C`era una volta la città dei matti

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C`era una volta la città dei matti
C’era una volta
la città dei matti
Catalogazione
F 225/1; 225/2
Collocazione
FILMS
Categoria
tematica
Esclusione sociale – Storia italiana recente – Scienze umane
Origine
Italia
Anno
2010
Regia
Marco Turco
Franco Basaglia
Fabrizio Gifuni
Margherita
Vittoria Puccini
Nives
Michela Cescon
Boris
Branko Djuric
Lampo
Thomas Trabacchi
Franca Ongaro
Sandra Toffolatti
Elsa
Tiziana Bagatella
Biachina
Valeria Sabel
Eraldo
Giorgio Gobbi
Guido Sarti
Stefano Scandaletti
Furlan
Maurizio Fanin
Nanut
Vitaliano Trevisan
Pinto
Giuseppe Bevilacqua
Cicca Cicca
Federico Bonaconza
Bruno Guerra
Leonardo Maddalena
Alexander
Sacha Dominis
Slepoj
Riccardo Maranzana
Mara
Maria Sole Mansutti
Leo Zonin
Giannantonio Martinoni
Toni
Franco Ravera
Eugenio della Casa
Paolo Romio
Ada Cremisi
Roberta Rovelli
Maria
Luisa Pasello
Anita
Silvia Pasello
Pietro
Giorgio Amodeo
Michele Zanetti
Alex Cendron
Aspasia
Roberta Sferzi
Angela
Valentina Sussi
e con la partecipazione di Toni Bertorelli nel ruolo del Prof. Santini
Principali
interpreti
Supporto
DVD
Numero dischi
02
Genere
storico, biografico, drammatico
Sceneggiatura
Alessandro Sermoneta, Katia Colja, Elena Bucaccio, Marco Turco
Musiche
Mauro Pagani
Produzione
RAI Radiotelevisione italiana S.P.A. su licenza esclusiva RAI TRADE S.p.A.
Distribuzione
Durata – dati
tecnici
DVD 1: 96 minuti; DVD 2: 100 minuti; colore
Lingua audio
Italiano
Lingua sottotitoli
Contenuti extra
Backstage – Galleria fotografica
La miniserie
Prima c'era la Città dei matti, il manicomio. Con tutto il
suo carico di orrori piccoli e grandi. Letti di contenzione,
camicie di forza, celle d'isolamento, elettroshock punitivi,
infermieri-carcerieri e malati-carcerati, rapporti sadici fra
medici e pazienti. Non un luogo di cura, ma di
segregazione, occultamento e cronicizzazione di quello
"scandalo" sociale che è sempre stata la malattia mentale. In tutto il mondo occidentale,
nessuno aveva mai messo in discussione il manicomio, nessuno aveva mai osato sfidare
frontalmente il potere degli psichiatri. Almeno fino all'inizio degli anni '60 quando, in una città
di provincia del Nord, un giovane psichiatra ribelle, emarginato dal mondo accademico,
Franco Basaglia, accese quella scintilla che provocò un incendio impensabile fino a qualche
anno prima...
Trama
Margherita è una ragazza bella e piena di vita. La sua unica "tara" è di avere una madre che
vive nell'ossessione della colpa di averla concepita con un soldato americano, che poi è sparito.
Per non ammettere nemmeno con se stessa il peso del "peccato" che si porta dentro, la donna lo
scarica sulla figlia. E quando le suore del collegio a cui è affidata si lamentano del carattere
troppo vivace di Margherita, delle sue prime, normali pulsioni amorose, la fa ricoverare in un
ospedale psichiatrico. In pochi mesi, nell'ambiente oppressivo e violento del manicomio,
Margherita, da ragazzina piena di vita e curiosità, si trasforma. Diventa una creatura ribelle e
ingovernabile, al punto che la tengono in una gabbia come una bestia feroce.
Boris è reduce da una guerra terribile che lo ha ridotto al mutismo. Nessuno sa quali orrori
hanno visto quegli occhi neri e profondi, le sofferenze patite da quel corpo possente e
gigantesco. Perché Boris è chiuso in se stesso, non parla, non esprime in nessun modo i suoi
sentimenti. Ma fa paura. E nel manicomio dove lo portano, invece di aiutarlo, pensano solo a
"contenerlo", a neutralizzare la sua carica aggressiva con elettroshock e camicia di forza. Boris
rimane legato ad un letto per quindici anni.
