Scheda Salotto su Ferruccio Cabibbe

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Scheda Salotto su Ferruccio Cabibbe
L'istituzione e la follia: il viaggio di Ferruccio Cabibbe
di Roberto Caracci
su Matrimonio manicomio, Moretti&Vitali 2013
Viene raccontata in questo singolare libro l'esperienza in prima
persona di un medico psichiatra e psicoanalista iunghiano a
cavallo del fatidico anno 1978, quello della legge Basaglia che
chiudeva per sempre in Italia i manicomi. Non dunque un
manuale di psichiatria, e neanche una storia della psichiatria in
Italia, ma un vero e proprio racconto, dal taglio meramente
soggettivo- supportato però dalla più che ventennale esperienza
psichiatrica dell'autore- dieci anni prima del 1978 e dieci anni
dopo, come sottolinea fin dal capitolo introduttivo.
L'ironia del titolo segnala un lapsus, davvero capitato all'autore
più volte agli inizi della sua carriera, quando il manicomio
veniva vissuto davvero come una sorta di moglie, con tutti
fattori buoni e non buoni del caso, una istituzione familiare,
quotidiana, che permeava le fibre dello psichiatra e andava ben
al di là del senso del dovere e dell'abituale lavoro di medico.
Ma proprio come con una moglie, talvolta si desidera una
boccata d'aria, un rinnovamento, una uscita dal routine - ed
ecco che la chiusura dei manicomi è stata per Cabibbe come la
legiferazione del divorzio, l'occasione per una sorta di graduale
liberazione -venata da un pizzico di nostalgia, e di un
rinnovamento nel rapporto con i centri psichiatrici, con i
pazienti e con se stesso.
La posizione dell'autore rispetto alla legge Basaglia non è né
prevenuta né scontata: è frutto dell'esperienza vissuta e della
riflessione di una vita, per così dire. Nessun rimpianto reale
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ovviamente per il medioevo dei manicomi, i malati segregati,
etichettati, legati o sottoposti a elettroshock. Ma neanche
nessuno esaltato peana alle magnifiche sorti e progressive
dell'antipsichiatria o dei lindi disinfettati e talvolta anonimi
centri psichiatrici moderni. Si può dire che Cabibbe ha vissuto
la riforma della psichiatria e degli istituti psichiatrici sulla
propria pelle. Se alla fine il manicomio era diventato una
moglie un po' invadente, ingombrante, e per giunta
anacronistica, i centri psichiatrici territoriali successivi alla
legge Basaglia sono vissuti come delle amanti senza garanzia e
senza protezione, un po’ aleatorie e capricciose, che però non ti
annoiano e ti lasciano in fondo solo con la tua libertà di
pensiero e con la eticità e la responsabilità morale del tuo
lavoro.
Non tutto ovviamente dei vecchi istituti psichiatrici, malgrado
la rivoluzione antipsichiatrica, viene gettato al mare, e quando
avviene può creare anche danni ai malati: come nei vari episodi
raccontati da Cabibbe, di pazienti lasciati andare ad una libertà
di spazi e di comportamenti nocivi anche per loro, e poi
necessariamente sedati subito dopo con le vecchie maniere,
non solo psicofarmaceutiche, ma anche fisiche (fasce, legami,
persino elettroshock). L'autore, che rivela qui un tono di
esperienza quasi da scene, di saggezza e di lungimiranza,
diviene qui un occhio testimone, talvolta impassibile, talaltra e
più spesso emotivamente coinvolto in ciò che gli avviene
attorno. E come del resto si può rimanere impassibili dinanzi a
un paziente che dà in escandescenza, che minaccia fisicamente
e aggredisce il medico, oltre a se stesso?
Un elemento, infatti, che non può essere sottovalutato nel
mestiere di psichiatra, è la paura, quella che viene trasmessa
dal paziente al medico e quella stessa che il medico può finire
con provare, trovandosi per esempio da solo in sala o al pronto
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soccorso di notte con un paziente, in assenza di infermieri, di
personale fisicamente corazzato o persino di polizia.
Tantevvero che l'autore racconta numerosi episodi di
aggressioni improvvise, talune delle quali dovute anche alla
delega fatta dagli ospedali al singolo medico, come se lui fosse
una guardia del corpo o avesse seguito un corso di difesa
personale. Fin dai suoi primi anni di servizio, gli viene
raccontata come viatico la storia di un energumeno delirante
che aveva sfondato il cranio di due infermieri, all'improvviso,
con il loro stesso spazzolone. Tra l'altro, rispetto allo
psicoanalista, dice Cabibbe raccontando le sue prime
esperienza, lo psichiatra è più esposto al corpo del paziente, in
quanto considerato interno e quasi consustanziale all'istituto
manicomiale. Talvolta dunque un bersaglio anche sociale,
anonimo e insieme capace di metterci la faccia, e la pelle.
Inoltre, scrive l'autore, 'la psicoanalisi spiega tutto, ma soltanto
dopo. Non riesce a prevedere nulla o quasi'.
La psichiatria comincia a evolversi già prima della legge
Basaglia grazie all'apporto della psicoanalisi e alla diffusione
degli psicofarmaci. In questo contesto l'autore incontra diversi
casi di pazienti 'storici', quelli che restano nella memoria di uno
psichiatra, come quello della colossale Claudia, che si strappa
le bende di contenimento e le getta in faccia al medico, con aria
di profondo disprezzo, come se potesse incenerirlo in quel
momento se non le facesse pena. O il caso della diciassettenne
Giuletta, più volte pronta a tagliarsi le vene e ricoverata a
diverse riprese per un anno, fino a sedute col medico durate
altri due anni e al superamento del problema.
