i deliri e le allucinazioni, sono tentativi di mantenere un
sentimento minimo di sicurezza per l’Io). In quanto compromesso, il sintomo è creato dall’Io
nell’Inconscio Presente e serve per difendersi dai sentimenti contenuti nell’Inconscio Passato
(modello delle tre scatole). Il sintomo non ha senso in sé, ma dentro al sé, in quanto legato
all’esperienza della persona e soprattutto al “bambino dentro”, contenuto nell’Inconscio Passato,
infatti i processi consci non generano sintomi. Il sintomo, per l’autore, trova sostegno nell’Io perché
previene il sentimento di dispiacere; in questo senso è necessario ed adattivo e per questo motivo,
nel trattamento analitico, non si mira alla sua eliminazione come obiettivo, ma come conquista della
37 persona in termini di nuovo adattamento, che è il risultato di una elaborazione del conflitto
sottostante. Quindi rappresenta una rinuncia al sintomo in quanto si è creato un nuovo modo di
espressione dei sentimenti, più accettabile e funzionale, che risponde ad un senso di sicurezza e di
maggior benessere.
Uno dei capisaldi della classificazione psichiatrica è stato, per lungo tempo, la suddivisione
delle malattie mentali in due grandi categorie, le “psicosi” e le “nevrosi”:
Per psicosi si
intendevano quelle condizioni caratterizzate da una profonda alterazione della personalità, da una
rottura della continuità del significato dell’esistenza, da una frattura con la realtà che impedisce al
soggetto una adeguata valutazione del mondo reale, vissuto in funzione pressoché esclusiva delle
alterazioni della sfera conoscitiva (percezioni, pensiero) e/o di quella timica (affettività, attività);
per definizione, manca (o è fortemente ridotta) la coscienza di malattia e l’adattamento sociale è più
o meno profondamente compromesso. Nelle nevrosi, invece, la personalità non è compromessa, il
vissuto psicopatologico non interrompe la continuità del significato dell’esistenza ed il rapporto con
la realtà è mantenuto; vi è la consapevolezza della natura morbosa di certi sintomi e l’adattamento
sociale è, tutto sommato, accettabile. Per quanto in psichiatria sia aleatorio il criterio eziologico,
possiamo dire che alle psicosi era attribuita un’origine somatica accertata (psicosi su base organica)
o presunta (psicosi endogene), mentre le nevrosi potevano essere spiegate in chiave psicogena, in
termini, cioè, di conflittualità interna (conflitti inconsci) ed esterna (rapporti con il mondo).
La capacità di “pensare” il dolore e l’individuazione “L’esperienza attraversata rende la propria mente più aperta ai perché, ai misteri, ai come mai” perché “quando il
dolore non produce distruzione, accresce certamente la percezione. Qualunque sia la sua origine ed in qualunque
modo sia vissuto, rompe il ritmo abituale dell’esistenza, produce quella discontinuità sufficiente per gettare nuova luce
sulle cose ed essere insieme patimento e rivelazione”.
Natoli, S. “L’esperienza del dolore” (1987)
“Perchè non c'è niente, né buono né cattivo, che non sia il pensiero a renderlo tale”. Shakespeare, Amleto atto 2 scena
2
Il dolore pare debba essere parte integrante della nostra esperienza di vita. Come esperienza
inevitabile è un’esposizione al pericolo della perdita di sè. Esso incide sulla valutazione della realtà,
sulle decisioni e sul modo stesso di fare esperienza. Il dolore sembra dunque la condizione
esistenziale che ci mette alla prova e che dà un diverso orientamento all'interno dell'esistenza
(Natoli, 1987).
Come il dolore fisico, anche il dolore psichico va considerato come un segnale di allerta che
c’è qualcosa che non va. Ogni individuo, in base alle esperienze passate, alla propria educazione e
all’ambiente sociale in cui vive dà per uno stesso stimolo, una diversa elaborazione psichica che
porta alla sensazione dolorosa.
38 Il dolore lascia una traccia nella memoria che si riattiva ogni qualvolta qualcosa lo fa
riaffiorare. In questo rapportarsi con il proprio dolore, e con la propria insostituibilità, l’individuo
prende coscienza della propria individualità e della propria esistenza come cammino di
individuazione. Che sia fisico o psichico, poiché l’uno sconfina nell’altro, costringe l’individuo a
misurarsi con sé stesso e a fare esperienza del limite. Fin da bambini apprendiamo a dare un senso
alla nostra esperienza. E’ esperienza comune osservare che quando un bimbo piccolo ancora incerto
nel camminare, cade, volge lo sguardo verso la madre, ancor prima di esprimere il proprio dolore.
Lo sguardo e le parole della madre daranno significato all’esperienza del bambino e lo
salvaguarderanno dalla paura e dal senso di abbandono. Con il senso dato attraverso l’affettività
della madre, l’esperienza del bambino si potrà collocare in uno spazio ed in un tempo, in una
pensabilità, in una collocazione dell’evento all’interno delle esperienze possibili (Dolcemascolo,
2007).
Il dolore, risulta anche una minaccia all’integrità psichica, come tale può essere visto come il
segno del presentarsi di una “prova”. Ci mostra che siamo in procinto di varcare una soglia, di
affrontare una prova decisiva. La prova di una separazione, da un “oggetto” che, lasciandoci
improvvisamente e definitivamente, ci scombina l’equilibrio interno ed esterno e ci costringe a
ricostruirci. L’“oggetto” può essere un umano a cui siamo legati e la cui separazione è determinata
da chiusura di una relazione, abbandono, rifiuto, o morte. Può anche essere una parte del nostro
corpo, il corpo nel suo intero (pensiamo alle malattie, alle lesioni organiche, alle amputazioni) o uno
o più oggetti del mondo materiale, quali la distruzione della casa dopo una calamità, la perdita di
oggetti significativi o di uno stato del proprio Sé in termini di sicurezza e benessere, ecc. In
ciascuno di questi casi, in gradi diversi si verifica un’intensa esperienza di dolore. Tutti legati alla
perdita di un “oggetto amato”, così importante da regolare l’armonia dell’attività psichica. Il dolore
quindi, con i suoi processi (di disinvestimento e rinvestimento) è un fenomeno naturale e sano. Il
grado e la durata di tale processo dipendono dalla strutturazione sottostante e dal tipo di
organizzazione mentale-emotivo-relazionale, ovvero dal tipo di ruolo e dalla funzione nella
dinamica interna, assolta dall’oggetto perduto (Costantini, 2006).
Gli affetti sono il mezzo mediante il quale è trasmessa un’informazione vitale; questa
informazione riguarda non solo il mondo reale e i suoi pericoli, ma anche lo stato affettivo della
madre: poiché gli affetti sono anche il mezzo attraverso il quale si compie il processo di
rispecchiamento, si suppone che il bambino percepisca non solo gli affetti della madre, ma anche la
percezione che la madre ha degli affetti del bambino.
In riferimento al concetto di dolore, è importante sottolineare che la mente si struttura
all'interno delle relazioni primarie e il suo funzionamento, anche adulto, è in rapporto con i modelli
39 di relazione interiorizzata e con le relazioni reali. Anche il funzionamento somatico appare quindi
condizionato da queste relazioni perché nel bambino piccolo è difficile differenziare funzionamento
corporeo e mentale e da adulti è comunque dimostrata una grande quantità di effetti sul corpo della
qualità delle relazioni interne ed esterne. Nelle prime relazioni assumono importanza i concetti di
sintonizzazione e corrispondenza tra i movimenti relazionali del bambino e quelli della madre. Gli
schemi così acquisiti risultano in gran parte inconsci nel senso di facenti parte di una memoria
implicita procedurale. Nelle fasi più precoci dell'esistenza, i livelli biologico e psicologico non sono
ancora nettamente distinti e quindi le sensazioni di sicurezza sono associate alla percezione di
equilibrio tra le diverse parti in rapporto tra loro, alle sensazioni derivanti dalla regolazione
biologica dall'omeostasi. Carenze nelle relazioni primarie possono quindi avere effetti a lunga
distanza sulla maturazione dei sistemi fisiologici e quindi sulla suscettibilità delle malattie
somatiche. E’ attraverso l’appoggio psicologico dato dai genitori o dai caregivers durante il periodo
di crescita che la persona ha modo di fare l’esperienza del dolore psicologico vissuto in modo
naturale. Se lasciati soli invece i bambini (come anche gli adulti) sfiorano il dolore e lo classificano
come intollerabile prima di prenderne le distanze difensivamente (Costantini, 2006).
Il dolore della perdita, che non è stato adeguatamente elaborato, tende infatti a ripresentarsi e
deve essere “tenuto a bada”. Le difese attuate rispetto al dolore restano come dei macigni che
possono essere rimossi nel momento in cui si attua un cambiamento consapevole che porta a
favorire la scoperta di risorse già disponibili, ma non utilizzate, per consentire la gestione del
dolore.
La tolleranza al dolore, e più in generale il modo in cui viene vissuta l’esperienza dolorosa,
risulta differente in ogni persona perché è strettamente dipendente dalle precedenti esperienze
dolorose attraverso le quali l’individuo si è creato una rappresentazione mentale ed un vissuto
emotivo del dolore.
S. Freud sembra aver posto al centro della sua riflessione il problema del padroneggiamento
del dolore come condizione essenziale per il mantenimento della salute psichica (Coen Pirani,
2007), infatti secondo S. Freud “l’uomo ha la tendenza a ricercare il piacere e ad evitare il dolore”
(S. Freud, 1922).
In tutta l’opera di Bion il problema del dolore mentale è stato messo in relazione ai concetti
di frustrazione, meccanismi di difesa, pensiero e trasformazioni psichiche (Fleming, 2008). Bion
(1963), come S. Freud, considera il dolore mentale come un elemento costitutivo del funzionamento
psichico e della personalità. Viene definito come: “un’esperienza non tollerata, né contenuta che,
pur mentalizzata, non riesce ad essere elaborata, digerita dall’apparato psichico e quindi a
progredire nella simbolizzazione” (Bion, 1962). Come S. Freud, sostiene che di fronte
40 all’esperienza della frustrazione, si possono verificare due meccanismi: la modificazione della
percezione della frustrazione tramite il pensiero o l’evasione da quella percezione e la creazione di
un “non-pensiero”. La modificazione avviene quando si verifica la capacità di tollerare la
frustrazione. Questo rivisitare i luoghi della sofferenza mentale è di solito un lungo processo,
intrapreso dai due individui, in cui l'analista, seguendo il ritmo del paziente (passo dopo passo)
cerca di aumentare la tolleranza alle emozioni di frustrazione e di ricollegare emozioni e
rappresentazioni, in un processo di elaborazione che consentirà il ripristino della capacità di sentire
e quella di pensare. L’intolleranza al dolore è concomitante alla mobilitazione di potenti difese
contro di esso, difese che mirano ad annullare o a paralizzare il pensiero e altre funzioni dell’Io
(Bion, 1959).
