del DIRITTO dell`AVVOCATURA della GIURISDIZIONE

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del DIRITTO dell`AVVOCATURA della GIURISDIZIONE
del DIRITTO
dell’AVVOCATURA
della GIURISDIZIONE
CEDA
RIVISTA TRIMESTRALE
N. 1 GENNAIO-MARZO 2011
Hanno collaborato a questo numero:
Enrico Maria Belgiorno, avvocato del foro di Modica, dottorando di ricerca Università di Catania
Giovanna Corrias Lucente, avvocato del foro di Roma
Matteo De Poli, professore associato diritto bancario Università Padova
Mariagrazia Romeo, avvocato del foro di Venezia
Pier Marco Rosa Salva, foro di Venezia
RIVISTA TRIMESTRALE
N. 1 GENNAIO-MARZO 2011
INDICE
Parte I
GIURISPRUDENZA
Diritto civile
Investimento in titoli e default dell’emittente. Responsabilità, nei confronti
dell’investitore, dell’intermediario aderente al consorzio PattiChiari
(nota a Tribunale di Torino – Sentenza 22 dicembre 2010 – G.U. Tassone) di Matteo De Poli . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
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Diritto penale
Rilevanza penale di operazioni su derivati: la truffa contrattuale per gli
swaps (nota a Cass., sez. V, ud. 15/10/2009 (dep. 13/11/2009), n.
43347 – Pres. Cosentino – rel. Diotallevi) di Giovanna Corrias Lucente . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
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Un definitivo «sdoppiamento dei termini»? (nota a Cassazione Penale – Sezione VI – 26 ottobre 2009, n. 41038 – Pres. Di Virginio – Rel. Ippolito) di Enrico Maria Belgiorno . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
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Diritto amministrativo
Annullamento in autotutela delle procedure di individuazione degli intermediari finanziari ed effetto caducante (nota a Tribunale Amministrativo Regionale per la Toscana – (Sezione Prima) – 11 novembre 2010, n.
6579 – Presidente Papiano – Est. Cacciari – D.C. Spa contro Provincia
di Pisa – 27 gennaio 2011, n. 154 – Presidente Buon Vicino – Est. Testori – Provincia di Pisa contro D.C. Spa) di Mariagrazia Romeo . . .
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I margini di sospensione dei piani urbanistici (nota a TAR Veneto – Sez. II
– 11 gennaio 2011, n. 16 – Pres. De Zotti – Est. Gabbricci – E. s.r.l. c.
Comune di Fossò) di Pier Marco Rosa Salva . . . . . . . . . . . . . . .
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Tribunale di Torino – Sentenza 22 dicembre 2010 – G.U. Tassone
Intermediazione finanziaria - Obbligo d’informazione c.d. continuativa risultante
da apposita clausola contenuta nell’ordine di borsa sottoscritto dal cliente e dalla
banca - Sussistenza.
Intermediazione finanziaria - Obbligazioni Lehman Brothers - Obbligo d’informazione c.d. continuativa assunto in virtù di apposita clausola contenuta nell’ordine di borsa sottoscritto dal cliente e dalla banca aderente al consorzio PattiChiari - Contenuto
È configurabile a carico dell’intermediario un obbligo di informazione c.d. continuativa a fronte della sottoscrizione di un ordine di acquisto di titoli (nella fattispecie, obbligazioni Lehman Brothers) nell’ambito del quale sia riportata una dichiarazione con la quale l’Istituto di credito s’impegna ad informare «tempestivamente»
l’investitore di eventuali «variazioni significative del livello di rischio» degli strumenti finanziari dal medesimo acquistati.
L’assunzione convenzionale da parte dell’intermediario aderente al consorzio
PattiChiari, risultante dalla dichiarazione riportata sull’ordine di borsa dell’obbligo
con la quale l’istituto di credito s’impegna ad informare «tempestivamente» l’investitore di eventuali «variazioni significative del livello di rischio» degli strumenti finanziari dal medesimo acquistati e ricompresi nell’elenco obbligazioni a basso rischiorendimento stilato nell’ambito del Progetto PattiChiari (nella fattispecie, obbligazioni Lehman Brothers), comporta, ex art. 35 cod. cons., ovvero ai sensi degli artt.
1369 e 1370 c.c., una stringenza dell’obbligo informativo predetto, sia dal punto di
vista delle relative tempistiche, sia dal punto di vista dei presupposti d’insorgenza
dello stesso, maggiore di quella rilevabile con riferimento all’analogo impegno di informazione c.d. continuativa assunto dall’istituto di credito nell’ambito del regolamento PattiChiari.
(Omissis)
I. Premessa.
Anzitutto deve essere premesso: A) che con atto di citazione ritualmente notificato XXX conve-
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GIURISPRUDENZA
niva in giudizio avanti al Tribunale di Torino, in composizione monocratica, SANPAOLO INTESA,
assumendo le conclusioni riportate nell’epigrafe della presente sentenza ed allegando in particolare:
1) che nel mese di ottobre 2007 essa attrice si era recata presso la filiale INTESA SANPAOLO di
Collegno per investire, in titoli conservativi del capitale, la complessiva somma di Euro 778.000,00
proveniente dalla scadenza di un precedente investimento; 2) che il direttore della filiale le consigliava di acquistare obbligazioni Lehman Brothers Holding Inc. in quanto titoli a basso rischio con emittente avente rating AA ed inclusi nell’elenco titoli a basso rischio del Consorzio Patti Chiari, a cui la
banca aderiva; 3) che pertanto essa attrice si convinceva a disporre l’investimento e quindi la banca
predisponeva un ordine di acquisto in data 11.10.2007, con allegato un modulo riguardante il carattere inadeguato dell’operazione per dimensione; 4) che inoltre sia il modulo d’ordine (doc. 1) sia la
nota di eseguito (doc. 2) contenevano la seguente dicitura: «il cliente sarà tempestivamente informato
se il titolo subisce una variazione significativa del livello di rischio»; 5) che con richiesta scritta del
31.3.2008 essa attrice aveva richiesto alla banca di procedere alla vendita dei nominali Euro
778.000,00 di obbligazioni Lehman al prezzo minimo di Euro 99,75, ma la banca, pur tentando di
vendere i titoli, aveva replicato con missiva 1.4.2008 che non era stato possibile inserire l’ordine di
vendita de quo «per eccessivo scostamento dai prezzi di mercato», nel senso che i prezzi erano scesi
sensibilmente al di sotto della soglia indicata dalla cliente; 6) che successivamente essa attrice era riuscita a vendere, al meglio, nominali Euro 119.000,00 tra il luglio ed il settembre 2008, peraltro ad un
prezzo inferiore ad Euro 99,65, perdendo così, rispetto al momento di acquisto, la somma di Euro
6.554,23; 7) che in data 15.9.2008 la Lehman Brothers Holding Inc. richiedeva alla US Bankruptcy
Court di New York l’ammissione al Chapter 11, cioè alla procedura di fallimento pilotato prevista
dalla legge statunitense, dichiarando così il proprio stato di insolvenza; 7) che soltanto con missiva
ordinaria datata 16.9.2008 la banca informava essa attrice che i titoli Lehman «hanno subito una significativa variazione del livello di rischio e non fanno più parte dell’elenco delle obbligazioni a basso
rischio/rendimento» (doc. 10); 8) che con successiva missiva ordinaria datata 2.10.2008 la banca informava essa attrice che la Lehman Brothers era stata sottoposta alla procedura Chapter 11 che dal
15.9.2008 i principali mercati avevano sospeso i titoli del gruppo Lehman dalle quotazioni; 9) che ad
oggi residuavano in capo ad essa attrice nominali Euro 579.000,00 di obbligazioni Lehman Brothers
Holding Inc. (cioè Euro 778.000,00 - Euro 199.000,00), il cui valore era pari a zero, posto che gli
scambi sui mercati sono rarissimi ed a prezzi molto bassi; 10) che alla banca odierna convenuta, come già anche ad altre banche intermediarie, la rischiosità del titolo Lehman era invero già nota sin
dal marzo 2008; 11) che nel caso di specie la banca era incorsa nella violazione dell’obbligo, di fonte
legale (desumibile da una corretta lettura del TUF 58/1998 e del regolamento Consob 11522/2008,
anche confortata da quanto successivamente disposto dalla cd. direttiva Mifid), di informare l’investitore in relazione all’andamento dei titoli in epoca successiva all’operazione di acquisto degli stessi;
12) che pertanto nel caso di specie essa attrice avrebbe dovuto essere informata, tra il marzo ed il settembre 2008, circa il progressivo aumento del rischio di default in capo all’emittente Lehman; 13)
che inoltre la banca si era anche impegnata contrattualmente ad informare l’attrice, dopo l’operazione di acquisto, circa l’aumento del livello di rischio del titolo; 14) che infatti nell’ordine di acquisto
dell’I 1.10.2007 si legge espressamente che il titolo Lehman acquistato «fa parte dell’elenco di obbligazioni a basso rischio-rendimento emesso alla data dell’ordine e redatto nell’ambito del progetto Patti
Chiari» ed inoltre: «N.B. in base agli andamenti di mercato il titolo potrà uscire dall’elenco successivamente alla data dell’ordine. Il cliente sarà tempestivamente informato se il titolo subisce una variazione
significativa del livello di rischio», 15) che in base alle clausole sopra citate l’obbligo informativo sorgerebbe in capo alla banca non quando il titolo esce dalla lista delle obbligazioni a basso rischio dei
Patti Chiari, ma in maniera del tutto slegata da tale evento (che del resto nel caso di specie si era verificato a metà settembre 2008 e cioè quando era già stata diffusa dai media la notizia del default della
Lehman), e cioè, appunto, nel momento in cui si verifica una «variazione significativa del livello di rischio»; 16) che del resto tale interpretazione coincide perfettamente con quanto affermato nel depliant pubblicitario dell’iniziativa «Obbligazioni a basso rischio», assunta da parte delle banche ade-
INVESTIMENTO IN TITOLI E DEFAULT DELL’EMITTENTE
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renti al Consorzio Patti Chiari (v. in particolare il punto n. 17 della p. 23 della Guida pratica/Elenco
delle obbligazioni a basso rischio/rendimento Patti Chiari); 17) che, in ogni caso, l’esistenza di un
preciso obbligo informativo a carico della banca anche dopo l’investimento e collegato (non all’uscita del titolo dall’elenco delle obbligazioni a basso rischio del Consorzio Patti Chiari, ma) alle significative variazioni del livello di rischio, si desumerebbe, sul piano strettamente giuridico, anche facendo riferimento all’art. 35 del Codice del Consumo, indubbiamente applicabile al caso di specie (essendo l’odierna attrice definibile come «consumatore» e la banca come «professionista»); 18) che alle stesse conclusioni è possibile pervenire in forza del disposto degli artt. 1369 – rubricato «Espressioni con più sensi» – e 1370 c.c. – «Interpretazione contro l’autore della clausola» – parimenti
applicabili al caso di specie; 19) che pertanto ed in ultima analisi (v. p. 20 atto di citazione): «l’informativa circa l’aumento della rischiosità del titolo acquistato avrebbe dovuto essere fornita dalla banca
alla signora XXX nel momento stesso in cui la prima è venuta a conoscenza di una significativa variazione del livello di rischio e ciò ... è avvenuto ben prima dell’uscita dei titoli Lehman dall’elenco Patti
Chiari»; 20) che quindi, se informata tempestivamente ed in adempimento agli obblighi assunti dalla
banca, essa attrice avrebbe senza dubbio disposto l’immediata vendita al meglio dei titoli, laddove la
mancata tempestiva informativa le ha invece procurato un danno patrimoniale; B) che si costituiva in
giudizio la banca convenuta, contestando le allegazioni avversarie ed assumendo le conclusioni riportate nell’epigrafe della presente sentenza ed in particolare allegando: 1) che l’attrice era cliente da
oltre un decennio di INTESA SANPAOLO e possedeva, come da lei stessa dichiarato nei questionari sottopostile dalla banca, un’esperienza di investimenti molto alta, un orizzonte temporale di breve
periodo ed una propensione al rischio media; 2) che l’attrice era titolare di un ingente patrimonio
presso la INTESA SANPAOLO ed il suo portafoglio, in seguito all’acquisto oggetto di causa, era costituito in prevalenza da obbligazioni e titoli di stato (Merril Lynch, Lehman, BTP) e da azioni per la
parte restante (Enel e Saras); 3) che l’investimento oggetto di causa era stato segnalato dalla banca
come inadeguato per la sua sproporzionata dimensione rispetto al patrimonio dell’attrice; 4) che le
obbligazioni Lehman oggetto di causa erano ricomprese nell’elenco delle Opportunità a Breve dei
Patti Chiari; 5) che in data antecedente al crack Lehman l’attrice aveva venduto un significativo pacchetto delle obbligazioni oggetto di causa (Euro 191.742,27 per nominali Euro 199.000); 6) che in
conseguenza dell’investimento l’attrice aveva percepito cedole per complessivi Euro 32.690,39 (v.
doc. 5); 7) che attualmente il valore dei titoli era pari ad Euro 46.320,00, calcolato sulla valorizzazione Bloomberg di circa 8 punti basici (v. doc. 14), ed era destinato a salire in funzione dei rimborsi
dovuti alla distribuzione dell’attivo residuo all’esito della procedura del Chapter 11; 7) che, contrariamente a quanto ex adverso prospettato, il crack era stato del tutto imprevedibile, come riconosciuto dalla prima giurisprudenza di merito formatasi in materia, tenuto oltretutto conto del fatto che «...
nel 2008 era in atto una crisi mondiale, ma nessuno avrebbe potuto pensare che la recessione sarebbe arrivata a travolgere un colosso dell’economia americana senza che il governo statunitense facesse alcunché per il suo salvataggio» (v. p. 12 comparsa di costituzione e risposta INTESA); 8) che nessun obbligo di cd. consulenza o informazione continuativa si rinviene nel TUF 58/1998 e nel successivo regolamento Consob 11522/2008 in relazione al servizio di investimento costituito dall’attività di negoziazione, laddove poi risulta del tutto inappropriato il richiamo di controparte agli artt. 29 e ss. del
nuovo regolamento Consob (in attuazione della direttiva Mifid) n. 16190/2007 non solo perché, anche secondo tali norme, gli obblighi informativi devono essere configurati in un momento antecedente all’investimento, ma anche perché tale normativa non può essere applicata estensivamente,
neppure in via interpretativa a fattispecie che ricadono temporalmente sotto la vigenza del regolamento Consob n. 11522/98; 9) che, sotto il profilo ex adverso prospettato dell’esistenza di precisi obblighi di informativi in capo alla banca di fonte convenzionale, doveva invero essere precisato che
l’avvertenza riportata sull’ordine di acquisto 11.10.2007 doveva essere letta ed interpretata alla luce
di quanto previsto dal regolamento del Consorzio Patti Chiari, e cioè nel senso per cui l’aumento del
rischio del titolo si traduceva nell’uscita dal titolo stesso dall’elenco predisposto dal Consorzio e relativo ad una lista di titoli a basso rischio; 10) che, conseguentemente, l’informazione circa l’aumento
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GIURISPRUDENZA
del rischio doveva essere data all’investitore con il primo estratto conto successivo se l’aumento era
modesto ed invece entro due giorni se il rischio era significativo: nel caso di specie, quindi, tale tempistica era stata rispettata dalla banca, che aveva inviato alla clientela la predetta comunicazione alla
clientela in data 16.9.2008, ossia un giorno dopo il crack; 11) che al caso di specie era inoltre inapplicabile l’art. 35 del Codice del Consumo, in quanto la tutela del cliente-investitore è demandata al Testo Unico dell’Intermediazione finanziaria ed al regolamento attuativo, tra l’altro contenenti disposizioni aventi natura di specialità rispetto a quelle del codice civile; 12) che nella denegata ipotesi di riconoscimento della fondatezza della domanda attorca, nella determinazione del quantum debeatur si
doveva tenere conto dell’ammontare delle cedole percepite e del valore residuo dei titoli; C) che a seguito della prima udienza di trattazione ex art. 183 c.p.c, su istanza concorde delle parti, il giudice
concedeva i termini ex art. 183, VI comma, c.p.c. per il deposito delle relative memorie autorizzate;
all’esito, ritenuto di dover statuire sulle istanze istruttorie unitamente al merito, rinviava la causa per
precisazione delle conclusioni; quindi, preso atto dell’istanza attorca di fissazione di udienza di discussione orale ex art. 281 quinquies c.p.c., il giudice concedeva i termini per le sole comparse conclusionali e fissava quindi udienza di discussione orale della causa alli 26.10.2010, all’esito della quale tratteneva la causa in decisione.
II. L’individuazione del thema decidendum e le peculiarità della fattispecie in esame.
Ritiene il Tribunale di dover precisare che l’oggetto del contendere tra le parti è costituito dal
mancato adempimento o meno, da parte della Banca convenuta, agli obblighi informativi sulla stessa
gravanti, e, nello specifico, all’obbligo di informazione cd. continuativa in ordine all’andamento dei
titoli Lehman Brothers FRN 09 a suo tempo acquistati da XXX. In altre parole, dunque, nella controversia in esame parte attrice del tutto peculiarmente si duole soltanto di tale mancata informazione o consulenza successiva, risultando del resto pacifico e documentale in causa il fatto che, al momento dell’investimento, la banca convenuta avesse segnalato alla odierna attrice XXX inadeguatezza dell’investimento per dimensione. Quale ulteriore peculiare profilo della fattispecie in esame deve
essere rilevato: 1) che parte attrice sostiene che l’obbligo di informazione continuativa della banca in
ordine all’andamento del titolo scaturirebbe sia da fonte legale sia da fonte convenzionale: la prima
sarebbe costituita dal disposto dell’art. 21 TUF 58/1998, ancora ratione temporis applicabile all’investimento oggetto di causa, la seconda sarebbe direttamente costituita dall’ordine di investimento (v.
doc. 1 produzioni attoree e doc. 11 produzioni banca) in cui compare, tra l’altro, la seguente dicitura: «N.B. in base agli andamenti di mercato il titolo potrà uscire dall’elenco successivamente alla data
dell’ordine. Il cliente sarà tempestivamente informato se il titolo subisce una variazione significativa del
livello di rischio». Osserva a questo punto il Tribunale: 1) che l’interpretazione dell’art. 21 TUF 58/
1998 data da parte attrice contrasta con l’espresso disposto della citata norma, come anche sempre
ritenuto dalla pacifica giurisprudenza della Sezione I Civile di questo Tribunale: l’art. 21 TUF, in
correlazione all’art. 28 reg. Consob n. 115222/2008, prevede infatti, in riferimento alla attività di negoziazione, quale è quella in esame, un obbligo di informativa sulla natura e sulle caratteristiche del
titolo unicamente sin fino al momento dell’investimento (v. in termini, secondo la giurisprudenza di
merito che si ritiene di condividere, Trib. Parma, 9.1.2008: «L’attività di consulenza finanziaria che si
accompagna implicitamente al contratto di negoziazione trova un limite invalicabile nella negoziazione
finalizzata all’acquisto o al disinvestimento dovendosi escludere che gravi sull’intermediario un obbligo
specifico di monitorare l’andamento del titolo al fine di suggerire all’investitore di intervenire sul mercato per ridurre eventuali conseguenze negative collegate a probabili default»; Trib. Milano,
18.10.2006: «L’intermediario non è tenuto ad informare l’investitore della perdita di valore dei titoli
verificatasi in data successiva all’acquisto, a meno che non si versi nell’ipotesi prevista dall’art. 28 reg.
Consob n. 11522/2998 con riferimento al rapporto di gestione patrimoniale»; Trib. Modena,
20.1.2006: «In presenza di semplici disposizioni di negoziazione di prodotti finanziari ed in assenza di
un contratto di gestione patrimoniale, si deve escludere che l’intermediario abbia l’obbligo di monitorare l’andamento dei titoli presenti nel portafoglio dei clienti e quindi di consigliare loro l’eventuale disinvestimento»); 2) che non può indurre a diverse conclusioni quanto affermato dalla difesa di parte at-
INVESTIMENTO IN TITOLI E DEFAULT DELL’EMITTENTE
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trice in ordine alla possibilità di chiarire meglio il contenuto degli obblighi informativi della banca
nel regime del TUF 58/1998 e del regolamento Consob 11522/1998 facendo riferimento alle nuove
disposizioni di cui al d.lgs. 164/2007 ed al regolamento Consob n. 16190/2007 emanati in attuazione
della direttiva ed. Mifid: non è infatti possibile ricorrere all’utilizzo di normativa sopravvenuta per
valutare giuridicamente una fattispecie a cui tale normativa medesima non sia applicabile ratione
temporis, in quanto tale scelta, formalmente interpretativa, finirebbe per sostanzialmente concretizzare una applicazione della normativa sopravvenuta – destinata invece ad operare, dal momento della sua entrata in vigore, solo per il futuro – in via del tutto estensiva ed illegittimamente retroattiva.
III. Segue: la configurabilità di un obbligo di informazione continuativa in capo alla banca derivante da fonte convenzionale.
Più complessa risulta invece la questione in ordine all’esistenza di un preciso obbligo informativo sull’andamento dei titoli da parte della banca derivante da fonte convenzionale. Sotto tale profilo,
e quivi richiamate le contrapposte allegazioni delle parti come sopra riportate nella motivazione in
fatto, occorre rilevare: 1) che, invero, come autorevolmente precisato dalle Sezioni Unite della Corte
di Cassazione con sentenza n. 26724/2007, l’ordine di investimento si configura come atto esecutivo
a valle del precedente contratto od. quadro di negoziazione e di servizi di investimento e come mero
atto unilaterale del cliente, il quale, nell’ambito del servizio di negoziazione e collocamento titoli, impartisce appunto l’ordine di investimento alla banca intermediaria; 2) che tuttavia nel caso di specie
l’ordine di XXX contiene nella sezione denominata «Clausole e note diverse» il seguente periodo: «Il
titolo fa parte dell’elenco di obbligazioni a basso rischio-rendimento emesso alla data dell’ordine e redatto nell’ambito del progetto Patti Chiari. N.B. in base agli andamenti di mercato il titolo potrà uscire
dall’elenco successivamente alla data dell’ordine. Il cliente sarà tempestivamente informato se il titolo
subisce una variazione significativa del livello di rischio ... »; 3) che, ad avviso del Tribunale, l’inserzione di questo ulteriore contenuto, sottoscritto in calce all’ordine da entrambe le parti (cioè da
XXX e dal funzionario della banca intermediaria) ed aggiuntivo rispetto a quello, standardizzato, tipico dell’ordine di investimento, costituisce una vera e propria pattuizione contrattuale ed integra
dunque una fonte di obblighi di natura convenzionale specificamente assunti dalla banca nei confronti del suo cliente investitore.
Ciò posto, occorre ricordare che secondo le difese della banca convenuta tale clausola non potrebbe che essere letta ed interpretata alla luce del Regolamento del Consorzio Patti Chiari, cui INTESA SANPAOLO ha aderito unitamente ad altri istituti di credito e che ha menzionato nel contesto dell’ordine di investimento.
Sul punto deve essere sinteticamente premesso: 1) che, come allegato dalla difesa della banca
convenuta e come si evince dalla copia del Regolamento o ed. Guida Pratica del Consorzio (v. doc.
12 prod. banca), nell’intento di chi lo ha costituito e di chi vi aderisce «Patti Chiari è un grande progetto di cambiamento dei rapporti tra banche e clienti con un obiettivo preciso: fornire strumenti concreti per capire di più e scegliere meglio i prodotti finanziari» (v. p. 2 doc. 12) e «la prima iniziativa di
Patti Chiari sul risparmio» si è concretizzata nell’«Elenco delle obbligazioni a basso rischio ed basso
rendimento»; 2) che a p. 13 di tale Regolamento/Guida Pratica l’Elenco viene definito come «una lista di titoli di Stato e di obbligazioni a basso rischio ...a basso rischio e quindi a basso rendimento...», la
cui precipua funzione è quella di costituire «uno strumento informativo per rendere disponibile a tutti
i risparmiatori in modo semplice e gratuito le stesse informazioni finanziarie che usano le banche per fare le loro scelte di investimento» (v. p. 14); 3) che a p. 23 del Regolamento/Guida viene inoltre previsto che «... le banche che aderiscono a questa iniziativa Patti Chiari si impegnano a fornire ai propri
clienti una chiara informativa prima, durante e dopo le scelte di investimento. Prima, perché gli operatori spiegano l’iniziativa allo sportello a tutti i clienti; durante, perché negli ordini di acquisto di titoli
obbligazionari è indicato esplicitamente se il titolo fa parte dell’Elenco; dopo, perché verrai informato su
eventuali variazioni» e viene inoltre stabilito che, siccome il rischio di un titolo può variare nel tempo, il titolo stesso può uscire dall’elenco, nel qual caso (v. p. 25 Regolamento/Guida cit.): «Se l’aumento del rischio che causa l’uscita dall’Elenco è modesto, sarai informato al primo estratto conto suc-
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GIURISPRUDENZA
cessivo o comunicazione periodica della tua banca. Se invece l’aumento del rischio è rilevante, cioè il titolo passa direttamente dall’area del basso rischio ad un livello di rischio significativo, verrai informato
entro 2 giorni».
Alla luce di quanto sopra esposto, ritiene pertanto il Tribunale di dover anzitutto rilevare come,
per il fatto in sé della adesione al Consorzio Patti Chiari (ed a prescindere o meno dalla effettiva consegna del Regolamento del Consorzio direttamente al cliente al momento dell’investimento, questione questa trattata in causa dalle parti ma invero del tutto irrilevante ai fini del decidere), gli istituti di
credito abbiano assunto nei confronti dei propri clienti specifici obblighi informativi, che risultano
essere diversi ed ulteriori da quelli contenuti dalla normativa in materia di intermediazione finanziaria (si pensi per es. proprio a quello di informare i clienti prima, durante e dopo le scelte di investimento); nella fattispecie in esame la banca convenuta di fatto conferma tale circostanza, sostenendo
nelle proprie difese che l’avvertenza contenuta nell’ordine di acquisto dei titoli oggetto di causa sintetizzerebbe quanto previsto dal Regolamento del Consorzio Patti Chiari, per cui essa banca si sarebbe impegnata (con «impegno non nascente dall’ordine di borsa, bensì dall’aver aderito alle regole del
consorzio»: così p. 11 comparsa conclusionale INTESA SANPAOLO) ad avvertire l’investitore secondo la tempistica indicata nel Regolamento (cioè, nei casi più significativi di variazione del rischio,
entro 2 giorni). Sennonché, ad avviso del Tribunale, con l’ordine di investimento oggetto di causa la
banca convenuta, dopo aver richiamato la circostanza della inserzione delle obbligazioni Lehman
nell’Elenco delle obbligazioni a basso rischio del Consorzio Patti Chiari, ha poi inserito, previa specifica avvertenza «N.B.», una clausola di tenore diverso e divergente rispetto a quella, appena più sopra citata, relativa alla tempistica degli obblighi informativi: infatti mentre secondo il Regolamento
Consorzio Patti Chiari «Se l’aumento del rischio che causa l’uscita dall’Elenco è modesto, sarai informato al primo estratto conto successivo o comunicazione periodica della tua banca. Se invece l’aumento del rischio è rilevante, cioè il titolo passa direttamente dall’area del basso rischio ad un livello di rischio significativo, verrai informato entro 2 giorni». secondo la clausola concordata tra l’investitore
XXX e l’intermediario finanziario, più rigidamente, «N.B. in base agli andamenti di mercato il titolo
potrà uscire dall’elenco successivamente alla data dell’ordine. Il cliente sarà tempestivamente informato se il tìtolo subisce una variazione significativa del livello di rischio ...». Il raffronto tra le due clausole sopra citate consente pertanto di affermare: a) che il concetto espresso dall’avverbio «tempestivamente» può stare a significare, in rapporto alle caratteristiche della fattispecie concreta, un termine
anche più breve di un termine di due giorni (rispetto al quale comunque l’avverbio «tempestivamente» non costituisce certo un sinonimo); b) che con la clausola contenuta nell’ordine di investimento
oggetto di causa la banca odierna convenuta, già aderente al Consorzio Patti Chiari, si è ulteriormente autolimitata nel rapporto con il cliente, ponendosi un termine più severo (rispetto a quello di due
giorni di cui al Regolamento del Consorzio) per assolvere all’obbligo di cd. informazione continuativa sull’andamento del titolo. Analoghe conclusioni possono essere svolte, sempre in forza del raffronto tra la clausola del Regolamento Patti Chiari e la clausola contenuta nell’ordine di acquisto dei
titoli oggetto di causa, in riferimento al concetto di «aumento del rischio ... rilevante» e di passaggio
del titolo dall’area del basso rischio «ad un livello di rischio significativo»: sebbene la banca convenuta abbia in corso di causa ed in sede di discussione orale sostenuto che tali nozioni rimanderebbero
non, semplicemente, ai mutamenti della quotazione del titolo, ma alle variazioni del ed. Valore a Rischio-VaR (di cui a p. 16 del Regolamento Patti Chiari), è agevole rilevare come nessun espresso riferimento in tal senso sia contenuto nella clausola specificamente concordata tra le parti ed inserita
nell’ordine di investimento oggetto di causa, ove la nozione di VaR non è menzionata né esplicitata.
