Umanitaria padana: missione compiuta
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Umanitaria padana: missione compiuta
12 CRONACA Mercoledì 29 ottobre 2003 laPADANIA Don Sandro, nessuno cerca i suoi killer IL MISSIONARIO BERGAMASCO FU UCCISO IN PERU’ 12 ANNI FA, INDAGINI MAI AVVIATE Ci sono delitti che restano per anni in attesa della verità e che forse, una verità, non la troveranno mai. È il caso dell’omicidio di Don Alessandro Dordi, un missionario italiano, originario del bergamasco, ucciso in Perù la sera del 25 agosto 1991. Sono passati 12 anni, ma i fratelli Bianca e Ezio attendono ancora che quel delitto ottenga giustizia: a nulla sono valse le richieste avanzate al governo peruviano, anche attraverso l’ambasciata in Italia. Don Alessandro Dordi è stato sepolto, in Italia, 12 anni fa e con lui sembra sia stata sepolta anche la verità in merito a una vicenda che non ha mai avuto spiegazioni. TERRORISTI O SEMPLICI ASSASSINI? A fine agosto, dopo 22 mesi, si sono conclusi in Perù i lavori della Commissione per la verità e la riconciliazione nazionale, cha ha indagato sui crimini della lunga guerra civile, che oppose il governo del paese ai movimenti terroristici di “Sendero luminoso” e “Tupac amaru”; anche quella commissione però non ha saputo far luce sull’omicidio di Don Alessandro Dordi. Il crimine, che avvenne a Pampa de Vinzos Santa-Ancasch (Chimbote) , fu attribuito a due presunti guerriglieri mascherati, appartenenti al movimento terroristico “Sendero Luminoso” . L’agguato scattò intorno alle 17. 00 mentre il mis- Don Sandro Dordi mentre prepara il Natale dei poveri sionario percorreva la valle del fiume Santa a bordo di una jeep per raggiungere Rinconada dove avrebbe dovuto celebrare l’ultima Messa della giornata. Una Messa che però non celebrò mai. Nonostante una prima attribuzione del delitto ai guerriglieri del movimento terroristico, la stampa peruviana si allontanò da quella pista, sottolineando che quell’assassinio non aveva ricalcato il modo di procedere e di uccidere di “Sendero Luminoso”; il movimento infatti, prima di eseguire la sentenza capitale, era solito processare le sue vittime in pubblico, come “nemici del popolo”. Cosa che infatti era avvenuta il 9 agosto del ’91, un paio di settimane prima che fosse ucciso Don Dordi, quando erano stati giustiziati due missionari polacchi francescani, dopo aver subito il cosiddetto “processo del popolo”. L’INDIFFERENZA DELLO STATO ITALIANO L’omicidio di Don Alessandro Dordi appariva In primo piano, il missionario nei pressi di uno dei canali da lui riparato m STEFANIA PIAZZO Sahera è arrivata a Milano dall’Iraq con l’Umanitaria Padana onlus da pochi giorni. È nel capoluogo lombardo che, grazie alla missione dei volontari padani, “Guerrieri per la pace”, potrà ricevere le cure mediche impossibili da ottenere nella sua terra. È una ragazza forte, estroversa, parla qualche parola in inglese ma soprattutto si esprime in aramaico, la lingua di Gesù. Non è una donna qualsiasi, è la figlia del fratello di monsignor Al Jamil, procuratore presso la Santa Sede del Patriarcato di Antiochia dei Siri. Ma Sahera non porta nei documenti il nome dello zio. Perché? Ce lo spiega la signora Sara Fumagalli, coordinatrice della missione. «È un fatto che non deve sorprendere. Ci ha spiegato monsignore Al Jalil che in Iraq ai nati cristiani venivano cambiati i cognomi per colpire l’identità e l’appartenenza religiosa, nel tentativo di disarticolare le famiglie». L’Umanitaria Padana onlus ha raggiunto l’obiettivo nell’ultimo viaggio a Nassirya? «Sì, siamo soddisfatti ma se siamo riusciti a conquistare la meta è grazie alla buona volontà di molte persone e istituzioni che in questa occasione vorrei ringraziare. Innanzitutto al nostro interno va la mia gratitudine va a Renata Galanti, coordinatrice dell’Associazionismo padano, nostro punto fermo a Milano e con lei Andrea Tampieri e Morena Fassini; un grazie anche alle Donne Padane e a Michele che hanno fornito l’abbigliamento invernale per Sahera; poi, per l’Umanitaria, Sergio Ferrero a cui si deve l’iniziativa della missione e il contatto con monsignor Al Jamil, che ha trovato l’istituto per accogliere Sahera e ha instaurato una collaborazione stabile tra la strut- quindi anomalo; tuttavia, ad esso non fece mai seguito