Bion si è interessato a comprendere come un dolore mentale viene tollerato, elaborato,
pensato e acquista senso nella mente, elaborando il modello “contenitore-contenuto”. Secondo
l’autore la mente funziona come una sorta di contenitore che permette alle emozioni dolorose ed
intollerabili di essere “digerite” (Bion, 1963) in modo da essere più tollerabili dalla mente stessa. In
questo modello Bion sostiene che la capacità dell’apparato psichico di trasformare il dolore mentale
dipende, soprattutto, dalla relazione precoce madre-bambino. L’apparato mentale del neonato non è
in grado, da solo, di trasformare in pensiero in dati sensoriali relativi alle esperienze spiacevoli (es.
paura della morte) e di tollerare la frustrazione che ne consegue (frustrazione per l’assenza
dell’oggetto), quindi queste emozioni dolorose vengono proiettate, tramite l’identificazione
proiettiva, sulla madre31 (o la persona che gioca il ruolo di materno); quest’ultima introietta questi
“elementi beta” e, tramite la funzione di “rêverie materna32”, li elabora, cioè gli attribuisce un
significato utilizzando la sua “funziona alfa”, permettendo la trasformazione in “elementi alfa” che
successivamente la madre restituisce al bambino in una forma tollerabile e pensabile e che il
bambino reintroietta. In questo modo il lattante progressivamente introietta anche la “funzione alfa”
della madre e la relazione con lei (introietta la madre come oggetto pensante). In condizioni ideali,
la psiche della madre sarà anche in grado di tollerare le emozioni dolorose espulse dal bambino
attraverso l'identificazione proiettiva (paura della morte, per esempio). Bion chiama questa funzione
mentale “la funzione del contenere”. Questi sono elementi che contribuiscono allo sviluppo e alla
maturazione dell’apparato mentale del bambino; infatti l’identificazione del bambino con la
capacità materna del “contenere” rafforza nel bambino lo sviluppo di una capacità di “contenere” le
proprie emozioni dolorose (Fleming, 2008).
31
Oggetto madre come primo oggetto contenitore per le identificazioni proiettive del bambino.
32
Rêverie materna: stato mentale della madre aperto alla ricezione dei contenuti psichici dolorosi del bambino; capacità
empatica che implica accettazione, comprensione, accudimento, holding, ecc. all’interno della relazione madre-bambino.
41 Come già accennato, secondo Bion, la tolleranza al dolore mentale è una operazione
complessa che dipende da diversi fattori dell’apparato mentale (es. disposizioni innate della mente,
qualità e caratteristiche dei legami tra sé e oggetto). Dalla maggiore o minore capacità materna di
introiezione, risulterà anche una capacità maggiore o minore di reintroiezione da parte della psiche
del bambino, pertanto la capacità di tollerare il dolore da parte della madre interagisce con quella
del bambino.
Il fallimento della funzione di “contenitore” (quindi anche della “funzione alfa” e della
“rêverie materna”) da parte della madre, come nel caso delle madri di pazienti psicotici, porta alla
situazione in cui le emozioni dolorose (elementi beta) rimangono non elaborate, elementi “non
digeriti” dalla mente, esperienze traumatiche che vengono restituiti al bambino sotto forma
emozioni “senza nome” (oggetti bizzarri), che non possono avere una significazione e che, tramite
l’eccessivo uso dell’identificazione proiettiva, vengono espulsi nel mondo esterno (es. acting-out).
Questo fallimento può avere conseguenze più o meni gravi nello sviluppo dell’apparato mentale del
bambino (es. sviluppo di disturbi della personalità, di psicosi, ecc.).
Bion (1965) sostiene che il dolore mentale, oltre ad essere un costituente della personalità e
dell’apparato psichico, è anche un elemento della psicoanalisi. Il dolore psichico, nell’ambito della
terapia psicoanalitica di Bion, chiama in causa tutte quelle situazioni in cui il paziente si oppone
inconsciamente allo sviluppo dell’analisi, cioè al progresso della conoscenza (K)33. Partendo
dall’esperienza clinica, Bion (1959) afferma un’idea che è molto cara a lui che si basa sull’aumento
della capacità di tolleranza il dolore che il paziente può progredire e procedere ai cambiamenti che
portano a curare: “una grande quantità di lavoro doveva essere fatta prima di qualsiasi aumento
della tolleranza si è verificato” (Bion, 1959), senza la quale i cambiamenti che si verificano durante
il processo psicoanalitico non possono aver luogo. Bion (1959) esamina l’uso della lingua del
paziente schizofrenico e sottolinea la sua incapacità di usare il pensiero verbale. Il pensiero verbale
intensifica e rende inevitabile il passaggio alla coscienza della realtà psichica e della depressione in
relazione alla paura della perdita dell’oggetto interno che sono sentite essere buone. Bion dimostra
che lo sviluppo della capacità di usare il pensiero verbale, che si verifica durante il processo
psicoanalitico, viene vissuta dal paziente schizofrenico come un processo violento, che metterà alla
prova la sua tolleranza alle emozioni dolorose della posizione depressiva (D).
In linea con Bion (1950), si deduce che l’inasprimento delle pene della “realtà psichica” è
posto come inevitabile e inerente al processo di crescita mentale, osservabile durante tutto il
processo psicoanalitico. Ma quella stessa esacerbazione di dolori psichici può portare una
33
K (Conoscenza): considerata da Bion, insieme a L (Amore) e H (Odio), tre principali esperienze emotive che si possono
manifestare durante il processo psicoanalitico e che rappresentano il primo livello di mappatura del transfert in seduta, che l’analista
effettua usando il proprio controtransfert.
42 regressione alla posizione Schizo-paranoide. L’intolleranza al dolore è concomitante con la
mobilitazione delle potenti difese contro il dolore, che mirano ad annullare o paralizzare il pensiero
e altre funzioni dell’Io. Questa affermazione è corroborata dal lavoro di Steiner (1993) che propone
il concetto di “rifugio della mente” come conseguenza dell’intolleranza del paziente al dolore
mentale. Secondo Steiner (1993), un rifugio della mente “può essere visto come una perversione
della verità, come un rifugio dalla realtà psichica e come difesa contro l'ansia e il senso di colpa”.
Nel formulare i modelli di riferimento per l'ambiente, come un recipiente in grado contenere e di
trasformare le proiezioni, Bion si allontana dalla visione kleiniana, che anche se ha contribuito in
modo determinante con il concetto di identificazione proiettiva, non elabora una teoria
dell’interazione tra contenuto e contenitore, che è invece indispensabile per comprendere i processi
di trasformazione, simbolizzazione, significazione e l’importanza dell’oggetto esterno per lo
sviluppo della capacità di pensare.
Molti corollari derivano dal modello bioniano:
a) dalla maggiore o minore capacità materna di introiezione risulterà anche una capacità maggiore
o minore di reintroiezione da parte della psiche del bambino che è ancora embrionale;
b) l’identificazione del bambino con la capacità materna del contenere rafforzerà lo sviluppo di
una capacità del contenere nel bambino, che aumenterà la sua capacità di contenere i propri
contenuti psichici, vale a dire le emozioni dolorose;
c) il fallimento di questa funzione materna può causare danni più o meno gravi nello sviluppo
dell'apparato mentale del bambino.
Bion (1959) attribuisce la genesi della personalità psicotica alla coniugazione di due fattori:
una predisposizione innata alla personalità psicotica e un ambiente sfavorevole, in cui la funzione
materna del contenere non riesce, cioè “il rifiuto della madre di fungere da deposito per i sentimenti
del bambino”.
In tutta l’evoluzione del pensiero di Bion, il problema della sofferenza mentale è visto come
un fattore fondamentale per la crescita emotiva, perché sviluppa i canali della capacità
dell’individuo che gli consentono di trasformarsi in quello che è, cioè in un proprietario specifico
della propria verità mentale. Così, la tolleranza/intolleranza al dolore mentale diventa paradigma del
processo di cambiamento psicoanalitico.
L’aggressività bloccata nella sua manifestazione esteriore si rivolta verso l’interno e fa si
che l’aggressore diventi la vittima, quindi essa si trasforma in dolore psichico. Ad esempio nelle
tossicodipendenze la persona spaventata proietta l’oggetto della sua ricerca su qualcosa che trova
sulla via e ci si aggrappa. Incorpora la meta sostitutiva e non se ne sazia mai. Cerca di placare la
“fame” con quantità sempre maggiori del medesimo nutrimento sostitutivo e non si accorge che
43 mangiando la fame aumenta.
Al di là del momento in cui l’oggetto, necessario per l’avvio di ogni movimento evolutivo, si
pone come mentalmente tale, vi è una fase fondamentale per lo sviluppo che corrisponde appunto
all’organizzazione del sè. In questa fase è importante il rapporto non su base istintuale ma su quella
dei bisogni e scambi che servono al bambino per giungere a un senso di sè. Per Winnicott (1954) è
la creazione del sè. Uscire dal sè per questi pazienti è uguale a morire. Il dolore mentale può
insorgere in questi pazienti come una estrema barriera di difesa contro questo pericolo. Fino a
quando la sofferenza dura e con essa l’angoscia di perdita di sè, questa garantisce la catastrofe. Da
qui la sua tenacia nell’opporsi al processo terapeutico. Secondo Sandler: in questa fase è possibile
che emerga anche un tipo di rassegnazione che può essere considerato come un tentativo di
eliminare la consapevolezza della discrepanza tra il Sé attuale e quello ideale. In definitiva si tratta
in questo caso di una forma di adattamento diverso dai processi di lutto.