Ciò posto, deve essere sottolineato: 1) che la peculiare portata della clausola contenuta nell’ordine di investimento oggetto di causa, in termini di affinamento degli obblighi informativi della banca
non solo rispetto alla normativa del settore della intermediazione finanziaria ma anche rispetto alla
disciplina del Consorzio Patti Chiari, e dunque in termini più favorevoli all’investitore, è riscontrabile, sotto il profilo strettamente giuridico, anzitutto alla luce del disposto dell’art. 35 del Codice del
Consumo secondo cui «In caso di dubbio sul senso di una clausola, prevale l’interpretazione più favore-
INVESTIMENTO IN TITOLI E DEFAULT DELL’EMITTENTE
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vole al consumatore»: nel caso di specie, infatti, l’uso dell’avverbio «tempestivamente» non rimanda
all’investitore il significato di «entro 2 giorni», bensì un significato di ben maggiore immediatezza e
celerità; 2) che non può indurre a diverse conclusioni quanto affermato dalla banca in ordine alla
inapplicabilità al caso di specie del Codice del Consumo, sia perché, pacificamente, si è in presenza
di un rapporto tra un consumatore (tale potendo essere definita l’investitrice ed odierna attrice
XXX: v. art. 3 Codice del Consumo) ed un professionista (tale potendo essere definita la banca intermediaria: v. nuovamente art. 3 Codice cit.), sia perché, quando il Codice del Consumo ha inteso affermare la prevalenza e la specialità della normativa in materia di intermediazione finanziaria, lo ha
fatto espressamente ed in ipotesi del tutto particolari tra le quali non può essere annoverata quella in
esame (cfr. per es. il disposto dell’art. 51 del Codice del Consumo); 3) che, del resto, ad analoghe
conclusioni si perviene applicando al caso di specie le disposizioni di cui agli artt. 1369 («Espressioni
con più sensi. Le espressioni che possono avere più sensi devono, nel dubbio, essere intese nel senso più
conveniente alla natura ed all’oggetto del contratto») e soprattutto di cui all’art. 1370 c.c. («Interpretazione contro l’autore della clausola. Le clausole inserite nelle condizioni generali di contratto o in moduli o formulari predisposti da uno dei contraenti si interpretano, nel dubbio, a favore dell’altro»), anch’esse applicabili alla fattispecie in esame, posto che, contrariamente a quanto argomentato dalla
banca convenuta, la normativa in materia di intermediazione finanziaria è speciale ed assume prevalenza nell’applicazione laddove contenga disposizioni concorrenti con quelle generali, mentre ove
non disponga alcunché, ben può essere integrata dalla più generale disciplina codicistica.
IV. Le conseguenze della violazione dell’obbligo convenzionale di informazione continuativa con
riferimento alla fattispecie in esame.
Accertata l’esistenza di un obbligo informativo, di fonte convenzionale, particolarmente incisivo
per la banca intermediaria e maggiormente favorevole per l’investitore, stante il letterale tenore della
clausola contenuta nell’ordine di investimento, deve a questo punto essere accertato se nel caso di
specie si siano effettivamente verificate le condizioni previste per far scattare gli obblighi di informazione «tempestiva» a carico della banca.
In via del tutto dirimente ai fini del decidere osserva il Tribunale: 1) che dalla curva dei prezzi
del titolo Lehman oggetto di causa (v. doc. 16 prod. banca) si evince che il giorno mercoledì 10 settembre 2008 il prezzo del titolo era pari a 91,6373, mentre il giorno successivo giovedì 11 settembre
2008 il prezzo era sceso ad 82,667 salvo il giorno ancora successivo venerdì 12 settembre 2008 risalire ad 87,5257; 2) che queste oscillazioni, riferite avutolo che è sempre stato a basso rischio come il titolo Lehman, senza dubbio costituiscono, secondo quanto indicato dalla clausola contenuta nell’ordine di investimento, «indici di significativa variazione del livello di rischio»; 3) che in questo contesto, dunque, alla luce del rigoroso obbligo che INTESA SANPAOLO ha ritenuto di doversi assumere nei confronti della propria cliente XXX la banca medesima avrebbe dovuto avvisare di tale oscillazione la cliente «tempestivamente» e cioè, onde consentirle di disinvestire e di vendere «al meglio»
i titoli, quantomeno entro il venerdì 12 settembre 2008, data in cui le obbligazioni avevano ancora un
punteggio di 87,5257 e data di ultima apertura della borse prima del crack avvenuto il successivo lunedì 15 settembre 2008. La mancata tempestiva comunicazione, ancora più significativa tenuto conto della notevole dimensione dell’investimento, di cui ben la banca era consapevole per averlo segnalato come inadeguato, va ulteriormente valutata tenuto conto di quanto allegato e documentato da
parte attrice, e non specificamente contestato dalla banca, per cui XXX già in precedenza aveva tentato di vendere, dimostrando quindi l’intenzione di progressivamente ridurre il volume dell’investimento, via via che i titoli in suo possesso cominciavano a palesare oscillazioni di mercato.
Per tutte le ragioni sopra esposte deve pertanto ritenersi: a) che la banca abbia violato l’obbligo
di informativa continuativa e «tempestiva» sull’andamento del titolo, obbligo assunto in via convenzionale in senso ancora più favorevole all’investitore in forza della clausola contenuta nell’ordine di
investimento oggetto di causa; b) che la violazione di tale obbligo ha impedito alla cliente odierna attrice di tentare di vendere «al meglio» sul mercato i titoli, al venerdì 12 settembre 2008 ancora quotati a 87,5257 punti basici; c) che, anche in via presuntiva, tenuto conto dell’enorme dimensione del-
10
GIURISPRUDENZA
l’originario investimento che progressivamente XXX aveva inteso ridurre, è possibile ritenere che, se
prontamente avvertita dalla banca di una discesa del prezzo del titolo da 91.6373 a 82,667, la stessa
avrebbe senz’altro tentato di disinvestire e di vendere «al meglio».
Alla luce di quanto sopra deve pertanto essere dichiarata la responsabilità della banca convenuta
per violazione dello specifico obbligo di informazione continuativa sull’andamento del titolo assunto
nei confronti dell’investitrice XXX.
V. Il quantum debeatur.
Relativamente alla quantificazione del danno occorre rilevare: 1) che, come già sostenuto da
condivisibile precedente della Sezione (v. sentenza 3.3.2009, n. 1634, est. Zappasodi), l’evenienza del
rimborso da parte della procedura concorsuale è del tutto ipotetica, risultando ancora in corso la
procedura del Chapter 11, laddove il danno patito dalla odierna attrice XXX è attuale e concreto; 2)
che inoltre, proprio per essere ancora in corso la procedura, con i relativi vincoli di indisponibilità
sui titoli, del tutto astratto ed ipotetico risulta essere il residuo valore dei titoli, allegato dalla banca
ma del resto neppure idoneamente comprovato (la produzione sul punto, tra l’altro avvenuta solo all’udienza di discussione della causa, è di provenienza unilaterale dalla banca medesima ed ha contenuto del tutto generico); 3) che, per altro verso, non risulta condivisibile la tesi attorea secondo cui
dall’ammontare del danno non andrebbe detratto il valore delle cedole, posto che tali cedole risultano essere state pacificamente percepite nel corso dell’investimento per un valore complessivo di Euro 32.690,39 e che il precedente giurisprudenziale citato dall’attrice medesima non risulta in termini,
riguardando diversa fattispecie e diversa domanda (restitutoria e non risarcitoria).
In ultima analisi ritiene quindi il Tribunale: a) di determinare il danno tenuto conto di quanto
parte attrice avrebbe potuto ricavare vendendo i residui titoli in suo possesso il giorno 12 settembre, se tempestivamente avvertita, ad 87,5257 (e dunque Euro 579.000, residuati nel possesso dell’attrice dagli originari Euro 778.000 a seguito di vendite parziali di titoli per nominali Euro
199.M0,: 100 × 87,5257); di sottrarre dall’importo così ottenuto, pari ad Euro 506.773,803, il valore delle cedole percepite e pari ad Euro 32.690,39; b) di ottenere pertanto un valore di Euro
474.083.413; c) di rivalutare tale danno con decorrenza dal default (15.9.2008) sino alla data di pronuncia della presente sentenza (21.12.2010), in seguito riconoscendo solo gli interessi legali sino al
saldo effettivo.
Non si ritiene invece: a) né di far risalire a data anteriore la violazione dell’obbligo informativo
da parte della banca e le relative conseguenze in termini di danno patrimoniale, contrariamente a
quanto prospettato in causa da parte attrice, posto che prima del lasso temporale identificato in motivazione non si sono verificate, ad avviso del Tribunale, significative oscillazioni delle quotazioni dei
titoli tali da giustificare la comunicazione tempestiva da parte della banca); b) né di esaminare le domande di danno emergente e di lucro cessante, sviluppate e specificamente trattate da parte attrice
soltanto, e tardivamente, in comparsa conclusionale (v. pp. 16-17) e non invece entro le preclusioni
di merito.
VI. Conclusioni.
Per tutte le ragioni sopra esposte, ritenuto superfluo l’espletamento di istruttoria, la banca convenuta INTESA SANPAOLO deve essere condannata a pagare all’attrice XXX a titolo di risarcimento del danno, la somma di Euro 474.083,413, rivalutata dal default (15.9.2008) sino alla data di
pronuncia della presente sentenza (21.12.2010), con gli interessi legali dal 22.12.2010 sino al saldo
effettivo.
(Omissis)
INVESTIMENTO IN TITOLI E DEFAULT DELL’EMITTENTE
11
INVESTIMENTO IN TITOLI E DEFAULT DELL’EMITTENTE.
RESPONSABILITÀ, NEI CONFRONTI DELL’INVESTITORE,
DELL’INTERMEDIARIO ADERENTE AL CONSORZIO PATTICHIARI
1. Il fatto
La decisione in oggetto rappresenta un’interessante variante all’interno di
quelle prodotte dal default di Lehman Brothers, la notissima banca d’affari statunitense il cui fallimento ha infranto il dogma del «too big to fail» (1), precipitando
il sistema finanziario mondiale in una condizione di gravissima instabilità e quello
economico ad un dipresso della Great Depression della fine degli anni ’20.
I fatti di causa sono presto riassunti.
Nell’ottobre 2007 una facoltosa signora, cliente da molti anni di Intesa San
Paolo, si reca presso una filiale della propria banca con l’intenzione di investire
una considerevole somma in strumenti finanziari non rischiosi. Dopo essere stata
avvertita dell’inadeguatezza dell’operazione per la sua dimensione economica, viene indirizzata su obbligazioni Lehman, aventi rating AA e – elemento rilevante per
l’inquadramento giuridico della vicenda – inserite nell’elenco dei titoli a basso rischio del Consorzio PattiChiari (2). Il modulo d’ordine d’acquisto di quelle obbligazioni e la nota di eseguito riportavano in calce una dichiarazione secondo cui il
titolo acquistato «fa parte dell’elenco di obbligazioni a basso rischio-rendimento
emesso alla data dell’ordine e redatto nell’ambito del progetto PattiChiari» (dichiarazione avente chiara natura informativa), con l’aggiunta che «il cliente sarà tempestivamente informato se il titolo subisce una variazione significativa del livello di rischio» (dichiarazione avente natura negoziale).
Tra il 10 e il 12 settembre 2008 la quotazione in borsa del titolo subisce forti
oscillazioni, del tutto anomale per un titolo quale quello Lehman, che era stato
considerato per lungo tempo un titolo a basso rischio e, dunque, privo di un rilevante rischio di mercato.
Il 15 settembre la società – abortita la speranza, coltivata per qualche giorno,
di essere salvata grazie all’intervento del sistema privato – chiede l’applicazione
del Chapter 11 dell’United States Bankruptcy Code, ossia – in sostanza – l’assogget( 1 ) Ossia, la convinzione che le maggiori istituzioni finanzarie non possano essere lasciate fallire essendo troppo alto il rischio di un «contagio» di quella crisi individuale all’interno sistema finanziario (è il cd.
«rischio sistemico»).
( 2 ) Il Consorzio PattiChiari è un sistema di autoregolamentazione dei soggetti esercitanti attività bancaria,
teso a promuovere – come si legge nel suo sito – «la qualità e l’efficienza del mercato e l’educazione finanziaria
nel nostro Paese». Esso riunisce un numero di banche pari a circa il 75% degli sportelli presenti in Italia.
12
GIURISPRUDENZA
tamento ad una procedura concorsuale simile al nostro concordato preventivo.
Il titolo obbligazionario perde così, quasi integralmente, il proprio valore (3), e
di ciò l’investitore viene informato solo il 16 settembre, ossia quando la situazione
era oramai irrecuperabile ed il titolo invendibile.
Citata in giudizio Banca Intesa, il Tribunale di Torino accoglie la domanda di
condanna della stessa al risarcimento dei danni subiti dall’obbligazionista ritenendo violato l’impegno contrattuale alla tempestiva segnalazione delle variazioni significative del livello di rischio del titolo.
2. Contenuto e fonte «contrattuale» dell’obbligo di informazione continuativa
Prima di analizzare il principio di diritto espresso dalla sentenza in commento
gioverà ricordare: i) che il rapporto contrattuale tra banca ed investitore rientrava
pacificamente (almeno stando a quanto risultante dagli atti di causa) nell’ambito
del servizio di investimento denominato esecuzione di ordini per conto della clientela, anche detta «negoziazione per conto terzi» (art. 1.5, lett. b, D. lgs. 24 febbraio
1998, n. 58, cd. tuf). Si fosse invece trattato del servizio di «gestione di portafogli»
(lett. d dello stesso articolo e comma), anche nella sua versione «surrettizia» o
«mascherata» (4), l’inquadramento giuridico avrebbe preso altre strade; ii) che, ratione temporis, la disciplina speciale applicabile al rapporto scaturito dalla prestazione di quel servizio era quella antecedente alla ricezione della direttiva 2004/39/
CE, c.d. MiFID, quindi il d.lgs. 58/1998 nel suo testo previgente ed il regolamento
Consob n. 11522/1998.
Ciò detto si può passare al merito della vicenda, dicendo subito che si condivide la decisione del Tribunale di Torino di riconoscere violato un impegno contrattuale alla tempestiva informazione.
Invero, il rapporto obbligatorio (avente per suo oggetto l’informazione tempestiva sull’aggravamento del rischio) che rileva per la decisione è solo quello tra
banca – ossia il soggetto debitore della prestazione – e investitore – il soggetto creditore della stessa –; in altre parole, quello prodotto dalla dichiarazione contenuta
nell’ordine di acquisto.
Non rileva, invece – o, comunque, cede rispetto a quello ora descritto – l’impe( 3 ) Quanto a quello azionario, tra il 10 e l’11 settembre esso aveva già perduto il 47% del proprio valore di borsa.
( 4 ) Su cui vedi A. Tucci, Sulla c.d. gestione surrettizia di portafogli di investimento da parte di promotori finanziari, in Banca, borsa titoli di credito, 2004, II, p. 20; A. Colavolpe, Gestione «surrettizia» di portafogli di investimento da parte di promotori finanziari, in Le società, 2007, p. 1351 ss.; D. Ducci, Negoziazione, gestione di portafoglio e ordini telefonici, in Giurisprudenza commerciale, 2009, p. 171 ss.
INVESTIMENTO IN TITOLI E DEFAULT DELL’EMITTENTE
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gno contenuto nel Regolamento (o cd. Guida Pratica) del Consorzio, e ciò per due
ragioni: i) la sua opponibilità contrattuale a un soggetto che ne è terzo è incerta; ii)
essa – seppur, per ipotesi, ritenuta esistente – deve in ogni modo lasciare il passo
ad un impegno verso il cliente che è diretto allo stesso e successivo nel tempo.
Se, dunque, l’obbligo di prestare l’informazione al cliente anche dopo l’esecuzione dell’ordine di acquisto ha trovato la sua fonte nella dichiarazione riportata
nello stesso ordine, non resta che esaminarla per capire se essa è stata violata.
L’argomento difensivo di maggiore spessore era indubbiamente quello facente
leva sull’imprevedibilità del fallimento di Lehman Brothers. Tutti sappiamo, infatti,
che il fallimento di questa istituzione finanziaria – la dichiarazione di insolvenza, non
la sua crisi, sia chiaro, che era conclamata da tempo (5) – è giunto effettivamente inaspettato, anche perché, poco prima, altre istituzioni finanziarie erano state salvate
dal Governo e dalla Federal Reserve. Parlare di «mistero» non è un’esagerazione (6)
ma, per ciò che diremo, la soluzione della vicenda non viene da ciò alterata.
Il Tribunale di Torino ha fatto leva sulle oscillazioni della quotazione e da ciò
ha tratto la convinzione che si fosse realizzata la fattispecie decritta nella dichiarazione contenuta nell’ordine, ossia la «variazione significativa del livello di rischio
del titolo».
Riteniamo però che una repentina oscillazione del valore non sia, di per sé
sola, indicativa di una modifica rilevante del livello di rischio di un titolo, perché
il nervosismo dei mercati potrebbe essere un fatto episodico capace di rientrare
rapidamente. Vi è, però, che la banca aveva a disposizione altre informazioni, le
quali, associate all’oscillazione del titolo in borsa, avrebbero dovuto indurla ad
intervenire tempestivamente a tutela dell’interesse dell’obbligazionista: a tacere
dei dati di bilancio, che evidenziavano il rischio di fallimento già dall’anno precedente; dell’oscillazione del titolo azionario; dei massicci licenziamenti; e dei rumours che davano per certa l’insolvenza di Lehman, la banca non poteva non
prestare massima attenzione agli spread dei Credit Default Swap, ossia agli importi pagati da chi vuole assicurarsi contro il rischio di fallimento di una società, che
erano da giorni in forte aumento (7), essendo giunti, ad agosto, a 800 punti base
(l’8 per cento del nozionale) quando all’inizio dell’anno erano a 150 punti base.
( 5 ) Anche in Italia la possibilità di un fallimento di Lehman era stata ampiamente denunciata sui mass
media. Tra i vari, v. Lehman Brothers: quanto sono reali i timori di insolvenza?, in www.bluerating.com del
31 luglio 2008.
( 6 ) Tra i tanti che hanno indagato sulle ragioni del mancato salvataggio v. Larry S. McDonald, Patrick Robinson, A colossal failure of common sense: the inside story of the collapse of Lehman Brothers,
Crown Business, New York, 2009.
( 7 ) Si veda M. Frisone, Il sentore dei Cds sul crack Lehman, in www.ilsole24ore.it; A. D’AlessandroM. Saccà, Responsabilità di un intermediario finanziario nei confronti di un investitore italiano a seguito del
fallimento della Lehman Brothers Holding Inc., nota a Trib. Venezia, 5 novembre 2009, in www.luiss.it.
14
GIURISPRUDENZA
Prudenza avrebbe voluto, dunque, che quell’investimento fosse stato dichiarato rischioso già ben prima del settembre 2008, ma l’associazione settembrina tra
aumento degli spread ed oscillazione del titolo aveva reso dovuta – illico et immediate – la prestazione informativa.
E ad affermare che la tempestività andasse intesa in senso assoluto e non meramente relativo si pongono i) il particolare rilievo, non solo privatistico, dell’interesse dell’investitore che l’obbligo informativo mirava a tutelare, ossia la protezione del risparmio; ii) la grave situazione di instabilità complessiva del sistema finanziario, aggravatasi nel mese di settembre di quell’anno; iii) l’intensità dell’obbligo
di comportamento diligente che stava in capo al primo (o secondo) gruppo bancario italiano (8).
Del resto, l’evoluzione tecnologica e informatica consentono la messa in opera
di sistemi di alert quasi immediati e non particolarmente gravosi o costosi per chi
li deve mantenere e mettere in atto: ed allora, se Intesa aveva la possibilità di rintracciare l’obbligazionista comodamente e rapidamente e non lo ha fatto, essa è in
colpa per il ritardo con cui ha eseguito la segnalazione; se, invece, non aveva quella
possibilità, è da ritenersi in colpa per essere stata negligente al momento di precostituirsi le condizioni ottimali per un adempimento efficiente del proprio obbligo
di rapida messa in guardia.
Bene ha dunque fatto il Tribunale di Torino ad accogliere la domanda di condanna della banca.
3. Il flusso informativo continuativo «legale»
Chiediamoci ora se il Tribunale di Torino avrebbe potuto decidere nello stesso
modo se Intesa non si fosse impegnata contrattualmente, così come ha invece fatto, a prestare quella segnalazione.
Nel caso specifico che oggi discutiamo, quello di Lehman, è da ritenere che
neppure il rispetto degli obblighi derivanti dall’adesione a PattiChiari avrebbe potuto salvare l’investitore. Invero, come si legge nella sentenza, il Regolamento con( 8 ) Ha negato la responsabilità dell’intermediario Trib. Venezia, 5 novembre 2009, in www.ilcaso.it,
che ha respinto la domanda di un risparmiatore che aveva investito in obbligazioni Lehman sette mesi prima del default. Secondo il Tribunale di Venezia, Lehman aveva un rating molto elevato e quindi «il mercato finanziario non ha mai avvertito, prima dell’irreparabile, i sintomi del default; diversamente il rating
Lehman sarebbe precipitato ben prima». Anche il Tribunale di Savona, con decisione del 18 maggio 2010,
ha respinto la domanda dei risparmiatori, affermando che l’intermediario non si trovava in condizione privilegiata per valutare le condizioni finanziarie di Lehman («deve ritenersi che sino al 15 Settembre 2008 (data di fallimento della Lehman n.d.r.) ... i dati a disposizione delle banche corrispondessero a quelli proprio di
un titolo a basso rischio ed a basso rendimento»).
INVESTIMENTO IN TITOLI E DEFAULT DELL’EMITTENTE
15
cedeva all’intermediario la possibilità di informare l’investitore di un aumento di
rischio rilevante «entro 2 giorni» (due giorni dopo l’oscillazione rilevante del titolo, infatti, Lehman sarebbe già stata dichiarata fallita), e non è assolutamente scontato che il grimaldello della buona fede contrattuale avrebbe potuto portare il
Giudice a correggere una pattuizione contrattuale, sostituendo all’indicazione di
due giorni una con un termine inferiore.
Chi scrive pensa, poi, che neppure l’art. 21 del tuf – e, più precisamente, la lettera b, secondo cui «Nella prestazione dei servizi e delle attività di investimento e
accessorie i soggetti abilitati devono «acquisire le informazioni dai clienti e operare in modo che essi siano sempre adeguatamente informati» – avrebbe imposto all’intermediario di segnalare le oscillazioni di valore sul titolo a favore del soggetto
cui aveva eseguito un ordine.
La questione della sussistenza di un obbligo di informare i terzi il cui ordine di
acquisto è stato eseguito anche dopo l’esecuzione dell’ordine è molto dibattuta. Il
Tribunale di Torino ha molto sbrigativamente negato la sussistenza dell’obbligo
facendo riferimento a una decisione dello stesso Tribunale di Torino e a decisioni
di altri tribunali (9) per i quali, nell’ipotesi di contratto di negoziazione per conto
terzi di strumenti finanziari, ogni obbligo informativo si arresta al momento dell’investimento.
Altri tribunali hanno invece affermato la sussistenza di tale obbligo facendo leva sul citato art. 21 del tuf e sul dovere generale di buona fede nell’esecuzione del
contratto (10), o sul dovere di diligenza (11). In termini analoghi si sono posti anche
alcuni autori (12).
( 9 ) Le sentenze citate nella motivazione sono Trib. Parma, 9 gennaio 2008; Trib. Milano, 18 ottobre
2006; Trib. Modena, 20 gennaio 2006.
( 10 ) «È inoltre rilevante considerare il fatto che la Banca era comunque tenuta ad informare il cliente sull’andamento del titolo anche successivamente al suo acquisto e ciò non soltanto in base al principio generale di
buona fede nell’esecuzione del contratto (art. 1175 e 1375 c.c.) ma anche in base a specifiche disposizioni normative. L’art. 21, lett. b), del Tuf (che costituisce norma primaria rispetto al regolamento Consob), nell’imporre agli intermediari di “operare in modo che [i clienti] siano sempre adeguatamente informati”, al fine di
consentire ad essi di effettuare “consapevoli scelte di investimento indicati nell’art. 1, 5o comma, del Tuf, senza alcuna distinzione tra le varie tipologie di servizi (tra cui rientrano anche le negoziazioni di strumenti finanziari per conto proprio e di terzi)”.»: così Trib. Roma, 25 marzo 2008.
( 11 ) «La responsabilità dei soggetti abilitati alla prestazione dei servizi d’investimento per violazione del
dovere di diligenza deve essere valutata alla luce del comportamento tenuto per tutta la durata del contratto ...
In ordine al censurato inadempimento dell’obbligo informativo, che costituisce fondamentale specificazione di
quello più generale di diligenza ..., appare evidente come un tale obbligo non si esaurisca nella fase genetica del
rapporto,... ma permanga pure per la successiva fase di esecuzione del contratto, ... sotto il profilo della trasparente e tempestiva comunicazione dei dati riguardanti l’andamento degli investimenti nella loro progressiva
evoluzione»: così App. Torino, 3 maggio 2006; «Ne discende ... l’imposizione di un preciso obbligo, direttamente in capo alla banca, di informare adeguatamente e costantemente la cliente dell’esistenza dei rischi connessi alla tipologia d’investimento praticato»: Trib. Avezzano, 23 giugno 2005, in Giur. merito, 2005, p. 2001.
( 12 ) P. Picardi, Nuovi sviluppi giurisprudenziali in tema di responsabilità degli intermediari, in Dir.
16
GIURISPRUDENZA
Ragioni di tipo equitativo e redistributivo – la buona fede, la diligenza, l’asimmetria informativa, l’importanza del risparmio ecc. – fanno comprendere le prese
di posizioni di questo genere, ma esse non possono, a nostro avviso, scalfire il valore della distinzione legale, contrattuale, relazionale tra servizio di negoziazione per
conto terzi e servizio di gestione patrimoniale.
La prima si sostanzia in un atto isolato che (quantomeno nel regime normativo
precedente al recepimento della direttiva Mifid) esaurisce la sua capacità di impegnare l’intermediario nei confronti del cliente con l’esecuzione dell’ordine, ed è solo la seconda che inserisce l’investitore in una rete duratura di supporto, ausilio,
consulenza continuativi.
Nulla, ben inteso, impedirebbe al legislatore di accollare al negoziatore per
conto terzi doveri di protezione anche post finitum contractum. Ma, in quest’occasione, il legislatore non ha accollato all’intermediario siffatti obblighi, né tale lacuna legislativa è stata colmata dal Regolamento intermediari perché l’art. 28, ove
vengono fissati doveri di tal genere, riguarda solo i servizi di gestione patrimoniale
e di consulenza.
Né si può ritenere che il regolamento intermediari possa essere interpretato
analogicamente, estendendo al servizio di negoziazione obblighi propri del servizio di gestione patrimoniale. Pur volendo trascurare la questione dell’identità di
ratio, decisiva è, ad avviso di chi scrive, la considerazione che il Regolamento intermediari è una normativa di dettaglio, ossia una normativa caratterizzata da precisione e specificità. Proprio perché essa vuole restringere le incertezze caratteristiche delle clausole generali – come sono quelle contenute nell’art. 21 tuf – per essa
deve valere, in linea di principio, il brocardo ubi lex voluit, dixit, prestando diversamente il fianco di essere un duplicato del tuf, in chiara violazione della delega
conferita all’Autorità di vigilanza. Se, come è ovvio, anche le disposizioni del regolamento intermediari possono essere interpretate estensivamente, il ricorso all’analogia sembra dunque precluso.