Furlan è un ex partigiano, un uomo mite e buono che ha moglie e figli. Lui in ospedale
psichiatrico ci si fa chiudere di sua volontà. Vuole curarsi dalla paura degli attentati che gli è
rimasta dalla guerra, dall'alcolismo che gli mina il fisico e la mente. Non immagina che dentro
la città dei matti ci rimarrà prigioniero, nutrito a forza con un imbuto, sottoposto a terapie
crudeli e devastanti che invece di curarlo lo riducono ad una larva.
Cicca-cicca è come un bambino anche se ha quasi vent'anni. Il manicomio, dove vive
sottomesso alle prepotenze di ricoverati
e infermieri, è tutto il suo mondo.
Chiuso in se stesso, spaventato, vive
tremando di paura, seguendo solo i suoi
desideri primari.
E poi c'è Nives, che non è una paziente
ma un'infermiera. È una brava donna,
una madre di famiglia onesta e
lavoratrice. Le hanno insegnato che i
matti non sono persone, ma poco più
che cose: vanno lavati, vestiti, legati e
puniti. E lei questo fa, li lava, li nutre, li
punisce. E questo trattare gli esseri umani come oggetti, pian piano la svuota dentro, la divora.
Nives non si rende conto che il manicomio è un lager che ha il potere di disumanizzare non
solo i "matti" ma anche chi li dovrebbe curare e invece è ridotto al rango di carceriere.
Questi, tra gli altri, sono gli uomini e le donne che si trova di fronte Franco Basaglia quando
diventa direttore del manicomio di Gorizia. Un posto marginale, a suo modo comodo, dove lo
psichiatra potrebbe limitarsi a prendere lo stipendio e continuare a scrivere i suoi libri
delegando, come il suo predecessore, ad assistenti e infermieri lo sporco lavoro di
amministrare l’ospedale. Ma Basaglia e sua moglie, Franca Ongaro, una donna coraggiosa e
colta dell'alta borghesia veneziana, a contatto con quella realtà terribile sono sconvolti. E
decidono di cambiarla. Come, non lo sanno, perché il manicomio è una delle istituzioni
repressive più durature della storia umana in Occidente. Ma qualcosa si deve fare. A costo
d'inimicarsi l'establishment politico e culturale dell'epoca. Comincia così un’avventura
straordinaria che porta Franco e sua moglie, ai quali si uniranno altri giovani psichiatri ribelli,
a "smontare" letteralmente l'universo concentrazionario della Città dei matti. Un'avventura mai
tentata prima, piena di rischi e di pericoli il cui esito è tutt’altro che certo.
Con la direzione Basaglia viene eliminata ogni tipo di contenzione fisica, sospese le terapie di
elettroshock. Vengono aperti i cancelli, lasciando così i malati liberi di passeggiare nel parco,
di consumare i pasti all'aperto, persino di lavorare. S'inizia, soprattutto, a prestare attenzione
alle condizioni di vita degli internati e ai loro bisogni. Si organizzano le assemblee di reparto e
le assemblee plenarie. Si aprono spazi di aggregazione sociale, cade la separazione coatta fra
uomini e donne. Un amministratore locale del tempo, venuto in visita all'ospedale di Gorizia,
così racconta: "Potei vedere un ospedale vivo, pieno di gente che non si distingueva: malati,
medici, visitatori, volontari, infermieri, non era facile riconoscerli, individuare i loro ruoli. Ma
soprattutto vidi come, pur essendo un "intellettuale", Basaglia fosse capace di comprendere i
bisogni più elementari dei malati. Li conosceva tutti. Entravano nel suo ufficio senza essere
annunciati, la porta era sempre aperta e c'era un via vai continuo. Così come, nel parco, era un
fermarsi a ogni passo, a salutare, a chiacchierare con l’uno o con l'altro".
Grazie al nuovo corso Margherita, Boris, Cicca-cicca e tanti altri degenti come loro si
riaffacciano alla vita. E il racconto, attraverso le loro vicende, diventa un palpitante percorso
umano e sentimentale in cui uomini e donne, destinati a finire i loro giorni rinchiusi,
riconquistano, tra successi e cadute, giorno dopo giorno, una vita degna di essere vissuta: un
lavoro, una casa, l'amore. Anche gli infermieri come Nives, dapprima avversari del nuovo
direttore, acquisiscono una nuova coscienza e gli si affiancano nel processo di trasformazione
del manicomio. I protagonisti di questa vicenda epica pagheranno però un alto prezzo
esistenziale e personale: difficoltà economiche, problemi familiari, separazioni segnano le
storie di medici e infermieri che hanno deciso di seguire Franco nella sua lotta...