alcuna attività investigativa. Non risultano verbali della polizia intervenuta sul luogo dell’agguato, nè alcun altro documento che dimostri una pur minima attività di indagine. In una lettera datata “Chimbote, 16 gennaio 1996” inviata dal “tecnico amministrative “ Fermina Paredes Rafaile al Procuratore provinciale Decano del Santa, Emilio Llanos Esquives, si legge: “In ottemperanza con il suo mandato verbale, la informo che, verificati i registri della presentazione delle denunce di questa Seconda Procura Provinciale penale - Santa, a partire dal mese di agosto 1991, non ne figura alcuna registrata correlazionata con la morte del missionario Alessandro Dordi, così come non è stato riscontrato verbale e/o alcuna partecipazione di polizia al riguardo...» Eppure qualcuno raccolse quella salma che venne rimpatriata e tumulata in Italia, senza che però fosse fatta l’autopsia. NON ANCORA RITROVATI TUTTI I SUOI BENI I familiari chiedono da 12 anni di sapere come andarono le cose ma nonostante le ripetute richieste inviate al presidente peruviano e poi alla Farnesina, a tutt’oggi, sull’omicidio di Don Alessandro Dordi resta un punto interrogativo. E c’è un altro aspetto sul quale i fratelli vogliono fare luce: dove sono finiti i beni che Don Sandro possedeva in Perù? Corrispondenze, carteggi e documenti. Le volontà testamentarie del missionario non sono mai state eseguite: l’esecutore testamentario, senza alcuna spiegazione, rinunciò a tale mandato. Note banche svizzere non hanno ancora reso conto dei beni testamentari loro affidati. L’anno scorso, dopo che il ministro Castelli ha accolto la richiesta dei parenti di Don Alessandro, a Bergamo, è stata avviata un’inchiesta, ma intanto sono passati 12 anni. I familiari si chiedono perché, per alcuni italiani uccisi all’estero, l’Autorità Giudiziaria Italiana ha provveduto ad aprire un’inchiesta, mentre nel caso del loro congiunto ciò non è stato fatto, a suo tempo, quando forse era ancora possibile inseguire una traccia poter risalire agli assassini. I fratelli di Don Dordi, Bianca e Ezio, hanno chiesto di poter riesumare la salma e di procedere con l’autopsia che non fu mai fatta, mentre l’inchiesta avviata cercherà di far luce, a distanza di 12 anni, su una morte ancora misteriosa e sui beni del missionario che non sono ancora stati rtrovati. Una delle ultime foto scattate al missionario: nell’immagine Don Sandro pochi giorni prima di essere assassinato, alla festa della Madonna della neve, il 5 agosto del ’91 Il missionario davanti alla sua casa peruviana Una vita per i poveri ● Don Alessandro Dordi, detto Don Sandro, era nato il 23 gennaio 1931 a Gromo San Marino, comune di Gandellino (Bergamo) ● Fu ordinato sacerdote nel 1954; dal 1954 al 1965 fu inviato nella diocesi di Chioggia e partecipò alla ricostruzione del Polesine alluvionato. ● Dal ’66 al ’79 operò in Svizzera dove fu cappellano degli emigranti a Le Locle, nel Cantone di Neuchatel, attività che gli valse un’onorificenza dal Presidente della Repubblica Italiana. ● Nel 1980 si trasferì, di propria iniziativa, in Perù dove fu missionario della Parrocchia di Santa e della valle del Santa, nella diocesi di Chimbote; una zona vastissima che si estende da Santa, vicino al Pacifico, fino a Huallanca e alle prime alture della Cordigliera delle Ande. ● Non svolse mai attività politica e si dedicò alla progettazione e alla realizzazione di grandi opere; a tal fine ricevette moltissimi aiuti, ma anche di ciò non si trova più alcuna documentazione. ● Numerose le opere portate a termine: scuole, chiese, centri parrocchiali e centri giovanili. ● Il governo peruviano lo incaricò di sovrintendere e amministrare la realizzazione di un canale d’irrigazione nella regione dove operava. Il canale fu poi distrutto dall’alluvione , ma lui stesso lo riprogettò e lavorò personalmente per ricostruirlo. ● Il governo del Perù gli conferì la decorazione dell’ordine “El Sol del Perù” nel grado di Grande Ufficiale, in riconoscimento dell’importante lavoro sociale svolto a favore dei poveri del Perù. Umanitaria padana: missione compiuta Per l’intervento del volontariato padano a Nassirya è già in cura al Niguarda la giovane donna irachena bisognosa di terapie Fumagalli: grazie alla nostra gente, al contingente militare, a Difesa, Affari