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QUADERNI 19
A DUECENTO ANNI DALLʼIPOTESI
di
AMEDEO AVOGADRO
ACCADEMIA DELLE SCIENZE DI TORINO
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© 2013 ACCADEMIA DELLE SCIENZE DI TORINO
Via Accademia delle Scienze, 6, 10123 Torino
Uffici: Via Maria Vittoria, 3, 10123 Torino
Tel. +39-011-562.00.47; Fax +39-011-53.26.19
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ISBN: 978-88-908669-0-6
In copertina: figura allegorica posta originariamente sotto al busto in bronzo di
Amedeo Avogadro nel monumento inaugurato in occasione del primo centenario dell’ipotesi (Pietro Canonica, Torino, 1911).
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Introduzione
Nel corso degli anni lʼAccademia delle Scienze ha reso costante omaggio ai suoi
soci più illustri con convegni, giornate commemorative, pubblicazioni e ristampe,
ma pochi soci sono stati celebrati quanto Amedeo Avogadro di Quaregna, eletto corrispondente fisico lʼ8 luglio 1804, a 28 anni, e socio nazionale il 21 novembre 1819.
Nel 1911, in occasione del centenario della sua famosa ipotesi uscita nel «Journal
de physique, de chimie et dʼhistoire naturelle», che sarebbe divenuta una delle leggi
fondamentali della chimica moderna, lʼAccademia eleggeva unʼapposita «Commissione Esecutiva» − composta da Icilio Guareschi, Michele Fileti, Andrea Naccari,
Guido Grassi e Carlo Somigliana – col compito di organizzare «onoranze internazionali». La cerimonia solenne fu fissata il 24 settembre: la commemorazione ufficiale venne affidata al chimico Icilio Guareschi, un monumento scolpito da Pietro
Canonica fu innalzato nel Giardino del Mastio della Cittadella e si coniò anche una
medaglia commemorativa. Sul fronte delle pubblicazioni gli sforzi profusi non furono da meno: per i tipi dellʼUnione tipografico-editrice torinese si davano alle stampe
un libro di Onoranze centenarie internazionali ad Amedeo Avogadro e il monumentale volume di Opere scelte curato da Guareschi.
Un secolo dopo, forse non con la stessa magnifica solennità, ma con lo stesso impegno nel mettere in luce aspetti inediti o poco conosciuti dellʼopera di Avogadro,
lʼAccademia delle Scienze ha festeggiato il secondo centenario della famosa memoria organizzando il 20 e il 21 ottobre 2011, con lʼUniversità del Piemonte orientale e
la Fondazione Burzio, il convegno da cui trae origine il presente volume, che esce
nella collana dei «Quaderni» con lo stesso titolo del convegno, A duecento anni
dallʼipotesi di Avogadro. Il titolo valorizza lʼaspetto celebrativo, ma il ventaglio di
argomenti affrontati è molto più vasto. Al discorso ad ampio raggio di Califano
sullʼevoluzione storica del concetto di atomo, che apre il quaderno e colloca Avogadro nel contesto della cultura occidentale, seguono gli studi di Giuliani sui fisici
nellʼOttocento, le analisi di Ferraris sulle relazioni tra Avogadro e la cristallografia,
le ricostruzioni storiche di Montaldo, che illustra gli ambienti culturali e le istituzioni scientifiche piemontesi dei tempi di Avogadro.
Scorrendone le pagine non finiamo di stupirci, perché come ben illustrato dalla
poesia di James Clerk Maxwell citata da Califano in chiusura del suo saggio: «A un
certo momento e in un certo posto / gli atomi lasciarono il loro cammino celeste / e
per un fortuito abbraccio / generarono tutto quello che esiste / E anche se sembrano
aderire lʼuno allʼaltro / e formare associazioni, / prima o poi strappano i loro legami /
e si aggirano nella profondità dello spazio», come a dire che gli atomi continueranno
a muoversi senza curarsi delle nostre idee che vorrebbero costringerli a seguire teorie alle quali essi non necessariamente hanno intenzione di adeguarsi.