Come già detto, secondo Sandler (1980), dal punto di vista dell’Io esistono diversi tipi di
risposta al dolore psichico ma quello più importante è l’individuazione34 che viene definita come un
processo normale dello sviluppo in cui vengono abbandonati da parte dell’Io (ovvero ritiro
dell’investimento), ai fini dell’adattamento, gli stati ideali di benessere del passato e si elaborano
nuovi ideali ego-sintonici e più adatti alla realtà (che devono essere in grado di ridurre in conflitti,
quindi possono essere considerati come formazioni di compromesso egisintoniche).
Sandler (1980) mette in relazione il processo di individuazione con lo sviluppo normale del
soggetto; il bambino, durante lo sviluppo, sperimenta costantemente un senso di discrepanza tra
stato attuale e ideale del Sé e successivamente la progressiva valutazione della realtà da parte del
bambino stesso (grazie a nuove potenzialità e capacità acquisite ed esperienze vissute), rende
necessaria l’abbandono di stati ideali del Sé vissuti in precedenza come soddisfacenti, per crearne di
nuovi ai fini dell’adattamento. Questo abbandono avviene però con un minimo di dolore ed è simile
al processo del lutto, cioè il dolore associato al fatto che si devono abbandonare stati ideali infantili
del Sé che in passato erano ego-sintonici, ma che ora sono diventati ego-distonici. Ciò porta a
processi di maturazione e quindi ad una nuova fase dello sviluppo.
Sono diverse le teorie sull’individuazione. Secondo Jung (1921) si tratta di un processo di
formazione, differenziazione e di sviluppo psicologico dell’individuo dal punto di vista psicologico
come essere distinto dalla generalità e dalla collettività, in quanto il fine ultimo dell’individuazione
è lo sviluppo della personalità individuale. Secondo Fromm (1941) l’individuazione è un processo
dove c’è un emergere dell’individuo dai suoi legami originari, infatti il concetto viene spiegato in
34
Individuazione: letteralmente significa “azione o processo di individuarsi, ovvero processo che porta ad una esistenza
individuale; condizione di essere un individuo, individualità, identità personale” (AA.VV. 1976).
44 termini di relazione tra l’individuo e la società; il processo di differenziazione del soggetto dalla
società può portare senso di sicurezza e angoscia o può portare ad un nuovo rapporto con gli altri se
il bambino è stato capace di costruire dentro di sé una sufficiente forza e produttività. Mahler
(1968, 1975) ha studiato le fasi dello sviluppo psicologico nel bambino identificandone tre fasi:
“autismo normale35”, “fase simbiotica36” e “fase di seprazione-individuazione37”. In quest’ultima il
bambino parla e cammina, delimita la propria entità individuale dalla primitiva unione simbiotica
con la madre; si verifica una separazione della rappresentazione mentale del proprio Sé da quella
della madre, unita al consolidamento e alla maturazione delle funzioni autonome dell’Io. La
deambulazione permette al bambino di separarsi dalla madre e di essere contento di questa nuova
indipendenza e padronanza, ma questa situazione di separazione può indurre nel bambino anche
sentimenti di angoscia anche in presenza della madre (ciò è in contrasto con le situazioni di
separazione traumatica del tipo descritto da Bowlby).
Secondo Sandler (1980) il processo di individuazione porta nel bambino un po’ di
sofferenza che però è minima in quanto viene resa tale dal fatto che il bambino sviluppa nuove
capacità, attività, funzioni e stati ideali del Sé (ciò è insito nello sviluppo del funzionamento
autonomo e nei processi di sviluppo). Secondo l’autore, l’individuazione comporta:
a) la rinuncia a stati ideali del Sé che ormai sono inappropriati, ego-distonici, non più utili ai fini
dell’adattamento (es. rinuncia alla dipendenza dagli oggetti esterni per ottenere benessere, ecc.);
b) l’acquisizione di nuovi ideali maggiormente adatti alla realtà, specifici per ogni nuova fase dello
sviluppo;
c) il graduale raggiungimento del piacere della funzione e del padroneggiamento (con un
investimento di valore su queste conquiste recenti) importanti per la formazione di ideali più
adatti alla realtà;
35
Fase autistica normale (0-1 mese): prima fase della nascita psicologica del bambino dove prevalgono i processi fisiologici
piuttosto che quelli psicologici per il mantenimento dell’equilibrio omeostatico; il neonato sembra trovarsi in uno stato di primitivo
disorientamento allucinatorio in cui la soddisfazione dei bisogni è legata alla propria sfera autistica onnipotente, infatti non c’è
percezione del mondo esterno, la soddisfazione dei bisogni (es. fame, sete, sonno, ecc.) non è sentita come proveniente da agenti
esterni.; ciò che accade viene vissuto dal neonato come centrato su di sé senza tenere contro della madre; è caratterizzata da una sorta
di “conchiglia autistica”, una barriera che protegge l’apparato immaturo e rudimentale del bambino che lo porta a trovarsi in una
sorta di situazione di isolamento (relativa insensibilità a gli stimoli esterni).
36
Fase simbiotica normale (2-5 mesi): seconda fase della nascita psicologica del bambino in cui c’è una rudimentale
consapevolezza di un oggetto (madre) che soddisfa i bisogni del neonato anche se l’Io non è ancora differenziato da Non-Io, infatti
c’è l’illusione di un confine comune che racchiude due individui separati, la madre ed il bambino, ma che vengono percepiti dal
bambino stesso some una cosa unica; la barriera contro gli stimoli si incrina, quindi il bambino è più reattivo (es. il bambino inizia a
sorridere di fronte al viso della madre, ecc.) anche se non è ancora in grado di realizzare le azioni sul mondo esterno e comincia
vagamente a percepire che la soddisfazione dei suoi bisogni proviene da un oggetto non specifico esterno; compaiono le prime isole
di memoria.
37
Fase separazione-individuazione (5-36 mesi): fase caratterizzata da un aumento della consapevolezza della separazione di
Sé dall’altro, della propria individualità e del mondo esterno; separazione: indica il superamento della fusione simbiotica del bambino
con la madre; individuazione: indica l’acquisizione di proprie caratteristiche personali individuali, compresa la costanza oggettuale
(consapevolezza del Sé come separato dall’oggetto); sono processi interconnessi e possono procedere in tempi diversi; è composta da
quattro sottofasi: sottofase di differenziazione (5-10 mesi), sottofase di sperimentazione (10-18 mesi), sottofase di riavvicinamento
(18-24 mesi) e sottofase del consolidamento dell’individualità ed inizio della costanza oggetto emotivo o d’amore (24-36 mesi).
45 d) spesso si può accompagnare anche ad un certo grado di regressione temporanea a precedenti
stati ideali o idealizzati, regressione del tipo che normalmente si osserva nel corso dello
sviluppo normale.
Inoltre Sandler sostiene che l’individuazione è influenzata da diversi fattori tra cui:
a) fattori costituzionali (es. predisposizione a certe difese, soglie di frustrazione e scarica,
differenze negli apparati di autonomia primaria, variazioni pulsionali, ecc.);
b) sostegno dell’ambiente esterno nelle varia tappe dello sviluppo;
c) intensità delle angosce nelle diverse fasi evolutive;
d) punti di fissazione pulsionale e caratteristiche del Super-Io.
E’ importante sottolineare che, rispetto al processo di individuazione, nella Mahler il dolore
è legato al pericolo della perdita dell’oggetto, mentre in Sandler il dolore deriva dalla necessità di
rinunciare, da parte del bambino, a stati ideali del Sé che egli ha sperimentato nella precedente “fase
simbiotica”. Secondo Sandler (1980) la rappresentazione della madre (dopo che si è raggiunto un
certo livello di sviluppo) è il mezzo più importante per raggiungere stati di benessere tramite la
percezione.
Per Sandler, nel corso dello sviluppo, il soggetto si confronta continuamente con situazioni
che richiedono nuovi processi di individuazione, in tutte le fasi della vita, in particolare quando il
soggetto si trova di fronte a situazioni di crisi e di compiti determinati da processi di sviluppo e
dall’interazione individuo-società.
Si può dire che per Sandler, l’individuazione rappresenta il modo più importante ai fini dello
sviluppo, per affrontare il dolore che deriva dalla discrepanza rappresentazionale tra stati del Sé
(ideale e attuale), in quanto implica una sorta di “rielaborazione” per ottenere nuovi adattamenti e
stati di benessere e sicurezza; infatti quando il processo di individuazione procede senza
impedimenti, i vantaggi che derivano da questi stati controbilanciano e minimizzano il dolore e la
sofferenza che deriva dal dover abbandonare precedenti stati ideali del Sé. L’individuazione può
fallire per diversi motivi con conseguenti risposte di fronte al dolore, come la “reazione
depressiva”38. Negli stati di dolore, di qualsiasi tipo, c’è una perdita di benessere e l’Io ha diversi
modi per cercare di ristabilire uno stato affettivo ideale, usando le difese, cercando di ricreare
regressivamente
situazioni
ideali
passate
o
elaborando
progressivamente
nuovi
ideali
(individuazione). Nel corso dello sviluppo, il soggetto può salvaguardare alcune rappresentazioni
del Sé ideale che riflettono stati precedenti di soddisfacimento pulsionale, anche se le pulsioni
possono aver proseguito la loro via di sviluppo; l’individuazione normale implica quindi variazioni
del Sé Ideale appropriate alla progressione pulsionale, ma ci può essere il problema della
38
46 Per Sandler non si può sostenere che la depressione sia una precondizione ed un prerequisito per l’individuazione).
discrepanza tra progressione pulsionale e variazioni nel contenuto del Sé Ideale (es. persone in cui
si verificano variazioni nel Sé ideale che sono in anticipo rispetto allo sviluppo pulsionale; come nel
caso di persone superdotate che hanno raggiunto un adattamento buono tramite ciò che viene
definito pseudo individuazione, che si basa su una identificazione magica e globale con un oggetto
idealizzato) (Sandler, 1980).