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Franco Basaglia
Franco Basaglia, con le sue teorie e le sue pratiche
innovative, è da considerarsi uno dei più importanti
rappresentanti della psichiatria italiana del Novecento.
Marco Turco porta sullo schermo l’appassionata e
pacifica rivoluzione che inizia nei primi anni ’60 a
Gorizia ad opera di questo giovane psichiatra ribelle
che, per primo, ebbe il coraggio di mettere in
discussione l’istituzione dei manicomi. Quelle che
allora erano chiamate le "Città dei matti", con tutto il
loro carico di orrori: letti di contenzione, camicie di
forza, celle d’isolamento, elettroshock punitivi,
infermieri-carcerieri e malati-carcerati, rapporti sadici
fra medici e pazienti. Non luoghi di cura, ma di
segregazione.
Quella che realizza Basaglia è di fatto una vera rivoluzione, che con la sua direzione a Gorizia
stravolge il corso della storia diventando un esempio per tutto il resto d’Italia, e non solo.
Elimina ogni tipo di contenzione fisica, sospende le terapie di elettroshock, fa aprire i cancelli,
lasciando così i malati liberi di passeggiare nel parco, di consumare i pasti all’aperto, persino
di lavorare, di dipingere. Per la prima volta i pazienti vengono considerati esseri umani.
L’immagine del cavallo azzurro - scultura realizzata dai pazienti, simbolo della liberazione
avvenuta - che entra trionfante in città, fa il giro del mondo insieme alle teorie e alle pratiche
rivoluzionarie di Basaglia che diventano un modello per tutti. A Basaglia si deve
l'introduzione in Italia della "legge 180/78", dal suo nome chiamata anche Legge Basaglia, che
introdusse un’importante revisione organizzativa dei manicomi e promosse notevoli
trasformazioni nei trattamenti psichiatrici sul territorio.
Biografia
Franco Basaglia nasce a Venezia, l’11 marzo 1924, e vi muore il 29 agosto del 1980.
Dopo la maturità classica, nel 1949 si laurea in medicina e chirurgia all'Università di Padova.
In questo periodo si dedica ai classici dell’esistenzialismo: Sartre, Maurice Merleau-Ponty,
Husserl e Heidegger. Nel 1953 si specializza in Malattie nervose e mentali presso la clinica
neuropsichiatrica di Padova. Lo stesso anno sposa Franca Ongaro, che gli darà due figli, sarà
coautrice col marito di alcune opere sulla psichiatria e entrerà in Parlamento per Sinistra
Indipendente.
Nel 1958 Basaglia ottiene la libera docenza in psichiatria. Per le sue idee innovative e
rivoluzionarie non viene bene accolto in ambito accademico, cosicché nel 1961 decide di
rinunciare alla carriera universitaria e di trasferirsi a Gorizia per dirigere l’ospedale psichiatrico
della città. Si tratta di un esilio professionale dovuto soprattutto alle scelte politiche e
scientifiche. L’impatto con la realtà del manicomio è durissimo. Teoricamente si avvicina alle
correnti psichiatriche di ispirazione fenomenologica ed esistenziale (Karl Jaspers, Minkowski,
Ludwig Binswanger), ma anche a Michel Foucault e Erving Goffman per la critica
all'istituzione psichiatrica.
A Gorizia, dopo alcuni soggiorni all’estero (visita alla comunità terapeutica di Maxwell Jones),
avvia nel 1962, insieme ad Antonio Slavich, la prima esperienza anti-istituzionale nell’ambito
della cura dei malati di mente. In particolare, egli trasferisce il modello della comunità
terapeutica all’interno dell’ospedale e inizia una vera e propria rivoluzione. Si eliminano tutti i
tipi di contenzione fisica e le terapie elettroconvulsivanti (elettroshock), vengono aperti i
cancelli dei reparti. Non più solo terapie farmacologiche, ma anche rapporti umani rinnovati
con il personale. I pazienti devono essere trattati come uomini, persone in crisi. Fu l’inizio di
una riflessione sociopolitica sulla trasformazione dell’ospedale psichiatrico e di ulteriori
esperienze di rinnovamento nel trattamento della follia, alternative anche alla esperienza di
Gorizia.