Quanto, invece, all’art. 21 tuf, la sua più corretta interpretazione è quella secondo cui, in presenza di un rapporto contrattuale tra intermediario ed investitore,
quest’ultimo deve essere sempre adeguatamente informato. Nulla di più.
Matteo De Poli
Giur., 2007, p. 198; B. Inzitari-V. Piccinini, La tutela del cliente nella negoziazione di strumenti finanziari, Padova, 2008, p. 63.
Cass., sez. V, ud. 15/10/2009 (dep. 13/11/2009), n. 43347 – Pres. Cosentino – rel.
Diotallevi
(Omissis) Nel caso in esame i giudici, di merito hanno ampiamente motivato sulla sussistenza del
delitto di truffa ascritto a tutti i ricorrenti. A titolo esemplificativo da corte territoriale, con motivazione logica ed esente da censure, a seguito dell’esame dell’istruttoria svolta, ha accertato che vi era
stata da parte degli imputati una mendace e dunque voluta informazione sulla rischiosità delle operazioni concluse, con missiva oggetto di specifica contestazione, in conclamata violazione del generale
principio di buona fede negoziale, prima che degli specifici obblighi previsti dalla legge sim (pag.
25), evidenziando analiticamente le peculiarità e anomalie delle operazioni fatte concludere ai clienti
della banca. La corte di merito ha rilevato come il volume del rischio, connesso alla struttura stessa
delle operazioni, si moltiplicava per effetto di altri fattori, primo fra tutti la valuta prescelta, cioè il
marco che era divisa forte a fronte di una lira molto debole. (pag. 25) Il guadagno del cliente dipendeva dall’apprezzamento della lira sul marco, eventualità all’epoca, neanche prospettabile in termini
ragionevoli, attesi i rapporti di forza esistenti tra le due monete, mentre, al contrario, era prevedibile,
in termini concreti, la diversa eventualità della svalutazione e, dunque di un deprezzamento della lira
rispetto al marco. Il cliente avrebbe, quindi, subito perdite nel caso in cui il cambio a pronti lira marco alla scadenza fosse stato superiore al predetto cambio al momento dell’erogazione, (pag. 28).
Trattavasi, quindi di operazione ad alto rischio e basso rendimento, patrocinata dalla stessa banca,
sicuramente speculativa e non di copertura, caratterizzata da un rapporto rischio-rendimento a dir
poco perverso in quanto l’aspettativa di un rendimento, comunque modesto era correlata ad una serie di circostanze che al contempo ne condizionavano l’elevatissima rischiosità. La testimonianza resa
dal professor Ba. conferma che, all’epoca, il rischio di svalutazione della lira rispetto al marco era
concreto e tale da rendere altamente rischioso ogni affidamento al riguardo. la banca, inoltre, a seguito di ogni operazione, aveva un ritorno economico e, negoziando le anzidette operazioni in conto
proprio, operava in conflitto di interesse con i clienti, nel senso che, se il cliente perdeva, la banca ne
traeva un corrispondente utile, così come accertato dalla consob nella sua relazione ispettiva e ribadita dal teste a... appare pertanto coerente e logica la valutazione della corte di merito che ha affermato che la banca fosse pienamente consapevole del rapporto rischio-rendimento che caratterizzava
tali operazioni, speculando al rialzo sul marco e lasciando che il cliente corresse il rischio della svalutazione della lira e della sua fuoriuscita dalla banda di oscillazione dello sme. A fronte di richieste di
operatori che chiedevano di acquistare marchi, speculando al ribasso sulla lira e al rialzo sul marco,
in previsione di una prossima svalutazione della moneta nazionale, la banca doveva trovare clienti
che rappresentassero la contropartita di siffatte operazioni, elaborando l’operazione incriminata e
proponendola a un certo tipo di clientela facoltosa. Rilevante, ai fini della conoscenza dello stato di
rischiosità dell’operazione e della mancanza di informazione alla clientela è la valutazione della corte
che nessun cliente, ove fosse stato consapevole del rapporto rischio-rendimento, sotteso alle predette
operazioni finanziarie, avrebbe concluso tali operazioni, essendo insensato affrontare rischi di perdite elevate, teoricamente illimitate con la sola aspettativa di magri guadagni, in quanto speculare in
controtendenza al mercato, confidando nell’intervento risolutivo delle banche centrali, avrebbe avu-
18
GIURISPRUDENZA
to un senso solo a fronte di un’aspettativa di alto rendimento nel breve o brevissimo termine, aspettativa, invece, nella fattispecie, esclusa ab inizio. Se il prodotto finanziario fosse stato ben compreso
nella sua rischiosità, di certo non sarebbe mai stata acquistato dai clienti della banca, stante l’improponibilità nei confronti di qualsiasi investitore, come già evidenziato, di un’operazione che, a fronte
di una prospettiva di modestissimi guadagni, comportava invece rischi di perdite molto elevate; inoltre è emerso che nessuna delle parti lese aveva effettuato studi specifici in materia economica e finanziaria o aveva alcuna esperienza di prodotti derivati «fuori mercato», ad alto rischio di perdite, utilizzati con finalità speculative e non di copertura. Inoltre, la svalutazione della lira e l’uscita dallo sme
non erano, all’epoca, fatti imprevedibili, come affermato dal teste Ba., pur essendovi una condizione
di stabilità del cambio. Trattavasi, come ben argomentato dalla corte di merito, di una situazione
precaria ed artificiosa, stante la totale divaricazione della stessa rispetto alla reale situazione economica sottostante definita di assoluto squilibrio, ovviamente a tutto sfavore della valuta nazionale, essendo la lira sopravvalutata, con una situazione di stabilità incongrua rispetto alla reale situazione
economica, col rischio concreto ed immanente di una sua svalutazione, tanto da rendere altamente
rischioso ogni affidamento al riguardo, pur tenendo conto dell’intervento delle banche centrali. Va
quindi, condivisa la valutazione della corte di merito, logica e razionale che ritiene che il credito italiano, patrocinando, tramite il corso di (omissis), l’operazione incriminata, fosse pienamente consapevole del rapporto rischio-rendimento che la caratterizzava e abbia operato nel proprio interesse,
speculando al rialzo sul marco e lasciando che il cliente corresse i rischi della svalutazione della lira e
della sua fuoriuscita dalla banda di oscillazione dello sme. Per altro verso la banca poteva avere il
concreto e pressante interesse a compensare, nella gestione complessiva del rischio di cambio descritta dalla teste a.g., le operazioni stipulate con clienti interessati a speculare, al contrario, sul ribasso della lira e il rialzo del marco (cfr testimonianza Br.). Quanto alle doglianze specifiche formulate
dei singoli imputati, la corte territoriale ha, con motivazione logica e coerente, individuato gli elementi di responsabilità nei confronti di ciascuno dei prevenuti. Anche il g., all’epoca direttore della
filiale di (omissis) e il r., vicedirettore della medesima filiale, entrambi devono ritenersi essere stati a
conoscenza, in base alle motivate, coerenti e logiche considerazioni della corte territoriale, della natura speculativa e non di copertura delle operazioni, avendo partecipato al corso di (omissis), ove
erano state illustrate le caratteristiche speculative di tale operazione. lo stesso g. riconosce che la durata dell’operazione, fissata ad un anno, se da un lato era necessaria per fissare il cambio a termine
convenzionale sopra la banda di oscillazione sme (condizione imprescindibile per l’operazione), dall’altro lato rappresentava un fattore di amplificazione del rischio (pagg. 60 e 61 trascr. udienza
6.5.2004). lo stesso era anche consapevole del fatto che l’ampiezza del capitale era un moltiplicatore
del rischio (pagg. 79 e 80 trascr. udienza 6.5.2004), individuato dallo stesso imputato nella svalutazione (pag. 78 trascr. udienza 6.5.2004). Il g. non ignorava, peraltro, i costi (pag. 119 trascr. udienza
6.5.2004), i problemi e le difficoltà connesse alla chiusura anticipata dell’operazione con controbilanciamento (pag. 121 trascr. udienza 6.5.2004). Anche il c., al pari dei suoi coimputati, è stato ritenuto dalla corte di merito, con motivazione coerente logica, consapevole delle caratteristiche del
prodotto incriminato e della strategia sottesa alla sua commercializzazione. Infatti, egli era un membro della direzione finanza a (omissis) (cfr dichiarazioni g., pag. 100, trascr. udienza 6.5.2004) e a livello di professionalità nel settore era equiparabile al ro. (cfr dichiarazioni g., pag. 100 e 101, trascr.
udienza 6.5.2004). Lo stesso G. dichiara che, quando C. era subentrato nella direzione della filiale di
(omissis), vi era stato tra loro il passaggio di consegne, informando il C. che il prodotto era da offrire
alla clientela (cfr dichiarazioni G., pag. 101, trascr. udienza 6.5.2004). Deve pertanto condividersi,
stante la logicità del ragionamento probatorio della corte di merito, che gli imputati appellati erano
pienamente consapevoli delle insidie e criticità che caratterizzavano l’operazione, dell’anomalo rapporto rischio-rendimento che la contraddistingueva e delle ragioni per cui la dovevano offrire alla
clientela, pur trattandosi di un prodotto di per sé invendibile, essendo a basso rendimento ed elevato
rischio, come ben evidenziato dalla corte di merito che ha ritenuto pertinente la definizione data dal
pm appellante di truffa auto – evidente, nel senso che se l’operazione, nonostante la sua improponi-
RILEVANZA PENALE DI OPERAZIONI SU DERIVATI
19
bilità, è stata conclusa, ciò non può che essere avvenuto in seguito ad una mendace e dunque proponente informazione idonea ad indurre in errore il malcapitato contraente, ritenendo, con un calzante
paragone, che tale situazione non è diversa da quella che si verifica quando il truffatore di strada rifila alla vittima prescelta il classico «pacco», laddove è evidente che, senza l’artifizio, il raggiro e l’induzione in errore circa il suo contenuto, la vittima avrebbe rifiutato la transazione. Allo stesso modo
gli imputati, consapevoli della alta rischiosità del prodotto, ma indotti alla vendita dalle indicate strategie aziendali di profitto e copertura (punto d2 della sentenza), hanno minimizzato il rischi proponendo l’operazione ai fiduciosi clienti come prodotto a basso rischio-basso rendimento realizzando
la condotta idonea a configurare le truffe contestate, dovendosi ritenere pienamente credibili le concordi dichiarazioni delle parti offese, analiticamente riportate dalla corte territoriale, da cui emerge
che gli imputati hanno descritto l’operazione ai clienti della banca come un investimento tranquillo,
diretto sono alla migliore clientela e che, a fronte di una modesta aspettativa di guadagno, presentava
rischi limitati, essendo stati erroneamente descritti come rischi remoti quelli effettivamente prospettabili. Emerge altresì, come logicamente desunto dalla corte in base alle testimonianze in atti, che
proprio a causa di tale falsa rappresentazione, totalmente divaricata dalla realtà, le parti offese si erano indotti a concludere le operazioni loro sottoposte, in quanto giammai avrebbero sottoscritto il
contratto se fossero state avvertite del rischio reale dell’operazione. La corte territoriale evidenzia anche che le parti offese non avevano un’esperienza tale da poter comprendere il meccanismo dell’operazione e i rischi ad essa connessi, attesa l’improponibilità in termini assoluti di un investimento che,
a fronte di una prospettiva di modestissimi guadagni, comportava rischi di perdite molto consistenti.
Inoltre nessuna delle parti lese aveva la benché minima esperienza di prodotti derivati «fuori mercato» ad alto rischio di perdite, utilizzati con finalità speculative e non di copertura e la circostanza che
alcuni di essi fossero esportatori e avessero effettuato operazioni in valuta correlate all’operatività
della loro azienda, non li rendeva certamente in grado di valutare i rischi connessi ad un’operazione
del tutto diversa, mai in precedenza posta in essere. La comunicazione falsa e fuorviante da parte di
soggetti che, evidentemente, avevano fiducia nella banca e nei loro operatori, avendo affidato all’istituto la gestione dei loro risparmi, su cui si fondava, se non la sopravvivenza, il buon andamento delle
loro imprese e, del resto, alla luce delle esperienze professionale, non si sarebbe certamente fatta attrarre da una «patacca», ove ne avessero compreso, se gli fosse stato prospettato, il grave vizio genetico delle operazioni concluse. Come si vede si tratta, con evidenza, di questioni di merito sottratte
all’esame di questa corte. In buona sostanza i giudici di merito hanno ben motivato la rilevanza probatoria che hanno ritenuto di accordare alla situazione di fatto accertata, ritenendo, conformemente
alla valutazione espressa dalla corte di merito, l’esistenza degli elementi oggettivi è soggettivi per reati rispettivamente ascritti agli imputati. Si tratta di una ricostruzione dei fatti, operata dalla sentenza,
che si fonda su elementi concreti e si basa su una motivazione che appare logica e coerente. Si deve
rimarcare che il sindacato di legittimità si limita al riscontro dell’esistenza di una motivazione che rispetti i canoni logici, verificando cioè che sussista una coordinazione logica tra le varie proposizioni
della motivazione, senza alcuna possibilità di effettuare una diversa valutazione delle emergenze processuali, essendo limitati i vizi denunciabili, quanto alla motivazione, alla mancanza, alla manifesta illogicità o contraddittorietà risultante dal testo o da altri atti del processo. Ne consegue che le censure che vengono mosse nel ricorso, nei confronti di non condivise ricostruzioni dei fatti operate dai
giudici di appello, non possono trovare spazio in questa sede, trattandosi di valutazioni di merito,
fondate sull’apprezzamento di circostanze di fatto, peraltro alternative rispetto a quelle contenute
nella gravata sentenza che, come si è detto, non appaiono affette da alcuna illogicità. La coerenza e
concretezza argomentativa della sentenza impugnata rendono improprie le censure sulle quali si articolano i relativi motivi di ricorso che vanno, quindi, ritenuti infondati. 5. ulteriore motivo di ricorso
comune agli imputati è l’individuazione del momento consumativo del delitto di truffa aggravata a
seguito della vendita a clienti di prodotti derivati «atipia» ad alto rischio, come gli swop oggetto del
presente giudizio. L’elemento specifico di tale ipotesi criminosa è costituito dall’esistenza di un diretto rapporto causale tra gli artifici posti in essere dall’agente e la prestazione di un consenso viziato
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GIURISPRUDENZA
da parte dei clienti della banca, tratti in inganno dagli operatori dell’istituto. In relazione all’operazione economica posta in essere dalle parti, non si verte, peraltro, in tema di reato permanente, né di
reato istantaneo ad effetti permanenti – ricostruzioni che postulano l’unitarietà della condotta dell’agente – bensì, secondo una giurisprudenza di questa corte in via di consolidamento, di reato a consumazione prolungata: giacché il soggetto palesa la volontà, fin dall’inizio, di realizzare un evento destinato a durare nel tempo, quantomeno per tutta la durata annuale dei singoli contratti, (cfr cass.,
sez. 2, 3 marzo 2005, n. 11026). L’interesse, quanto meno concorrente con quello della banca, degli
imputati, va valutato «ex ante»; mentre il vantaggio richiede una verifica «ex post», potendosi distinguere un interesse «a monte» della banca ad una locupletazione – prefigurata nei suoi elementi fondamentali – in conseguenza dell’illecito, rispetto ad un vantaggio obbiettivamente conseguito all’esito del reato, perfino se non espressamente divisato «ex ante» dall’agente. Trattandosi di reato «a
consumazione prolungata», la condotta truffaldina perdura fino a quando non vengono a scadenza i
singoli contratti, cessando in tale momento l’attività illecita, consolidandosi l’ingiusto profitto a favore del beneficiario. Il delitto di truffa, nella forma cosiddetto contrattuale, non si consuma nel momento in cui il soggetto passivo, per effetto degli artifici o raggiri, assume l’obbligazione della dazione di un bene economico, ma al momento in cui si realizza l’ingiusto profitto da parte dell’agente
con la conseguente perdita economica da parte della persona offesa, (cfr, in una caso analogo, ma
non omogeneo, sez. 2, sentenza n. 31044 del 11/07/2008 ud. (dep. 24/07/2008) rv. 240659, sez. 2 –
29.01.98, stabile, ced. 209671; sez. 2 – 16.04.97, Tassinari, ced 207831). È, tuttavia, anche necessario
che il profitto dell’azione truffaldina entri nella sfera giuridica di disponibilità dell’agente, non essendo sufficiente che esso sia fuoriuscito da quella del soggetto passivo. (sez. 5, sentenza n. 14905 del
29/01/2009 ud. (dep. 06/04/2009) rv. 243608). Nella specie, il momento consumativo della truffa
coincide con quello della effettiva realizzazione dell’ingiusto profitto che va individuato nel termine
di scadenza annuale delle singole operazioni, a seguito del quale si realizza il consolidamento, in termini economici, dell’operazione contrattuale, con l’inserimento della corrispondente partita di debito nel conto del cliente, in ragione della natura di reato a consumazione prolungata a cui corrisponde
il profitto ingiusto a favore della banca. Con l’addebito delle passività i rapporti illegittimamente instaurati hanno avuto esecuzione, concretandosi l’offesa al patrimonio, avendo gli scoperti di conto
corrente immediate conseguenze economico-patrimoniali negative quali, ad esempio, la natura compensativa delle passività dei successivi versamenti in conto e la difficoltà di ottenere nuovi affidamenti bancari. Inducono a tale considerazione l’indubbia valenza economico-patrimoniale insita nell’operazione, quale componente del danno patrimoniale per i clienti della banca, in diretto rapporto
di connessione causale con il dolo dei dipendenti della banca. La truffa contrattuale, sia a consumazione istantanea o prolungata, come nella fattispecie richiede, infatti, anche il requisito della «ingiustizia» del profitto, termine di qualificazione dell’evento riflettentesi nel dolo dell’agente, che, avendo natura di elemento normativo integrativo della fattispecie, va individuato aliunde in modo autonomo rispetto all’illiceità del fatto offensivo, essendo già frutto della scelta di repressione penale della condotta criminosa – mediante le altre indicazioni dell’ordinamento extrapenale. L’ingiusto profitto va ravvisato quando un vantaggio, un’utilità o un incremento patrimoniale (che, nei reati nei
quali è previsto come elemento costitutivo anche il danno, rappresenta concettualmente sul versante
del soggetto attivo l’aspetto speculare dell’arricchimento ingiusto, in una un’accezione economica –
conseguito dall’autore a fronte del pregiudizio subito dalla vittima). Occorre, quindi, verificare se le
transazioni stipulate, successivamente alle scadenze contrattuali delle operazioni truffatine e dopo la
conoscenza e consapevolezza della loro effettiva natura illecita, vadano considerate ai fini del momento consumativi del reato. La corte di merito ha dato risposta affermativa al quesito, affermando
che in caso di truffa contrattuale, quando per effetto di artifizi e raggiri, taluno sia indotto ad assumere un’obbligazione, quale conseguenza del contratto originario truffaldino, il reato si consuma
con l’ultimo esborso effettuato in adempimento di tale ultima obbligazione, ancorché non preordinata nell’originaria pattuizione, spostando in aventi il termine consumativi del reato, fino all’integrale pagamento del corrispettivo di dette transazioni in forza della sinallagmaticità dell’originario rap-
RILEVANZA PENALE DI OPERAZIONI SU DERIVATI
21
porto contrattuale, affermando che le parti offese che hanno definito la loro posizione debitoria con
la banca, lo hanno fatto per evitare i maggiori danni conseguenti al protrarsi dell’inadempimento.
Eventuali dichiarazioni di riconoscimento del proprio debito e della legittimità dell’operato della
banca e dei suoi funzionari, contenute nelle transazioni sottoscritte, sono state ritenute esclusivamente funzionali ad una definizione conciliativa, ritenuta in quel momento l’unica via di uscita da una situazione estremamente difficile. Tale valutazione, contestata dagli appellati, non appare condivisibile. Anche nella truffa a consumazione prolungata la coscienza e volontà degli effetti dell’azione devono essere presenti fin dall’inizio. Nel caso di specie, mentre non può essere esclusa l’eventualità di un
frazionamento del corrispondente debito del cliente, in esecuzione del medesimo contratto; fuoriesce dal momento consumativo del reato la stipula, alla scadenza del contratto fraudolentemente fatto
sottoscrivere ai clienti della banca, di un nuovo e diverso contratto di transazione con l’istituto medesimo, frutto di una autonoma e consapevole scelta del cliente truffato, che, tuttavia, non incide sul
momento consumativo della truffa che si è perfezionata con il consolidamento delle perdite nel conto corrente del cliente e del relativo profitto per la banca, non essendo individuabile in tali successivi
contratti il prolungamento dell’originario progetto truffaldino. Se la parte offesa, dopo la scoperta
della condotta delittuosa, pone in essere ulteriori atti al fine di evitare oneri patrimoniali, connessi al
reato quale, nella fattispecie, transazioni, asseritamente novative, intervenute tra le parti, dopo che le
stesse hanno acquisito la consapevolezza di aver subito una truffa, tali atti non incidono sul momento
consumativo del reato. Trattasi infatti, di contratti stipulati in piena libertà, con cui le parti hanno regolamentato, dopo la scadenza dei contratti di swop, con un nuovo rapporto, gli effetti degli originari contratti. Non è, infatti, controverso che le parti offese avessero già avuto contezza della illiceità
dei contratti originari conclusi con la banca al momento della stipula della successiva transazione
con l’istituto di credito, interrompendosi il collegamento causale tra la condotta ingannatoria e l’ulteriore obbligazione assunta con le singole transazioni. La truffa contrattuale, come già evidenziato,
si è consumata al momento della scadenza dei contratti di swop, con la contabilizzazione nel conto
corrente dei singoli clienti delle perdite e con il corrispondente vantaggio per l’istituto di credito.
Ciò che avviene dopo resta perciò condotta «post factum» senza elidere il dato storico del profitto
già conseguito dall’ente. In tema di truffa contrattuale ad effetto prolungato, con riferimento all’inizio del termine di prescrizione, individuato il momento perfezionativo del reato con la scadenza dei
singoli contratti di swop, deve escludersi, ove la situazione antigiuridica si protragga nel tempo a
causa del perdurare della condotta omissiva dell’agente, che il momento consumativo del reato possa
essere postergato, non essendo possibile che il soggetto agente possa compiere ulteriormente l’attività antigiuridica dopo la scadenza dei singoli contratti e, quindi, da tale momento inizia a decorrere il
termine di prescrizione. In ragione di tale prospettazione il momento consumativo dei singoli reati di
truffa a consumazione prolungata individuati a carico dei prevenuti nelle rispettive imputazioni va
fatto risalire al 1993 con conseguente declaratoria di prescrizione dei reati ad essi rispettivamente
ascritti, maturata in epoca antecedente alla sentenza di primo grado.
(Omissis)
RILEVANZA PENALE DI OPERAZIONI SU DERIVATI:
LA TRUFFA CONTRATTUALE PER GLI SWAPS
1. Introduzione
L’attenzione della magistratura, nell’ultimo decennio si sta concentrando progressivamente sull’attività di Banche e SIM, come avviene notoriamente nelle fasi
di crisi finanziaria.
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GIURISPRUDENZA
Molteplici sono gli indici che rinviano ad una recrudescenza della persecuzione dell’attività bancaria e diversi i settori coinvolti: la costruzione dell’usura per la
capitalizzazione trimestrale degli interessi o per la commissione di massimo scoperto e la severa presa di posizione di parte della giurisprudenza sulla responsabilità civile degli istituti di credito o delle società finanziarie che tende a trasformare
l’istituto in un accessorio della condanna ed allocare l’intero rischio delle operazioni sugli operatori professionali, anche in presenza di gravi colpe del cliente.
Sembra che tale tendenza sia guidata da visioni di politica criminale tese a tutelare il cliente quale contraente debole, indipendentemente dal grado di diligenza e
prudenza da questi dispiegato. Se così fosse lo sfondo extragiuridico sarebbe censurabile perché la responsabilità giuridica, siccome le norme penali tutelano non il
singolo investitore, ma il mercato nella sua interezza e non possono per tale ragione aprioristicamente pregiudicare una parte rispetto all’altra. Così operando, infatti, si sovvertono, infatti, equilibri macroeconomici ed i costi sopportati per il
comportamento di un cliente alla lunga finiscono per essere riversati sul mercato.
Paradossalmente, dunque, la colpa di uno genera costi per soggetti irreprensibili.
2. Truffa contrattuale e condotte omissive
In materia di truffa contrattuale, la linea di demarcazione tra vere e proprie
condotte fraudolente, atte ad integrare la fattispecie di cui all’art. 640 c.p., e forme
di mera violazione del dovere di buona fede, rilevanti unicamente in sede civilistica, può divenire in alcuni frangenti particolarmente labile, specie ove si versi in
ipotesi di c.d. reticenza contrattuale.
È opinione comune in giurisprudenza, infatti, che il mero silenzio serbato da un
soggetto su taluni elementi del contratto, per quanto significativi, non valga di per
sé solo ad integrare il delitto di truffa, occorrendo invece all’uopo un quid pluris.
Ripercorrendo gli approdi raggiunti in materia dalla Suprema Corte, affinché il
comportamento reticente della parte possa assumere rilevanza penale occorrerà in
particolare:
– che il contraente, tacendo alla controparte l’esistenza di taluni elementi rilevanti ai fini della conclusione del contratto, abbia violato uno specifico obbligo
informativo, cui egli fosse tenuto anche in virtù di norme extrapenali (Cass. 10
febbraio 2006, n. 10231; Cass. 14 ottobre 2009, n. 41717);
– che sussista un rapporto immediato di causa ed effetto tra l’omessa indicazione di tali circostanze e la prestazione del consenso da parte dell’altro contraente, il quale, ove adeguatamente informato su di esse, non sarebbe addivenuto
alla stipulazione di quel contratto (Cass. 13 agosto 2009, n. 33408);
RILEVANZA PENALE DI OPERAZIONI SU DERIVATI
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– che l’operatore possa almeno prevedere il rischio di perdita connesso al
contratto.
La valutazione concernente la effettiva ricorrenza delle suddette condizioni riveste particolare delicatezza in materia di contrattazione di strumenti finanziari
derivati, con riferimento alla configurabilità del delitto di truffa nei confronti dell’intermediario finanziario che abbia omesso, in tutto o in parte, di adempiere agli
obblighi informativi di legge istituiti a protezione dell’investitore comune (c.d. information for customers).
3. Strumenti derivati ed obblighi di informazione dell’investitore
Vengono denominati strumenti finanziari derivati, sommariamente, quei prodotti finanziari privi di valore intrinseco, collegati all’andamento di attività sottostanti (»underlying asset»). Tali attività possono essere di natura reale (commodity
derivatives, come oro o petrolio) o finanziaria (financial derivatives, titoli di massa
come azioni ed obbligazioni, oppure tassi di interesse o di cambio).
A differenza di quanto avviene per gli strumenti finanziari primari (azioni, obbligazioni), il cui valore è collegato ai frutti prodotti dall’esercizio di un’attività
economica, il valore dei derivati è collegato dunque ai frutti prodotti da altri strumenti o contratti finanziari.
Una particolare tipologia di strumenti derivati, che di recente ha attirato l’attenzione di diverse Procure, è quella denominata Domestic currency swap: operazione consistente nel bilanciamento di due posizioni valutarie contrapposte (identiche per valuta, importo e scadenza), relative a due operatori distinti.
Col ricorso ai dcs le parti, che nutrono aspettative diverse circa i corsi dei cambi a termine, stabiliscono un rapporto di cambio tra due valute sulla base del quale
viene poi fissato uno scarto, il cui importo sarà corrisposto all’operatore che si avvantaggia della variazione del cambio da quello che ne risulta danneggiato.
Così ad esempio, nel caso in cui, alla data di scadenza stabilita, il tasso di cambio a pronti si trovi al di sotto di quello prefissato, l’importatore verserà all’esportatore la differenza tra i due tassi.
