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OGGETTO: Parere sull`uso dell`aggettivo “artigianale” nell
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Modena, 30 maggio 2014
OGGETTO: Parere sull’uso dell’aggettivo “artigianale” nell’etichettatura alimentare
Etichettatura alimentare: Denominazione di vendita "artigianale"
Secondo l’art. 2 del decreto legislativo 27 gennaio 1992, n. 109, nel testo modificato
dall’art. 2 del decreto legislativo 23 giugno 2003, n. 181, la finalità dell’etichettatura è
quella di «assicurare la corretta e trasparente informazione al consumatore». In
particolare non deve «indurre in errore l’acquirente sulle caratteristiche del prodotto
alimentare e precisamente sulla natura, sulla identità, sulla qualità, sulla
composizione, sulla quantità, sulla conservazione, sull’origine o la provenienza, sul
modo di fabbricazione o di ottenimento del prodotto stesso»; e ancora, non devono
essere attribuiti all’alimento «effetti o proprietà che non possiede» e «proprietà atte a
prevenire, curare o guarire una malattia umana né accennare a tali proprietà, fatte
salve le disposizioni comunitarie relative alle acque minerali ed ai prodotti alimentari
destinati ad un’alimentazione particolare».
Inoltre l’etichettatura non deve «suggerire che il prodotto alimentare possieda
caratteristiche particolari quando tutti i prodotti alimentari analoghi possiedono
caratteristiche identiche».
Alla luce di quanto sopra, analizziamo la possibilità di utilizzare, nelle etichette degli
alimenti, aggettivazioni riferite alla denominazione del prodotto: utilizzo che deve
essere opportunamente considerato in relazione proprio alla correttezza e trasparenza
dell’informazione al consumatore.
Definizione di “denominazione di vendita”, data dall’art. 4 del D.lgs. n. 109/1992:
« La denominazione di vendita di un prodotto alimentare è la denominazione prevista
per tale prodotto dalle disposizioni della Comunità europea ad esso applicabili. In
mancanza di dette disposizioni la denominazione di vendita è la denominazione
prevista dalle disposizioni legislative, regolamentari o amministrative dell'ordinamento
italiano, che disciplinano il prodotto stesso… La denominazione di vendita non può
essere sostituita da marchi di fabbrica o di commercio ovvero da denominazioni di
fantasia».
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Etichettatura alimentare: Denominazione di vendita "artigianale"
Talvolta si possono riscontrare sugli alimenti denominazioni accompagnate da
aggettivi o altri termini, come:
pasta casalinga;
salame di campagna;
vino locale;
birra artigianale;
pasta lavorata a mano.
Uso dell’aggettivo “artigianale” associato direttamente alla denominazione
del prodotto
Aggettivo che potrebbe individuare un prodotto fabbricato nello stabilimento di
un’impresa “artigiana” anziché “industriale”: la differenza è sancita dalla normativa e
riferita alla dimensione aziendale in relazione al numero di dipendenti (Legge 8 agosto
1985, n. 443 e smi.). Ma siccome non sono individuabili differenze certe che
consistano in caratteristiche intrinseche del prodotto, legate ad un processo produttivo
più tradizionale o manuale, tale aggettivazione “potrebbe” risultare ingannevole.
Per questo, invece di scrivere “prodotto artigianale”, sarebbe più corretto scrivere
in etichetta, accanto alla denominazione, “prodotto in laboratorio artigianale”, o
“prodotto da azienda artigiana”, per non indurre in errore l’acquirente sulla qualità
o il modo di fabbricazione: infatti, l’aggettivo “artigianale” associato direttamente alla
denominazione del prodotto può richiamare, anche in questo caso, l’idea di
caratteristiche peculiari diverse da quelle di prodotti analoghi che invece possiedono
caratteristiche identiche.
La circolare del Ministero delle Attività Produttive 10 novembre 2003, n. 168 (in GU n.
4 del 7-01-2004), conferma di fatto quanto sopra, affermando che diciture come
“produzione artigianale”
non garantiscono una qualità organolettica,
nutritiva o sanitaria superiore; afferma inoltre che indicazioni come “lavorato a
mano”, pur non traducendosi di regola in un aumento della qualità del prodotto finito,
possano essere indicate come garanzia sul metodo, solamente se sia possibile
dimostrare l’esecuzione manuale di tutte le fasi del processo produttivo.