Nel 1967 cura il volume "Che cos'è la psichiatria?", nel 1968 pubblica "L'istituzione negata".
Rapporto da un ospedale psichiatrico, dove racconta al grande pubblico l'esperienza
dell’ospedale psichiatrico di Gorizia. L’opera si rivela un grande successo editoriale.
Nel 1969 lascia Gorizia e, dopo due anni a Parma dove dirige l’ospedale di Colorno,
nell’agosto del 1971 diviene direttore del manicomio di Trieste. Basaglia istituisce subito,
all’interno dell’ospedale psichiatrico, laboratori di pittura e di teatro. Nasce anche una
cooperativa di lavoro per i pazienti, che così cominciano a svolgere lavori riconosciuti e
retribuiti. Ma ormai sente il bisogno di andare oltre la trasformazione della vita all’interno
dell’ospedale psichiatrico: il manicomio per lui va chiuso ed al suo posto va costruita una rete
di servizi esterni, per provvedere all’assistenza delle persone affette da disturbi mentali. La
psichiatria, che non ha compreso i sintomi della malattia mentale, deve cessare di giocare un
ruolo nel processo di esclusione del "malato mentale", voluto da un sistema ideologico
convinto di poter negare e annullare le proprie contraddizioni allontanandole da sé ed
emarginandole. Nel 1973 Trieste viene designata "zona pilota" per l’Italia nella ricerca
dell'OMS sui servizi di salute mentale. Nello stesso anno Basaglia fonda il movimento
Psichiatria Democratica favorendo la diffusione in Italia dell’antipsichiatria, una corrente di
pensiero sorta in Inghilterra nel quadro della contestazione e dei fermenti rivoluzionari del
1968 ad opera principalmente di David Cooper.
Nel 1971 sottoscrive l’appello pubblicato sul settimanale L’Espresso contro il commissario
Luigi Calabresi. Nel gennaio 1977 viene annunciata la chiusura del manicomio "San Giovanni"
di Trieste entro l'anno. L’anno successivo, il 13 maggio 1978, in Parlamento viene approvata la
legge 180 di riforma psichiatrica. Nel 1979 Basaglia parte per il Brasile, dove, attraverso una
serie di seminari raccolti successivamente nel volume Conferenze brasiliane, testimonia la
propria esperienza. Nel novembre del 1979 lascia la direzione di Trieste e si trasferisce a
Roma, dove assume l’incarico di coordinatore dei servizi psichiatrici della Regione Lazio.
Nella primavera del 1980 si manifestano i primi sintomi di un tumore al cervello che in pochi
mesi lo porterà alla morte, avvenuta il 29 agosto 1980, nella sua casa di Venezia. A distanza di
30 anni, benché sia stata più volte oggetto di discussione e di tentativi di revisione, la legge
180 è ancora la legge quadro che regola l'assistenza psichiatrica in Italia.
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09 febbraio 2010, 09:00
Io che l’ho conosciuto vi dico: il Basaglia della Tv è
credibile
Era uno psichiatra surrealista, come l’ha interpretato Gifuni. Lo danneggiarono gli
eccessi ideologici del Pci e i suoi allievi
di Alessandro Meluzzi
Critica 1
È molto difficile descrivere un dolore che evolve perdendo di fissità.
La storia dei pazienti di Gorizia della fiction C’era una volta la città dei matti, di Marco
Turco, poteva cadere nell’elegia, nell’agiografia o nel grottesco.
Nonostante i rischi e qualche enfasi di troppo, il risultato scenico e narrativo mi pare
accettabile, anche come ricostruzione di un ambiente in cui nell’Italia anni ’60 i dottori
borghesi sono correttamente progressisti e gli infermieri sorveglianti un po’ fascisti.
Il manicomio era il contenitore cieco e sordo, indifferenziato e acritico, di realtà
immensamente diverse tra loro che, una volta incapsulate in questa dimensione, le massifica, le
annienta, le livella, attraverso l’oppressione del corpo.