La particolare complessità e la natura decisamente aleatoria che caratterizza le
operazioni finanziarie aventi ad oggetto prodotti derivati (fortemente influenzate
dal meccanismo economico della c.d. leva finanziaria), impongono che il collocamento sul mercato di tali prodotti sia accompagnato da una serie di specifici obblighi informativi, al fine di rendere l’investitore consapevole della natura e dei rischi legati a tali operazioni.
La fonte di tali obblighi va rinvenuta principalmente, a livello di ordinamento
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GIURISPRUDENZA
interno, nel Regolamento Consob 11522/98; una ulteriore specificazione delle
prescrizioni contenute in tale testo si è avuta poi ad opera del d. lgs. n. 164 del
2007, di attuazione della direttiva CE 34/2009 (c.d. Mifid).
Circoscrivere il contenuto e la portata di tali obblighi, con riferimento al singolo caso concreto, rappresenta, dunque, un’operazione che deve necessariamente
costituire il punto di partenza di ogni indagine avente ad oggetto eventuali responsabilità penali ascrivibili agli intermediari finanziari.
Analizzando le prescrizioni contenute nei citati testi di legge, un dato si pone
subito in evidenza: il professionista deve farsi carico, accanto al dovere di informare il cliente, di un parallelo dovere di informarsi sul cliente, che del primo obbligo
costituisce il prius logico e cronologico.
In altri termini, il contenuto e la estensione degli obblighi informativi non sono
aprioristicamente determinabili sulla mera base dello strumento finanziario proposto, ma vanno di volta in volta concretamente modulati in relazione alle competenze, caratteristiche ed esigenze del singolo investitore.
Si assiste, pertanto, ad una sorta di flusso circolare di informazioni: dapprima
l’operatore finanziario assume informazioni sull’investitore, al fine di tratteggiarne il
profilo economico; quindi, sulla base di questo, gli comunica le informazioni aventi ad
oggetto natura, caratteristiche ed adeguatezza sul prodotto finanziario offerto.
In particolare, a seguito dell’entrata in vigore del Mifid, due sono i momenti
essenziali di tale processo informativo.
L’intermediario dovrà, in primo luogo, delineare il profilo dell’investitore (art.
28 Regolamento Consob, c.d. Know your customer rule), acquisendo le informazioni inerenti:
1) la conoscenza ed esperienza nel settore di investimento rilevante per il tipo
di strumento o di servizio, desumibile dai tipi di servizi, operazioni e strumenti finanziari con i quali il cliente ha dimestichezza; dalla natura, dal volume e dalla frequenza delle operazioni su strumenti finanziari realizzate dal cliente e dal periodo
durante il quale queste operazioni sono state eseguite; dal livello di istruzione e
dalla professione del cliente
2) la situazione finanziaria del cliente, desumibile dai dati sulla fonte e sulla
consistenza del reddito del cliente, del suo patrimonio complessivo, e dei suoi impegni finanziari
3) gli obiettivi d’investimento, desumibili dai dati relativi al periodo di tempo per il quale il cliente desidera conservare l’investimento, alla sua propensione al
rischio e alle finalità dell’investimento.
In secondo luogo, sarà necessario procedere alla valutazione della adeguatezza
e conformità dell’operazione proposta al profilo di investimento così delineato
(art. 29 Regolamento, c.d. Suitability rule).
RILEVANZA PENALE DI OPERAZIONI SU DERIVATI
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A tal fine, l’intermediario finanziario dovrà verificare che l’operazione proposta:
1) corrisponda agli obiettivi di investimento del cliente;
2) abbia natura tale che il cliente sia finanziariamente in grado di sopportare qualsiasi rischio connesso all’operazione, compatibilmente con i suoi obiettivi
di investimento;
3) abbia caratteristiche tali per cui il cliente possieda la necessaria esperienza e conoscenza per comprendere i rischi inerenti l’operazione o la gestione del
suo portafoglio.
Sulla scorta di tali valutazioni, l’operatore sarà tenuto, in primo luogo, a non
consigliare al cliente investimenti, senza averlo prima informato sulla natura e i rischi degli stessi, la cui conoscenza sia necessaria per effettuare consapevoli scelte
di investimento o disinvestimento (art. 28 c. 2 Regolamento). Tale regola è volta a
porre rimedio alla c.d. asimmetria informativa esistente tra professionista e cliente;
ne deriva che gli obblighi di diligenza e di informazione possono quindi ritenersi effettivamente adempiuti da parte della banca quando la stessa abbia la percezione, secondo buona fede, che l’investitore ha compreso le caratteristiche dell’operazione effettuata, sotto il profilo del suo funzionamento, dei costi e rischi patrimoniali ed anche in riferimento alla sua adeguatezza, dovendo escludersi in termini di inesigibilità
che dalla banca possa pretendersi la prova certa della piena comprensione da parte
del cliente dell’operazione, sotto i profili sopra indicati (Trib. Civ., Verona 23 dicembre 2008).
In secondo luogo, l’intermediario sarà tenuto ad informare il cliente sull’inadeguatezza, in riferimento al suo profilo di investitore, di eventuali operazioni da esso richieste (art. 29 c. 3).
In tal senso, oltre alla storia finanziaria del risparmiatore, occorre considerare
anche le caratteristiche dimensionali dell’investimento in relazione al capitale, al
portafoglio e agli attuali obiettivi d’investimento del cliente: ne consegue che, così
come non può dirsi inadeguata un’operazione rischiosa rapportata ad un investitore navigato ed aduso a compiere operazioni speculative, ugualmente non andrebbe di per sé considerata inadeguata un’operazione rischiosa solo perché nel paniere dell’investitore esistano solo prodotti finanziari a basso rischio, ben potendo la
stessa essere conforme ad un principio di diversificazione degli investimenti.
4. Le qualità personali della persona offesa e la loro valutazione da parte del giudice
Da quanto visto fin’ora, emerge con chiarezza il ruolo di assoluta preminenza
che l’accertamento della competenza ed esperienza dell’investitore riveste ai fini
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GIURISPRUDENZA
dell’individuazione degli standard comportamentali ed informativi cui è tenuto
l’intermediario finanziario.
Analoga importanza, allora, il medesimo accertamento dovrà rivestire in sede
processuale, laddove si contesti al professionista, per non aver dolosamente adempiuto agli obblighi informativi su di lui gravanti, il delitto previsto dall’art. 640 c.p.
Ad inizio, si è evidenziato, infatti, come, affinché possa ritenersi integrato il delitto de quo nella sua forma contrattuale, occorressero due condizioni concorrenti:
da un lato, la violazione di uno specifico obbligo di informazione da parte del soggetto attivo del reato, dall’altro la sussistenza di un rapporto immediato di causa
ad effetto tra tale violazione (con la conseguente induzione in errore del soggetto
passivo) ed il consenso da questi prestato alla stipulazione del contratto.
Con riferimento alla prima di esse, si è considerato come il (reale) contenuto
degli obblighi informativi vada determinato in realtà proprio in riferimento al profilo dell’investitore; pertanto, qualora nel corso del dibattimento si accerti che la
presunta persona offesa sia in realtà un investitore qualificato, con una pregressa e
consolidata esperienza nel settore dell’investimento nei prodotti derivati, appare
ovvio che lo stesso, essendo già nella posizione di poter effettuare, ai sensi dell’art.
28 Reg. Consob, una consapevole scelta di investimento, necessiterà di un quantitativo di informazioni ridotto rispetto ad un investitore inesperto.
Inoltre, anche laddove fosse imputabile, al promotore finanziario, una violazione dei propri obblighi di informazione, se non addirittura una falsa o scorretta
descrizione dei rischi legati al prodotto offerto, la valutazione delle qualità personali dell’offeso rileva, comunque, in sede di accertamento dell’idoneità della condotta fraudolenta ad indurre in errore la vittima.
A tal proposito, va considerato come gli investimenti nel settore dei contratti
derivati siano, per definizione, connotati da profili di elevato rischio, essendo gli
stessi correlati a parametri aleatori ed esogeni alle parti; ad essi non è, dunque,
estranea una forte componente speculativa, specialmente in ipotesi di operazioni
allo scoperto (quando i prodotti vengano negoziati senza conseguire il possesso
del relativo sottostante, con conseguente incremento della leva finanziaria).
Pertanto, può ben dubitarsi che un investitore dotato di elevata competenza
nello specifico settore, che abbia già effettuato in precedenza numerose ed analoghe forme di investimento, possa invocare a sua discolpa una carente od erronea
informativa sui rischi sottesi a tale tipo di operazioni; appare infatti inverosimile
che un simile soggetto, possa realmente ignorare la natura di un’operazione finanziaria nel cui campo possa vantare una consolidata esperienza.
Nello stesso senso, quando dall’analisi del «curriculum finanziario» dalla persona offesa, emerga che questa abbia sempre prediletto investimenti caratterizzati
da un’elevata propensione al rischio, difficilmente potrà ritenersi che essa non
RILEVANZA PENALE DI OPERAZIONI SU DERIVATI
27
avrebbe prestato il proprio consenso alla stipulazione del contratto, qualora fosse
stata avvisata degli elevati margini di alea ad esso sottesi; in tal caso, infatti, la ricerca di un elevato fattore di rischio appare perfettamente coerente con gli obiettivi d’investimento propri del cliente.
La affermazione della rilevanza penale della condotta dall’intermediario finanziario, che abbia taciuto o travisato la natura aleatoria del prodotto offerto alla
controparte, non può, dunque, prescindere da una attenta valutazione delle qualità personali del soggetto offeso.
Detta necessità trova riscontro costante nella produzione giurisprudenziale in
materia, anche nelle ipotesi in cui i Giudici siano pervenuti ad una sentenza di
condanna per truffa nei confronti degli imputati.
5. La sentenza in commento
La decisione della S.C., V sezione penale, n. 43347 del 15 ottobre 2009, rappresenta il primo noto precedente di legittimità in materia di truffa contrattuale da
currency swap.
Va immediatamente rilevato che il relativo processo ha avuto un andamento
ondivago, segno della difficoltà di decisione, nella subiecta materia. Infatti, in primo grado il Tribunale di Milano aveva assolto gli imputati da molti dei reati loro
ascritti, ritenendo l’insussistenza o l’inidoneità degli artifici e raggiri per le caratteristiche ed esperienza di alcuni clienti. Tale sentenza aveva esaminato, secondo il
modelling dianzi esposto, uno per uno gli investitori, distinguendo tra coloro che
erano in grado di scegliere l’operazione seppur rischiosa ed altri che non avevano
compreso l’aleatorietà della stessa. Da qui sortirono assoluzioni e condanne sorrette da un’attenta motivazione.
La Corte d’Appello, con una perspicua sentenza, aveva però sovvertito la valutazione operata dal Tribunale sui clienti, esaminando da una prospettiva diversa e
più severa od in maniera meno approfondita il loro profilo aveva concluso che
nessuno di questi aveva esperienza sufficiente per comprendere la rischiosità dell’investimento in currency swap.
Inoltre, tramite un consulente tecnico aveva espresso l’opinione che tutte le
operazioni fossero prevedibilmente destinate ad una perdita e che quindi nessun
cliente avvertito le avrebbe sottoscritte consapevolmente.
Inoltre, in tema di tempus commissi delicti, la Corte territoriale assume che il
reato sia consumato non soltanto alla scadenza annuale del contratto di swap
quando maturano perdite e profitti, ma che la consumazione si dilati anche oltre
in caso di contratti novativi o transazioni, stipulati dai clienti.
28
GIURISPRUDENZA
La Corte di Cassazione si pronuncia in materia, affrontando e funditu la questione della truffa contrattuale. Per i limiti propri del giudizio di legittimità accredita la valutazione della prova svolta dalla Corte dì Appello in merito alla consapevolezza dei clienti ed ai raggiri degli operatori. Senza scendere nell’esame partito
delle singole posizioni, ma approva il modelling della Corte territoriale confermando che «vi era stata da parte degli imputati una mendace e dunque voluta informazione sulla rischiosità delle operazioni concluse, con missiva oggetto di specifica contestazione e, dunque, con violazione del generale principio di buona fede
contrattuale, prima che degli specifici obblighi previsti dalla Legge SIM»; ammettendo persino che «il rapporto rischio-rendimento (delle operazioni, ndr) era a dir
poco perverso in quanto l’aspettativa di un rendimento, comunque modesto era
correlata ad una serie di circostanze che al contempo ne condizionavano l’elevatissima rischiosità». Apoditticamente, perciò, accetta la conclusione che «nessun
cliente, ove fosse stato consapevole del rapporto rischio-rendimento, sotteso alle
predette operazioni finanziarie, avrebbe concluso tali operazioni, essendo insensato affrontare rischi di perdite elevate, teoricamente illimitate con la sola aspettativa
di magri guadagni, in quanto speculare in controtendenza al mercato». La proposizione sembra, da un canto demonizzare gli swaps di tal che qualsiasi contratto in
currency import od export costituirebbe segmento della truffa contrattuale; d’altro
canto si fonda su una visione meccanicistica del mercato il cui andamento, invece,
non è mai prevedibile in modo scientifico, qualsiasi tendenza sia in atto. Infatti, è
pressoché impossibile – a meno di ipotesi di crisi dell’intero Stato – prevedere con
certezza l’andamento annuale di una certa valuta, che è legato a variabili ed incognite di elevato numero e connotate dall’imprevedibilità.
La S.C. condivide, dunque, le due fondamentali premesse del sillogismo dal
quale era derivata la condanna in appello: il mendacio consapevole degli operatori
e l’incomprensione della clientela del rischio affrontato, conclude per la sussistenza del reato di frode contrattuale.
Sennonché, affrontando il tema del momento della consumazione del reato
non concorda con le conclusioni della sentenza di appello. Attribuisce al reato di
truffa contrattuale la qualifica di reato a consumazione prolungata, ma afferma
che questa si arresta al momento della scadenza annuale del contratto con la conseguente perdita. La Corte territoriale aveva invece dilatato il tempus commissi delicti fino all’ultimo esborso effettuato anche se non preordinato nel contratto ma
derivato da nuova pattuizione. In applicazione di corrette regole, la Cassazione rifiuta tale interpretazione ed afferma: «nella truffa contrattuale la coscienza e volontà degli effetti dell’azione devono essere presenti fin dall’inizio. Nel caso di specie ...fuoriesce dal momento consumativo del reato la stipula alla scadenza del
contratto fraudolentemente fatto sottoscrivere ai clienti dalla banca, di un nuovo
RILEVANZA PENALE DI OPERAZIONI SU DERIVATI
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diverso contratto di transazione con l’istituto medesimo, frutto di un’autonoma e
consapevole svelata del cliente truffato». L’impostazione appare logica e razionale
difettando gli elementi costitutivi della truffa contrattuale nelle successive pattuizioni stipulate dal cliente in piena libertà negoziale. È ovvio che quanto non rilevi
sul piano penale non può determinare un prolungamento dei termini di consumazione del reato.
Tale principio ha condotto la Corte all’annullamento senza rinvio delle pregresse condanne per intervenuta prescrizione.
In conclusione l’argomento resta assai insidioso, come dimostra l’oscillante valutazione sulle caratteristiche delle persone offese che è risultata nodale per ravvisare il reato, operato in un senso dal Tribunale ed in direzione opposta dalla Corte
d’Appello. Non può poi sottacersi che in termini di inganno doloso il concetto di
prevedibilità che ancora l’elemento soggettivo all’operatore resta da approfondire
sfuggendo a leggi scientifiche certe e lasciando la tentazione di ricorrere ad affermazioni aprioristiche dipendenti dalla considerazione che si ha degli strumenti finanziari.
Giovanna Corrias Lucente
Cassazione Penale – Sezione VI – 26 ottobre 2009, n. 41038 (Pres. Di Virginio –
Rel. Ippolito)
In presenza delle condizioni e dei presupposti previsti dai primi tre commi dell’art. 453 cod. proc. pen., il termine di 180 giorni dall’esecuzione della misura, per il
reato in relazione al quale la persona sottoposta alle indagini si trova in stato di custodia cautelare, ha natura tassativa per quanto riguarda il completamento delle indagini, ma ha natura ordinatoria per quanto attiene alla presentazione della richiesta
di giudizio immediato.
Fatto e diritto.
1. Il Procuratore della Repubblica presso il tribunale di Lecce richiese il rinvio a giudizio di 20
imputati, tra cui Francesco Marco Amato, per delitti di cui agli artt. 73 e 74 d.P.R. 309/90.
All’udienza preliminare del 20 marzo 2009, il giudice per le indagini preliminari dispose tale rinvio per tutti gli imputati, ad eccezione dell’Amato, la cui posizione fu stralciata, con trasmissione degli atti al P.M., per nullità ex art. 416.1 cod. proc. pen., determinata dalla mancata notifica dell’avviso di conclusione delle indagini preliminari al difensore.
Il successivo 26.3.2009, accogliendo la richiesta del P.M., il giudice per le indagini preliminari
dispose il rinvio al giudizio immediato del tribunale di Lecce di Francesco Marco Amato per delitti
previsto dal d.P.R. 309/90.
2. Contro il predetto decreto di giudizio immediato ricorre per cassazione – ex artt. 606.1 lett. c)
in relazione all’art. 453.1 bis cod. proc. pen., il difensore dell’imputato, deducendo violazione del
termine di 180 giorni dall’applicazione della misura cautelare carceraria applicata all’Amato e abnormità dell’atto, «in contrasto con la lettera, la ratio dell’istituto e la finalità della riforma» introdotta
con il D.L. 23 maggio 2008, n. 92, conv. in L. 24 luglio 2008.
3. Come da richiesta del Procuratore generale, il ricorso va dichiarato inammissibile, non essendo prevista l’impugnabilità del decreto che dispone il giudizio immediato e dovendosi escludere in
tale provvedimento ogni profilo di abnormità.
3.1. Il ricorrente fonda le sue censure sul compiuto decorso del termine di 180 giorni dall’esecuzione della misura cautelare, previsto dall’art. 453, comma 1 bis, cod. proc. pen., introdotto dall’art.
2 del D.L. n. 92/2008 cit., e sulla considerazione che il P.M. aveva omesso di richiedere una nuova
udienza preliminare e si era determinato alla richiesta di giudizio immediato al fine di scongiurare la
scarcerazione dell’imputato per decorrenza dei termini di custodia cautelare di fase ai sensi dell’art.
303.1 lett. c cod. proc. pen.
Per quanto concerne il primo profilo, osserva il Collegio che anche per i termini stabiliti dal
nuovo comma 1 bis dell’art. 453 cod. proc. pen., introdotto dall’art. 2 del D.L. n. 92/2008, va fatta
applicazione, per identità di ratio e di scopo, del principio di diritto già affermato da questa Corte a
proposito del termine di 90 giorni di cui all’art. 454 cod. proc. pen. (Cass. n. 41579/2007, Cerami; n.
26305/2004, Dentici).
Ne consegue che, in presenza delle condizioni e dei presupposti previsti dai primi tre commi
dell’art. 453 cod. proc. pen., il termine di 180 giorni dall’esecuzione della misura, per il reato in relazione al quale la persona sottoposta alle indagini si trova in stato di custodia cautelare, ha natura tassativa per quanto riguarda il completamento delle indagini, ma ha natura ordinatoria per quanto attiene alla presentazione della richiesta di giudizio immediato.
Nel caso in esame legittimamente il giudice per le indagini preliminari, in accoglimento della richiesta del P.M., ha disposto il giudizio immediato, avendo ritenuto l’evidenza della prova, la perdurante sussistenza della misura cautelare carceraria, l’avvenuta definizione del procedimento inciden-
32
GIURISPRUDENZA
tale di riesame di cui all’art. 309 cod. proc. pen., l’espletato interrogatorio dell’imputato e la mancanza di ogni attività di indagine successiva alla scadenza del predetto termine di 180 giorni.
3.2. Va aggiunto che il procedimento utilizzato è pienamente conforme alla lettera, alla ratio e allo
spirito e alla finalità dell’istituto, riformato con la novella del 2008, che ha reso obbligatorio il giudizio
immediato, sussistendone presupposti e condizioni, salvo che ciò pregiudichi gravemente le indagini.
In presenza di un rilevante numero di indagati, imputati di reati in concorso necessario od eventuale, in diverso status custodiae et libertatis, legittimamente il P.M. richiese il rinvio a giudizio ordinario per tutti gli imputati.
Separata la posizione dell’imputato Amato per nullità ex art. 416.1 cod. proc. pen. e trasmessi i
relativi atti al P.M., nella ricorrenza di tutti i presupposti e le condizioni di cui all’art. 453 cod. proc.
pen., diveniva doveroso – attesa l’obbligatorietà del giudizio immediato introdotta dall’art. 2 D.L.
cit. – per il PM richiedere e per il G.i.p. disporre tale giudizio. Siffatto esito non soltanto non poteva
più in alcun modo pregiudicare le indagini, ma era all’evidenza funzionale alla più celere definizione
di tutte le posizioni processuali coinvolte nell’originaria indagine.
4. All’inammissibilità segue la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali e
della sanzione pecuniaria, che si ritiene adeguato determinare nella somma di 500 euro, in relazione
alla natura delle questioni dedotte.
P.Q.M.
La Corte dichiara il ricorso inammissibile e condanna il ricorrente al pagamento delle spese del
procedimento e al versamento della somma di 500 euro in favore della cassa delle ammende.
UN DEFINITIVO «SDOPPIAMENTO DEI TERMINI»?
Con la sentenza in epigrafe, la Suprema Corte viene chiamata a pronunciarsi
su una nuova questione, originata dalla novella legislativa introdotta con d.l. 23
maggio 2008, n. 92, così come modificato dalla legge 24 luglio 2008, n. 125 (il cd.
«Pacchetto sicurezza»); in particolare, la Corte ha statuito che il termine di 180
giorni decorrenti dall’esecuzione della misura cautelare (così come previsto dall’art. 453 co. 1 bis c.p.p., introdotto dalla citata novella) ha natura tassativa – termine perentorio – per ciò che attiene al compimento delle indagini, ma natura meramente ordinatoria per quanto riguarda la proposizione del giudizio immediato,
ripercorrendo quindi quanto già unanimemente accolto in dottrina e giurisprudenza a proposito dei termini di cui al giudizio immediato «tipico».
Ratio della norma de quo è rintracciabile (ad un’attenta e complessiva lettura
della novella legislativa del 2008) nel parallelismo che intercorre tra il nuovo art.
453 co. 1 bis e l’art. 132 bis disp. att. c.p.p.: principio fondamentale che sottende ad
entrambe le norme in questione è la creazione di una corsia preferenziale, per il giudizio immediato, che conduca ad una più celere proiezione dibattimentale nei confronti di colui che si trovi in vinculis; risalta in tale ottica una funzione di tutela delle
garanzie individuali. Invero, se da un lato il legislatore ha previsto una costruzione
astrattamente simmetrica tra tempi ed esercizio dell’azione penale (che corre lungo
l’asse formato dalle disposizioni degli articoli 405 e 407 c.p.p, coerentemente quindi
con in tempi con i quali si perviene alla completezza investigativa), dall’altro lato
UN DEFINITIVO «SDOPPIAMENTO DEI TERMINI»?
33
nell’art. 453 co. 1 bis muta il dies a quo per l’esercizio dell’azione penale mediante richiesta di giudizio immediato: l’individuazione di detto termine altro non fa che
«dilatare» i tempi per la richiesta del rito anticipatorio, non andando ad influire (se
non sul rapporto ordinanza di custodia cautelare – richiesta di giudizio immediato,
che di seguito vedremo) né sulla eventuale celerità della richiesta di detto rito, né sul
reale significato dell’articolo cui si aggancia (l’art. 132 bis disp. att. c.p.p., per l’appunto), potendosi in ogni caso prevedere (per le fattispecie di cui alla lettera f) di
detto articolo), una trattazione dibattimentale anticipata.
Rapporto tra giudizio immediato «tipico» e novella legislativa
Come noto il giudizio immediato «tipico», promosso su iniziativa del P.M., risulta plasmato, in un’ottica di celerità e snellezza processuale, su un duplice requisito di forma: l’esistenza di una «prova evidente», non funzionale ad un accertamento
definitivo della responsabilità penale dell’imputato, bensì prodromico allo stesso e
fondamento per l’immediato passaggio alla fase dibattimentale (1); ed il previo interrogatorio (ovvero omessa comparizione) dell’imputato, al quale può procedere,
mutatis mutandis, il P.M. competente, la Polizia Giudiziaria ovvero il G.I.P.
Con la novella di cui alla legge 24 luglio 2008, n. 125 il legislatore ha introdotto
nel codice di rito una serie di articoli a contorno e ad ulteriore esplicitazione del
funzionamento del meccanismo di detto giudizio: tra questi risalta il comma 1 bis
dell’art. 453 c.p.p., con riguardo alla previsione di un termine (stavolta raddoppiato e pari, quindi, a 180 giorni) che decorre non più dalla iscrizione della notitia criminis nel registro degli indagati, bensì dalla «...esecuzione della misura per il reato
in relazione al quale la persona sottoposta alle indagini si trova in stato di custodia
cautelare»; termine che, inoltre, decorre solamente «...dopo la definizione del procedimento di cui all’art. 309, ovvero dopo il decorso dei termini per la proposizione
della richiesta di riesame.» (2). La novità di cui alla l. 125/2008, che trae spunto
dalla bozza di disegno di legge delega promosso dalla Commissione per lo Studio
e la Riforma del Codice di Procedura Penale presieduta dal Prof. Riccio, configura
quindi un dovere in capo al P.M. (in ossequio ai dettami costituzionali ed eccezion
fatta per la clausola di salvezza di cui all’art. 453 ter c.p.p., che attiene alla necessaria prosecuzione delle indagini) di esercitare l’azione penale tramite citazione diretta a giudizio dell’imputato in relazione al reato per il quale è già stata disposta
una misura cautelare. Un dovere, come si è detto; ma molto più probabilmente, in
( 1 ) Vedi P.P. Rivello, Il giudizio immediato, Padova, CEDAM, 1993, 158.
( 2 ) Vedi, per quest’ultima parte, l’art. 453 co. 1 ter così come introdotto dalla novella legislativa.
34
GIURISPRUDENZA
realtà, l’esercizio di un mero diritto soggettivo da parte del P.M., stante in ogni caso la possibilità in capo a quest’ultimo di non proporre richiesta di giudizio immediato allorquando ritenga si sia in presenza di pregiudizio per il prosieguo delle indagini. Ipotesi, questa, suffragata dal fatto che, nella previsione codicistica, non è
presente alcuna norma che sanzioni esplicitamente ed in modo definitivo l’eventuale inapplicazione del principio di cui all’art. 453 co. 1 bis: l’unica sanzione, in
caso d’inosservanza dell’obbligo de quo, sarebbe solamente di tipo disciplinare e
non già di tipo processuale. Ad ogni modo, formulata la richiesta, si tratta di un
vero e proprio «salto» compiuto dal P.M. (in presenza degli innovativi presupposti di legge) che sembra richiamare quello compiuto dallo stesso allorquando formuli richiesta di giudizio immediato «tipico», ma che crea invece alcuni ostacoli
ed insinua forti dubbi e perplessità sulla sua concreta applicazione.
Giudizio immediato «custodiale» ed apparenti storture del nuovo sistema
Come abbiamo appena visto, il termine di 180 giorni a disposizione del P.M.
per la formulazione della richiesta di giudizio immediato cd. custodiale al G.I.P.
decorre dalla data di esecuzione della misura cautelare (sul punto torneremo più
avanti): l’enfasi del legislatore si pone quindi sulla consistenza degli indizi di colpevolezza e sullo status di cattività; non già sulla brevità delle indagini e sul contestuale emergere di evidenze probatorie (3). E qui già una prima incongruenza: nel
rispetto delle garanzie costituzionali, l’eventuale imputato latitante, per il solo fatto di non essere in vinculis (e pertanto non sottoponibile a giudizio immediato
«custodiale»), fatta eccezione per una sua tempestiva costituzione, con tale sistema verrebbe «gratificato» da un’udienza preliminare che altrimenti (nel caso in
cui, appunto, fosse in vinculis e si procedesse ex art. 453 co. 1 bis) potrebbe non
spettargli; il che, rebus sic stantibus, in linea di principio potrebbe anche condurre
ad una violazione del costituzionale diritto di difesa (4).