Secondo Balint (1990) la meta originaria di tutte le relazioni oggettuali è il desiderio
primitivo che “devo essere amato senza che io sia obbligato a ricambiare”. Le relazioni oggettuali
adulte (di amore e di odio) sono formazioni di compromesso tra questo desiderio originario e
l’accettazione della realtà. Sandler, accetta l'idea di Balint secondo cui l’adattamento alla realtà
implica l’accettazione del dispiacere e l’abbandono di certe parti della personalità, però preferisce
formulare questo concetto in termini di accettazione del dolore, rinuncia a stati infantili ideali del Sé
e sacrifici nel rinunciare a modalità infantili di soddisfacimento pulsionale.
Una persona è solo in minima parte consapevole dello stato emotivo spiacevole (ricerche
sulle difese percettive hanno messo in evidenza che possono essere presenti stati emotivi anche se
non sono sperimentati consciamente, es. angoscia inconscia).
Inoltre il processo di individuazione è condizionato dal tipo di attaccamento sperimentato.
L’attaccamento39 è descritto come una specie di “sintonizzazione” biopsicologica che avviene in
tutte le fasi della vita. Risponde a bisogni di modulazione della stimolazione e dell’eccitabilità. E’
attraverso il processo di sintonizzazione madre-bambino che divengono “un sistema interattivo”
passando da un livello biosociale a un livello biopsicologico. Questa sincronia, espressione di
attaccamento, si può osservare non solo nella relazione madre-bambino, ma anche nel gruppo, nelle
coppie e nella relazione terapeuta-paziente. La separazione e la perdita generano cambiamenti
neurofisiologici come nel lutto e alcuni di questi possono essere permanenti soprattutto se si
verificano nell’infanzia. Di conseguenza gli individui possono diventare più sensibili, ad esempio
agli eventi stressanti.
La capacità di indirizzare le azioni adattative implica sia la possibilità di azioni finalizzate a
modificare l’ambiente in funzione delle necessità del soggetto, sia l’eventualità di intraprendere una
39
Attaccamento o relazione di attaccamento: è quella particolare relazione stabile che si instaura tra il bambino e l’adulto che
si prende cura di lui (madre o caregiver), sulla base degli scambi interattivi che si svolgono tra i due; esso ha la funzione di garantire
il benessere e la protezione dell’individuo; è definito dalla presenza di tre caratteristiche: la ricerca della vicinanza di una figura
preferita, l’effetto base sicura (ovvero trovare nell’altro un punto di riferimento stabile sicuro) e la protesta per la separazione.
Vengono descritte 4 modalità di relazione d’attaccamento (Strange Situation) :
•
A → Evitante: bambino apparentemente indifferente (si disconnette), aggressivo verso pari e mamma prevalentemente
trascurante e rifiutante (in particolare al contatto corporeo), più collerica e minacciosa, deride ecc.(spesso abusante anche
fisicamente).
•
B → Sicuro: il bambino protesta e cerca coccole alla riunione; mamma disponibile.
•
C → Ansioso: bambino appiccicoso, ansioso, ambivalente rabbioso; mamma poco sensibile al pianto e alla
comunicazione.
•
D → Disorganizzante/disorientante: bambini “intontiti”, bloccati, apparentemente depressi, confusi ecc.; spesso si è
riscontrato un grave trauma (Simonelli et al., 2005).
47 modificazione di caratteristiche soggettive per ottenere un migliore adattamento all’ambiente
circostante.
Il dolore nel rapporto terapeutico
“Date parole al dolore: il dolore che non parla bisbiglia
al cuore sovraccarico e gli ordina di spezzarsi”.
Macbeth, atto 4, scena 3
Il contatto con l’esperienza del dolore suscita la necessità di coglierne il significato.
Nell’ambito psicoterapeutico, il riconoscimento del dolore del paziente rappresenta un importante
step iniziale rispetto all’accoglienza, all’espressione, alla comprensione, alla condivisione e
all’elaborazione dello stesso.
Come è già stato sottolineato, il dolore è una esperienza soggettiva pertanto si può
manifestare in diversi modi40 ma è rilevante esprimerlo in modo vivo e nello stesso tempo, cercare
di dargli una forma. Le modalità con cui esso si manifesta sono determinate dalla storia e dal
carattere dell’individuo, dal suo modo d’essere, dalle caratteristiche della sua personalità, dal suo
credo, dai suoi valori e solo all’interno di tutto questo, possono trovare forma e ragione gli
interrogativi che lo accompagnano, così come le risposte che egli troverà per reggerlo e superarlo
(Neri, 2002).
Esprimere il dolore non significa gridare. Gridare può aiutare a fronteggiare, alleviare e
gestire temporaneamente il dolore e soprattutto l’ansia. L’espressione adeguata del dolore,
sostituisce la manifestazione immediata, con un’altra che contiene un potenziale elevato di
comunicazione e di relazione. Per esprimere il dolore, è necessario avere una sufficiente autostima o
sentimento di sicurezza di base. Non tutti si sentono all’altezza di avere dolori (e quindi neanche
gioie). Chi non può avere dolori, spesso, si ripiega su se stesso in una condizione di torpore senza
immagini e pensieri (Neri, 2002).
I pazienti abitualmente sentono di sentire le proprie emozioni. Nel caso in cui, però, provino
a comunicarle, alcuni non hanno a loro disposizione un gran vocabolario. Il terapeuta dovrebbe
imparare a riconoscere i diversi nomi e le diverse manifestazioni che ogni paziente dà alle differenti
forme del dolore e della sofferenza ed aiutarli nell’esprimerlo (Rouchy, 1998).
L’acting-out come difesa dal dolore, mina il lavoro terapeutico. È simile alla somatizzazione
in quanto mira a scaricare sul soma la tensione per diminuirla, come per l'agire, anche se questo
aumenta il dolore stesso.
40
Per esempio a livello verbale può manifestarsi nel dialogo, nelle vocalizzazioni, nei gemiti e nei lamenti, tramite tristezza,
strazio, rassegnazione, speranza, ecc.; a livello non verbale può manifestarsi per esempio attraverso la mimica, la tensione muscolare,
la rigidità, la protezione di parti del corpo, l’attività-inattività, il pianto, ecc.
48 Il terapeuta dovrebbe ascoltare con considerazione ciò che il paziente sta dicendo;
parallelamente guardare, in che modo egli appare in seduta e prestare attenzione a ciò che gli fa
provare41. Dal confronto tra queste tre fonti d’informazioni, può emergere una maggiore
comprensione dei sentimenti e delle emozioni (Neri, 2002).
Nel processo di accoglienza ed espressione del dolore psichico risulta importante la
possibilità di favorire le verbalizzazioni rispetto ad esso (con eventuale aumento della soglia di
tolleranza), l’ascolto attivo senza pensare di dover dare soluzioni immediate, l’empatia42 e la
relazione tra paziente e terapeuta (Neri, 2002).
Dal punto di vista psichico il dolore più difficile da affrontare è quello senza parole, non
pensabile ma sempre presente, che blocca. E’ il luogo dove l’individuale e il totale si intrecciano in
modo indissolubile e solo questo riverbero universale consente di poterlo comunicare e di renderlo
intelligibile all’altro. Senza questo rimarrebbe muto, intransitabile; solo quell’aspetto ci consente di
poterlo riconoscere e sentirlo anche quando non ci appartiene direttamente attraverso l'empatia ed il
rispecchiamento43. Il dolore dell’altro viene percepito come un dolore possibile per se stessi e il
riconoscimento di questa eventualità, peraltro fino a quel momento scongiurata, coinvolge chi sta
accanto al sofferente in quanto se ne presagisce l’intensità o la violenza: ognuno di noi sente di
potere essere candidato a quel dolore. Sappiamo che questo sentimento costituisce la base
dell’empatia: termine da tutti conosciuto, soprattutto nelle professioni d’aiuto, per indicare la
capacità di sentire come l’altro rimanendo sé stessi. Vi sono molteplici modi di vivere
un’emozione: lo stato emotivo si può esperire soggettivamente a vari gradi di intensità e con
differenti stati corporei interni; questi stati corporei possono, o meno, sfociare in un comportamento
manifestamente espressivo di tale emozione coinvolgendo vari distretti corporei (il più comune è il
viso). Possiamo dunque fare esperienza di uno stato emozionale, esprimerlo con il nostro corpo, ma
non avere piena consapevolezza della emozione stessa, oppure non essere in grado di verbalizzarla
(es. afasia). Pertanto le esperienze emozionali possono avere una consapevolezza di tipo implicito,
centrata sul proprio stato corporeo oppure possono essere associate ad una piena consapevolezza
dello stato fenomenico. Ciò che qui risulta importante è che è possibile assistere ad una
manifestazione evidente di una particolare emozione da parte di un’altra persona senza che questa
ne faccia riferimento con una descrizione verbale; in altri termini è possibile una comprensione
implicita delle emozioni altrui. L’incapacità di sviluppare in modo pieno e compiuto una
41
Controtransfert o controtraslazione: specifiche risposte del terapeuta alle specifiche induzioni di ruolo del paziente; legato
al concetto di relazione di ruolo, termine che indica l’attitudine e la predisposizione di una persona ad aderire al ruolo “proposto” e a
rispondere in base a quel ruolo; visto non come una resistenza dell’analista, ma come uno strumento che egli può usare per
comprendere il paziente.
42
Empatia: capacità di sentire come l’altro, di mettersi nei suoi panni, rimanendo sé stessi.
43
Teoria dei neuroni a specchio: la comprensione dell’altro avviene attraverso un processo di simulazione incarnata.
49 consonanza intenzionale agli altri ha come conseguenza lo sviluppo di una forma deficitaria e
lacunosa di molteplicità condivisa, come invece si cerca di fare nel rapporto terapeutico.
Nel rapporto empatico con il dolore, l’intuizione svolge un’importante funzione. Il carattere,
spesso molto intenso dell’impatto doloroso, rende necessaria una percezione rapida e quindi
l’impiego dell’intuizione.
E’ importante dare voce e senso al dolore, facendone oggetto di comunicazione nel contesto
del rapporto clinico. Ciò implica anche comprendere il vissuto globale dell’esperienza (per esempio,
perdita, handicap, prova di coraggio, sentirsi prigioniero, ingiustizia, ecc.), ascoltare le
preoccupazioni rispetto al futuro incerto, permettere l’espressione delle emozioni (come per
esempio, paura, tristezza, ansia, rabbia, collera, delusione, ecc.), credere al paziente quando esprime
dolore, non banalizzare, negare, sdrammatizzare la preoccupazione legata al dolore e alla sofferenza
(Neri, 2002).