Prima del 1968 nei manicomi ci stavano tutti: gli schizofrenici, i depressi, gli etilisti, i disabili,
i malati mentali, come pure i semplici «sfigati». Il manicomio era una specie di carcere, si
definiva con meccanismi giudiziari e soprattutto se ne poteva uscire solo con meccanismi
paragiudiziari, poiché il medico che accertava la dimissione si assumeva personalmente la
responsabilità di ciò che il «matto» avrebbe fatto una volta uscito. Questa è la ragione per cui,
una volta entrato in manicomio, nessuno ne usciva più.
Questo aspetto emerge in maniera chiara, e secondo me non scontata, nella fiction trasmessa in
questi giorni da Raiuno. Chi ha conosciuto come me il manicomio, ha visto che la descrizione
non ha eccessi né di tinte né di orrori anche nei dettagli scenici delle forme di contenzione.
Eppure il manicomio poteva diventare anche il luogo di una misteriosa, febbricitante poesia,
luogo di tutto o di niente, luogo a volte anche accogliente, come nei romanzi di Tobino e delle
sue Libere donne di Magliano.
Franco Basaglia invece, psichiatra rivoluzionario e intellettuale surrealista, fu uno dei padri
dell’antipsichiatria, il promotore della famosa legge 180 che solo nel 1978 sancì la fine
dell’istituzione manicomiale.
Alla follia egli riconobbe i due volti: il primo è quello che si genera in qualsiasi società,
latitudine, condizione economica, appartenenza, quello della psicosi; il secondo era quello
generato dall’istituzione psichiatrica. La de-istituzionalizzazione avrebbe cancellato il secondo
volto della follia. Basaglia soleva dire che per lui tra la malattia e la persona il centro di
interesse non era la malattia, bensì la persona con il suo destino.
L’amore per l’uomo era certamente ciò in cui Franco Basaglia eccelleva. Un amore diffuso e
indistinto che credo abbia pagato anche con la sua consunzione esistenziale e personale. La sua
parabola emotiva è forse l’aspetto più interessante del film televisivo appena trasmesso.
Convincente la recitazione del protagonista, che dà di Basaglia il ritratto di un dandy profetico
piuttosto che di un rivoluzionario blindato. Anche l’affresco delle facce, compresa una Puccini
sideralmente lontana da Rivombrosa, ricorda non solo le maschere lombrosiane delle stampe di
Hogarth, bensì tanti sguardi che hanno abitato luoghi di dolori polverizzati.
Da Gorizia in avanti il destino di questo straordinario sperimentatore e tragico poeta della
liberazione non può non saldarsi in un’alleanza un po’ naturale, un po’ strumentale, con l’onda
montante del Pci e della nuova sinistra, con gli automatismi burocratico-militanti. Anche con
qualche distorsione grave che ne derivò, come la sua firma, apposta insieme con quelle di altri
intellettuali tuttora in circolazione, nell’appello contro il commissario Calabresi nel 1973.
La mitica legge 180 è la conseguenza di quel periodo. Chiude, sull’onda di un referendum
radicale, i nuovi ingressi negli ospedali psichiatrici, che rimarranno peraltro aperti e
funzionanti per molto tempo, senza definire metodi e caratteristiche delle nuove strutture
intermedie. Strutture territoriali e residenziali piccole e umane, che sono via via nate
riempiendo disomogeneamente, regione per regione, un vuoto drammatico di risposte ai
bisogni dei pazienti e delle famiglie. Spesso lasciate abbandonate a se stesse, nel nome della
celebrazione di idee considerate più importanti dei fatti. Fatti che, come diceva Lenin, hanno
comunque la testa dura.
Soprattutto in quella fase in cui gli epigoni sempre più mediocri dei maestri imprimevano allo
svuotamento forzato degli ospedali psichiatrici un ritmo più ideologico che umanitario. Ma in
quel tempo Basaglia era già morto, egli stesso in un certo senso vittima di una rivoluzione che,
come tutti i veri cambiamenti profondi, ha attimi di entusiasmo e tragedie, liberazioni e
vittime, profeti e mediocri e carrieristici esecutori.
Basaglia non fu sempre apprezzato e compreso neppure dai suoi compagni di strada.
Lo ricordo stupito nelle assemblee del 1977 tra indiani metropolitani e rivoluzionari che più
rivoluzionari non si può, di fronte a contestazioni che distruggevano e negavano chiunque, in
una fuga di scavalcamenti a sinistra.