Il punto d’appoggio della nuova disciplina è dato dall’equazione «custodia cautelare = presunta colpevolezza dell’imputato» (5). Tuttavia sono piani che, seppur
nell’intenzione della norma de quo tendano a sovrapporsi e confondersi, dovrebbero in realtà tenersi ben distinti. Da qui una seconda contraddizione introdotta nel si-
( 3 ) Vedi R. Orlandi, Note critiche a prima lettura in tema di giudizio immediato «custodiale», in Osservatorio del Processo Penale, a cura di A. Gaito, Anno II n. 3, maggio-giugno 2008, 11 e segg.
( 4 ) Vedi infra.
( 5 ) Vedi S. Lorusso, Il giudizio immediato (apparentemente) obbligatorio e la nuova ipotesi riservata all’imputato «in vinculis», in Le nuove norme sulla sicurezza pubblica, a cura di S. Lorusso, Padova, 2008, 148.
UN DEFINITIVO «SDOPPIAMENTO DEI TERMINI»?
35
stema: l’incidente cautelare ha infatti uno svolgimento autonomo rispetto a quello
principale (6). Il giudizio immediato cd. custodiale presuppone ci sia una sorta di
«stabilizzazione» (7) del fumus commissi delicti, in quanto la misura cautelare è già
passata all’eventuale vaglio del Tribunale delle Libertà (nel caso in cui abbia revocato la misura stessa o nel caso in cui siano spirati i tempi per il controllo del giudice).
Ma se di «stabilizzazione» si può parlare, sul giudicato non si può discutere: la tutela cautelare è strumento eccezionale nel processo penale che si fonda, come ben noto, sui due presupposti del fumus commissi delicti e del periculum libertatis. E già sul
fumus commissi delicti ci sarebbe da obiettare, trattandosi per definizione di «gravi
indizi di colpevolezza» e non già di «evidenza probatoria»: fumus da intendersi come prognosi di qualificata probabilità di colpevolezza, con una spiccata estraneità
all’eventuale sostenibilità dell’accusa in giudizio; «evidenza» quale base probatoria
essenziale per il passaggio alla fase dibattimentale che si possa dedurre, a contrario,
allorquando si tenda ad escludere che il contraddittorio tra le parti in udienza preliminare possa condurre all’emanazione di una sentenza di non luogo a procedere (8).
Far discendere, dunque, una rinuncia forzata all’udienza preliminare da un mero
presupposto indiziario, comprimerebbe fortemente il diritto alla difesa dell’imputato, proiettato verso una procedura meno garantita di quanto previsto normalmente e sulla base di un’ordinanza (non sentenza!) con la quale – seppur in via confermativa – vengono irrogate misure (cautelari) per definizione interinali. Anche su
questo punto si concentra allora l’attenzione: dottrina e giurisprudenza sono pressoché concordi nel ritenere che l’art. 453 co. 1 bis c.p.p. sia da considerarsi «autonomo» rispetto all’ordinario giudizio immediato previsto nel prodromico art. 453; se
così fosse, tuttavia, si ricondurrebbe il tutto alla non-applicazione (trattandosi di
giudizio immediato cd. custodiale) dei presupposti ritenuti necessari per il giudizio
immediato «tipico», essendo solo sufficiente che l’imputato sia in vinculis e che non
venga ottemperata l’esigenza della clausola di salvezza («... Salvo che si pregiudichino le indagini...»). Si verrebbe sostanzialmente a creare un «rito nel rito», una subspecie di procedimento anticipatorio dalla connotazione indipendente.
Un «rito nel rito» a carattere indipendente? Ancora qualche dubbio
Una tale ricostruzione risulterebbe carente da molteplici punti di vista: intanto
( 6 ) Vedi R. Orlandi, Note critiche a prima lettura in tema di giudizio immediato «custodiale», ibidem.
( 7 ) Vedi S. Lorusso, Il giudizio immediato (apparentemente) obbligatorio e la nuova ipotesi riservata all’imputato «in vinculis», cit., 150.
( 8 ) Vedi P. Spagnolo, L’art. 453 co. 1 bis c.p.p.: una nuova ipotesi di giudizio immediato?, in Giur. it.,
2009, n. 12, 3.
36
GIURISPRUDENZA
perché, a livello letterale, vengono utilizzate dal legislatore espressioni differenti (si
può agevolmente notare come la differenza tra le due tipologie di procedura, l’una
«custodiale» e l’altra «tipica», risieda tra l’altro nell’«obbligo» (9) di attuazione della prima a fronte di una potestà contenuta nella seconda); secondo poi perché, come
detto, un’ordinanza di custodia cautelare (per quanto confermata in sede di riesame
o addirittura in Cassazione) per definizione non ha carattere di giudicato (sostanziale, non cautelare!) ma si fonda solo su elementi non-definitori; ancora poi perché,
posto che il giudizio immediato – come visto – vada a frustrare il diritto di difesa,
una sua instaurazione sulla base di un rapporto acclaratamente indiziario si risolverebbe in una precisa violazione dell’art. 24 co. 2 Cost. Un esempio sopra tutti: cosa
accadrebbe se la Corte di Cassazione annullasse il provvedimento di custodia cautelare per insussistenza del fumus commissi delicti di cui all’art. 273 c.p.p.? Lo stesso
provvedimento è fondamento per la richiesta di giudizio immediato cd. custodiale;
ma sarebbe anche base per una richiesta di archiviazione da parte del P.M. ex art.
405 co. 1 bis c.p.p., richiesta che – ovviamente – una volta domandato il rito anticipatorio non è più avanzabile dallo stesso organo inquirente. Nell’incertezza posta
dall’art. 453 co. 1 ter (che fa esplicito riferimento alla definizione del solo «procedimento di riesame» della misura cautelare), l’unica soluzione prospettabile sarebbe
quella di una corretta applicazione della clausola di salvezza contenuta nell’ultima
parte dell’art. 453 co. 1 bis, che consentirebbe quindi al P.M. di valutare il grave
pregiudizio alle indagini; senonché, un’indagine approdata ai «gravi indizi di colpevolezza» è, per definizione, completa. La discrezionalità del Pubblico Ministero
sfocerebbe nell’arbitrio, con immediata violazione dell’art. 24 co. 2 Cost. (10).
Ed allora, si ribadisce, delle due l’una: o si ammette un rapporto di indipendenza del comma 1 bis rispetto alla rimanente parte dell’art. 453, di modo tale che
detta indipendenza si risolva in un «rito nel rito», avente carattere straordinario e
derogatorio rispetto alle ipotesi canoniche di applicazione del giudizio immediato
«tipico» (il che conduce alle conseguenze che abbiamo detto); oppure si ammette
che il giudizio immediato cd. custodiale è rito strettamente connesso con quello
«tipico», dipendente da quest’ultimo e soprattutto legato inscindibilmente alla disciplina dei termini così come quivi previsti.
In linea con le considerazioni appena svolte, risulta inoltre utile chiedersi, conformemente alla sentenza che si annota, se i termini posti dal comma 1 bis posseggano natura differente rispetto quelli posti a fondamento del comma 1 del medesimo
articolo 453 c.p.p. Proprio su tale punto si incentra prevalentemente la pronuncia
( 9 ) Seppur di vero e proprio «obbligo» non si può parlare. Vedi supra.
( 10 ) Vedi R. Orlandi, Note critiche a prima lettura in tema di giudizio immediato «custodiale», in Osservatorio del Processo Penale, a cura di A. Gaito, op. cit., 12.
UN DEFINITIVO «SDOPPIAMENTO DEI TERMINI»?
37
della Corte di Cassazione, la quale afferma e ribadisce da una parte la perentorietà
del termine di 180 giorni per quel che attiene al completamento delle indagini e dall’altra parte la mera ordinatorietà del medesimo termine con riferimento alla formulazione della richiesta di giudizio immediato cd. custodiale. A ben vedere altrimenti
non poteva essere: quanto espresso in sede di legittimità risulta collocarsi in perfetta
sintonia con quanto precedentemente detto dalla stessa Corte in merito al termine
di cui al comma 1; non si intravedono d’altro canto ragioni per le quali si sarebbe
dovuta considerare la valenza di un termine in modo difforme rispetto alla valenza
di un altro termine che, anche se proceduralmente volto a disciplinare una fattispecie differente, nella sostanza tende a coprire una medesima materia (le modalità di
esercizio da parte del P.M. della facoltà di chiedere giudizio immediato, logicamente alla presenza degli opportuni presupposti, risultano identiche nei commi 1 ed 1
bis dell’art. 453 c.p.p. ed in coerenza con quanto stabilito dagli articoli 405 e 407,
quindi non v’è motivo per cui la Corte si discosti dalla sua precedente giurisprudenza). Se il legislatore inoltre avesse interpretato come perentorio tale termine, avrebbe esplicitamente ricondotto alla sua eventuale violazione conseguenze di tipo sanzionatorio: conseguenze che invece, stante la ripetuta ordinatorietà di detto termine, non possono venir rintracciate in nessun’altra disposizione codicistica.
Altra considerazione importante da farsi è relativa al decorso del periodo di
tempo stabilito dal comma 1 bis: i 180 giorni posti a disposizione del Pubblico Ministero per la formulazione della richiesta al G.I.P. di giudizio immediato, da quando
decorrono? Mentre nel comma 1 dell’art. 453 c.p.p. si parla di termini decorrenti
dall’iscrizione della notizia di reato nell’apposito registro ex art. 335 c.p.p. (decorso
da computarsi in relazione alle iscrizioni «oggettive» e «soggettive» distinte dalla
dottrina (11) e su cui, in questa sede, non sembra opportuno soffermarsi), atto che
attiene esclusivamente ad un’iniziativa del P.M. nell’ottica dell’obbligatorietà dell’esercizio dell’azione penale a lui riservata, nel comma 1 bis il relativo termine è posto in dipendenza di un atto che non promana dal magistrato requirente. La soluzione risalta dal tenore letterale della novella legislativa: come detto, muta il dies a
quo... e conseguentemente il dies ad quem. Come abbiamo visto, il termine dettato
del comma 1 bis decorrerà dall’esecuzione dell’ordinanza di custodia cautelare o,
qualora la persona sottoposta ad indagini risultasse già detenuta, dalla notificazione
della misura alla stessa. Orbene, nella pratica è assai frequente che un’ordinanza di
custodia cautelare intervenga per restringere la libertà personale di un soggetto solo
( 11 ) Sul punto, vedi A. Marandola, I registri del Pubblico Ministero tra notizia di reato ed effetti procedimentali, Padova, CEDAM, 2001, 444; F. Giunchedi, Questioni irrisolte e prospettive di riforma del giudizio immediato «tipico», in G. it., 2002, 1114; Cass., Sez. II, 6 ottobre 2006, Morello, in Dir. pen. proc.,
2007, 377.
38
GIURISPRUDENZA
allo scadere (o in pendenza dello scadere) delle indagini preliminari. Che tipo di atti, allora, potranno essere compiuti dal P.M. nel tempo – ormai esiguo – che intercorre tra l’emissione dell’ordinanza di custodia cautelare e la richiesta di procedersi
tramite giudizio immediato? Sappiamo che gli atti posti in essere dopo la chiusura
delle indagini preliminari non sono utilizzabili dal P.M. ai fini della sostenibilità dell’accusa in giudizio; ma sarebbero utilizzabili, dal tenore della novella, gli atti posti
in essere entro i 180 giorni dall’esecuzione dell’ordinanza di custodia cautelare (intesi come termine perentorio); i quali 180 giorni, nel caso appena proposto, inizierebbero però a decorrere da un periodo prossimo allo scadere delle indagini, accavallandosi in parte con quest’ultimo. Ne conseguirebbe che, per un fatto di coerenza giuridica, per formulare richiesta di giudizio immediato il P.M. o dovrebbe preventivamente avanzare richiesta di proroga delle indagini preliminari, al fine di una
migliore determinazione nella scelta eventuale del giudizio immediato cd. custodiale, o sarebbe costretto ad agire nelle forme ordinarie (richiesta di rinvio a giudizio,
essendo peregrina l’idea di una richiesta d’archiviazione da parte dello stesso organo che ha richiesto l’ordinanza di custodia cautelare), stante l’esiguità temporale
che possiede per le proprie decisioni. Si, è pur vero che le indagini sono state prevalentemente compiute e che un’ordinanza di custodia cautelare (a seguito delle stesse) è stata emanata; ma, se tanto è vero, questo comporterebbe una gravissima sovrapposizione – se non identificazione – dell’evidenza probatoria, propria del giudizio immediato, con i gravi indizi di colpevolezza di cui all’art. 273 c.p.p.
Ancora: che conseguenze si avrebbero in pendenza di una circoscritta ed eventuale violazione dei 180 giorni, inteso come termine meramente ordinatorio? In altre parole, può il Pubblico Ministero procedere con la richiesta di giudizio immediato come e quando vuole, senza alcun tipo di sanzione processuale per l’eventuale ritardo nella formulazione della richiesta? La violazione di tale termine comporta l’inutilizzabilità degli atti, come sappiamo, trattandosi di termine posto dal
legislatore alla stregua di quello im-posto allo stesso P.M. nella previsione generale
della chiusura delle indagini preliminari? Procediamo per gradi. Precedentemente
alla riforma di cui si tratta, per il termine di 90 giorni la giurisprudenza era unanime nel ritenere che il decorso infruttuoso di detto periodo di tempo (senza che il
Pubblico Ministero avesse proceduto in ordine alla richiesta di giudizio immediato) potesse determinare un’invalidità (12): parte della dottrina riteneva che tale invalidità fosse da ricondurre ad una mera irregolarità; altra parte della dottrina, so-
( 12 ) Sul punto, vedi G. Dean, Sul rispetto del termine per l’instaurazione del giudizio immediato, in G.
It., 1992, II, 452; A. Marandola, I registri del Pubblico Ministero tra notizia di reato ed effetti procedimentali, op. cit., 452; F. Giunchedi, Questioni irrisolte e prospettive di riforma del giudizio immediato «tipico»,
op. cit., 1114.
UN DEFINITIVO «SDOPPIAMENTO DEI TERMINI»?
39
steneva che l’invalidità si concretasse in qualcosa di più grave, da sanzionarsi con
una nullità assoluta, dovuta ad una non ordinaria iniziativa del Pubblico Ministero
nell’esercizio dell’azione penale (13). La «tesi permissiva» è oggi accolta dalla sentenza in commento estendendo la portata di tale termine anche a quello del giudizio immediato cd. custodiale; detta tesi ci proietta verso una radicale insanzionabilità dell’eventuale richiesta tardiva del magistrato requirente (come abbiamo precedentemente visto) ed è completata da quell’altra decisione con cui si configura
un’abnormità della pronuncia del Tribunale che dichiari la nullità del decreto che
dispone il giudizio immediato disposto dal G.I.P. in accoglimento di una richiesta
tardiva (14). In questo quadro, la previsione di un termine assegnato al Pubblico
Ministero per avanzare richiesta di giudizio immediato perderebbe di rilevanza, se
la Suprema Corte non ne recuperasse la perentorietà collegandola allo svolgimento dell’attività «istruttoria» da parte di questi. Sicché gli atti compiuti dopo la scadenza di tale termine, alla stessa stregua di quanto previsto dal comma 3 dell’art.
407 c.p.p., non possono essere utilizzati ai fini di supportare la richiesta di giudizio
immediato. Il che ha pure una sua logica: se infatti al Pubblico Ministero è interdetto di utilizzare i risultati di un’indagine che si protrae sine die, qualora intenda
promuovere azione penale nei modi ordinari, a maggior ragione l’utilizzabilità dei
risultati di un’attività di indagine illimitata gli deve essere proibita allorché intraprenda un rito di anticipazione del dibattimento.
In conclusione: «termini indipendenti» o «parziale sdoppiamento delle fasi dei
termini»? Questioni sul diritto di difesa
Il campo di applicazione del giudizio immediato cd. custodiale allora si restringe: la novella di cui alla l. 125/2008 sembra allontanarsi dall’esistenza di «termini
indipendenti», scevri da qualsivoglia influsso del previgente rito anticipatorio. Appare invece opportuno concludere verso l’esistenza di un unico rito «a fasi parzialmente sdoppiate»: la disciplina del nuovo art. 453 co. 1 bis si adagia perfettamente, sovrapponendosi, a quella del vecchio art. 453, modificandone solo in parte la
casistica, come se fosse una sorta di appendice del giudizio immediato «tipico». In
sostanza continuerà ad essere concretamente applicabile l’art. 453 c.p.p. per l’ipotesi «unica» del giudizio immediato: all’«evidenza probatoria» di cui allo stesso articolo, si sostituirà (per quanto sottoposto ad eventuali questioni d’illegittimità) il
( 13 ) Vedi A. Marandola, Violazione del termine di 90 giorni per il rito immediato e nullità del decreto
di rinvio a giudizio, in Dir. Pen. Proc., 8/2002, 1008.
( 14 ) Cfr. Cass., Sez. I, 10 aprile 2001, De Siena, in D. Giust., 2001, n. 31, 81.
40
GIURISPRUDENZA
fumus commissi delicti dell’art. 453 co. 1 bis; il termine di cui all’art. 453 subirà, in
conseguenza e per gli effetti, una dilatazione pari al raddoppiamento dello stesso
(da 90 giorni si passerà a 180 giorni i quali, seppur con i dubbi visti in precedenza,
si sviluppano sempre e comunque sulla logica perentorietà-ordinatorietà prevista
per il giudizio immediato «tipico») ed uno sfasamento per ciò che attiene al dies a
quo; mentre, per ciò che attiene all’interrogatorio della persona sottoposta alle indagini, nulla questio sembrerà porsi, essendo sufficiente nel giudizio immediato
cd. custodiale (per quanto destinato a fini difformi da quelli che sottendono al «tipico») il rituale interrogatorio di garanzia di cui all’art. 294 c.p.p. Un ampliamento
allora dovuto a ragioni di necessità, di adeguamento e non già da vedersi nella prospettiva della creazione di un altro rito indipendente da quelli tassativamente previsti ed elencati nel Codice Vassalli. Tale conclusione può, a maggior ragione, essere suffragata dagli elementi giurisprudenziali contenuti nella sentenza di cui trattasi: ogni singolo punto della pronuncia della Suprema Corte sembra richiamarsi
in tutto e per tutto al dettato normativo «principale» dell’art. 453 c.p.p., senza discostarsi (neanche nell’interpretazione dell’ordinatorietà dei termini, seppur differenti!) da quanto prodromicamente stabilito nel medesimo articolo.
Un’ultima ed (apparentemente) opportuna notazione: il giudizio immediato
cd. custodiale sembra imporre un sacrificio considerevole (recte, eccessivo) alla difesa, dato che la legge processuale impone alcune deroghe al canone di eguaglianza e la presunzione di non-colpevolezza dell’imputato subisce qui un significativo
temperamento (15). La soppressione totale della fase dell’udienza preliminare potrebbe, in teoria, condurre ad una discriminazione ragionevole se vista in relazione
ad una fondatezza «assoluta» dell’accusa (ad esempio la flagranza di reato), ma
potrebbe essere notevolmente più discutibile se basata (come sembra) su canoni
di speditezza processuale che devono cedere alle esigenze connesse con il diritto
di difesa dell’imputato. La novella legislativa sembra perciò porsi in aperto contrasto con l’art. 111 Cost., laddove alla ragionevole durata del processo si sostituisca
una forma di giustizia irragionevole, fondata su un’aperta inconciliabilità con l’art.
24 co. 2 Cost.: da apparente strumento di tutela, dunque, l’art. 453 co. 1 bis c.p.p.
sembra divenire un «killer di garanzie» (16).
Enrico Maria Belgiorno
( 15 ) Vedi R. Orlandi, Procedimenti speciali, in G. Conso - V. Grevi, Compendio di procedura penale,
3a Ed., CEDAM, 620.
( 16 ) E. Amodio, relazione introduttiva al XXII Convegno Nazionale dell’A.S.P.P., Associazione tra gli
Studiosi del Processo Penale «G.D.Pisapia» dal titolo «I tempi ragionevoli della giustizia penale: alla ricerca
di una effettiva speditezza processuale», Bergamo, 24-25-26 settembre 2010.
Tribunale Amministrativo Regionale per la Toscana – (Sezione Prima) – 11 novembre 2010, n. 6579 – Presidente Papiano – Est. Cacciari – D.C. Spa contro Provincia di Pisa
Gli swap sono contratti a termine, che prevedono lo scambio a termine di flussi
di cassa calcolati con modalità stabilite alla stipulazione del contratto. Non sussiste
quindi uno scambio di capitali, ma solo di flussi corrispondenti al differenziale tra
due interessi.
È legittimo l’annullamento in autotutela dei provvedimenti di individuazione del
contraente nell’ipotesi in cui venga verificato, anche da un consulente privato, che gli
swap sottoscritti con le banche avevano un valore negativo a carico della Provincia.
L’interesse pubblico in materia di contratti derivati è da individuare nell’esigenza
di evitare un illegittimo esborso finanziario a carico dell’ente, con indebita percezione di vantaggi a favore dei soggetti privati.
L’annullamento in autotutela dei provvedimenti di individuazione del contraente non produce automatici effetti caducanti sulla efficacia del successivo contratto.
(Omissis)
FATTO
La Provincia di Pisa ha indetto una gara ufficiosa per individuare uno o più intermediari finanziari con i quali perfezionare un’operazione di ristrutturazione del proprio debito. La gara è stata
vinta dalle società DC s.p.a. e DB PLC riunite in associazione temporanea di imprese. L’operazione
si è concretizzata nell’emissione di un prestito obbligazionario al tasso variabile Euribor maggiorato
dello spread indicato nell’offerta di gara, per un importo di P 95.494.000; la Provincia ha poi perfezionato due operazioni in derivati di copertura dal rischio di tasso, finalizzate a garantire che il livello
dei tassi d’interesse da corrispondere fosse oscillante all’interno di un minimo ed un massimo prestabiliti.
La Provincia di Pisa ha poi annullato la procedura poiché sarebbero stati violati l’art. 41 l. 28 dicembre 2001, n. 448 e l’art. 3 della circolare ministeriale 27 maggio 2004 a causa di costi impliciti
dell’operazione non dichiarati dalle ricorrenti. Tali provvedimenti sono stati impugnati con i gravami
epigrafati, notificati il 9 ottobre 2009 e depositati il 19 ottobre 2009, per violazione di legge ed eccesso di potere sotto diversi profili. Si è costituita la Provincia di Pisa chiedendo la reiezione dei ricorsi.
Motivi aggiunti sono stati notificati il 7 novembre 2009 e depositati il 13 novembre 2009, ed ulteriori motivi aggiunti sono successivamente stati notificati il 30 aprile 2010 e depositati il 3 maggio 2010.
Le ricorrenti hanno inoltre esperito il 26 giugno 2009 azione contrattuale presso l’Alta Corte di
42
GIURISPRUDENZA
Londra, adita sulla base di una pattuizione contrattuale che devolve al giudice inglese la cognizione
delle controversie relativamente ai contratti in questione. L’Alta Corte ha dichiarato la propria competenza a conoscere dei contratti intervenuti tra le parti.
All’udienza del 19 ottobre 2010 le cause sono state trattenute in decisione.
DIRITTO
1. Con i ricorsi epigrafati ed articolando in entrambi i gravami le medesime censure le ricorrenti,
aggiudicatarie in associazione temporanea di imprese di una gara per la ristrutturazione del debito
dell’intimata Provincia, impugnano i provvedimenti con cui questa ha annullato in via di autotutela i
propri atti relativi all’affidamento e preteso di considerare privi di effetti i contratti conseguentemente sottoscritti.
1.1 I ricorsi principali sono articolati in tre motivi.
Con primo motivo lamentano che non sarebbe stata inoltrata la comunicazione di avvio del procedimento di autotutela.
Con secondo motivo deducono che non sarebbe stata violata la l. 488/01, poiché questa non si
riferirebbe ai contratti derivati ma solo ai mutui contratti degli enti locali successivamente al 31 dicembre 1996 e alla possibilità della loro conversione. Inoltre il derivato non sarebbe configurabile
quale passività né il valore iniziale dell’operazione può essere considerato come una commissione o
un costo, ma costituirebbe una valorizzazione storica dello swap. L’operazione non rientrerebbe
nemmeno nell’ambito di applicazione della circolare ministeriale 27 maggio 2004 poiché questa non
statuirebbe alcunché in merito ad una presunta obbligatoria equivalenza tra il valore del livello minimo e quello del livello massimo del tasso d’interesse. Inoltre non sussisterebbe un interesse pubblico
all’annullamento degli atti e non sarebbero stati valutati gli interessi dei destinatari. Sotto questi profili gli atti gravati sarebbero quindi viziati per difetto di motivazione.
Con terzo motivo deducono che i provvedimenti di autotutela relativi a procedure di evidenza
pubblica non potrebbero estendere i propri effetti al contratto medio tempore stipulato. Pertanto,
anche laddove venissero respinti i motivi sopramenzionati, i provvedimenti gravati resterebbero illegittimi nelle parti in cui pretendono di estendere gli effetti dell’annullamento in autotutela anche ai
contratti intercorsi tra la Provincia e le ricorrenti, dovendo la prima rivolgersi al giudice competente
a conoscere della loro validità che, nel caso di specie, in virtù di apposita pattuizione tra le parti è il
giudice inglese.
Le ricorrenti formulano anche richiesta di risarcimento per i danni asseritamente derivanti dal
mancato rispetto degli accordi contrattuali tra le parti, e dalla pubblicizzazione della vicenda effettuata dalla Provincia che avrebbe recato loro un danno di immagine.
1.2 Con i primi motivi aggiunti viene impugnato un ulteriore provvedimento di autotutela con
cui il Consiglio della Provincia intimata annulla la propria decisione di ristrutturazione del debito,
nella sola parte relativa all’operazione in derivati, per i medesimi motivi articolati avverso i provvedimenti impugnati in via principale.
1.3 Con secondi motivi aggiunti le ricorrenti, presa visione del parere dell’impresa consulente
della Provincia in base al quale sono motivati per relationem i provvedimenti impugnati, articolano le
seguenti censure.
La Provincia si è rivolta ad una società di un gruppo bancario privato anziché ad un’amministrazione pubblica specializzata in materia per ottenere un parere tecnico, e questo costituirebbe un primo profilo di illegittimità: un’amministrazione pubblica infatti non potrebbe adottare un provvedimento unicamente in riferimento a motivazioni privatistiche non previste come atti di un procedimento amministrativo.
Inoltre la relazione tecnica posta a base dei provvedimenti impugnati sarebbe errata. Malamente
infatti sarebbe stato determinato il valore del contratto derivato, che peraltro non può essere considerato quale passitività, al momento della sua stipulazione poiché non si sarebbe tenuto conto dei
principi contabili internazionali ed in particolare il principio IAS 39 di cui al Regolamento CE 1725/
2003: non si terrebbe infatti conto dell’effettivo mercato di riferimento in cui si è collocata l’opera-
ANNULLAMENTO IN AUTOTUTELA DELLE PROCEDURE DI INDIVIDUAZIONE
43
zione, che non è stata effettuata su un mercato attivo quale il mercato interbancario, non è liquida ed
è priva di qualsiasi garanzia reale.
Il parere inoltre confermerebbe che la questione di presunti costi impliciti non avrebbe a che fare con la convenienza economica di cui alla l. 448/01, che si riferirebbe esclusivamente a condizioni
migliorative del prestito obbligazionario rispetto ai mutui in essere e non al contratto derivato per la
gestione dei rischi legati alle fluttuazioni del tasso d’interesse, il quale deve garantire che l’oscillazione dei tassi riferiti allo strumento di finanziamento sostitutivo del vecchio debito venga contenuta
entro una banda di oscillazione predefinita.
1.4 La Provincia intimata replica puntualmente alle deduzioni delle ricorrenti evidenziando in
particolare che l’interesse pubblico all’esercizio dell’autotutela sorgerebbe dalla violazione dei principi di economicità e convenienza economica, anche ai sensi dell’art. 1, comma 136, l. 3 dicembre
2004, n. 311. L’annullamento in autotutela dei provvedimenti di evidenza pubblica implicherebbe
poi la caducazione sopravvenuta del contratto nel frattempo stipulato, per il venir meno di uno dei
presupposti di efficacia del medesimo.