Per condividere il dolore è essenziale esprimerlo in modo vivo e nello stesso tempo dargli
una forma. Chi condivide il dolore deve essere intensamente partecipe, ma, evitare ogni
ripiegamento intimistico. Questo atteggiamento potrebbe favorire una tendenza del paziente a
lasciarsi andare alla passività. Il dolore psichico, se viene elaborato, é fruttuoso e l’elaborazione
però richiede, come avviene per il dolore del parto, l’attiva partecipazione della persona stessa che
sta soffrendo. “Un’indulgenza intimistica, inoltre, aumenterebbe il rischio di un indebolimento
della capacità di pensare dell’analista” (Corrao, 1986). L’analista, disponendosi a partecipare del
dolore del paziente, corre il rischio di prenderne a prestito anche la più generale attitudine verso il
ritiro e la depressione e quindi verso una ridotta attività mentale. Spesso una rianimazione dei
sentimenti consente più facilmente, che dopo che si è stabilito un contatto emotivo, che si possano
presentare il dolore ed anche la disperazione, che precedentemente erano soffocati nella stagnazione
(Corrao, 1986).
Nella relazione terapeutica, gli scambi hanno lo scopo di rimettere in movimento il
linguaggio. Essi fanno trovare dei punti caldi e dei punti dolenti e riattivano una rete di relazioni
umane, parole e memorie latenti. Il dolore, inserito in questa rete, acquista progressivamente un
“calore segreto” che lo rende più condivisibile (Arrigoni et Barbieri, 1998; De Martino, 1964; Neri,
2002).
E’ interessante notare che, le parole che si usano per descrivere il dolore sociale sono le
stesse che si usano per descrivere il dolore fisico: “sono stato ferito” dal licenziamento,
dall’indifferenza alla mia richiesta di aiuto, di lavoro, dal taglio della pensione; “è stata lesa la mia
dignità”. Ferite, lesioni, colpi che non lasciano segni sul corpo, ma che, da quello che ormai
sappiamo sul cervello, colpiscono le stesse aree che recepiscono il dolore fisico. Il sentimento di
50 emarginazione dalla vita sociale viene elaborato dalle aree corticali che valutano il significato di un
calcio su uno stinco (per non indicare un’altra area somatica ben nota). È qui che il dolore viene
riconosciuto, valutato ed emozionalmente “pensato”. Sembra che il dolore sociale venga elaborato
da questo circuito e c’è un influenzamento reciproco tra dolore sociale e dolore fisico. Del resto
perché stupirsi: noi esseri umani siamo sociali. Il legame con il gruppo è la condizione per
sopravvivere e riprodursi. L’esclusione sociale ove non desiderata può mettere confronto con la
morte; i suoi passi intermedi causano dolori lancinanti.
Ci sembra utile fare un riferimento al Mito di Chirone. Nel mito, Chirone è una figura
positiva e luminosa. Ma lo era già prima di essere ferito e dopo il ferimento, cesserà di esserlo
costretto dal dolore a languire in solitudine. Questa censura sembra significativa perché di fatto
rileva una separazione fra le due dimensioni del guaritore e del ferito, richiamando una condizione
di scissione di quella dimensione archetipica unitaria della cura per la quale il guaritore è veramente
tale quando è contemporaneamente ferito. L'unilateralità dell'impianto valoriale che sostiene
l'idealizzazione del ruolo di terapeuta, sembra quindi segnalare una condizione negativa che
ostacola l'esperienza integrale della cura. Il punto fondamentale di connessione tra paziente e
terapeuta è la ferita, elemento di unione che annulla ogni differenza. La ferita è una frattura che
scardina gli equilibri, uno squarcio che lacera gli equilibri di Chirone, che lo rende vulnerabile. La
consapevolezza della propria ferita è necessaria al terapeuta; affinché egli curi, avremo bisogno non
solo della sua competenza tecnica ma anche del sentimento che il terapeuta, che non dimentica la
sofferenza, può utilizzare. La ferita compromette la visione che abbiamo di noi e del nostro mondo.
Jung (1960) ha scritto che “è possibile che stiamo guardando il mondo dalla parte sbagliata e che
potremmo trovare la risposta giusta se cambiassimo punto di vista e lo considerassimo dalla parte
opposta, ossia non dall’esterno ma dall’interno”. Un esempio può essere rappresentato dai pazienti
grandi obesi; essi presentano un dolore dilagante senza limiti ma visto dall’esterno spesso viene
confuso con scarsa volontà, esponendo la persona ad una esperienza giudicante e nuovamente di
non adeguatezza. Nessuna terapia è possibile se l’individuo non si accosta ad ascoltarne il
contenuto, poiché nel suo mistero si nasconde la storicizzazione di un archetipo. Invece dovremo
avvicinare l’occhio alla ferita, intimamente prendendocene cura. La ferita si trasforma in feritoia,
avvicinandosi a quella lacerazione che un occhio distratto definirebbe uno sgradevole squarcio. Più
il terapeuta crede di essere sano, e che il “guasto” sta solo in chi gli sta di fronte, più cresce la
distanza tra i poli tra ferito-guaritore. Il rischio per lui sarà di installarsi su un unico polo,
ovviamente quello del guaritore, con il quale finirà per identificarsi, sbarazzandosi della propria
umana realtà, della propria debolezza per proiettarla a chi gli sta vicino, ai pazienti, ai colleghi, ai
familiari, agli amici, ecc. (Mondo, 2012). Chirone volle morire ma la sua stessa immortalità lo
51 condannava a una vita eterna di dolore. Fu preda della disperazione. La ferita era infetta e puzzava.
Insieme al dolore cominciò la solitudine abissale di chi non ha mai pace, di chi si sente abbandonato
dalla voglia di vivere. Spesso questo accade nelle nostre vite e in quelle dei nostri pazienti: la
fantasia di essere totalmente impotenti di fronte alla malattia… di non farcela di fronte ai nostri
complessi… Il desiderio di morire di Chirone, corrisponde alla fantasia di farla finita, di metterci
una croce sopra ai nostri complessi. Ma paradossalmente è proprio questa impossibilità di fuggire,
questa “Coincidentia Oppositorum” tra Vita e Morte, questo doversi rassegnare alla sofferenza
mantenendo la vita, che permette di fare il passo successivo. Chirone infatti ogni giorno, prima di
prendersi cura dei suoi allievi, era costretto a prendersi cura di sè e della propria ferita per poter poi
essere efficiente e presente al suo ruolo. Qui, accanto all’aspetto demiurgico del sapere e dell’arte,
emerge il dolore contenuto nella comune matrice umana, corporea e mortale, che unisce, al di là dei
ruoli, medico e paziente (Porzio, 2012).
Per poter curare, il medico non deve mai pensarsi separato dal suo aspetto di paziente. Per
Jung (1960) lo strumento più efficace dello psicoterapeuta è la sua personalità. Quindi,
implicitamente, l’unica disciplina efficace per lo psicoterapeuta è la coltivazione incessante ed
inesauribile di quella stessa personalità e salute. La pariteticità di psicoterapeuta e paziente, ha il
suo limite nell’unica disparità reale e moralmente consentita, che è quella di un maggior progresso
nella costituzione della personalità da parte del terapeuta rispetto al paziente. “La situazione
analitica è l’incontro di due pazienti, uno dei quali ha cominciato la sua analisi prima dell’altro.”
(Porzio, 2012). Con i pazienti borderline o con una struttura narcisistica della personalità ci si trova
di fronte, di fatto, alla sofferenza prodotta da una mancanza di limiti; incertezze sulle frontiere tra
l’Io psichico e l’Io corporeo, tra reale e ideale; tra ciò che dipende da sè e ciò che dipende dagli altri
(Porzio, 2012).
Soprattutto nelle prime fasi dell’analisi, accogliere i pazienti in modo incondizionato e
rispecchiarli nei sentimenti profondi è il primo passo per farli entrare in contatto con il loro corpo e
le loro emozioni. Compito cruciale quello di trasmettere ai pazienti che esiste uno stato mentale, i
cui contenuti possono essere degni di essere pensati e letti in modi diversi, e che questi possono a
loro volta essere cambiati senza la necessità di essere messi in atto, o immediatamente censurati
perché inaccessibili all’esperienza diretta. Questo processo da occasione di entrare in contatto con il
mondo delle sue pulsioni e di esprimere fantasie che siano frequentemente oggetto di profonda
vergogna, soprattutto in riferimento a desideri inesprimibili o proibiti. A questi passaggi del
percorso analitico corrisponde la graduale acquisizione da parte dei pazienti della capacità di entrare
in contatto sia con una dimensione di se stessi più attiva e intraprendente in modo sempre più reale
ed equilibrato. Iniziado così, in altri termini, a poter esprimere le potenzialità della sua identità
52 personale. Sembra che l’avvio di un percorso di differenziazione da un’Imago materna potente, stia
gradualmente restituendo ai pazienti la possibilità di cominciare a percepire la dimensione corporea,
non come l’aggregazione casuale di organi tenuti insieme da un principio gerarchico, ma come
un’unità sostenuta dall’istinto. È come se “l’intatto, cioè una coscienza priva di sensi corporei, inizi
a incontrare il tattile, il corpo sensuoso. Tatto, contatto, connessione. questo è cruciale per la
metafora che si sofferma in tal modo sul linguaggio del corpo”. Il paziente può cominciare ad
accettare le ragioni sia del piacere che della realtà.
Secondo Fleming, (2006, 2008) e altri autori (Badaracco, 2000; Barale et Ferro, 1993; Ferro,
1998; McDougall, 1990), la capacità dell’analista di tollerare il dolore, così come la sua capacità di
accogliere e metabolizzare le emozioni dolorose del paziente, deve essere sfruttata al meglio, una
“conditio sine qua non” per la capacità del paziente di crescere. Bion (1965) applica il modello
contenitore-contenuto anche alla pratica clinica, infatti la psicoanalisi viene vista come lo sviluppo
della relazione contenuto-contenitore comprendendo anche i meccanismi transferali e
controtransferali, perché l’analista non può cercare di conoscere il paziente senza rimanere
emotivamente coinvolto e senza partecipare alla sua sofferenza e al suo dolore. Bion (1967) ipotizza
che l’analista deve essere in grado di accettare, contenere e trasformare i contenuti psichici dolorosi
(“elementi beta”) espulsi dal paziente tramite l’identificazione proiettiva e restituirglieli in un modo
che sia più tollerabile e accettabile dalla sua mente (Bion, 1959). Considerando la situazione
analitica secondo il modello contenitore-contenuto, l’analista offre il suo “contenitore” e la sua
“funzione alfa” per “digerire” i contenuti mentali del paziente che sono associati al dolore mentale.