Cabibbe mette molto bene in evidenza le differenze fra i vecchi
manicomi, con i loro spazio di segregazione e una certa
confusione 'umana' interna, e i nuovi ospedali psichiatrici lindi
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e disinfettati, asettici e un po' impersonali, dove il malato viene
ad essere meno esposto -paradossalmente- al corpo del medico
e vive comunque fuori dal mondo -anche quando quel mondo è
un cortile con poco verde- in una libertà di movimento
apparente, come se le porte per lui fossero sempre aperte per
farsi una bella passeggiata e magari non tornare più. La
solitudine del malato mentale rimane anche negli ospedali
psichiatrici moderni, benché declinata in maniera più
igienicamente controllata e con più macchinari e psicofarmaci
a disposizione.
L'ironia di Cabibbe diventa realistica e pungente quando
riguarda, non i malati, ma la fauna, per così dire, dei colleghi,
ossia degli psichiatri stessi. Come il dottor Filippetti, che
esprimeva il suo potere accompagnandosi sempre dentro
l'ospedale al suo barboncino, o il dott. Balestrino, che tratta i
pazienti come camerati pieni di problemi, con battute piccanti,
ai limiti della volgarità (altro segno di potere ostentato).
L'autore non nasconde i criteri clientelari, politici e di
lottizzazione che stavano dietro la scelta dei medici e dei
primari fra gli anni settanta e ottanta -ma anche degli
infermieri- e l'ostentato potere di ciascuno. E fra i Direttori,
certo non tutti avevano la cultura e il prestigio di Mario
Tobino, il celebre scrittore del novecento.
Cabibbe racconta bene il clima post sessantottino un po'
euforico e un po' caotico che anticipò la promulgazione della
legge Basaglia: assemblee, riunioni, comitati, discussioni sul
significato della malattia, del manicomio come prigione, del
malato da non considerare malato o della sofferenza guaribile
sul piano sociale, relazionale, con la reimmissione del paziente
emarginato all'interno delle famiglie e della società stessa da
cui era stato segregato. Le violenze che il nuovo modello di
paziente poteva esercitare nelle case d'origine o contro
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infermieri e medici dei reparti psichiatrici non facevano
cambiare idea. Lo stesso autore venne aspramente rimproverato
dal proprio direttore per essere stato costretto a usare le bende
di contenimento e una volta persino l'elettroshock dopo la
legge Basaglia.
Il passaggio dal manicomio vecchio a quello moderno è vissuto
inizialmente dall'autore come un passaggio dagli ideali
all'ideologia e alla burocrazia. Si praticava ancora la lobotomia,
ossia l'asportazione di una parte di sostanza cerebrale,
dimostratasi dopo operazione sbagliata.
Una storia esemplare, molto ben raccontata, che rimane nella
mente del lettore, è quella del potente dott. Gatti, una figura
torbida e inquietante che si atteggia a nazista, salutando i
pazienti con la mano tesa e pronunciando la parola Gas in una
orribile pantomima. Questo dottore finisce per essere
subordinato all'autore diventato primario, ne avrà una
clamorosa denuncia che lo caccerà dall'ospedale, e infine
morirà in un incidente in moto.
La contestazione del ‘68, nel cui clima poi sorgerà
l'antipsichiatria e la legge Basaglia, è valutata dall'autore come
sotto il segno del Puer, contro la cultura del Senex dei vecchi
Manicomi.
Rimangono poi nella memoria dell'autore, e nella mente del
lettore, anche la storia di Stella, donna e madre meridionale
caduta in crisi delirante, più volte ricoverata, poi morta suicida.
Oppure le due storie finali, di Guido ed Enrico, che
manifestano i loro sintomi schizoidi o paranoici subito dopo il
matrimonio -questa volta davvero vissuto come manicomio,
invertendo il lapsus del titolo- a causa dell'impossibilità di
passare dalle sicurezze della famiglia d'origine, alle sfide di
quella da costruire.
Insomma un libro sincero e onesto, questo di Ferruccio
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Cabibbe, che racconta una storia insieme personale e sociale,
personale e culturale, collocata a cavallo della legge Basaglia,
nel burrascoso periodo che va dai vecchi ai nuovi manicomi, e
poi alla loro fine, col decentramento territoriale degli istituti
psichiatrici. Tra i meriti dell'autore, emerge il grande senso di
equilibrio in mezzo alle contraddizioni e allo scontro di
tendenze conservatrici e progressiste, di nostalgici del
manicomio e di antipsichiatri, di chi ha visto da sempre nella
follia qualcosa di recuperabile con l'apportò dell'ambiente,
delle cure e del sociale, e chi invece ha continuato a rimanere
scettico, proseguendo una tipologia di lavoro quotidiano duro e
realistico, consapevole di trattare di volta in volta problemi
umani che attraversano le generazioni, al di là della
determinazione sociale, e spesso insormontabili.
Non a caso questo libro si chiude con una sentenza di Epitteto,
che si appella alla capacità dell'uomo di rappresentare nel
modo migliore la propria parte, sul palcoscenico della vita. Di
più l'uomo, con i suoi limiti, non può fare.
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