2. I ricorsi devono essere riuniti per ragioni di connessione oggettiva e soggettiva.
2.1 Il primo motivo di ricorso deve essere respinto. La difesa provinciale ha infatti prodotto una
nota in data 5 giugno 2009 che l’Amministrazione intimata aveva indirizzato ad entrambe le banche,
nella quale è stata data contestazione puntuale delle criticità rilevate nell’operazione e richiesto lo
stralcio della posizione debitoria dell’ente, con diffida dal richiedere il pagamento della successiva
scadenza semestrale ed invito a prendere contatto con il Servizio gestione risorse finanziarie ed umane dell’ente stesso (ed indicazione dei recapiti). Le ricorrenti sono state quindi messe in grado di rappresentare le proprie ragioni, e liberamente, a distanza di pochi giorni, hanno preferito avviare un
procedimento presso l’Alta Corte di Londra il 26 giugno 2009.
2.2 La trattazione delle ulteriori doglianze relative alla legittimità dei provvedimenti impugnati
richiede una ricostruzione delle caratteristiche essenziali dell’operazione avviata dalle ricorrenti con
la Provincia intimata al fine della ristrutturazione del suo debito.
Gli swap sono contratti a termine, che prevedono lo scambio a termine di flussi di cassa calcolati
con modalità stabilite alla stipulazione del contratto. Questo sistema può permettere di diminuire il
rischio connesso, come nel caso di specie, alle fluttuazioni dei tassi di interesse o di cambio. L’Interest Rate Swap è il contratto swap più diffuso, con il quale due parti si accordano per scambiarsi reciprocamente, per un periodo di tempo predefinito al momento della stipula, pagamenti calcolati
sulla base di tassi di interesse differenti e predefiniti, applicati ad un capitale nozionale. Non sussiste
quindi uno scambio di capitali, ma solo di flussi corrispondenti al differenziale fra i due interessi. Il
contratto ha scadenze che superano l’anno e i pagamenti devono essere effettuati a scadenze periodiche, comprese tra i tre e i dodici mesi. Per garantire l’equilibrio tra le parti detto contratto, al momento della stipulazione, deve dare un risultato differenziale pari a zero; in caso contrario risulterà
squilibrato a favore di uno dei contraenti.
Nel caso di specie il contratto era stato stipulato il 4 luglio 2007 per la copertura del rischio derivante dalla fluttuazione dei tassi relativi ad un bond (capitale nozionale) emesso dalla Provincia il 28
giugno 2007, e il differenziale sarebbe stato calcolato sulle oscillazioni dell’Euribor. La scadenza delle
rate tra i contraenti era stabilita a sei mesi. La Provincia intimata e le ricorrenti avevano anche stabilito
che l’oscillazione sulla quale calcolare il differenziale venisse contenuta entro determinati limiti, in modo che se l’Euribor fosse salito oltre il 5,99% (cap), la differenza sarebbe rimasta a carico delle banche;
se invece fosse sceso il 4,64% (floor), la Provincia avrebbe comunque continuato a pagare detto tasso.
I provvedimenti di autotutela gravati sono motivati in riferimento alla relazione prodotta alla
Provincia da parte della società specializzata Calipso, che ha analizzato l’operazione in questione verificando che gli swap sottoscritti con le banche avevano un valore negativo a carico della Provincia.
Tale relazione viene contestata sotto diversi profili con il terzo ricorso per motivi aggiunti, dal quale
pertanto è necessario prendere le mosse.
È inconferente che la Provincia si sia rivolta ad un’impresa privata anziché ad un’amministrazio-
44
GIURISPRUDENZA
ne pubblica poiché ciò non influisce sulla legittimità dei provvedimenti adottati, ma al più può essere
fonte di responsabilità erariale a carico degli amministratori. Non sembra poi che la provenienza della relazione da un soggetto privato possa viziare l’intero procedimento e l’atto finale del medesimo
posto che è usuale, in ogni procedimento amministrativo, che l’amministrazione utilizzi anche documenti di privati, basti ricordare le istanze private che avviano un procedimento o i documenti e le
memorie che gli interessati possono presentare nel corso del procedimento ai sensi dell’art. 10 della
legge 7 agosto 1990, n. 241.
Quanto ai lamentati vizi intrinseci della relazione la difesa delle ricorrenti non appare convincente. Come correttamente replica la difesa provinciale, infatti, l’esposizione in derivati non è equivalente all’esposizione di un finanziamento in capitale, poiché nel derivato essa è rappresentata dai
differenziali che sono l’eccesso dell’interesse calcolato sul capitale rispetto ad un certo limite. Sono
quindi inconferenti le doglianze delle ricorrenti relative al rischio di mercato. La contestata relazione
d’altra parte non considera quale passività i derivati in sé, ma individua l’assenza di convenienza economica per la Provincia nell’operazione in questione a causa della mancanza di parità tra le posizioni
contrattuali iniziali, che ha portato ad uno squilibrio a suo sfavore. Questi fatti non vengono smentiti
dalla difesa delle ricorrenti che non riesce a dimostrare l’esistenza di un vantaggio, nell’operazione in
questione, per l’Amministrazione. Un differenziale negativo costituisce indubbiamente una passività
per essa.
Appare quindi effettivamente violata la disposizione di cui all’art. 41, comma 2, l. 448/01 poiché
nell’operazione in questione non è stato raggiunto l’obiettivo posto dalla suddetta norma di assumere condizioni di rifinanziamento dei mutui contratti dopo il 31 dicembre 1996 con il collocamento di
titoli obbligazionari, tali da consentire una riduzione del valore delle passività a carico degli enti stessi, al netto delle commissioni. Così non è nel caso di specie, e la differenza di valore tra i contratti derivati da stipulare era stata taciuta dalle banche alla Provincia, ed anche tale circostanza non risulta
contestata.
Nessun dubbio poi che l’ambito di applicazione della norma suddetta riguardi il caso di specie
poiché il disposto di cui all’art. 41, comma 2, l. 448/01 definisce il proprio perimetro applicativo con
riferimento all’emissione di nuove obbligazioni da parte di enti pubblici, come avvenuto nel caso di
specie.
Sotto questo profilo i provvedimenti di autotutela impugnati risultano corretti poiché hanno dato conto dei motivi per cui è stato disposto l’annullamento dei precedenti provvedimenti in discussione, e il relativo interesse pubblico consiste nell’evitare un illegittimo esborso finanziario a carico
dell’ente, con indebita percezione di vantaggi a favore dei soggetti privati (C.d.S. V, 22 marzo 2010,
n. 1672 in diversa fattispecie, ma con principio applicabile al caso in esame).
2.3 Occorre ora verificare come l’annullamento correttamente disposto dalla Provincia intimata
si ripercuota sull’assetto contrattualmente definito dei rapporti con le ricorrenti. Si tratta, in altri termini, di valutare in che modo l’adozione di atti di autotutela relativamente a provvedimenti in materia di individuazione del contraente da parte della stazione appaltante influisca sulla sorte del contratto nel frattempo stipulato.
Il Collegio è consapevole che la giurisprudenza amministrativa, assumendosi nel passato competente a giudicare sulla sorte del contratto stipulato in caso di annullamento dell’aggiudicazione, ritenne che ciò comportasse la caducazione del negozio per difetto di un presupposto di efficacia. Tale
prospettiva venne ritenuta valida sia in caso di annullamento giudiziale degli atti di evidenza pubblica, sia nel caso in cui fosse l’amministrazione stessa ad autoannulare i propri provvedimenti poiché
anche in questa ipotesi, stante la consequenzialità tra aggiudicazione della gara pubblica e stipulazione del relativo contratto, l’eliminazione degli atti della procedura amministrativa implicavano la caducazione automatica degli effetti del contratto successivamente stipulato (C.d.S. V, 28 maggio
2004, n. 3465). Questa prospettiva era fondata sull’opinione che il contratto stipulato all’esito di una
procedura di evidenza pubblica fosse il momento terminale di un continuum procedimentale di talché, una volta venuto meno l’antecedente rappresentato dall’aggiudicazione (per un annullamento
ANNULLAMENTO IN AUTOTUTELA DELLE PROCEDURE DI INDIVIDUAZIONE
45
vuoi giudiziale, vuoi in autotutela) il contratto perdeva efficacia in via automatica, senza necessità di
ulteriori provvedimenti che non fossero una presa d’atto da parte del giudice o della stessa amministrazione appaltante. L’effetto caducante era considerato quindi una conseguenza necessaria del venir meno degli atti di evidenza pubblica, vuoi per sentenza vuoi per autotutela, che non richiedeva
per il suo verificarsi alcuna pronuncia costitutiva.
Questo era lo stato dell’arte quando la Corte di Cassazione a sezioni unite (ex multis, sentenza n.
27169/07) ritenne che il giudice ordinario e non quello amministrativo fosse competente a giudicare
sul contratto di appalto, interpretando la giurisdizione esclusiva amministrativa in tema di procedure
di affidamento di contratti pubblici come concludentesi con l’aggiudicazione, senza estensione alla
cognizione sul contratto. Quest’ultima, secondo la Cassazione, non poteva che spettare al giudice ordinario poiché tale giudizio si pone nella fase esecutiva del contratto stesso in cui l’individuazione
del giudice competente deve essere operata in base all’ordinario criterio di riparto diritti-interessi, e
il relativo processo ha ad oggetto appunto diritti soggettivi.
Il giudice amministrativo non si contrappose frontalmente all’assunto della Cassazione ma si ritenne competente a sindacare in sede di ottemperanza il comportamento della stazione appaltante
che non prendesse atto della sopravvenuta inefficacia del contratto all’esito dell’annullamento dell’aggiudicazione. Poiché in sede di ottemperanza il giudice amministrativo può sostituirsi all’amministrazione, secondo questa interpretazione non vi sarebbero ostacoli a che esso ordini alla stazione appaltante riottosa di fare subentrare nell’esecuzione del contratto il concorrente vittorioso nel ricorso
avverso l’originaria aggiudicazione (C.d.S.A.P. n. 9/2008). La stazione appaltante doveva infatti
«prendere atto» della caducazione del contratto e, se non vi avesse provveduto spontaneamente, ben
avrebbe potuto farlo il giudice amministrativo adito in sede di ottemperanza.
Tale costruzione deve essere rivista alla luce della direttiva comunitaria 2007/66/CE (in seguito:
«Direttiva») in materia di ricorso contro l’aggiudicazione degli appalti pubblici. In tale normativa infatti il legislatore comunitario si è dato carico di valutare le conseguenze dell’annullamento giudiziale
dell’aggiudicazione sul contratto pubblico nel frattempo stipulato, prevedendo il potere dell’organo
di ricorso, nel nostro caso il giudice amministrativo, di privarlo di efficacia al concorrere di determinate circostanze e valutando gli interessi in gioco, primo fra tutti quello alla corretta e spedita esecuzione delle prestazioni contrattuali. L’azione volta alla declaratoria di inefficacia del contratto non ha
carattere accertativo ma costitutivo poiché, in base agli artt. 121 e 122 del d.lgs. 2 luglio 2010, n. 104,
al giudice spetta il potere di decidere discrezionalmente (anche nei casi di violazioni gravi) se mantenere o meno l’efficacia del contratto. Ciò vuol dire che l’inefficacia non è conseguenza automatica
dell’annullamento dell’aggiudicazione, che determina solo il sorgere del potere in capo al giudice di
valutare se il contratto debba o meno continuare a produrre effetti.
La rappresentazione della difesa provinciale è ancorata alla vecchia teoria in base alla quale l’annullamento, anche in autotutela, dell’aggiudicazione comportava l’automatica caducazione del contratto; alla luce della normativa europea e della legislazione di recepimento occorre invece ritenere
che non si produce in via automatica l’inefficacia del contratto, ma per raggiungere tale risultato occorre l’intervento di una pronuncia costitutiva dell’organo di ricorso ossia, nell’ordinamento italiano,
del giudice amministrativo. Il legislatore ha quindi valutato che l’interesse pubblico, che nella fase
precontrattuale attiene alla creazione di un mercato unico europeo, sussista anche nella fase di esecuzione del contratto relativamente però ad un altro bene collettivo, vale a dire la spedita esecuzione
dell’opera pubblica, servizio o fornitura. Tale valutazione è però stata riservata alla competenza del
giudice amministrativo, «organo di ricorso» secondo la normativa comunitaria, e non alla stazione
appaltante medesima. Né la normativa interna né quella comunitaria, infatti, in alcun punto prendono in considerazione l’ipotesi che sia la seconda a poter privare di efficacia il contratto stipulato mediante l’autoannullamento o la revoca dei provvedimenti che hanno portato all’individuazione del
contraente, sull’assunto che non può consentirsi ad alcun soggetto, nemmeno se trattasi di ente pubblico, di sciogliersi unilateralmente da un vincolo contrattuale. Pertanto, come correttamente rappresentato nella discussione in pubblica udienza dalla difesa delle ricorrenti, la mancata menzione
46
GIURISPRUDENZA
nella legislazione di un potere di autotutela a favore della stazione appaltante deve essere interpretata
nel senso che la valutazione degli interessi connessi alla continuazione nell’esecuzione di un contratto, in caso di violazione della normativa di evidenza pubblica, compete unicamente al giudice e non
può invece derivare da un’iniziativa autonoma della stazione appaltante. Tali principi implicano
quindi che nel nostro ordinamento non può essere consentito a quest’ultima di influire in modo unilaterale sull’efficacia del contratto stipulato, nemmeno laddove siano individuate violazioni della
procedura di evidenza pubblica. Essa dovrà invece adire il giudice competente a conoscere dell’esecuzione del contratto il quale, ai fini della decisione, potrà apprezzare l’avvenuto annullamento dei
provvedimenti di evidenza pubblica.
Deve quindi essere accolto il terzo motivo del ricorso principale e, per l’effetto, i provvedimenti
impugnati devono essere annullati nelle parti in cui pretendono di togliere efficacia ai contratti stipulati con le ricorrenti, e precisamente nei punti 2) e 3) della determinazione dirigenziale 29 giugno
1999, n. 2799.
2.4 La domanda risarcitoria è inammissibile.
Discende, dalle conclusioni cui il Collegio è pervenuto in merito ai rapporti tra esercizio dell’autotutela e sorte del contratto medio tempore stipulato, che l’autoannullamento degli atti di evidenza
pubblica da parte dell’Amministrazione intimata non esercita effetto caducante sui negozi stipulati
con le ricorrenti, sicché solo il giudice civile è competente a conoscere delle questioni inerenti il rispetto degli accordi contrattuali intercorsi tra loro. In tale sede giudiziaria le ricorrenti potranno fare
valere le proprie pretese per l’asserita inottemperanza agli accordi contrattuali da parte della Provincia intimata.
Quanto alla richiesta risarcitoria per il danno di immagine, essa trae origine da un’intervista rilasciata dal Presidente della Provincia ad un quotidiano, che è apparsa sulla pagina locale del medesimo. A dire delle ricorrenti la pubblicizzazione della vicenda in discussione avrebbe recato un danno
alla propria immagine sociale e di mercato, che andrebbe ristorato mediante criteri equitativi. Il Collegio si ritiene incompetente ad esaminare la questione poiché tale asserito danno non è conseguenza
diretta dell’emanazione dei provvedimenti impugnati, ma appare causalmente legato al comportamento del presidente provinciale che ha dato risalto alla vicenda de qua. Il danno di cui si asserisce
l’esistenza, cioè, non deriva dall’esercizio di un potere amministrativo concretantesi nell’utilizzo di
una potestà pubblicistica dell’ente, che rappresenta il perimetro della giurisdizione di questo Giudice (art. 7, d.lgs. 104/2010). La domanda in esame pertanto deve essere dichiarata anch’essa inammissibile per difetto di giurisdizione.
3. In conclusione i ricorsi in esame devono essere accolti parzialmente e respinti per la parte restante, nei sensi di cui sopra, e la domanda risarcitoria deve essere dichiarata inammissibile.
Le spese possono essere compensate in ragione della reciproca soccombenza delle parti.
Il Collegio manda alla Segreteria per la trasmissione degli atti alla Procura della Corte dei Conti,
ai fini dell’accertamento di eventuali responsabilità per danno erariale nella vicenda in esame.
P.Q.M.
riuniti i ricorsi in epigrafe li accoglie parzialmente e li respinge per la parte restante. Per l’effetto, annulla i punti 2) e 3) della determinazione dirigenziale 29 giugno 1999, n. 2799. Dichiara inammissibile la domanda risarcitoria.
*
* *
Tribunale Amministrativo Regionale per la Toscana – (Sezione Prima) – 27 gennaio 2011, n. 154 – Presidente Buon Vicino – Est. Testori – Provincia di Pisa contro D.C. Spa
L’inefficacia del contratto non è conseguenza automatica dell’annullamento del-
ANNULLAMENTO IN AUTOTUTELA DELLE PROCEDURE DI INDIVIDUAZIONE
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l’aggiudicazione, che determina solo il sorgere del potere in capo al giudice di valutare se il contratto debba o meno produrre effetti.
L’autoannullamento degli atti ad evidenza pubblica da parte dell’Amministrazione intimata non comporta effetto caducante sui negozi stipulati, sicché solo il giudice
civile è competente a conoscere delle questioni inerenti il rispetto degli accordi contrattuali.
(Omissis)
FATTO e DIRITTO
1) Con la sentenza 11 novembre 2010, n. 6579 questa Sezione si è pronunciata in ordine ai provvedimenti con cui la Provincia di Pisa ha annullato in via di autotutela i propri atti relativi alla individuazione degli intermediari finanziari con i quali perfezionare un’operazione di ristrutturazione del
proprio debito, considerando privi di effetti i contratti conseguentemente sottoscritti in data 4/7/
2007 con DC s.p.a e con DB Plc.
In particolare, con la decisione citata il TAR ha parzialmente accolto i ricorsi presentati dai predetti istituti bancari contro gli atti di autotutela impugnati, annullandoli solo « nelle parti in cui pretendono di togliere efficacia ai contratti stipulati con le ricorrenti».
2) Con i ricorsi in epigrafe la Provincia di Pisa, preso atto di quanto affermato nella sentenza n.
6579/2010, ha chiesto a questo Tribunale la declaratoria di inefficacia dei contratti stipulati in data
4/7/2007 con DC s.p.a. e con DB Plc.
Si sono costituite in giudizio le società intimate, contestando integralmente le tesi avversarie.
Nella camera di consiglio del 26 gennaio 2011 entrambe le cause sono passate in decisione.
3) Va innanzitutto disposta la riunione dei giudizi sui ricorsi in epigrafe, sussistendo evidenti
profili di connessione soggettiva ed oggettiva.
4) Con la sentenza n. 6579/2010 questa Sezione ha affermato:
– che, dopo l’entrata in vigore delle disposizioni attuative della direttiva comunitaria 2007/
66/CE, ora trasfuse negli artt. 121 e 122 del codice del processo amministrativo, in caso di annullamento giudiziale dell’aggiudicazione di una pubblica gara spetta al giudice amministrativo «il potere
di decidere discrezionalmente (anche nei casi di violazioni gravi) se mantenere o meno l’efficacia del
contratto» nel frattempo stipulato; il che significa «che l’inefficacia non è conseguenza automatica dell’annullamento dell’aggiudicazione, che determina solo il sorgere del potere in capo al giudice di valutare se il contratto debba o meno continuare a produrre effetti»;
– che «la mancata menzione nella legislazione di un potere di autotutela a favore della stazione
appaltante deve essere interpretata nel senso che la valutazione degli interessi connessi alla continuazione nell’esecuzione di un contratto, in caso di violazione della normativa di evidenza pubblica, compete
unicamente al giudice e non può invece derivare da un’iniziativa autonoma della stazione appaltante»;
quest’ultima pertanto, per incidere sull’efficacia del contratto stipulato, dovrà «adire il giudice competente a conoscere dell’esecuzione del contratto il quale, ai fini della decisione, potrà apprezzare l’avvenuto annullamento dei provvedimenti di evidenza pubblica»;
– che dalle precedenti considerazioni discende «che l’autoannullamento degli atti di evidenza
pubblica da parte dell’Amministrazione intimata non esercita effetto caducante sui negozi stipulati con
le ricorrenti, sicché solo il giudice civile è competente a conoscere delle questioni inerenti il rispetto degli accordi contrattuali intercorsi tra loro».
5) Il ricorso va dichiarato inammissibile in quanto:
– nella citata sentenza n. 6579/2010 questo TAR ha espressamente individuato «il giudice
competente a conoscere dell’esecuzione del contratto» quale titolare del potere di pronunciarsi sulla
sorte del contratto in caso di annullamento in autotutela dell’aggiudicazione: e tale giudice è, nell’ordinamento nazionale, il giudice ordinario;
48
GIURISPRUDENZA
– con specifico riferimento ai contratti stipulati tra le parti il TAR ha ancora più puntualmente affermato che «solo il giudice civile è competente a conoscere delle questioni inerenti il rispetto degli
accordi contrattuali intercorsi tra loro»;
– con tali affermazioni questo giudice amministrativo ha quindi chiaramente indicato nel giudice ordinario il giudice al quale presentare un’eventuale domanda volta ad incidere sull’efficacia dei
contratti in questione;
– il capo della sentenza relativo a tale indicazione può formare oggetto di appello davanti al
Consiglio di Stato, ma non può essere rimesso in discussione attraverso le richieste formulate con i
ricorsi in epigrafe, che in effetti propongono domande incompatibili con la pronuncia precedentemente resa da questo Tribunale e risultano pertanto inammissibili.
6) La natura del tutto peculiare delle vicende oggetto delle cause giustifica la compensazione tra
le parti delle spese dei giudizi riuniti.
P.Q.M.
Il Tribunale Amministrativo Regionale per la Toscana (Sezione Prima), previa riunione dei ricorsi in epigrafe, li dichiara entrambi inammissibili.
ANNULLAMENTO IN AUTOTUTELA DELLE PROCEDURE
DI INDIVIDUAZIONE DEGLI INTERMEDIARI FINANZIARI
ED EFFETTO CADUCANTE
La questione problematica dell’acquisto, da parte di Amministrazioni locali, di
prodotti derivati, da intermediari finanziari, ha rappresentato una occasione per il
Tar Toscana per fare il punto sulla qualificazione del contratto di swap, ma ancor
di più, per soffermarsi sui controversi rapporti tra l’annullamento dei provvedimenti di individuazione del contraente e l’efficacia del conseguente contratto.
È indubitabile, che il fenomeno dell’acquisto di derivati sia assai diffuso tra le
Amministrazioni locali.
Una stima dell’11 marzo 2010 – peraltro risalente di un anno – elaborata dalla
Commissione finanza del Senato dava conto, infatti, che il debito coperto o strutturato sotto forma di derivati da parte degli enti locali fosse pari ad 35,3 miliardi di
Euro e che gli enti coinvolti fossero (tra Comuni, Provincie e Regioni) 671.
Una cifra pari all’1% del debito complessivo delle Amministrazioni locali.
A fronte della estensione capillare dell’utilizzo di tali strumenti finanziari, non
sono mancate, ovviamente, le controversie giudiziali che hanno visto contrapposte
le Amministrazioni agli istituti di credito fornitori del debito o agli stessi intermediari finanziari.
La questione principale, sul piano giuridico, è stata circoscritta alla cd asimmetria informativa, talvolta attribuita agli istituti di credito nella gestione della fase
informativa e di conoscenza dei supporti tecnici necessari alla corretta valutazione
dei rischi e degli oneri connessi ai finanziamenti.
Peraltro, non si tratta di un fenomeno isolato.
Il Movimento internazionale per i diritti civili ha di recente dato conto, infatti,
ANNULLAMENTO IN AUTOTUTELA DELLE PROCEDURE DI INDIVIDUAZIONE
49
che in Germania ed in Francia, come in Italia, le Amministrazioni locali, dopo avere acquistato prodotti derivanti dalla banche, si trovino ad oggi a dover far fronte
a perdite finanziarie rilevanti in conseguenza di contratti stipulati in condizioni di
scarsa trasparenza informativa.
È in questo contesto che il Tar Toscana si è trovato ad esaminare il ricorso proposto da un intermediario finanziario il quale lamentava l’illegittimità dell’annullamento disposto dalla Provincia di Pisa, in via di autotutela, della procedura volta
all’individuazione dello stesso intermediario.
Ed è in tale occasione che il giudice amministrativo, tendenzialmente meno interessato rispetto ai giudici civile e penale dalle questioni relative ai contratti derivati, fornisce la definizione degli swap e scandisce il procedimento volto alla caducazione degli stessi.
Gli swap – come evidenzia il Tar Toscana – sono contratti a termine, che prevedono lo scambio a termine di flussi di cassa calcolati con modalità stabilite alla
stipulazione del contratto.
Trattandosi di contratti aleatori, ad avviso del Tar Toscana il limite di liceità
dell’alea è individuabile nel fatto che la peculiarità della disciplina contrattuale è
tale per cui «può permettere di diminuire il rischio connesso alle fluttuazioni dei tassi di interesse o di cambio».
Sicché, non è compatibile con l’interesse pubblico al quale anche i contratti di
swap devono necessariamente ispirarsi, che l’Amministrazione locale sia gravata
da un illegittimo esborso finanziario (ben oltre ed al di là del rischi connessi alle
fluttuazioni dei tassi di interesse) conseguente al valore negativo dell’operazione
prefigurata.
E la verificazione del valore negativo dell’operazione sorregge il provvedimento di annullamento in autotutela della procedura di individuazione dell’intermediario finanziario, anche se abbia avuto luogo mediante un accertamento successivo all’avvenuta sottoscrizione del contratto.
La sentenza del Tar Toscana, peraltro, si muove nella linea già individuata nei
pareri resi dalle Sezioni regionali di controllo della Corte dei Conti laddove, chiamate ad esprimere valutazioni sulle operazioni di derivati stipulate dagli enti locali, avevano delineato, per un verso la nozione dei «contratti derivati», per l’altro,
avevano perimetrato i presupposti per la convenienza economica di siffatti contratti.
Ad avviso della Corte dei Conti (Sezione regionale di controllo della Lombardia, deliberazione n. 596/2007) i contratti derivati «sono strumenti finanziari che
servono a gestire l’esposizione ai rischi di mercato o di credito che una banca o un’impresa (o un ente pubblico territoriale) assume nell’ambito della propria operatività.
Essi rientrano nella categoria dei contratti atipici ed aleatori».
50
GIURISPRUDENZA
Quanto alla convenienza economica dell’operazione, la medesima Sezione rilevava che «poiché il contratto ha natura aleatoria occorre che venga dimostrata, al
momento della stipula e sulla base di precisi elementi di valutazione, l’attesa evoluzione delle variabili che determineranno negli anni futuri i flussi finanziari a debito e
a credito dell’ente locale».
Ed è appunto, in forza della valutazione della mancata esatta conoscenza delle
variabili future, che il Tar Toscana ha ritenuto la piena legittimità dell’annullamento in autotutela già disposto dalla Provincia di Pisa, con ciò aderendo, pur implicitamente alle interpretazioni della giurisprudenza civile in materia di asimmetria informativa.
Ma la sentenza del Tar Toscana, al di là della peculiarità della fattispecie, offre
un momento di riflessione e di sintesi sui non facili rapporti tra la fase pubblicistica di espletamento delle procedure ad evidenza pubblica e la fase privatistica di
disciplina dei conseguenti rapporti negoziali.
Un primo elemento di riflessione è, peraltro, da rinvenire nella equiparazione
che il Tar Toscana propone, nell’ambito della fase pubblicistica, tra l’annullamento giurisdizionale delle procedure e dei provvedimenti ad evidenza pubblica e
l’annullamento amministrativo, assunto in via di autotutela.
Ad avviso del Tar Toscana le conseguenze dell’annullamento sono assolutamente identiche, sulle sorti del contratto, sia che si tratti di annullamento giurisdizionale sia che si tratti di annullamento amministrativo.
Con la precisazione, tuttavia, che «la valutazione degli interessi connessi alla valutazione nell’esecuzione di un contratto, compete unicamente al Giudice e non può
invece derivare da una iniziativa autonoma della stazione appaltante».
La stazione appaltante, pertanto, ad avviso del Tar non dispone di alcun potere in ordine alla sopravvivenza del contratto.
Le considerazioni di maggior rilievo si rinvengono, tuttavia, ove il Tar Toscana
si sofferma sull’«effetto caducante».