E lo ricordo pochi mesi prima di morire a casa di Piera Piatti e Giulio Bollati, il direttore
editoriale della Einaudi, editore dell’Istituzione negata, mentre cercava di riposarsi un po' su un
divano, ripeteva angosciato in un incubo come se si trattasse di un tragico fantasma
shakespeariano: «I tecnici! I tecnici!». Chissà che si trattasse dei colleghi, che in fondo lo
avevano più osannato che compreso, dei pianificatori assessorici e ministeriali dei piani
quinquennali delle programmazioni, o dei tecnici della rivoluzione dei partiti marxisti-leninisti
di ogni latitudine.
Come tutti i personaggi autenticamente geniali, divide più che unire, evoca più emozioni che
ragioni. Ma certo è che all’ultimo congresso mondiale di psichiatria, in un simposio di storia
della clinica mondiale, solo due psichiatri italiani del ’900 sono stati citati: Franco Basaglia e
Ugo Cerletti, l’inventore dell’elettroshock nella Roma degli anni ’30, personaggio che
meriterebbe anch’egli una fiction.
Strano contrappasso di un Paese che tende a mediare e neutralizzare qualsiasi cosa o a
esprimere le punte estreme e laceranti di ogni contraddizione. I due più grandi esperimenti
italiani sul rapporto tra mente e cervello: quello di Cerletti ispirato ai maiali uccisi con la
corrente nel macello del Testaccio e quello di Basaglia dagli effetti delle segregazioni e delle
macellerie sociali di ogni tempo.
http://www.ilgiornale.it/spettacoli/io_che_lho_conosciuto_vi_dico_basaglia_tv_e_credibile/0902-2010/articolo-id=420366-page=0-comments=1
Franco Basaglia e la chiusura dei manicomi
Trasformare i pazzi in uomini, la bella rivoluzione va in tv
di Umberto Galimberti, da Repubblica, 8 febbraio 2010
Come faccio a sapere che malattia ha una persona legata in un letto di contenzione da 15 anni?
Come faccio a sapere di che cosa soffre un individuo a cui sono stati tolti, oltre ai suoi abiti,
tutti gli oggetti personali, in cui poter rintracciare una pallida memoria di sé? E che dire di
quanti, in occasione di una crisi, venivano immersi in un bagno d´acqua gelata, o sottoposti a
elettroshock? Erano queste alcune domande che Franco Basaglia si era posto quando, escluso
dalla carriera universitaria per le sue idee non proprio in linea con la psichiatria vigente, giunse
a Gorizia a dirigere il manicomio di quella città.
Critica 2
Marco Turco, regista della fiction televisiva, la cui prima puntata è andata in onda su RaiUno
ieri sera, descrive con precisione, efficacia e commozione le pratiche di punizione, di controllo
e persino di tortura che si praticavano nei manicomi in nome della scienza psichiatrica, ma
soprattutto coglie e mette bene in evidenza che la chiusura dei manicomi era, negli intenti dello
psichiatra veneziano, solo un primo passo verso una rivisitazione dei rapporti sociali a partire
dalla "clinica", la quale, per tranquillizzare la società, non aveva trovato di meglio che
incaricare la psichiatria a fornire le giustificazioni scientifiche che rendessero ovvia e da tutti
condivisa la reclusione dei folli entro mura ben cintate.
Entro queste mura Basaglia, prima della follia, incontrò la miseria, l´indigenza, il degrado,
l´emarginazione, l´abbandono, la spersonalizzazione, a cui la follia non di rado si imparenta.
Infatti la follia dei ricchi non si esprime con la "segregazione", ma tutt´al più con
l´"interdizione", qualora intacchi gli interessi patrimoniali. E allora non è che per controllare e
contenere questa miseria non s´è trovato modo migliore che renderla muta come "miseria" e
farla parlare solo come "malattia"?
Questo tema è messo bene in evidenza dallo sceneggiato televisivo che ha colto perfettamente
l´intenzione di Basaglia secondo il quale, se la clinica ha messo il suo sapere al servizio di una
società che non vuole occuparsi dei suoi disagi, non è il caso di tentare l´operazione opposta,
ossia l´accettazione da parte della società di quella figura, da sempre inquietante, che è la
follia, dal momento che, scrive Basaglia: "La follia è una condizione umana. In noi la follia
esiste ed è presente come lo è la ragione. Il problema è che la società, per dirsi civile, dovrebbe
accettare tanto la ragione quanto la follia, invece incarica una scienza, la psichiatria, per
tradurre la ‘follia´ in ‘malattia´ allo scopo di eliminarla. Il manicomio ha qui la sua ragion
d´essere che è poi quella di far diventare razionale l´irrazionale. Quando qualcuno è folle ed
entra in manicomio smette di essere ‘folle´ per trasformarsi in ‘malato´. Diventa razionale in
quanto malato".