In seguito, questi contenuti psichici, trasformati in una forma più tollerabile, vengono messi a
disposizione del paziente che riesce a metabolizzarli maggiormente e ciò gli permette di
“disintossicarsi” dall’eccesso di sofferenza che caratterizzava la sua precedente situazione. Il
successo della trasformazione dell’intollerabile emozione dolorosa (emozione senza significato), in
un’emozione che può essere tollerata e in pensiero, aumenta l’efficienza di contenimento (capacità
di rêverie, funziona alfa) del paziente. Questa nuova condizione permette al paziente di ristabilire
un equilibrio a livello cognitivo, emotivo ed affettivo, equilibrio necessario per la crescita emotiva
all’interno del suo Io. Il lavoro dell’analista è quello di aiutare il paziente a modificare il dolore
mentale in sofferenza psichica, ovvero riattivare in lui la catena di trasformazioni che genera il
pensiero. Se l'aumento della tolleranza del paziente al dolore permette alterazioni psichiche durante
il processo psicoanalitico, questi cambiamenti possono diventare una fonte di nuove emozioni
dolorose e di intolleranza. Questo è ciò che viene mostrato in relazione alla acquisizione della
capacità di utilizzare il pensiero verbale (Fleming, 2006).
53 Il cambiamento psichico che avviene durante il processo psicoanalitico comporta l’aumento
della capacità di tollerare il dolore mentale e quindi di progredire con la terapia, ma allo stesso
tempo comporta sofferenza psichica e/o dolore mentale, quindi l’intolleranza/tolleranza al dolore
mentale diventa un paradigma del processo di cambiamento psichico (Fleming, 2008) e l’esperienza
analitica è una esperienza emotiva che ha caratteristiche dolorose. Si possono trarre alcune
implicazioni cliniche: se, da un lato, la psicoanalisi mira a diminuire la sofferenza del paziente, il
processo psicoanalitico deve invece necessariamente creare nel paziente, se questo non esiste
ancora, una capacità sufficiente per tollerare il dolore, cosicché può effettuare le modifiche
necessarie per le esperienze di frustrazione, che sono inevitabilmente state imposte dal contatto con
la realtà esterna ed interna, e anche dai cambiamenti psichici che il processo di crescita mentale
comporta.
La psicoanalisi implica la sofferenza psichica, non perché non vi è necessariamente un
valore in essa, ma perché l’analisi deve considerare anche uno dei motivi principali per cui il
paziente è arrivato: i suoi dolori mentali, più o meno nascosti, più o meno incapsulati in “false
dichiarazioni”. Ma l’esperienza psicoanalitica deve aumentare la capacità del paziente di tollerare il
dolore, senza la quale il dolore non può essere trasformato, anche quando sia l’intenzione
dell’analista che quella del paziente è quella di diminuire la sofferenza psichica. Infatti, l’esperienza
clinica dimostra che il dolore mentale del paziente non può che trovare un contenitore nel processo
psicoanalitico, ossia nello spazio/tempo di un rapporto a lungo termine con un altro affidabile e
disponibile, purché l’analista sia non danneggiato dalla distruttività del dolore mentale del paziente.
Utilizzando il transfert, i pazienti usano l’analista per offrire a se stessi di nuovo l’opportunità di
rivivere, in un contesto diverso, il dolore o trauma che ha causato il loro dolore mentale. La terapia
è un lavoro di costruzione reciproca che comporta un lavoro di parola e di ricerca.
Nello spazio analitico “ciò che può essere condivisa non è il dolore, ma la difesa contro di
esso” (Anzieu, 1985).
I pazienti hanno bisogno di elementi di verità che li aiutino a trovare il senso della loro
esistenza e dei loro sintomi. Di fronte al dolore la verità non ha un significato assoluto, ma significa
riconoscimento degli aspetti emotivi, cioè di tutta quella gamma di affetti che spesso rischiano di
rimanere incapsulati, avvolti in una dimensione di negazione e scissione. Senso e verità, nessi e
legami consentono di legare energia e rappresentazioni e dare forma ai fantasmi che si
contrappongono all’esperienza dell’angoscia.
Gaddini (1978) con il termine dolore mentale propone di intendere un tipo di sofferenza che
insorge nel corso di un trattamento, e che può essere di intensità e durata variabile. Ha osservato
inoltre che in certi pazienti il dolore fisico equivale a una collocazione somatica di dolore mentale,
54 che non è sperimentabile come tale perché non è tollerabile nell’assetto economico della mente.
Afferma che se si volesse rappresentare il dolore mentale con qualcosa che si conosce, si dovrebbe
pensare a qualche forma di depressione. Sono note le depressioni che insorgono durante l’analisi
ma si tratta in genere di depressioni che fanno parte del processo terapeutico e come tali sono
provviste di aspetti dinamici ed evolutivi anche se fondati su processi economici.
Ogni rapporto terapeutico è unico e irripetibile in quanto svolto da due persone uniche e
dove anche il terapeuta entra in gioco risonando diversamente a seconda dei suoi personali
contenuti emotivi.
Ciò che non deve essere mai perso di vista nell’approccio al paziente è la persona che si ha
di fronte, con la sua storia, con il suo dolore, ma che in realtà serve a degli scopi ed ha significati
che molto spesso sono piuttosto irrazionali, illogici e inconsci (Corea, 2005).
La trascrizione illumina la natura del dolore mentale che è dominato da silenzi e l’incapacità
di usare parole o immagini. Si mostrano anche che i suggerimenti dell’analista possono aiutare il
paziente a trasformare il dolore mentale nella sofferenza psichica che può essere comunicata con
immagini e rappresentazioni.
Esistono anche situazioni dove la patologia è funzionale ai giochi del sistema familiare, che
di conseguenza si opporrà, in modo mascherato, alla rimozione del sintomo (tutti i sistemi tendono
all’omeostasi) o dove un membro della famiglia esprime al posto di tutti gli altri membri le
difficoltà emotive (paziente designato).
Nella relazione terapeutica la narrazione viene riconosciuta come strumento protettivo
rispetto allo sviluppo: “l’evoluzione della mente umana ha… consentito di fare molto di più che
trasmettere comportamenti per imitazione, ci ha consentito di sviluppare un linguaggio ed un
pensiero in grado di rappresentare e manipolare la realtà (di superarla anche con la fantasia e
l’immaginazione) mediante dei simboli” (Lazzari 2009).
“L’idea che la normalità non risiede nell’assenza di stress ma nella possibilità di viverlo in
modo equilibrato, di poter imparare a gestirlo, di poterlo attenuare con la vicinanza ed il conforto
di figure protettive, trova conferma negli esperimenti” (Lazzari, 2009). Risulta interessante
l’analogia tra stress e narrazione: entrambi fanno parte della vita e la narrazione si fa risorsa interna
per fronteggiare lo stress, in quanto capace di produrre riflessione, elaborazione, pianificazione e
favorire quella consapevolezza di sè, delle proprie aspettative, delle proprie capacità, dei propri
limiti che Lazzari (2009) indica come strumento d’elezione per ridurre il danno di un fattore
stressante. L’autore dice: “lo stress, quando diventa eccessivo e prolungato… ruba il tempo della
riflessione, dell’elaborazione dell’esperienza soggettiva, un tempo personale e non solo anonimo, il
tempo di quei momenti che ci servono a mantenere un rapporto di senso tra noi e le cose… lo stress
55 eccessivo sembra che ci fa volare in avanti ma in realtà ci sospinge indietro, ci fa regredire verso le
nostre paure più antiche ed arcaiche: quelle paure che ci rendono prigionieri, ci fanno chiudere gli
occhi alla realtà, ci privano di speranza e futuro”.
La possibilità di sperimentare le emozioni attraverso le storie, ascoltate e raccontate, non
può dunque essere considerata solo un’esperienza linguistica ma rappresenta una importante
esperienza formativa capace di contenere e elaborare l’esperienza stressante.
Il linguaggio, in quanto strumento di passaggio al simbolico, gioca un ruolo fondamentale
nella vita quotidiana perché ci consente di dare forma ai pensieri, alle emozioni, ai sentimenti, alla
cognizione, di comunicare attraverso il magico mondo delle parole, di costruire progetti, di
inventare, di creare. Oggi nessuno mette più in discussione l’importanza della parola nello sviluppo
e tenuto conto della attuale situazione sociale, caratterizzata da una fluidità spesso difficile da
gestire e contemporaneamente da un linguaggio troppe volte stereotipato e omologato. Il rischio è
che il dolore faccia rimanere ingabbiati in un pensiero concreto che impedisce di trasformare le
esperienze emozionali in sogni simbolici, giochi, fantasie, ecc. Il mancato passaggio
dell’elaborazione simbolica non verbale a quella verbale, porta ad un deficit simbolico che non
permette al soggetto di utilizzare l’affettività come mediazione attraverso le parole” (Bottaccioli,
Cardone et Mambelli, 2010).
Riassumendo è importante sottolineare che:
1) il cambiamento psichico che avviene durante il processo psicoanalitico comporta sofferenza
psichica e/o dolore mentale;
2) un aumento della capacità di tollerare dolore mentale consente al paziente di progredire e
realizzare i cambiamenti psichici che rendono possibile la cura;
3) l’intolleranza al dolore mentale è concomitante con la mobilitazione di potenti meccanismi di
difesa, il cui scopo è quello di annullare o paralizzare il pensiero e altre funzioni dell’Io;
4) è attraverso il pensiero e attraverso il recupero di quella capacità che il processo di ripristino
dell’Io diventa possibile, e ciò che era intollerabile può ora diventare tollerabile per la mente;
5) di fronte all’esperienza della frustrazione (equivalente a quella del dolore mentale), la
realizzazione negativa può dar luogo, o meno, alla sua simbolizzazione, in base alla capacità di
tollerare il dolore mentale, e l’esperienza può essere nominata (subito) o meno;
6) in presenza di una intolleranza eccessiva del dolore mentale, invece di una realizzazione
negativa (“non-cosa”), possono verificarsi sintomi psicotici;
7) il successo della trasformazione dell’intollerabile emozione dolorosa (emozione senza
significato), in un’emozione che può essere tollerata e in pensiero, aumenterà con una maggiore
efficienza di contenimento (capacità di rêverie, funzione alfa) e le sue qualità di trasformazione;
56 8) il dolore mentale è inerente al funzionamento della personalità ed è un elemento della
psicoanalisi.