Intervenendo, peraltro a pochi mesi dall’entrata in vigore del codice del processo amministrativo, che ha devoluto alla giurisdizione esclusiva del Giudice amministrativo le procedure di affidamento di pubblici lavori servizi e forniture ad
evidenza pubblica, «ivi incluse quelle risarcitorie e con estensione della giurisdizione esclusiva alla dichiarazione di inefficacia del contratto a seguito di annullamento
dell’aggiudicazione», il Tar Toscana ha ritenuto di puntualizzare i rapporti tra le
due giurisdizioni.
Ad avviso del Tar Toscana «l’azione volta alla declaratoria di inefficacia del contratto non ha carattere accertativo ma costituivo poiché, in base agli articoli 121 e
122 del Dlgs 7 luglio 2010, n. 104 al Giudice spetta il potere di decidere discrezionalmente (anche nei casi di violazioni gravi) se mantenere o meno l’efficacia del contrat-
ANNULLAMENTO IN AUTOTUTELA DELLE PROCEDURE DI INDIVIDUAZIONE
51
to. Ciò vuol dire che l’inefficacia non è conseguenza automatica dell’annullamento
dell’aggiudicazione, che determina solo il sorgere del potere in capo al Giudice di valutare se il contratto debba o meno produrre effetti».
Non solo, ma il medesimo Tar ha soggiunto che è esclusiva prerogativa del
Giudice competente a conoscere dell’esecuzione del contratto, valutare la permanenza degli interessi connessi alla prosecuzione del rapporto in caso di violazione
della normativa di evidenza pubblica.
Si tratta, peraltro, di principi ribaditi nella successiva sentenza, del medesimo
Tar, n. 154 del 27 gennaio 2011, ove è stata dichiarata l’inammissibilità dei ricorsi
proposti dalla Provincia di Pisa contro D.P. per la declaratoria di inefficacia dei
contratti già stipulati.
Con un elemento di ulteriore precisazione.
Il Tar Toscana, infatti, in tale ultima sentenza, ha specificato che il Giudice
competente a conoscere l’esecuzione del contratto, quale Giudice competente a
conoscere le questioni inerenti il rispetto degli accordi contrattuali, è il Giudice
ordinario.
Così declinando la giurisdizione a favore di siffatto ultimo Giudice.
Ora, al di là della peculiarità della fattispecie oggetto della sentenza e dell’interessante lettura proposta dal Tar Toscana delle previsioni di cui agli artt. 121 e 122
del codice del processo amministrativo, non si può trascurare l’emersione di un
peculiare problema interpretativo.
Orbene, l’art. 121 del codice del processo amministrativo attribuisce al Giudice amministrativo il potere di dichiarare l’inefficacia del contratto nelle ipotesi di
gravi violazioni (specificamente individuate) ed altresì di specificare se la declaratoria di inefficacia riguardi esclusivamente le prestazioni ancora da eseguire o meno; l’art. 122, dal canto suo, attribuisce al Giudice amministrativo il potere di dichiarare, previa valutazione della fattispecie, l’inefficacia del contratto, fuori dei
casi previsti dalla precedente norma.
Per ultimo, l’art. 133 devolve alla giurisdizione esclusiva del Giudice amministrativo la dichiarazione di inefficacia del contratto a seguito dell’annullamento
dell’aggiudicazione.
Vi è da chiedersi, alla stregua di tali previsioni, talune peraltro invocate dallo
stesso Tar Toscana, come possa designarsi il rapporto tra le due giurisdizioni.
E se, in particolare, la giurisdizione individuata dal Tar Toscana, a favore del
Giudice ordinario, possa ritenersi circoscritta e limitata, alle questioni inerenti il
rispetto dei rapporti contrattuali, o se invece sia stata proposta una rilettura critica
delle previsioni del codice.
Una cosa è certa: anche ove si ritenesse che il Giudice civile sia competente a
conoscere le questioni inerenti il rispetto degli accordi contrattuali e dunque le
52
GIURISPRUDENZA
questioni conseguenti all’avvenuta esecuzione del contratto, anche in tal caso le
valutazioni del Giudice non possono prescindere dall’avvenuto annullamento del
provvedimento di aggiudicazione.
Ove, pertanto, il Giudice ordinario non dovesse dichiarare l’inefficacia del
contratto, ci troveremmo in presenza di una disciplina negoziale, che vede quale
parte una Pubblica Amministrazione, priva del necessario supporto pubblicistico.
Ossia del provvedimento di individuazione del contraente.
Si tratta di un problema interpretativo che va, in ogni caso, risolto.
Mariagrazia Romeo
TAR Veneto – Sez. II – 11 gennaio 2011, n. 16 – Pres. De Zotti – Est. Gabbricci –
E. s.r.l. c. Comune di Fossò
Il territorio comunale, fatte salve limitate eccezioni, deve essere costantemente
retto da una disciplina urbanistica generale compiuta e coerente. La sospensione del
piano urbanistico, ex art. 21 quater, comma 2, l. 241/1990, è compatibile con l’oggetto e la funzione dello stesso solo qualora tale sospensione sia limitata a singole
previsioni del medesimo, relative ad ambiti circoscritti e giustificata da contingenze
del tutto peculiari.
Il potere di sospensione, pure apparentabile tanto al potere che ha generato il
provvedimento come a quello che ne determina la caducazione, ha tuttavia finalità
sue proprie, che ne consentono l’esercizio secondo una sequenza procedimentale semplificata, in modo da realizzarne lo scopo nei brevi tempi richiesti da un provvedimento cautelativo.
Nelle misure di salvaguardia, alla luce di un’interpretazione estensiva che risponda al principio di economia dell’azione amministrativa, rientrano anche i piani attuativi, in quanto si deve evitare che venga approvato un piano attuativo secondo una
disciplina che, con elevato grado di probabilità, non sarà più vigente quando lo strumento potrebbe finalmente trovare attuazione, vanificando così il cospicuo impegno,
anche economico, profuso da parte dei soggetti interessati per la sua formazione.
(Omissis)
FATTO
A. Dopo che la d.g.r. 8 aprile 2008, n. 822, approvò definitivamente il piano d’assetto territoriale
intercomunale (P.A.T.I.) di Camponogara e Fossò, quest’ultimo Ente dapprima adottò (provvedimento 30 dicembre 2008, n. 74), e quindi approvò, con deliberazione consiliare 8 aprile 2009, n. 19,
il conseguente Piano degli Interventi (P.I.), il quale entrò in vigore il seguente 16 maggio.
B. E. S.r.l. è proprietaria a Fossò di due separate aree, la prima censita a foglio 5, mappale n.
6697, e inclusa nell’A.T.R. 05 del Piano degli Interventi, la seconda, ricompresa nell’A.T.R. 06, e
composta dai mappali nn. 51,53, 6681, 544, 6501 e 6500, sempre al foglio 5.
C. Per ciascuna delle due proprietà E. S.r.l. aveva presentato già il 9 aprile 2009 una proposta di
piano di lottizzazione per edificazione residenziale, rispettivamente denominate A.T.R. 05 ed A.T.R.
06, conformi alle previsioni della strumentazione urbanistica, ma sulle quali l’Ente non si è pronunciato.
D. Era avvenuto che, nel mese di giugno, si erano svolte a Fossò le elezioni amministrative e ciò
aveva condotto alla modifica della maggioranza di governo dell’Ente.
E. Il rinnovato consiglio comunale assunse così la deliberazione 30 settembre 2009, n. 67, e questa stabilì, per un periodo di mesi otto decorrenti dall’entrata in vigore dello stesso provvedimento,
la sospensione dell’efficacia del Piano degli Interventi per le opere «che presentano incongruenze tra
volume edificabile e superficie destinata a standard», ovvero, di tutte «le disposizioni e/o le previsioni del Piano degli Interventi ... desumibili dalle N.T.O. e/o dagli elaborati di Piano, che prevedano
in relazione alle aree di trasformazione, nel dispositivo elencate, nuove edificazioni, ampliamenti e/o
comunque interventi edilizi comportanti la realizzazione di standard». Nell’elenco, contenuto nel di-
54
GIURISPRUDENZA
spositivo, sono state incluse le aree di proprietà E., che ha pertanto impugnato in parte qua con il ricorso principale tale deliberazione.
F. L’esplicita ragione per cui la nuova maggioranza consiliare aveva deliberato la sospensione
parziale del P.I. era stata quella di procurarsi così un intervallo, durante il quale approvare una variante al piano, destinata a rimuoverne i contenuti ritenuti inappropriati, senza dover nel frattempo
applicare le previsioni contenute nello strumento vigente, ed accogliere così i piani attuativi conformi allo strumento vigente.
G. Con la deliberazione 26 febbraio 2010, n. 5, fu adottata tale variante: quanto ad E., per
l’A.T.R. 05 la volumetria passò dai m3 2250, stabiliti nell’originario P.I. a m3 900, mentre per
l’A.T.R. 06 la stessa venne ridotta da m3 18.500 a m3 9.000, così come la superficie territoriale, passata da m2 15.449 a m2 14.833; per questa seconda lottizzazione, inoltre, è stata richiesta la costruzione di un parcheggio aggiuntivo. Il provvedimento è stato anch’esso impugnato con motivi aggiunti; con gli stessi è stata altresì gravata le deliberazioni di giunta 16 marzo 2010, nn. 52 e 53, mediante
le quali la giunta aveva disposto in salvaguardia, ex art. 29 l.r. 11/2004, la sospensione d’ogni determinazione sui due progetti di lottizzazione E., in quanto gli stessi per volumetria, standard e sistemazione idraulica contrastavano con quanto previsto dalla variante al Piano degli Interventi in itinere.
H. Infine, con deliberazione 21 maggio 2010, n. 33, il consiglio comunale ha definitivamente approvato la variante al P.I., oggetto anch’essa di ulteriori motivi aggiunti.
I. Si è costituito in giudizio il Comune di Fossò, il quale ha concluso per la reiezione del ricorso
principale e dei successivi motivi aggiunti.
DIRITTO
(Omissis)
2.1.1. Ciò posto, una parte delle censure è fondata e merita accoglimento.
In effetti, i rilievi espressi in ciascuno dei motivi proposti individuano singoli profili del vizio
principale, riconoscibile nel provvedimento impugnato, e cioè che l’istituto della sospensione del
provvedimento amministrativo, di cui al citato art. 21 quater, II comma («L’efficacia ovvero l’esecuzione del provvedimento amministrativo può essere sospesa, per gravi ragioni e per il tempo strettamente necessario, dallo stesso organo che lo ha emanato ovvero da altro organo previsto dalla legge.
Il termine della sospensione è esplicitamente indicato nell’atto che la dispone e può essere prorogato
o differito per una sola volta, nonché ridotto per sopravvenute esigenze»), è stata qui invalidamente
utilizzata per anticipare gli effetti propri di una variante generale allo strumento urbanistico.
2.1.2. Invero, la disposizione testé citata non introduce specifiche limitazioni, e dunque di per sé
non esclude che sia applicabile anche agli atti urbanistici generali, come il Piano degli Interventi.
È però vero, come osserva parte ricorrente, che il territorio comunale, fatte salve limitate eccezioni, deve essere costantemente retto da una disciplina urbanistica generale compiuta e coerente.
Per giustificare tale affermazione basterà fare riferimento alle norme, di cui alla stessa l.r. 11/04,
che disciplinano la formazione degli strumenti urbanistici, la doverosità della loro approvazione e la
funzione che questi svolgono nell’organizzazione e nello sviluppo del territorio.
2.1.3. È dunque compatibile con l’oggetto e la funzione del piano soltanto la sospensione di singole previsioni, relative ad ambiti affatto circoscritti e giustificata da contingenze del tutto peculiari.
Dunque, qualcosa di affatto differente da ciò che è avvenuto a Fossò, dove è stata grandemente limitata la disciplina urbanistica generale per una parte significativa del territorio – quella destinata alle
nuove edificazioni: è infatti certamente da escludere una reviviscenza del previgente piano regolatore
generale, sia perché questo può conservare effetti solo nei casi e nei limiti stabiliti dalle norme transitorie della l.r. 11/04 (e quello in esame non vi è certamente incluso), sia perché, comunque, il Piano
degli Interventi per tale non è stato integralmente ritirato con le deliberazioni gravate.
2.1.4. Inoltre, la motivazione addotta dal Comune a fondamento di una scelta così delicata ed
impegnativa come quella della sospensione, è certamente generica, se non elusiva, parificando in poche righe situazioni ambientali che andavano invece necessariamente distinte ed invocando inappropriatamente, quanto ai rischi di allagamento, il principio di precauzione, laddove gli eventuali rischi
I MARGINI DI SOSPENSIONE DEI PIANI URBANISTICI
55
avrebbero potuto trovare conveniente soluzione nell’approfondito esame dei singoli piani attuativi e
della loro compatibilità con il piano delle acque, ammesso che questo dovesse ritenersi vincolante.
Sul punto vi è invero assai poco da aggiungere alle serrate critiche di E.: non si può parlare di
«gravi ragioni» quando tutto si riduce ad imprecisate incongruenze nella determinazione degli standard ovvero a ipotetici futuri rischi idraulici dedotti da avvenimenti contingenti.
2.2.1. Non sono invece condivisibili le censure relative al procedimento, in quanto il provvedimento di sospensione, ad avviso del Collegio, non costituisce in generale un contrarius actus rispetto
a quello costitutivo, sul quale esercita i suoi effetti, giacché non ne fa simmetricamente cessare definitivamente l’esistenza, ma soltanto ne limita temporaneamente l’efficacia.
2.2.2. La sospensione, insomma, pur apparentabile tanto al potere che ha generato il provvedimento come a quello che ne determina la caducazione, ha tuttavia finalità sue proprie, che ne consentono l’esercizio secondo una sequenza procedimentale semplificata, in modo da realizzarne lo
scopo nei brevi tempi richiesti da un provvedimento cautelativo.
Dunque, nei ristretti limiti in cui una sospensione di singole previsioni del p.i. è ammissibile,
un’unica determinazione del consiglio comunale è sufficiente: del resto, richiedendo il piano due distinte e successive manifestazioni di volontà, per poter divenire operativo, è sufficiente che una di
queste venga sospesa, perché lo strumento non possa più continuare a svolgere i suoi effetti.
(Omissis)
5.1.1. Infine, come segnalato, l’ultimo motivo (violazione dell’articolo unico della l. 1902/1952,
dell’art. 12 del T.U. edilizia e per violazione dell’art. 29, della l.r. 11/2004) concerne i provvedimenti
52 e 53/2010, con i quali la giunta comunale ha sospeso i procedimenti sui piani di lottizzazione E., dichiarando di voler disporre una misura di salvaguardia, in conformità all’adozione della variante al P.I.
5.1.2. Invero, oltre ai vizi d’invalidità derivata, la ricorrente assume che la l. 1902/1952, l’art. 12
del t.u. edilizia, e l’art. 29 della l.r. 11/04 prevedono l’applicazione di una misura di salvaguardia,
conseguente all’adozione di una variante allo strumento urbanistico generale, con riferimento soltanto ai titoli edilizi e non agli strumenti di pianificazione.
5.2.1. Orbene, esclusa la fondatezza della censura d’invalidità derivata, resta da valutare il motivo specifico. Invero, secondo il ripetuto art. 29, dall’adozione degli strumenti di pianificazione urbanistica e territoriale nonché delle relative varianti e fino alla loro entrata in vigore, nel limite di cinque anni, si applicano le misure di salvaguardia, ex l. 3 novembre 1952, n. 1902, e questa si riferisce
testualmente ad «ogni determinazione sulle domande di licenza di costruzione, di cui all’art. 31 della
legge 17 agosto 1942, n. 1150». A sua volta, il citato art. 12, III comma, del d.P.R. 380/01, pure prevede che, in caso di contrasto dell’intervento, oggetto della domanda di permesso di costruire con le
previsioni di strumenti urbanistici adottati, «è sospesa ogni determinazione in ordine alla domanda»,
per un periodo fino a cinque anni.
5.2.2. Il dato testuale escluderebbe dunque dalla sospensione in salvaguardia gli strumenti attuativi, nella misura e nella parte in cui essi non comportano direttamente una trasformazione del territorio, non essendo revocabile in dubbio che, pur se venisse approvato lo strumento attuativo, la misura di salvaguardia si dovrebbe comunque poi applicare ai permessi di costruire, richiesti per realizzare gli interventi previste nello strumento attuativo, rendendolo comunque inoperante. Sarebbe infatti elusivo della disciplina sulla salvaguardia che potessero essere rilasciati i necessari permessi di
costruzione contrastanti con le previsioni generali adottate, solo perché conformi allo strumento attuativo approvato.
5.2.3. Così, pare infine al Collegio più appropriata un’interpretazione estensiva delle rammentate disposizioni di legge, la quale risponde ad un principio di economia dell’azione amministrativa. Si
deve cioè evitare che venga approvato un piano attuativo secondo una disciplina che, con elevato
grado di probabilità, non sarà più vigente quando lo strumento potrebbe finalmente trovare attuazione, vanificando così il cospicuo impegno, anche economico, profuso da parte dei soggetti interessati per la sua formazione.
(Omissis)
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GIURISPRUDENZA
I MARGINI DI SOSPENSIONE DEI PIANI URBANISTICI
1. Premessa
Con la sentenza in commento il TAR Veneto definisce i margini nel rispetto
dei quali l’Amministrazione comunale può sospendere in via cautelare il piano urbanistico vigente.
La vicenda trae origine dal cambio della maggioranza politica nel Comune di
Fossò, a seguito delle elezioni del giugno 2009. La nuova Amministrazione, volendo modificare alcune parti del Piano degli Interventi (P.I.) (1) – approvato
qualche mese prima dalla precedente maggioranza ed entrata in vigore l’8 aprile
2009 – al fine di procurarsi un intervallo di tempo a ciò adeguato e per evitare di
dover assumere, nel frattempo, decisioni attuative di quanto previsto, determinava – ai sensi dell’art. 21 quater, comma 2, l. 241/1990 – la sospensione parziale di
detto P.I.
Il provvedimento di sospensione, che era adottato dal consiglio comunale il 30 settembre 2009 ed incideva su alcuni piani di lottizzazione privati in precedenza presentati, veniva impugnato avanti il Giudice Amministrativo.
In seguito, il 26 febbraio 2010, la variante era adottata e, il 21 maggio 2010, essa veniva approvata; in tale lasso di tempo, intanto, trovavano applicazione le misure di salvaguardia.
Su tale provvedimento di sospensione, e sugli altri atti impugnati, il TAR Veneto si pronuncia con sentenza 16/2011.
2. Il potere cautelare della pubblica amministrazione
La questione affrontata dal TAR Veneto poggia sul disposto del comma 2, art.
21 quater, l. 241/1990, per il quale «L’efficacia ovvero l’esecuzione del provvedi( 1 ) Come noto, secondo le previsioni della legge regionale del Veneto n. 11/2004, il Piano degli Interventi (P.I.) ed il Piano di Assetto del Territorio (P.A.T.) costituiscono le due figure in cui si articola il Piano Regolatore Comunale (art. 12). La Regione Veneto, infatti, al pari di molte altre regioni, ha sostituito alla precedente figura unitaria del Piano Regolatore Generale – disciplinato dalla nota l. 1150/1942 – due diverse figure: il P.A.T., quale piano strutturale, finalizzato a delineare le linee guida del territorio (artt. 13 e
14), ed il P.I., quale piano operativo, volto a dettare la concreta disciplina del territorio (artt. 17 e 18). Sulla
l.r., 11/2004 si vedano, tra i vari contributi, B. Barel (a cura di), La legge urbanistica della Regione Veneto.
Commentario alla legge regionale del Veneto 23 aprile 2004, n. 11, RCS Libri, Milano, 2004, e P. Marzaro
Gamba, La legge urbanistica del veneto n. 11 del 2004 sul governo del territorio: per una valorizzazione delle
procedure nella formazione degli strumenti urbanistici, in Riv. giu. urb., 2007, 145 ss.
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mento amministrativo può essere sospesa, per gravi ragioni e per il tempo strettamente necessario, dallo stesso organo che lo ha emanato ovvero da altro organo previsto dalla legge. Il termine della sospensione è esplicitamente indicato nell’atto che
la dispone e può essere prolungato o differito per una sola volta, nonché ridotto per
sopravvenute esigenze» (2).
Tale norma disciplina l’istituto della sospensione del provvedimento amministrativo, prerogativa della pubblica amministrazione da annoverarsi tra i poteri di
autotutela.
Come illustre dottrina ha spiegato, l’autotutela è il potere dell’amministrazione
di farsi giustizia da sé e di «esercitare la propria competenza fino alla più esatta realizzazione» (3).
Tale potestà è distinta in decisoria, quando si esprime mediante l’adozione di
provvedimenti, e in esecutiva, quando attiene all’esecuzione delle determinazioni
adottate e si estrinseca nel compimento di operazioni (4).
La sospensione rientra nell’autotutela decisoria, insieme ai poteri di revoca e di
annullamento del provvedimento amministrativo. Essa appare strumentale rispetto a tali figure, essendo finalizzata ad evitare che nel tempo necessario all’adozione
del provvedimento di secondo grado occorrano mutamenti nella situazione di fatto tali da pregiudicare l’effettivo raggiungimento dell’interesse pubblico sotteso a
quest’ultimo. Non viene tuttavia esclusa dalla dottrina una funzione anche non
strumentale della sospensione, data la genericità della previsione normativa (5);
l’art. 21 quater, d’altra parte, attribuisce all’amministrazione ampi margini per
l’esercizio di tale potestà cautelare.
Essa costituisce una funzione di amministrazione attiva, la quale, al pari delle
( 2 ) Sul potere cautelare della pubblica amministrazione si vedano: E. Casetta, Manuale di diritto amministrativo, Milano, 2010, 570; V. Cerulli Irelli, Lineamenti del diritto amministrativo, Torino, 2010,
461; R. Leonardi, Osservazioni in materia di sospensione dell’efficacia degli atti in via di autotutela della
p.a., in Foro. Amm. TAR, 2005, 765 ss.; M. Renna, L’efficacia e l’esecuzione dei provvedimenti amministrativi tra garanzie procedimentali ed esigenze di risultato, in Dir. Amm., 2007, 825 ss.; F. Saitta, Il potere cautelare della pubblica amministrazione. Tra principio di tipicità ed esigenze di tempestività dell’azione amministrativa, Torino, 2003; M.R. Spasiano, Il regime dei provvedimenti: l’efficacia, in Diritto Amministrativo, a
cura di F.G. Scoca, Torino, 2008, 279 ss.
( 3 ) F. Benvenuti, Autotutela (dir. amm.), in Enc. dir., IV, Milano, 1959, 537 ss., il quale la annovera,
insieme ad autarchia ed autonomia, nei tre aspetti in cui si manifesta il pubblico agire. Cfr. anche A.M.
Sandulli, Manuale di diritto amministrativo, Napoli, 1989, 132. Per un’accezione diversa e più risalente,
relativa unicamente all’esecuzione del provvedimento, cfr. M.S. Giannini, Diritto amministrativo, II, Milano, 1979. Secondo l’Autorità per la Vigilanza sui contratti pubblici di lavori servizi e forniture (Deliberazione n. 149 del 22 maggio 2007), essa consiste nel generale ed immanente potere dell’amministrazione di
tornare sui propri passi e «quindi di modificare la propria azione avvalendosi di quello che è stato qualificato
come una sorta di jus poenitendi di natura pubblica».
( 4 ) Tale distinzione è sempre da ricondursi a F. Benvenuti, op. cit., 540.
( 5 ) Cfr. Renna, op. cit., 833.
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altre, deve rispettare le regole generali di siffatta attività, con l’eccezione prevista
dall’art. 7, comma 2, l. 241/1990, in merito alla facoltà di provvedere a prescindere
dalla comunicazione di avvio del procedimento (6).
L’adozione di un provvedimento di sospensione, inoltre, richiede sempre
un’adeguata motivazione, che palesi le gravi ragioni che nel caso concreto ne giustificano l’utilizzo (7).
Il concreto esercizio di tale potere sarà poi eventualmente sindacabile dal giudice amministrativo; lo stesso disposto dell’art. 21 quater – previsto a partire dalla
l. 15/2005 – è il frutto della giurisprudenza antecedente, in quanto già in precedenza – sebbene con maggiori incertezze – alla Pubblica Amministrazione veniva
riconosciuto un analogo potere di sospensione che, allora, era ermeneuticamente
fondato sull’art. 7, comma 2, della l. 241/90.
Siffatta disposizione, nella parte in cui stabilisce che «resta salva la facoltà dell’amministrazione di adottare, anche prima della effettuazione delle comunicazioni
di cui al medesimo comma 1, provvedimenti cautelari», veniva considerata la base
normativa per l’emanazione di disposizioni cautelari da parte dell’amministrazione (8). La concreta portata di tale potere, tuttavia, rimaneva in larga parte incerta.
Da un lato, infatti, sulla base del principio di legalità e di tipicità del potere
amministrativo, la sospensione cautelare si riteneva configurabile solo in presenza
di singole discipline di settore (9) che espressamente riconoscessero tale facoltà.
Dall’altro, invece, la sospensione cautelare era configurata quale potere atipico
e generale, esercitabile anche in assenza di altre disposizioni espresse, con conseguente attribuzione all’art. 7, comma 2, di una portata sostanziale e non meramente procedimentale (10).
( 6 ) Le garanzie partecipative nel procedimento cautelare in esame appaiono fortemente ridotte se non
totalmente escluse. Infatti, come rileva la giurisprudenza, «rispetto a provvedimenti che impartiscono la sospensione [...] è pacificamente escluso l’obbligo di comunicazione dell’avvio del procedimento atteso che la natura strumentale e la funzione meramente cautelare che li caratterizza [...] conducono al riconoscimento dell’applicazione del comma 2 dell’art. 7» TAR Lazio, Roma, Sez. I quater, 4 luglio 2007, n. 5993 in Foro.
Amm. TAR, 2007.
( 7 ) Cfr. V. Cerulli Irelli, op. cit., 462. Per TAR Umbria, Sez. I, 15 maggio 2009, n. 243 in Foro amm.
TAR, 2009, 1400, «La ratio di detti presupposti di legittimità della sospensione risiede evidentemente nell’esigenza di rendere verificabile la sussistenza delle esigenze cautelari che rendono necessario privare di efficacia, anche se per un tempo limitato, un provvedimento pur sempre assistito dalla presunzione di legittimità e
per questo dotato di esecutività». Cfr. anche TAR Puglia, Bari, Sez. II, 13 febbraio 2006, n. 490, in www.giustizia-amministrativa.it.
( 8 ) Sull’art. 7, comma 2, come sufficiente fondamento di un generale potere cautelare si veda Saitta,
op. cit., 76 ss.
( 9 ) Cons. Stato, Sez. V, 2 novembre 1998, n. 1569, in Foro Amm. TAR, 1999, 3089; TAR Sicilia, Palermo, Sez. III, 9 maggio 2002, n. 892, in Foro Amm. TAR, 2002, 1795; TAR Campania, Napoli, Sez. I, 12
giugno 2002, n. 3413, in Foro Amm. TAR, 2002, 2136.
( 10 ) Cons. Stato, Sez. IV, 24 maggio 1995, n. 350, in Foro Amm., 1995, 874.
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In conformità a ciò furono delineate alcune condizioni il cui rispetto era necessario per legittimare la sospensione di un provvedimento; condizioni che furono
poi recepite nell’art. 21 quater, cosicché il suo inserimento nella l. 241/1990 si configurò quale completamento di un sistema allora in parte già delineato.
3. La sospensione dei piani urbanistici
I profili di applicazione dell’esposto istituto ai piani urbanistici sono ora tracciati dal TAR Veneto. Data la particolarità della questione sul punto non si rinvengono precedenti; ciò può probabilmente spiegarsi alla luce delle passate incertezze
sull’effettiva portata del potere di sospensione.
Nel 1993, infatti, il Consiglio di Stato rilevava che «Non esiste nell’ordinamento alcuna norma che autorizzi il comune a sospendere l’efficacia dello strumento urbanistico vigente a causa e nelle more della predisposizione di quello nuovo, con il risultato di privare il territorio di qualsiasi disciplina fino al momento in cui si verificherà la condizione (incerta nell’an e nel quando) costituita dall’approvazione del
nuovo piano, esistendo solo la possibilità (obbligo), del comune di adottare misure di
salvaguardia su domande di concessione edilizie in presenza di difformità fra strumento urbanistico vigente e quello in itinere adottato, in vista dell’approvazione di
quest’ultimo da parte della regione» (11).