E’ vero che l’uso di diciture relative alle caratteristiche del metodo di produzione
costituisce una garanzia fornita al consumatore sul metodo, ma non si traduce, di
regola, anche in un aumento della qualità del prodotto finito in termini di
caratteristiche ingredientistiche, nutrizionali, chimico-fisiche, organolettiche ed
igienico-sanitarie.
Nell’azienda artigianale domina la presenza di una struttura organizzativa
tipicamente artigianale e/o familiare caratterizzata dal basso numero di addetti e
soprattutto dall’apporto del know how umano e personale nella produzione. Questo
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aspetto concerne, ovviamente ed unicamente, le caratteristiche dell’impresa. Pertanto
non può in alcun modo essere utilizzato per presentare i prodotti come superiori nella
qualità. In altre parole, l’azienda artigianale non può trasformare la sua
qualifica giuridica in un elemento di qualità dei prodotti finiti.
Conclusioni
La denominazione di vendita è disciplinata da una fonte normativa di tipo orizzontale
ed eventualmente da una di tipo verticale:
•
•
la norma nazionale generica sull’etichettatura alimentare che coinvolge in modo
trasversale l’etichettatura di tutti i prodotti alimentari;
le norme specifiche per “produzione, etichettatura e pubblicità” dei prodotti
alimentari solitamente raggruppati per categorie (birre, vini, pane,pasta e sfarinati,
carni, conserve, burro, latte e formaggi, ecc.).
Quindi, la disciplina nazionale stabilisce i principi base della denominazione di vendita,
poi per ogni tipo di alimento, la disciplina specifica stabilisce quale denominazione
adottare in base alle proprietà organolettiche dell’alimento.
I produttori e i rivenditori di prodotti alimentari devono prestare particolare attenzione
all’utilizzo in etichetta, sia nei prodotti preconfezionati (di cui all’art. 3 del DLgs n.
109/1992) che in quelli sfusi o venduti previo frazionamento (di cui all’art. 16 del
DLgs n. 109/1992), di menzioni tendenti a creare, per il prodotto stesso, un vantaggio
commerciale richiamando nella mente dei consumatori l’idea di caratteristiche diverse
da quelle di altri alimenti similari.
Gli operatori alimentari dovrebbero evitare le aggettivazioni improprie, garantendo
trasparenza commerciale ed evitando di violare la normativa vigente sia in materia di
etichettatura, sia nel campo della tutela dei prodotti tipici, tradizionali o biologici.
Principali sanzioni
Violazione dell’art. 2 del DLgs n. 109/1992 (etichettatura che induca in errore
l’acquirente sulle caratteristiche del prodotto: natura, identità, luogo di origine o
provenienza, ecc., o evidenzi caratteristiche particolari tendenti a differenziare
indebitamente il prodotto da altri analoghi): sanzione amministrativa pecuniaria da
3.500 euro a 18.000 euro; sanzione in misura ridotta: 6.000 euro.
Violazione dell’art. 515 del Codice penale: “Frode nell’esercizio del commercio.
Chiunque, nell’esercizio di un’attività commerciale, ovvero di uno spaccio aperto al
pubblico, consegna all’acquirente una cosa mobile per un’altra, ovvero una cosa
mobile, per origine, provenienza, qualità o quantità, diversa da quella dichiarata o
pattuita, è punito, qualora il fatto non costituisca un più grave delitto, con la
reclusione fino a due anni o con la multa fino a lire quattro milioni” (con la riduzione
della pena da un terzo a due terzi nel caso di “delitto tentato” di cui all’art. 56 del Cp,
che si concretizza quando il prodotto viene esposto per la vendita e prima che questa
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avvenga). La norma penale, se applicabile, prevale comunque su quella di carattere
amministrativo se quest’ultima è una disposizione regionale, mentre in caso di
applicabilità sia della norma penale, sia di una norma amministrativa dello Stato,
viene applicata tra queste la norma speciale.
Violazioni del D.Lgs. 19 novembre 2004, n. 297 Disposizioni sanzionatorie in
applicazione del regolamento (CEE) n. 2081/92: importi diversi, a seconda dei casi
specifici (anche fino a 50.000 euro).