L´ansia di accreditarsi come scienza sul modello della medicina ha fatto sì che la psichiatria
trascurasse, senza curarsene, la "soggettività" dei folli, i quali furono tutti "oggettivati" di
fronte a quell´unica soggettività salvaguardata che è quella del medico. Ma è davvero credibile
che, negando istituzionalmente la soggettività del folle, sia possibile guarirlo, cioè restaurarlo
nella sua soggettività? Di qui l´invito agli operatori sanitari di togliersi i camici, simboli del
potere medico che non può operare, dice lo sceneggiato, se prima non si smonta il lager. "Ma i
pazienti sono muti" obiettano gli infermieri. E allora, risponde Basaglia: "Avresti voglia di
parlare quando nessuno ti ascolta?". E ancora: "Le anime di questi pazienti non sono ‘vuote´,
come voi dite, ma semplicemente ‘svuotate´, in questo carcere di cui voi siete ‘buoni´
carcerieri, ma sempre carcerieri". E poi perché non restituire ai ricoverati gli abiti e i loro
effetti personali. "Se a voi, medici e infermieri, togliessero tutte le cose più care che avete in
casa, che cosa resta di voi?"
Accettando la condizione di parità tra medico e paziente Basaglia scopre che, restituendo al
folle la sua soggettività, questi diventa un uomo con cui si può entrare in relazione. Scopre che
il folle ha bisogno non solo delle cure per la malattia, ma anche di un rapporto umano con chi
lo cura, di risposte reali per il suo essere, di denaro, di una famiglia e di tutto ciò di cui anche il
medico che lo cura ha bisogno. Insomma, dice Basaglia: "Il malato non è solamente un malato,
ma un uomo con tutte le sue necessità".
L´utopia di Basaglia di fare della clinica un laboratorio per rendere "umane" e non
"oggettivanti" le relazioni tra gli uomini, attraverso la creazione di servizi di salute mentale
diffusi sul territorio, residenze comunitarie, gruppi di convivenza, con la partecipazione di
maestri, educatori, accompagnatori, attori motivati, oggi sembra in procinto di naufragare e
fallire. Anche se l´Organizzazione Mondiale della Sanità, che nel 2003 ha definito la legge
Basaglia che ha chiuso i manicomi come "uno dei pochi eventi innovativi nel campo della
psichiatria su scala mondiale", ci informa che un giovane su cinque in Occidente soffre di
disturbi mentali, che nel 2020 i disturbi neuropsichiatrici cresceranno in una misura superiore
al 50 per cento, divenendo una delle cinque principali cause di malattia, di disabilità e di morte.
Che facciamo? Mettiamo tutti in manicomio o facciamo recuperare loro quel rapporto col
mondo che il manicomio preclude definitivamente e i servizi di salute mentale, così come sono
oggi, non garantiscono, per incuria, trascuratezza, indifferenza, per la paura che la società ha
della diversità che ospita nelle figure degli immigrati, dei tossici, dei senzatetto, degli
emarginati?
Questo Basaglia lo temeva e perciò, un anno prima di morire, scrisse: "Magari i manicomi
torneranno a essere chiusi e più chiusi di prima, io non lo so, ma a ogni modo noi abbiamo
dimostrato che si può assistere la persona folle in un altro modo, e la testimonianza è
fondamentale. Noi, nella nostra debolezza, in questa minoranza che siamo, non possiamo
‘vincere´, perché è il potere che vince sempre. Noi possiamo al massimo ‘convincere´. Nel
momento in cui convinciamo, vinciamo, cioè determiniamo una situazione da cui sarà più
difficile tornare indietro". E il contributo dello sceneggiato televisivo, bellissimo nel suo ritmo,
nelle sue cadenze e nella sua documentazione, va nella direzione di convincerci a non tornare
indietro.
(8 febbraio 2010)
http://temi.repubblica.it/micromega-online/trasformare-i-pazzi-in-uomini-la-bella-rivoluzioneva-in-tv/
Libro da cui è
stato tratto il film