Ritenendo non sussistente un potere cautelare generale l’amministrazione non
poteva intervenire prima dell’adozione del piano, momento a partire dal quale diventano applicabili le misure di salvaguardia (12).
Tali misure, invero, si applicano solo qualora l’amministrazione abbia adottato
un nuovo piano urbanistico oppure una variante al precedente piano e sono volte
ad evitare che, nel tempo necessario all’approvazione dello strumento urbanistico
adottato, sul territorio siano realizzati interventi tali da pregiudicare o da rendere
più onerosa l’attuazione dello strumento urbanistico in itinere.
Esse determinano la sospensione di tutti i procedimenti relativi a permessi di
costruire che risultino in contrasto con le statuizioni degli strumenti urbanistici
adottati, pur se coerenti con le previsioni urbanistiche vigenti; esse, eventualmen-
( 11 ) Cons. Stato, Sez. IV, 20 novembre 1993, n. 1026, in Foro Amm., 1993, 11-12 e Cons. Stato, 1993, I,
1415.
( 12 ) Sulle misure di salvaguardia si vedano G. Pagliari, Corso di diritto urbanistico, Milano, 2010,
163 e P. Urbani e S. Civitarese Matteucci, Diritto urbanistico – organizzazione e rapporti, Torino,
2010, 83. Tali misure, inizialmente previste dalla l. 1902/1952, sono ora disciplinate dall’art. 12 del T.U.
sull’Edilizia, d.p.r. 380/2001, cui rinvia anche la legge urbanistica del Veneto, che le prevede e regola all’art. 29.
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te, possono riguardare anche interventi autorizzati in base al precedente assetto
territoriale e già in opera, con conseguente sospensione dei lavori (13).
Tuttavia, a tali misure si può ricorrere solo qualora l’amministrazione comunale abbia già adottato una variante o un nuovo piano, restando così esclusa la fase
di elaborazione dello stesso (14).
Ora, in forza dell’art. 21 quater, l’amministrazione dispone di uno strumento
per intervenire anche nella fase di elaborazione del piano: invero, come ritiene il
TAR, grazie a tale norma il potere di sospensione dello strumento urbanistico sussiste, in quanto «la disposizione [...] non introduce specifiche limitazioni, e dunque
di per sé non esclude che sia applicabile anche agli atti urbanistici generali, come il
Piano degli Interventi».
Tale assunto, benché condivisibile, richiede comunque alcune precisazioni, in
quanto la sospensione del provvedimento costituisce uno strumento eccezionale,
legato all’esistenza di particolari ragioni, la cui applicazione in materia urbanistica
non è certo scevra di difficoltà.
4. La natura dei piani urbanistici
Prima di passare all’esame dei singoli aspetti presi in considerazione dalla sentenza può essere utile evidenziare come, nel ritenere ammissibile la sospensione
del piano urbanistico, il TAR si sia occupato anche – sebbene solo implicitamente
– della sua natura giuridica.
Infatti, presupposto imprescindibile della sospensione è il riconoscimento ad
esso di una natura provvedimentale, poiché l’art. 21 quater testualmente si riferisce agli effetti e all’esecutività di un provvedimento amministrativo. Solo una siffatta soluzione permette l’applicazione dell’istituto, giacché la sospensione ex art.
21 quater sarebbe immediatamente esclusa qualora si riconoscesse al piano natura
regolamentare.
( 13 ) A riguardo, brevemente, si distingue tra misure di salvaguardia ordinarie o generali e misure speciali o eccezionali. Le prime si applicano ogni qual volta l’amministrazione comunale abbia adottato una
variante oppure un nuovo piano, producendo la sospensione obbligatoria delle determinazioni sulle domande di permesso di costruire che risultino difformi dalla disciplina adottata (art. 12, comma 3). Le seconde, invece, hanno carattere discrezionale e riguardano gli interventi già in opera; esse sono normalmente applicabili dalla Regione – o dal diverso ente competente – su richiesta dell’ente comunale, e determinano la sospensione dei lavori. Entrambe le misure hanno efficacia temporale limitata (art. 12, comma 4).
Anche l’art. 29 della l.r. Veneto prevede delle misure di salvaguardia speciali.
( 14 ) Cons. Stato, Sez. V, 8 luglio 1998 n. 1028, in Foro Amm., 1998, 2069, per il quale, quindi, non è
sufficiente la mera intenzione di adottare uno strumento urbanistico per disporre le misure di salvaguardia, e la sospensione, anche volendola intendere quale provvedimento di diniego rispetto ai permessi di costruire richiesti, mancherebbe di qualsiasi indicazione sul contrasto tra il progetto e le norme urbanistiche
vigenti, così risultando, in ogni caso, illegittima.
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Vengono in rilievo, allora, le considerazioni espresse da dottrina e giurisprudenza – che in questa sede non possono che richiamarsi solo brevemente – in merito alla natura delle diverse figure che caratterizzano il tradizionale sistema della
pianificazione urbanistica comunale, incentrato sulla distinzione Piano Regolatore
Generale e Piani Urbanistici Attuativi (15). Strumento generale il P.R.G., strumenti
specifici i P.U.A., che si caratterizzano per essere la puntuale specificazione delle
previsioni contenute nel primo.
Agevole la soluzione in merito alla natura dei Piani Urbanistici Attuativi, giacché essi, costituendo la concreta attuazione delle previsioni contenute nello strumento urbanistico generale, non possono che essere qualificati come provvedimenti amministrativi (16).
Più complessa, invece, l’esatta individuazione della natura del Piano Regolatore Generale, sulla cui esatta determinazione si sono a lungo confrontate sia dottrina (17) che giurisprudenza (18); tra le varie teorie che sono sorte, solo il riconoscimento di un carattere provvedimentale ne permetterebbe la sospensione, la quale
rimarrebbe invece esclusa da una qualificazione regolamentare.
Come noto, tuttavia, tale sistema è oggi fortemente mutato e reso più comples-
( 15 ) Sul sistema della pianificazione urbanistica in generale, caratterizzato da quella «sequenza gradualistica» che va da piani di area vasta e di coordinamento a piani via via più specifici e concreti, si veda F.
Salvia, Manuale di diritto urbanistico, Padova, 2008, 32; sulla natura e la funzione dei piani nell’urbanistica comunale si veda G. Orsoni, Disciplina urbanistica, Padova, 1988.
( 16 ) Sui Piani Urbanistici Attuativi, tra i molti contributi, v. G. Pagliari, op. cit., 212 e ss., F. Salvia,
op. cit., 99 e ss.; P. Urbani e S. Civitarese Matteucci, op. cit., 158 e ss.
( 17 ) Diverse sono le teorie dottrinali: secondo alcuni lo strumento urbanistico costituisce un atto amministrativo a carattere generale che si riferisce a tutti coloro che si trovano in un dato comune (F. Benvenuti, Gli elementi giuridici della pianificazione territoriale in Italia, in Scritti, II, Milano, 2006, 1455 ss.;
M.S. Giannini, I beni pubblici, Roma, 1963, 142 ss.; A.M. Sandulli, Appunti per uno studio sui piani regolatori, in Scritti giuridici – Diritto urbanistico, VI, Napoli, 1990, 155 ss. P. Stella Richter, Natura ed efficacia dei piani regolatori generali, in Giust. civ., 1964, 1970); secondo altri esso ha natura regolamentare
(A. Casalin, Le licenze edilizie, Firenze, 1968, 17 e ss.; I. Di Lorenzo, Diritto Urbanistico, Torino, 1973,
223 e ss.; G. Pagliari, op. cit., 187); secondo altri ancora esso ha natura mista (G.C. Mengoli, Manuale di
diritto urbanistico, Giuffrè, 2004, 93). Sulla perdita di rilevanza di siffatte classificazioni, alla luce dei caratteri variegati che tendono ad assumere oggi i piani regolatori, v. F. Salvia, op. cit., 84; sull’individuazione
dei criteri interpretativi, v. M. Monteduro, Interpretazione e violazione delle prescrizioni degli strumenti
urbanistici, in Riv. giur. urb., 2010, 261.
( 18 ) Le posizioni della giurisprudenza amministrativa sono ormai consolidate nel ritenere lo strumento
urbanistico comunale un atto amministrativo generale: cfr. Cons. Stato, Sez. IV, 29 luglio 1980, n. 807, in
Foro Amm., 1980, 1385; Cons. Stato, Sez. IV, 10 marzo 1981, n. 248, in Cons. Stato, 1981, I, 266 e Cons.
Stato, Sez. IV, 6 marzo 1990, n. 153, in Cons. Stato, I, 348. Cfr. anche Cons. Stato, Sez. V, 16 giugno 2009,
n. 3909; Tar Lombardia, Milano, Sez. II, 9 giugno 2006, n. 1352; TAR Umbria, 17 febbraio 2004, n. 80.
Non mancano, tuttavia, alcune sentenze che riconoscono natura regolamentare al P.R.G. (TAR Lombardia, Brescia, 4 novembre 2003, n. 1344; TAR Campania, Napoli, Sez, II, 21 marzo 2007, n. 2599; TAR
Lombardia, Sez. II, 29 dicembre 2008, n. 6188) o mista (TAR Lombardia, Milano, Sez. 17 ottobre 2006, n.
1998; TAR Puglia, Bari, Sez. II, 3 settembre 2002, n. 3814). Le sentenze sono reperibili su www.giustiziaamministrativa.it.
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so dalle specifiche discipline adottate da ciascuna Regione (19), al pari di ciò che è
avvenuto in Veneto, ove il P.R.G. è stato scomposto in P.A.T. e P.I.
Proprio di quest’ultimo si occupa il TAR Veneto, che ammettendone la sospensione ne riconosce implicitamente natura provvedimentale.
5. Presupposti, margini ed effetti della sospensione
Venendo ora all’esame di quelli che sono i punti concretamente esaminati dal
TAR, in primo luogo emerge la necessità che l’amministrazione si trovi davanti ad
una situazione eccezionale, che non permetta di attendere l’adozione della variante o del nuovo piano e la conseguente applicazione delle misure di salvaguardia
(20). Ai sensi dell’art. 21 quater, infatti, la sospensione del provvedimento, e quindi
del piano urbanistico, è possibile solo in presenza di «gravi ragioni».
Siffatta condizione non potrà certo ravvisarsi nella mera esigenza di evitare che
nel corso dell’elaborazione del piano si modifichi la situazione di fatto, in quanto
dovrà trattarsi di esigenze diverse ed ulteriori, la cui mancata tutela possa fortemente pregiudicare interessi pubblici rilevanti, quali potrebbero essere la pubblica incolumità o la salute pubblica.
In alternativa, ossia in assenza di una situazione di eccezionalità, l’amministrazione incorrerebbe nel vizio di sviamento di potere, come è avvenuto nel caso in
esame, ove il Giudice Amministrativo censura l’utilizzo della sospensione in quanto essa «è stata qui invalidamente utilizzata per anticipare gli effetti propri di una variante generale allo strumento urbanistico» (21).
( 19 ) Sulla scomposizione del P.R.G. in plurimi strumenti urbanistici si vedano: F. Salvia, op. cit., 88,
per cui «Non si tratta di una mera sostituzione del piano regolatore generale con uno strumento di diversa nomenclatura e contenuti, ma di una vera e propria metamorfosi dell’intero sistema pianificatorio, non più basato sul binomio (p.r.g. e p.p.), ma su un piano essenzialmente strategico (il piano strutturale) e una serie di piani operativi»; G. Pagliari, op. cit., 200 ss.; P. Stella Richter, Riforma urbanistica: da dove cominciare?,
in Riv. giur. urb., 1996, 442 ss.; P. Stella Richter, Profili funzionali dell’urbanistica, Milano, 1984; P. Urbani e S. Civitarese Matteucci, op. cit., 140,; P. Urbani, La riforma regionale del PRG: un primo bilancio. Efficacia, contenuto ed effetti del piano strutturale. Il piano operativo tra discrezionalità nel provvedere e
garanzia del contenuto minimo della proprietà, in Riv. giur. urb., 2007, 471.
( 20 ) Sospensione e misure di salvaguardia – in questo contesto – sono accomunate da un medesimo
scopo, essendo entrambe volte a salvaguardare la futura realizzazione dell’interesse pubblico sottostante la
variante o il nuovo piano urbanistico; al contrario della sospensione, però, le misure di salvaguardia sono
atti obbligatori e vincolati la cui applicazione non richiede altro presupposto che l’adozione di un piano o
di una variante: cfr. Cons. Stato, Ad. Plen., 16 giugno 1978, n. 17, in Riv. giur. edilizia, 1978, 760 e, anche,
Cons. Stato, Sez. IV, 6 marzo 1998, n. 382 in Foro amm., 1998, 658.
( 21 ) Il Comune di Fossò, invero, esplicitamente affermava che la sospensione era stata approvata proprio al fine di procurarsi un intervallo tale da permettere l’approvazione di una variante, finalizzata a rimuovere i contenuti del precedente piano ritenuti inappropriati senza dovere, frattanto, accogliere i piani
attuativi allora presentati.
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Tali gravi ragioni dovranno essere adeguatamente rappresentate nel provvedimento stesso, il quale dovrà ampiamente motivare il ricorso alla sospensione cautelare; in difetto si ricadrà nell’eccesso di potere per insufficienza della motivazione.
Il TAR Veneto, difatti, rileva come «non si può parlare di «gravi ragioni» quando tutto si riduce ad imprecisate incongruenze nella determinazione degli standard
ovvero a ipotetici futuri rischi idraulici».
Qualora tali ragioni siano ravvisabili, il TAR – con riferimento all’oggetto della
sospensione – chiarisce come non sia possibile sospendere il piano urbanistico nel
suo insieme, ma solo una parte limitata dello stesso.
Invero, la portata del provvedimento cautelare deve essere coordinata con il
principio generale per cui tutto il territorio comunale deve essere retto da una disciplina urbanistica. Esso è fondato sull’art. 7 della Legge Urbanistica n. 1150/
1942, per cui, come noto, «Il piano regolatore generale considera la totalità del territorio» (22); si tratta di un principio al quale sono necessariamente improntate anche le legislazioni regionali.
Alla stregua di ciò, allora, non solo non può ritenersi ammissibile una sospensione totale dello strumento urbanistico, ma neppure si può tollerare una sospensione di ampie parti dello stesso, dovendosi circoscrivere l’efficacia della misura di
autotutela – come correttamente stabilisce la sentenza – a «singole previsioni, relative ad ambiti affatto circoscritti [...]».
Altrimenti, volendo aderire a differente soluzione, ci si troverebbe con ampie
parti del territorio sottratte ad una qualsiasi disciplina urbanistica. Ad avviso del
TAR, invero, la sospensione non determina il rivivere del precedente piano ma
neppure produce la caducazione di quello sospeso.
Il giudice, tuttavia, non chiarisce quali dovrebbero essere gli effetti prodotti
dalla sospensione e le conseguenze che essa avrà sui procedimenti in corso e sulla
posizione dei privati.
Infatti, se l’adozione delle misure di salvaguardia determina la necessaria sospensione dei procedimenti volti al rilascio di permessi di costruire o all’approvazione di piani urbanistici attuativi – in quanto, secondo il TAR, siffatte misure devono essere estese anche ai piani urbanistici attuativi, giacché si deve «evitare che
venga approvato un piano attuativo secondo una disciplina che, con elevato grado di
( 22 ) Il Consiglio di Stato, Sez. IV, 22 giugno 2004, n. 4429, in Riv. giur. edilzia, 2005, I, 114, non solo
ribadisce la necessità che il piano regolatore generale disciplini l’intero territorio, ma sottolinea come, in
base all’art. 7, l. 1150/1942, la stessa delibera di adozione dell’atto debba comprendere il piano nel suo insieme. Ciò in aderenza a quanto già prima stabilito, con sentenza 28 novembre 1994, n. 959 in Riv. giur.
edilizia, 1995, n. 442.
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probabilità, non sarà più vigente quando lo strumento potrebbe finalmente trovare
attuazione» (23) – nell’ipotesi di sospensione ex art. 21 quater non è chiaro se l’amministrazione abbia un’analoga facoltà di sospensione dei procedimenti o meno.
Da ultimo, sotto l’aspetto temporale dell’autotutela, il provvedimento di sospensione deve valere per il tempo strettamente necessario e deve esplicitamente
indicare il termine finale di cessazione dell’effetto cautelativo; invero, una sospensione sine die si risolverebbe in una revoca di fatto del provvedimento stesso, per
ciò non ammissibile (24).
Ne consegue che, essendo richiesta la certezza nell’an e nel quando, il termine
non potrà che coincidere con un evento futuro e certo, tale da permettere l’effettiva conoscenza del periodo di sospensione, cosicché non potrà ritenersi legittimo
un termine finale legato ad un evento incerto quale potrebbe essere la futura adozione di una variante di piano.
Tale termine, comunque, ai sensi dell’art. 21 quater, «può essere prorogato o
differito per una sola volta, nonché ridotto per sopravvenute esigenze».
6. Il procedimento di sospensione
La sentenza in commento chiarisce, infine, quale sia la sequenza procedimentale da seguirsi nell’adozione di una misura sospensiva. In merito a ciò l’art. 21
quater nulla specifica, limitandosi ad attribuire il relativo potere allo stesso organo
che ha adottato il provvedimento i cui effetti devono essere sospesi o ad altro organo eventualmente previsto dalla legge.
Ma l’organo competente, qualora ravvisi una situazione di gravità tale da richiedere un provvedimento sospensivo, che procedura dovrà seguire? Dovrà attenersi al disposto dettato per la formazione di un piano o di una variante, con tutte
( 23 ) Ad avviso del TAR, infatti, le misure di salvaguardia, in un’interpretazione estensiva improntata al
principio di economia dell’azione amministrativa, devono essere estese anche ad eventuali procedimenti
volti all’approvazione di Piani Urbanistici Attuativi, giacché è opportuno evitare l’approvazione di un piano attuativo quando con ogni probabilità la disciplina di riferimento è destinata a mutare. Anche perché,
d’altra parte, pure se venisse approvato lo strumento attuativo, l’attività edilizia sarebbe comunque impedita dalle misure di salvaguardia, non potendosi ammettere che i permessi di costruire siano rilasciati solo
perché conformi alla disciplina attuativa, quando sono comunque in contrasto con la disciplina generale
adottata.
( 24 ) Invero, come è stato più volte evidenziato, la mancanza di un termine finale espressamente indicato trasformerebbe il provvedimento di sospensione in una revoca di fatto: cfr., tra le molte, TAR, Liguria,
Genova, Sez. II, 1 ottobre 2010, n. 8154, in Foro Amm. TAR, 2010, 3141; TAR Lazio, Roma, Sez. II, 1
marzo 2010, n. 3179, in Foro Amm. TAR, 2010, 920; TAR Campania, Salerno, Sez. II, 30 aprile 2008, n.
1171, in Foro Amm. TAR, 2008, 1106 e TAR Calabria, Catanzaro, Sez. II, 11 aprile 2007, n. 296, reperibile
sul sito www.giustizia-amministrativa.it; TAR Lazio, Roma, Sez. III, 1 febbraio 2001, n. 1275, in Foro
amm. TAR, 2001, 472.
I MARGINI DI SOSPENSIONE DEI PIANI URBANISTICI
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le lungaggini che ne derivano, o potrà utilizzare un procedimento semplificato, finalizzato a permettere l’adozione di un provvedimento cautelare nel minor tempo
possibile?
Ragioni di effettività dell’autotutela richiedono procedure più celeri e, infatti,
il TAR ha riconosciuto che, benché la sospensione sia «apparentabile» al potere
che genera il piano e ne determina la caducazione, essa possa essere disposta mediante una sequenza procedimentale semplificata, «in modo da realizzarne lo scopo
nei brevi tempi richiesti».
D’altronde è la stessa l. 241/1990 a spingere verso una tale soluzione, dato che
esime l’Amministrazione dalla comunicazione di avvio del procedimento cautelare
(art. 7), proprio a garanzia delle finalità del medesimo (25).
Riguardo all’organo competente, è da tenere presente che i piani urbanistici
sono degli atti complessi, giacché la loro entrata in vigore dipende da due atti distinti – adozione ed approvazione – frequentemente attribuiti ad enti diversi (26). Il
TAR in merito ha sottolineato come «richiedendo il piano due distinte e successive
manifestazioni di volontà, per poter divenire operativo, è sufficiente che una di queste venga sospesa, perché lo strumento non possa più continuare a svolgere i suoi effetti».
Se con ciò, del tutto correttamente, si permette all’amministrazione di utilizzare procedure semplificate per tutelare le gravi ragioni che stanno alla base della sospensione, il riferimento alla sospensione di solo uno dei due atti indicati richiede
un’ulteriore considerazione.
Infatti, se quanto detto non desta problema per i piani «operativi», quali i Piani degli Interventi, ove la competenza per adozione ed approvazione è normalmente attribuita al medesimo organo, ovvero al Consiglio Comunale, alcune perplessità potrebbero sorgere per la sospensione di altri piani, ove adozione ed approvazione competono a soggetti diversi.
In questo caso, a fronte del potere di sospensione in capo all’organo compe-
( 25 ) Cfr., tra le varie, TAR Lazio, Roma, Sez. I quater, 4 luglio 2007, n. 5993 in Foro. Amm. TAR, 2007,
2424 e TAR Lazio, Roma, Sez. III ter, 5 novembre 2007, n. 10892, in Foro amm. TAR, 2007, 3466 con nota
di Sinisi.
( 26 ) Rispetto alla disciplina prevista dalla L.U., per cui il PRG veniva sempre adottato dal Comune e
poi approvato dalla Regione, oggi le procedure sono diversificate da regione a regione, ed esse variano anche con riferimento alle diverse figure di piano previste da ciascuna legge regionale. Il piano urbanistico
comunale, ad ogni modo, è concordemente classificato come atto complesso sia in dottrina che in giurisprudenza; esso, in particolare, viene ricondotto alla figura dell’atto complesso diseguale (v. G. Pagliari,
op. cit., 173 e 185). In giurisprudenza, tra i più recenti, TAR Lombardia, Milano, Sez. III, 21 dicembre
2010, n. 7636 e Cons. Stato, Sez. IV, 19 febbraio 2010, n. 1004, per cui «costituisce ormai un punto fermo
della giurisprudenza amministrativa il riconoscimento della natura di atto complesso del provvedimento finale di approvazione di uno strumento urbanistico generale cui concorrono sia la volontà comunale che quella
regionale». Sull’atto complesso cfr. E. Casetta, op. cit., 503 e V. Cerulli Irelli, op. cit., 376.
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GIURISPRUDENZA
tente per l’adozione del piano, non sembrerebbe da escludere la possibilità che
anche l’ente competente ad approvare lo strumento urbanistico possa sospendere
lo stesso, mediante la sospensione del relativo atto di approvazione.
In tale evenienza, tuttavia, le ragioni alla base della sospensione, fermo restando che deve sempre trattarsi di ragioni gravi e di carattere eccezionale, non potrebbero essere collegate alla necessità di procedere ad una variante, data la carenza di tale potere in capo all’organo approvante. La finalità, in questi casi, potrebbe
forse essere strumentale rispetto all’adozione di un provvedimento di revoca o di
annullamento d’ufficio dell’atto di approvazione.
7. Conclusioni
La sentenza 16/2011 del TAR Veneto, per quanto esposto, affronta una problematica nuova in materia, in quanto, come detto, non pare siano frequenti i casi
di sospensione dello strumento urbanistico.
I margini di applicazione dell’istituto rimangono, tuttavia, in qualche misura
ancora incerti; in particolare non emerge con chiarezza quali sono gli effetti concreti che la sospensione è destinata a produrre su tutte le attività che hanno come
presupposto il piano sospeso.
A fronte di ciò, può essere utile evidenziare come, in presenza di certe esigenze
cautelari, non sia da escludersi una possibilità di loro tutela mediante strumenti
differenti. Ad esempio, proprio nel caso da cui trae origine la sentenza in annotazione, il Comune, a voler seguire certa giurisprudenza (peraltro indicata dallo stesso TAR nella sentenza), ben avrebbe potuto semplicemente rigettare i Piani Urbanistici Attuativi di iniziativa privata, costituendo la loro conformità al precedente
assetto territoriale un semplice presupposto, che non impedisce all’amministrazione di provvedere differentemente (27).
Inoltre, a volere seguire altra corrente giurisprudenziale, che ritiene esistente
un potere di sospensione del procedimento amministrativo, eventuali istruttorie
( 27 ) Cons. Stato, Sez. IV, 29 gennaio 2008, n. 248, in Foro amm. CdS, 2008, 97, per cui «l’approvazione
del piano di lottizzazione, pur se conforme al piano regolatore generale o al programma di fabbricazione, non
è atto dovuto, ma costituisce sempre espressione di potere discrezionale dell’Autorità (a livello comunale o regionale), chiamata a valutare l’opportunità di dare attuazione – in un certo momento ed in certe condizioni –
alle previsioni dello strumento urbanistico generale, essendovi fra quest’ultimo e gli strumenti attuativi un
rapporto di necessaria compatibilità, ma non di formale coincidenza; pertanto, per evidenti motivi di opportunità, l’attuazione dello strumento generale può essere articolata per tempi, o per modalità, in relazione alle
esigenze dinamiche che si manifestano nel periodo di vigenza dello strumento generale». In senso conforme,
Cons. Stato, Sez. IV, 2 marzo 2004, n. 957, reperibile su www.giustizia-amministrativa.it; TAR Torino, Piemonte, Sez. I, 9 aprile 2010, n. 1752, in Foro amm. TAR, 2010, 1179.
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concernenti decisioni su piani attuativi o su permessi di costruire potrebbero essere sospese in attesa dell’adozione della variante, per poi essere svolte alla luce della
nuova disciplina urbanistica, senza così disporre una generale sospensione del piano (28).
Anche in siffatte ipotesi, tuttavia, rimangono incerti i concreti margini di utilizzo di tali strumenti, in quanto la giurisprudenza non è ancora concorde sulla loro
portata.
Le considerazioni espresse, ad ogni modo, dimostrano come l’utilizzo dello
strumento cautelare sospensivo debba essere attentamente ponderato dall’amministrazione comunale, soprattutto alla luce delle incertezze sui suoi effetti applicativi.
Qualora poi il ricorso all’art. 21 quater paia l’unica soluzione adeguata, la sospensione dovrà essere mantenuta nei margini sopra tratteggiati e dovrà poggiare
su un’adeguata motivazione.
Pier Marco Rosa Salva
( 28 ) Secondo il TAR Campania, Napoli, Sez. VII, 16 giugno 2008, n. 5918, in Foro amm. TAR, 2008,
1829, infatti, l’art. 21 quater «è destinato a trovare applicazione in presenza di un provvedimento già definitivamente adottato ed efficace, mentre se il procedimento non è ancora concluso il potere di sospensione si atteggia quale misura infraprocedimentale e trova la propria giustificazione e legittimazione nell’ambito del disposto di cui all’art. 7 comma 2 della legge n. 241/1990». Secondo altra giurisprudenza (TAR Lazio, Roma,
Sez. 1 bis, 20 luglio 2005, n. 5770, poi confermata dal Cons. Stato, Sez. IV, 31 maggio 2007, n. 2876, in
Riv. giur. edilizia, 2007, 1593) tale potere di sospensione del procedimento poggerebbe sullo stesso art. 21
quater. In senso contrario, però, altra corrente, per cui «la sospensione del procedimento deve ammettersi
solo nelle ipotesi tipicizzate dalla legge, ossia in presenza di particolari che, a giudizio del legislatore, possano
incidere in modo determinante sull’esito del procedimento stesso» TAR Campania, Napoli, Sez. VII, 28 dicembre 2007, n. 16542 in Il merito, 3, 74. Per Cons. Stato, Sez. IV, 8 marzo 2010 n. 1348, in Diritto & Giustizia 2010, «il tema della sospensione dei procedimenti [...] è vicenda che si colloca in una posizione del tutto
eccezionale nell’attuale panorama normativo. [...] Proprio l’eccezionalità di tale previsione deve indurre cautela nell’estensione indiscriminata di un istituto, come la sospensione [...], che facilmente si prest[a] ad usi di
carattere emulativo». La configurazione di un tale strumento in capo alla Pubblica Amministrazione, infatti, si presterebbe facilmente ad utilizzi pretestuosi ed abusivi.