A cura di
Dr.ssa Maria Pia Miani – CNA Interpreta srl
NOTE TECNICHE
Esempi di denominazioni di vendita stabilite da norme specifiche
Birra
Quando una legge stabilisce per un determinato alimento, una classificazione in
categorie di qualità, la denominazione di vendita fornisce un’informazione
immediata del livello qualitativo del prodotto, che il consumatore può immediatamente
valutare. Siccome la finalità dell’etichettatura è di informare in modo chiaro il
consumatore sul tipo di prodotto, la denominazione di vendita deve essere una di
quelle stabilite dalla normativa specifica, che nel caso della birra è la Legge
1354/1962.
La stessa normativa citata definisce:
“Birra: si ottiene dalla fermentazione alcolica, effettuata da lieviti delle specie
Saccharomyces cerevisiae o Saccharomyces carlsbergensis, di un preparato, detto
mosto, di malto e d’acqua. Il malto, che può essere anche torrefatto, si ottiene da
orzo o da frumento o da loro miscele, mentre all’acqua si aggiunge luppolo o un suo
derivato o entrambi.”
Per la legge italiana (legge 1354/1962 modificata per quanto riguarda la
classificazione dal Dpr 272/1998) esistono diverse denominazioni di vendita della
birra in base al titolo alcolometrico e al grado Plato:
• birra analcolica: Grado Plato 3-8 o Grado alcolico < 1.2% vol.
• birra leggera o light: Grado Plato 5-10.5 o Grado alcolico 1.2-3.5% vol.
• birra: Grado Plato > 10.5 o Grado alcolico > 3.5% vol.
• birra speciale: Grado Plato > 12.5 o Grado alcolico 4-5% vol.
• birra doppio malto: Grado Plato > 14.5 o Grado alcolico > 5% vol.”
In conclusione, in base al range alcolometrico all’interno del quale rientra un tipo di
birra, la denominazione legale deve essere quella corrispondente, che potrà poi essere
ovviamente accompagnata dal nome specifico/proprio.
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Ad esempio:
Lugh Cuprum (nome proprio)
Birra doppio malto (denominazione di vendita)
Sfarinati e paste alimentari
Ai sensi del D.P.R. 9 febbraio 2001, n. 187:
"È denominato «farina di grano tenero» il prodotto ottenuto dalla macinazione e
conseguente abburattamento del grano tenero..."
"È denominato «semola di grano duro», o semplicemente «semola», il prodotto
granulare a spigolo vivo ottenuto dalla macinazione..."
"Per paste speciali si intendono le paste contenenti ingredienti alimentari, diversi dagli
sfarinati di grano tenero, rispondenti alle norme igienico-sanitarie...devono essere
poste in vendita con la denominazione pasta di semola di grano duro o pasta di
semolato di grano duro o pasta di semola integrale di grano duro, completata dalla
menzione dell'ingrediente utilizzato e, nel caso di più ingredienti, di quello o di quelli
caratterizzanti".
Prodotti da forno
Ai sensi del D.P.R. 23 giugno 1993, n. 283 "Regolamento relativo alle denominazioni
legali di alcuni prodotti da forno", nell'etichettatura bisogna riportare le specifiche
denominazioni solo se il prodotto rientra negli standard stabiliti:
"Crackers...la denominazione "crackers" è riservata ai prodotti da forno ottenuti dalla
cottura rapida di...;
"Fette biscottate...la denominazione "fette biscottate" è riservata ai prodotti da forno
ottenuti dalla cottura, frazionamento mediante tranciatura trasversale, eventuale
stagionatura e successiva tostatura di...";
"Crostini...la denominazione "crostini" è riservata ai prodotti da forno ottenuti dalla
cottura e successiva tostatura di...".
(con riferimento ai prodotti da forno: D. Lgs. 23 giugno 1993, n. 283: Regolamento relativo
alle denominazioni legali di alcuni prodotti da forno; DPR 502/1998; D.M. 22 luglio 2005:
Disciplina della produzione e della vendita di prodotti dolciari da forno; Circolare MISE del 3
dicembre 2009, n. 7021: Circolare esplicativa su etichettatura e presentazione dei prodotti
alimentari - Prodotti dolciari da forno; Circolare MISE del 3 dicembre 2009, n. 7021 ALLEGATO).
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