Dal punto di vista dell’Io, esistono diversi tipi di risposte al dolore ma quella più importante
è l’individuazione. Essa richiede che vengano abbandonati, ai fini dell’adattamento, gli stati ideali
infantili del Sé (perduti) che sono sostituiti con nuovi ideali del Sé che sono in sintonia con l’Io e la
realtà. Dura tutta la vita, in particolare si verifica in situazioni di crisi oppure di fronte a compiti e
sono determinati da processi di sviluppo interazione soggetto-società (Sandler, 1980).
Un aspetto della corretta tecnica analitica: consiste nel promuovere condizioni che facilitano
una progressiva individuazione, ciò è importante per i pazienti che non riescono ad individuarsi se
non tramite un certo grado di depressione. In certi casi, l’attenuarsi della depressione si accompagna
alla messa in atto di difese più efficaci (Sandler, 1980). Per Balint (1990) in analisi è possibile osservare modalità di individuazione: casi in cui il
paziente abbandona le forme abituali e automatiche di relazione oggettuale e si sforza di ricercarne
di nuove all’interno del processo terapeutico. Il paziente regredisce ad uno stadio pretraumatico e
privo di difese poi inizia ad amare e odiare in modo punitivo infine sviluppa modalità mature e
adattive di amare e odiare.
57 Capitolo IV
“Se ti chiedessi di pensare al dolore, cosa ti verrebbe in mente?”
Partendo dalla constatazione che il dolore rappresenta un’esperienza emotiva personale, che
esso acquista un senso ed un significato affettivo specifico in relazione alla soggettività delle
persone e che è quindi importante riconoscerlo quando lo si incontra e coglierlo là dove si trova, è
stata posta, ad adulti e adolescenti conoscenti, la seguente domanda: “Se ti chiedessi di pensare al
dolore, cosa ti verrebbe in mente?”. L’interesse che è stato rivolto alle definizioni emerse ed
eventualmente a trovare similitudini e differenze. Per noi rappresenta una variante esperienziale alla
parte teorica affrontata nel nostro elaborato. Il quesito è stato posto via mail, sms e “vis-à-vis” ed è
stato riportato esattamente il contenuto e la forma della risposta. Sono state ricavate in totale 50
risposte.
Insicurezza, vulnerabilità, bisogno di aiuto e di umanità, bisogno di parlarne e di liberarsene, a
volte è atrocemente inutile a volte fa crescere: saggezza è saper distinguere, dolore come arma di
ricatto, speranza suprema di poter vivere senza dolore o solo se sopportabile, dolore più forte: il
dolore di chi ami...
il dolore psichico da solitudine, forse non il peggiore in assoluto ma uno dei peggiori x l'impatto
sociale (silenzioso strisciante e sottovalutato) che genere ...
la prima cosa che mi viene in mente è "il taglio cesareo"... e come immagine la sala
operatoria…fredda, verdina e con le luci bianche…l'immagine del bisturi...che ovviamente non ho
visto ma ho immaginato…Però non ho sentito dolore fisico in quel momento…quello è venuto
dopo...lì il dolore era dovuto al fatto che la mia vita e quella della Sara erano nelle mani di qualche
estraneo che aveva deciso di farla nascere prima del tempo... e io non avevo ancora finito di
"farla".. ecco mi commuovo …
la perdita di una persona cara... poi gli è venuta in mente la scena di quando da piccolo si è rotto il
naso…
Tumore e morte.
Sono state le prime due parole che mi sono balzate alla mente pensando al dolore.
che la persona che amo vada via
58 ......corpo…paura...solitudine...violenza....la situazione che più mi spaventa è quella di impotenza e
penso che il dolore lo senti ,poi diventa anche fisico.... Volevi la prima cosa che mi venisse in mente
?quasi quasi ho paura di dover provare dolore !!!!!!
il dolore è come una falce ti taglia le gambe pezzetto per volta fino a che arriva al cuore ti fa
piegare tu se stessa e ti rende impotente logorandoti lentamente
oppure e come una freccia avvelenata che ti colpisce alle spalle quando meno te lo aspetti e speri di
far presto a morire perché non ce la fai più
spero di aver reso l'idea(esperta perché come sai ne ho provato molto)
la prima cosa che mi è venuta in mente è l'immagine di una cicatrice, da intendere come segno
indelebile derivante da un "fatto doloroso" (sia in negativo come ferita da rimarginare, che in
positivo come esperienza di maturità)
Dolore è restare ad aspettare qualcuno che non arriva,dolore è restare soli in ospedale senza che
nessuno venga a trovarti,dolore è l'impotenza di non impedire il dolore ai tuoi figli,il dolore più
grande è avere dolore nell'anima, un cuore trafitto,un cuore pugnalato ma senza morte
... può essere quello attribuito alla mancata riuscita dei propri propositi nella vita. Il dolore legato
alla sensazione di "fallimento", il dolore inerente alla perdita e non solo fisica di una persona che
si ama ma anche il dolore fisico e per ultimo ma non meno importante, il dolore legato ai brutali
comportamenti umani verso il mondo animale, verso i più deboli(es. vivisezione, combattimenti
clandestini, abbandono, violenza fisica ma anche psicologica). Tutto ciò fa veramente male...male
nell'anima, nel cuore, è un dolore intenso, pungente, costante ed insopportabile, forse ancor più
spiacevole è la consapevolezza di non poter porre rimedio a questo dolore.
Pensando al dolore sotto forma d'immagine....vediamo....mi vengono in mente le mani, mi viene in
mente il sorriso di mio zio e credo che il mio dolore sia legato alla sua morte prematura, oppure
l'orrenda immagine (nutro ancora oggi la speranza che fosse un fotomontaggio) di un neonato
accoccolato dentro ad un cassonetto tra i sacchi dell'immondizia o quella di un cucciolo di cane
lanciato da un'auto in corsa in autostrada. E' doloroso pensare che l'uomo, seppur così ingegnoso,
sia in grado di fare del male, di provocare a sua volta dolore, violenza, cattiveria....ignoranza ed
59 indifferenza...il dolore è pensare che Dio non ci risparmia alcuna sofferenza.....tutto questo per me
è il dolore.
Morte di un famigliare... La prima cosa che mi è venuta in mente
il primo è il dolore fisico (ad essere provato)
diciamo tutti aiiii e poi bua
Se penso al dolore, adesso mi viene in mente il dolore di crescere, ti spiego crescere è faticoso e lo
vedo giornalmente nei miei figli più grandi, ma ultimamente sperimento il dolore di mio figlio .
Il dolore di prendere decisioni, di affrontare esami o prove e anche la fatica di stare con gli altri ,
altri intesi come persone nuove o possibili datori di lavoro. Non so se si può parlare proprio di
dolore. Forse è quello che provo io, davanti alla fatica che sta facendo nell’affrontare la sua
quotidianità, anche il suo corpo parla. Poi penso anzi sento il dolore della separazione che nel suo
caso devo anche un pò forzare, vorrei stringere tenere stretto non lasciar andare e invece devo
spingere devo lasciar andare e fare attenzione a farlo nel modo giusto, sono sott’esame
continuamente. Come immagine mi viene quella di un parto, di un germoglio che buca la terra per
poter crescere...
La prima idea che mi è venuta in mente è "amore".
per dirti la mia, se penso al dolore la prima cosa che mi viene in mente e' la perdita, di un affetto o
di una persona non importa, ma la perdita ...l'immagine che visualizzo e' un tunnel nero
dolore: paura e buio/nero (nel senso del vuoto)
Ho in mente quando, uscita dalla sala operatoria, più di una volta, avrei voluto che si staccasse la
parte che mi faceva male, ma tutto mi faceva male, e avrei voluto che finisse, e pensavo che
meravigliosa cosa alzarsi e andare in bagno e non sentire nessuna parte del corpo. In fondo non
avere notizie da nessuna parte del corpo è una gran bella sensazione, e che i tuoi pezzetti ti
rispondano, e che ti ubbidiscano, e se ci pensi bene se non ti fanno male spesso ti fanno anche
divertire. In fondo io vado d'accordo col mio corpo, e il nostro accordo è andato crescendo con gli
anni. Forse il dolore ti fa’ prestissimo perdere l'accordo e la benevolenza. Forse la vecchiaia
60 anche, i dolori si sommano, le prospettive si chiudono. Ma ascolto gli anziani e in pochi sono
veramente sazi...
Paura, lacrime, solitudine, abbandono, per me il dolore è legato molto agli ultimi avvenimenti,
quindi è più emotivo che fisico. Quello fisico mi sembra più transitorio, meno profondo. Credo però
che il dolore, in qualsiasi forma, spaventi e renda soli, sei solo tu con il tuo dolore, la gente si
allontana, è i1 deterrente
cuore, nero, vuoto, sofferenza, ferita
La prima cosa che mi viene in mente è un dolore fisico, secco, immediato e pungente, tipo
appoggiare il piede su uno spino.
il dolore alla schiena che effettivamente ho
(bomba alla scuola con morte di giovane) mi viene in mente l'immagine dello zainetto davanti alla
scuola a brindisi....è un immagine che ho negli occhi da sabato e contemporaneamente sento un
gran mal di stomaco...
dolore = sofferenza dolore = paura dolore = tristezza
non so se ti può servire ancora aiuto ma con la parola dolore mi viene in mente: malattia,
sofferenza per una perdita, depressione per me significa dolore, dolore fisico dovuto ad una ferita,
mal di denti, etc. oppure ad un'operazione chirurgica. Per quanto riguarda le immagini mi viene in
mente una ricerca in internet sulla parola stessa o tante immagini che trovi nei giornali sulla
guerra, sulla fame nel mondo, sui bambini malati di aids, etc.
