“Il melograno malato” di Marcello Tagliaferri

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“Il melograno malato” di Marcello Tagliaferri
Il melograno malato
Era rimasta solo una melagrana. Sulla faccia più esposta del frutto, quella già leggermente
colorita di rosa dalla primavera inoltrata, un taglio della buccia faceva intravedere all’interno i
pallidi chicchi traslucidi.
Sul terreno, sotto la pianta, i rametti spezzati, le foglioline già appassite, altri frutti calpestati,
tracce evidenti di giochi aggressivi di gruppi turbolenti di ragazzi.
Marco rimase seduto immobile, a contemplare il “suo” melograno, sereno riferimento visivo
di tante ore di panchina al giardino pubblico, trascorse negli anni anche da solo, spesso con il
misterioso compagno, pressochè taciturno, che, elegante, dritto, compassato, le dita intrecciate sul
pomello dell’aristocratico bastone da passeggio, sembrava fissasse il vuoto dinanzi a se.
Mille pensieri passarono nella mente di Marco. Una coincidenza, l’infortunio del “suo”
melograno? Anch’esso si era arreso, come già si era arreso lui, Marco, basta con le cure, che
mantenevano in vita un uomo, che dalla vita ormai più nulla si aspettava! Basta con le lunghe
sedute all’ospedale, le antipatiche somministrazioni, le inutili aspettative a seguito delle vaghe,
forse pietose promesse…
Anche il “suo” albero si arrendeva? Anche il “suo” melograno cedeva alla polvere, alla
chiassosa violenza di tanti, alla pesante atmosfera di una città stanca?
I chicchi del frutto superstite occhieggiavano lucenti dal taglio della scorza.
C’era un messaggio, nella coincidenza? E qual’era?
Nel silenzio del primo mattino, i pensieri scorrevano lenti, ovattati…
Marco d’improvviso si alzò, si avviò. Verso casa sua, poco avanti…guardare quel frutto
ferito, così aperto nella sua interiorità, gli faceva male. Tornò dopo pochi minuti, trascinandosi
faticosamente e faticosamente trascinando una scaletta di metallo, di quelle tenute di solito in
cucina per accedere ai pensili.
Sulla “sua” panchina, al solito posto accanto al “suo”, trovò già sistemato l’altro signore, che
elegante, dritto, compassato, le dita intrecciate nel pomello dell’aristocratico bastone, questa volta,
sorpreso dalla insolita scena, si lasciò sfuggire, alzando un sopracciglio:” Che fa? Posso aiutarla?”
“No, grazie, è compito mio!”
Marco piazzò la scaletta accanto al tronco del melograno, tirò fuori di tasca un rotolino di
cerotto, ne distaccò una lunga striscia, salì sulla scaletta all’altezza giusta, prese delicatamente fra le
dita di una mano il frutto ferito, poggiò con l’altra un’estremità del cerotto su una faccia della
melagrana, strinse il frutto a chiudere lo spacco, vi stese sopra il cerotto a tirare, lo avvolse intorno
per tutta la lunghezza della striscia, ridiscese piano dalla scaletta, si allontanò alquanto a
contemplare l’opera, poi, sfinito, si sedette sulla panchina, ansimando.
Sulla mano, un lungo graffio già rosso di sangue.
“Mi dia quel cerotto…” La voce del vicino, quasi un sussurro imperioso. Il signore distinto
sfilò dal taschino della giacca un immacolato fazzolettino – è pulito, sa? – si sentì comunque in
dovere di dire – lo piegò nel giusto modo, lo poggiò sulla mano di Marco come doveva essere, lo
fissò con una striscia del cerotto, poi: “Vada alla farmacia lì dietro a farsi medicare come si deve,
non vorrei le capitasse un’infezione, lei è il “mio” melograno, lo sa?”
Marco rispose con lo stile del suo compagno, con il silenzio, chè la voce non riuscì ad uscirgli
dalla gola. Poi, quando si riprese:”Potrei tornare al mio ospedale…è tanto che manco..”
“Ma …e la scaletta?” Il sorriso del signore era sottile, d’attesa.
“Lasciamola pure lì… chissà quanta gente, che non conosciamo, vorrà salire a vedere se la
melagrana guarirà…”
M.T.