esteri e Regione Lombardia tura e l’Umanitaria Padana onlus ; Giancarlo Carotenuto operatore cinematografico di Roma che si è affezionato al progetto tanto da venire con noi in veste di volontario. Ma un grazie va soprattutto al dottor Pietro Velio, vicepresidente dell’Associazione medica padana e socio dell’Umanitaria, mio preziosissimo compagno di viaggio in Iraq, persona di grande umanità e competenza molto utile in queste circostanze. Un grazie anche a la Padania e a Radio Padania Libera che ci hanno seguito quotidianamente sotto il profilo mediatico». Signora Fumagalli, che ruolo hanno giocato le istituzioni? «Anche loro sono state determinanti. Partirei col dire che accanto a noi abbiamo avuto l’aiuto del ministero della Difesa, del Gabinetto del Da sinistra, la giovane Sahera, Sara Fumagalli e il dottor Pietro Velio ministro e particolarmente del Coi (Comitato operativo di vertice re il ministero degli Affari esteri, il sono presi cura della paziente duinterforze), del contingente italiano Gabinetto del ministro e in par- rante la permanenza al campo. Un militare impegnato nell’operazione ticolar modo l’Unità di crisi e la ringraziamento anche all’amico Antica Babilonia. Loro hanno prov- sezione speciale di interessi italiana giornalista e scrittore Pino Agnetti veduto ad ospitarci nell’accampa- a Baghdad che hanno provveduto che ci ha seguiti e assistiti nel nomento a Nassirya, a trasportarci sui per i necessari visti e autorizzazioni. stro lavoro come un vero volontario. voli militari prepianificati e al ser- Ma non solo: grande riconoscenza Dobbiamo dire un grandissimo gravizio di protezione e scorta come va al corpo delle infermiere volon- zie alla Regione Lombardia e al preprevisto dal mandato conferito dal tarie e all’ospedale da campo della sidente Formigoni che hanno emesParlamento. Quindi devo ringrazia- Croce Rossa militare a Nassirya: si so con sollecitudine un decreto au- torizzando l’ospedale Niguarda alle cure per Sahera, subendone gli oneri finanziari ai sensi della delibera di giunta regionale n.7/12206 del 21 febbraio del 2003». Vuol fare un bilancio di questo viaggio della speranza? «Mi piace citare una frase del dottor Velio pronunciata a Sahera quando siamo arrivati a Milano: “Questo non è un viaggio della speranza ma un viaggio della certezza”, perché vogliamo con tutto il cuore che questa donna torni a casa completamente guarita». Ma non era previsto che arrivaste con due ragazze? «Sì, questo è il nostro grande dolore, Rusha non ce l’ha fatta, il suo male era troppo grave e aveva corso troppo velocemente. Rusha sognava di venire nel nostro Paese, voleva andar via dall’Irak. È stata una giovane sfortunata: è stata abbandonata dal padre dopo la morte della madre in un paese dove essere orfana e non avere un uomo che risponde per te significa non potersi sposare, non andare a scuola, non avere un lavoro. In altre parole, non esistere. Quando l’abbiamo trovata, e speravamo ancora di ripartire alla volta di Milano insieme, ci sorrideva, era emozionata e ci faceva con la mano il segno di ok, come se avesse raggiunto il suo obiettivo. Verso sera improvvisamente una severa crisi respiratoria, poi la perdita di conoscenza. Inutile ogni tentativo, la ragazza si è spenta nei giorni seguenti. In precedenza aveva rifiutato un intervento a Baghdad perché voleva trovare una nuova vita, da donna libera, in Italia. C’era quasi riuscita, questa speranza l’ha sostenuta e forse nel momento in cui pensava di aver raggiunto il suo obiettivo ed era felice, ha chiuso gli occhi e si è spenta. Tutti quanti noi, il contingente (che tra l’altro si è occupato anche del suo funerale), la Croce Rossa, abbiamo fatto il possibile per lei ma dobbiamo renderci conto che gli uomini possono arrivare fino ad un certo punto, il resto è nelle mani di Dio». Quanto a Sahera, invece? «Ora dovrà affrontare un duro percorso di terapie che ha peraltro già iniziato assistita innanzitutto da un team di medici dell’ospedale Niguarda ma anche dalle donne di Padanassistenza, che si occupano del trasporto tra Niguarda e la casa d’accoglienza delle suore della Carità di via Poma a Milano dove la ragazza è ospitata nei periodi di cura, mentre negli altri momenti vive a Roma con lo zio. Anche il dottor Velio seguirà da vicino questa paziente».