Parlando in generale e di me stesso posso dirti che intendo il dolore e la sofferenza come una
grande opportunità di evoluzione, l'immagine che ho è di due mani che tendono in una luce bianca
dorata.
Il Dolore fa parte della grande croce che tutti dobbiamo portare ed abbracciare, a volte non è
facile specie se il dolore è dovuto alla "perdita" di una persona cara, ma dobbiamo capire che la
morte è un'altra via per ricominciare, nulla si distrugge ma semplicemente si trasforma, come la
fisica ed altri ci insegnano...
61 Il dolore è una grande scuola dove l'essere umano ha il grande potere di scegliere se abbandonarsi
alla tristezza, odio, rancore, paura oppure, rispondere con l'amore, il perdono, la compassione.
Proiettarsi su piano più elevato senza subire, ma trasformando il dolore e chi la procurato in
Amore ed aiutare il prossimo a crescere.
Quindi ringrazio il dolore e la sofferenza che mi hanno accompagnato nella mia vita di fatiche e
per quello che sarà, perché Grazie ad esse ho compreso la strada da percorrere nella mia
quotidianità.
come immagini la prima cosa che mi viene in mente è la scuola di Beslan, la seconda è Guernica di
Picasso (il dolore provocato dall'atrocità della guerra su cose, uomini e animali), la terza in questi
giorni di commemorazione è la faccia stanca di Caponnetto dopo la morte prima di Falcone e poi
di Borsellino e le sue parole "è tutto finito".
poi il buon vecchio Montale che parla di un male interiore, ma quale male è più atroce del dolore
di vivere?
"Spesso il male di vivere ho incontrato era il rivo strozzato che gorgoglia era l'incartocciarsi della
foglia riarsa, era il cavallo stramazzato"(...) e poi Quasimodo, "Milano, agosto 1943"
Invano cerchi tra la polvere povera mano, la città è morta. è morta: s'è udito l'ultimo rombo sul
cuore del Naviglio. e l'usignolo è caduto dall'antenna, alta sul convento, dove cantava prima del
tramonto. non scavate pozzi nei cortili: i vivi non hanno più sete. non toccate i morti, così rossi,
così gonfi: lasciateli nella terra delle loro case: la città è morta, è morta.
è qualcosa che temo, mi fa paura poterlo provare o sapere che qualcuno lo prova soprattutto se è
un mio caro, mi irrita perché ogni malessere riduce la mia energia , ferma la mia corsa, riduce le
mie soglie, mi annebbia la vista delle cose belle e rischia di farmi sfuggire occasioni di benessere
che passano veloci, avrei solo voglia di affrontarlo in solitudine, ma non c'è tempo di farlo vincere
e cerco sempre di combatterlo o ignorarlo stringendo i denti .....ma spesso vince lui perché divento
nervosa e poco paziente.
l'ho odiato perché è stato un bastardo, è stato capace di insinuarsi silenzioso in chi amavo e
stravolgere completamente la sua immagine straziandolo e straziandoci senza che potessimo
consolarci per la perdita prossima con un ricordo dolce!!
la prima parola a cui penso è condivisione, nel senso dell'importanza di relazioni affettive
significative che permettono di tollerarlo, elaborarlo, accettarlo
62 Ti scrivo alcune parole che mi vengono in mente pensando alla parola DOLORE:
-
persone care vicine
-
dolore fisico
-
dolore psicologico
-
impotenza
-
cura
-
benessere dopo il dolore
Mi viene in mente l’ansia e il cuore che fa male (la stretta al cuore) e come immagine il quadro
dell’urlo di Munch, altre immagini che mi vengono in mente sono legate ai bambini
un paziente: sento di non avere la pelle
come se mi avessero dato una coltellata
non so perché sto male, ma è una sensazione diffusa
ho malessere ma non ho parole
ho male qui (e si tocca il cuore)
La situazione qua peggiora, l’estate è stata pessima, per mia nonna che sta male, lui che è 1 fascio
di nervi ed insoddisfazioni e le catalizza su di me, mia mamma che ha fatto la badante ed è giù al
massimo e..io che, come lui, di insoddisfazioni ne ho un treno, insieme a rabbia, tanta rabbia,
voglia di scappare, consapevolezza di non sapere affrontare ancora il tutto che incombe, stanca di
questa sensazione di morte che sento appiccicata addosso, di brutte notizie che in casa mia mai si
risolvono. Prenderei a male parole tutti quelli che hanno dei lieto fine. Può servirti questa
descrizione per la tua ricerca sul dolore? Io del dolore ne ho le palle piene… Non sono pronta a
perdere anche lei, non riesco a liberarmi da questo senso si ingiustizia ed accanimento. Dopo mio
papà non riesco ad accettare anche questa cosa.
Se penso al dolore, mi vengono in mente molti significati e molti ricordi. Credo che il dolore sia
qualcosa di personale. Se penso al passato mi vengono in mente tanti dolori sia fisici che emotivi:
come il male fisico dell’otite che proprio non sopporto, il dolore che ho provato quando ho lasciato
63 il mio fidanzato, il dolore di quando ho perso mio nonno, ecc.. potrei stare qui ore ad elencarli.
Ora il dolore che sento di più è la paura di non farcela, di non fidarmi di me…
…ma non lo so, forse direi che il dolore in questo momento è essere lontano dalla mia famiglia…
Un paziente: “io sto male veramente, ma nessuno mi crede…mi sento sola…Lei mi crede
dottoressa, vero?!”
Io anni fa stavo male, ho iniziato a vomitare perché mi vedevo grasso, poi ho scoperto le sostanze e
ho trovato la mia cura al sentirmi nervoso, ora non posso più usare le sostanze altrimenti mi salta
tutto, io però faccio fatica a dire di no…
… dolore, non saprei, ho provato dolore quando ho perso mio padre.
Mi verrebbe in mente uno stato di incapacità di stare fermi, un disequilibrio che porti il corpo a
cercare sempre nuove posizioni, adattamenti pur sentendo che la cosa non giova; stessa cosa per il
dolore mentale, incapacità di restare fermo su un pensiero sufficientemente stabile… acatisia,
squilibrio e affanno insomma.
Penserei al rifiuto di mia mamma verso di me!
In questo momento, in cui il mio corpo si sta preparando al “grande evento”, la parola dolore mi
fa pensare al travaglio e al parto … Ma mi fa pensare anche alla paura della solitudine e del rifiuto
…
Mi viene in mente l’espressione facciale di dolore, la smorfia che uno fa quando ha dolore,
rimango sul piano fisico, è la prima cosa che mi è venuta in mente.
Il dolore per me è una emozione negativa, sia fisica che mentale che è molto legata, a seconda delle
circostanze, a tristezza e arrabbiatura!
Il senso di colpa per quello che ho fatto, me ne rendo conto solo ora …
64 Cosa mi viene in mente associato al dolore … L’indifferenza delle persone di fronte alle difficoltà
altrui, allo schifo del mondo, ognuno pensa a sé stesso e si è persa la concezione dello “stare
insieme”… è un po’ lungo come concetto ma volevo spiegare bene cosa intendevo.
Alcune riflessioni e considerazioni a carattere ipotetico e qualitativo
Le risposte risultano sicuramente viziate dal non essere anonime ed è interessante notare che
non hanno risposto tutte le persone alle quali è stata proposta la domanda.
In quanto clinici ci siamo piacevolmente stupite del trovare anche definizioni positive
collegate a questo tema e la ricchezza del materiale raccolto. Si denota una tendenza quasi esclusiva
a definire il dolore come una esperienza negativa (Fig. 1), ma rispetto alla valenza positiva
possiamo ipotizzare che venga percepito come uno stato di cambiamento, una situazione
momentanea che poi produce situazioni di benessere e di adattamento nuovi.
Figura 1 Tipologia di esperienza in relazione al dolore
Ci pare significativo che quasi la metà delle definizioni riguardano l'espressione attraverso il
corpo (Fig. 2).
65 Figura 2 –
Modalità di descrizione del dolore
Sono molteplici le immagini utilizzate come sostituto della parole e metafore che riguardano
esperienze narrate un po’ più in prima persona (ci fa pensare ad una maggiore capacità di
padroneggiamento dell’esperienza dolorosa). Alcune definizioni sono molto personalizzate e si
riferiscono all'esperienza soggettiva in quel momento, questo ci fa ipotizzare una maggiore
vicinanza verso il mondo delle emozioni e una minore preoccupazione di mostrarle. Riconosciamo
come ci aspettavamo, una incapacità di alcune persone nel trovare “parole proprie” per descrivere il
dolore, anche se il verbalizzarlo è già un segno di riconoscimento. E’ interessante leggere queste
definizioni anche dal punto di vista dell’utilizzo delle difese come l’intellettualizzazione o l’utilizzo
di definizioni stereotipate o tramite azioni (Fig. 3; Fig. 4).
66 Figura 3 Modi di definizione del dolore
Figura 4 - Tipi
di immagini usate per descrivere il dolore
Sono tanti i riferimenti ai sentimenti provati, ma ci pare comune il sentimento di impotenza
associato al dolore (Fig. 5). Ci sembra importante sottolineare anche l’esperienza di perdita e di
separazione che il dolore comporta come conseguenza dello stato di discrepanza tra l’aspetto ideale
e quello attuale sulla via della speranza di un progressivo cambiamento.
67 Figura 5 Sentimenti descritti in relazione al dolore
Nelle risposte emergono molti sentimenti e ci sembra che nella definizione, quando
coinvolge il corpo, sia inclusa parallelamente anche la componente emotiva (fig. 6). Tutto ciò
conferma l’indissolubilità del rapporto corpo-mente e mette in luce la differenza di percezioni anche
in funzione dell’età e delle esperienze. Anche nell'esperienza del rapporto terapeutico la percezione
e la gestione del dolore si modifica in funzione di quanto lo si riesce a pensare, nominare, vivere e
attraversare.
Figura 6 - Parti
del corpo usate per riferirsi al dolore
68 * Prevalentemente indifferenziato
Infine, è importante sottolineare quanto le definizioni siano tutte diverse, malgrado si
possano identificare alcuni aspetti comuni, a conferma di una modalità soggettiva e personale di
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