Torino, 20 maggio 2013
Alberto Conte
Medaglia commemorativa coniata in occasione del centenario dellʼipotesi di Avogadro.
Nel rovescio si legge: «NEL CENTENARIO / DELLA SUA TEORIA MOLECOLARE / INAUGURANDOSI IL
MONUMENTO / 24 SETTEMBRE 1911» (scultore Carlo Fait; incisore e madaglista Giuseppe Tua).
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Saluti
Nel 2006 lʼAccademia delle Scienze di Torino organizzò, insieme allʼUniversità del
Piemonte orientale, un convegno in occasione del centocinquantesimo anniversario
della morte di Amedeo Avogadro, avvenuta nel luglio 1856 – un convegno che si tenne il primo giorno in questa stessa sala, e il giorno successivo a Vercelli, presso il rettorato dellʼateneo che si fregia oggi del suo nome. Allora lʼAccademia pubblicò, a cura
di Marco Ciardi, tre manoscritti inediti conservati nella propria biblioteca, quei manoscritti che essa – lo dico con un certo senso di vergogna – rifiutò di accogliere nelle
proprie memorie quando lʼautore li sottomise al suo giudizio. Le relazioni presentate a
quel convegno furono poi pubblicate lʼanno dopo, sempre a cura di Marco Ciardi, in
un volume edito dal Mulino, che recava il titolo Il fisico sublime (comʼè noto, alla «fisica sublime», cioè quella che oggi viene chiamata fisica matematica, era intitolata la
cattedra istituita per lui nel 1820 nellʼUniversità di Torino, che egli tenne per due anni
e poi di nuovo dal 1834 al 1850).
Oggi celebriamo – come ci eravamo proposti già allora – il duecentesimo anniversario dellʼarticolo che Avogadro pubblicò nel «Journal de physique», lʼEssai dʼune manière de déterminer les masses relatives des molécules élémentaires des corps, nel
quale è formulata lʼipotesi a cui è legato il suo nome, la celebre «legge di Avogadro»
relativa alla costanza del numero di molecole contenute, a pari condizioni di pressione
e di temperatura, in volumi eguali di gas (per lʼesattezza, 6,022 x 1023). E lo facciamo
anche questa volta in collaborazione con lʼUniversità del Piemonte orientale, con
unʼiniziativa la quale coprirà egualmente due giornate – del che sono particolarmente
soddisfatto, e grato al rettore Garbarino cui spetta il merito di averla promossa. Alle
due istituzioni che rappresentiamo se nʼè però aggiunta una terza, la Fondazione intitolata a Filippo Burzio, con la quale lʼAccademia ha istituito, ormai da otto anni, un amichevole rapporto, e che ha finanziato la pubblicazione del volume Avogadro 2011, a
cura di Marco Ciardi, che sarà presentato nel pomeriggio.
Consentitemi, prima di concludere, una brevissima riflessione. Noi viviamo in
unʼepoca nella quale la scienza applicata, con i suoi incessanti progressi, è oggetto di
un apprezzamento molto superiore alla scienza «pura», allʼesercizio del lavoro teorico.
Orbene, Avogadro – che per gran parte della propria vita sognò di poter disporre di un
laboratorio, senza però riuscirci – pervenne a formulare la propria ipotesi a tavolino,
avvalendosi soltanto dello strumento del calcolo: soltanto più tardi la sua «ipotesi»
troverà una conferma sperimentale, assurgendo alla dignità di «legge». Questo
cʼinsegna che, con tutto il rilievo della sperimentazione, invenzione, esercizio teorico e
calcolo rimangono condizioni indispensabili del progresso scientifico.
Torino, 20 ottobre 2011
Pietro Rossi
Fusione in bronzo di Pietro Canonica, «Busto di Avogadro»,
inv. n° 10656, Fonderia Barberis, Torino, 1911.
Per cortesia del Museo Nazionale della Scienza e della Tecnologia Leonardo da Vinci, Milano.
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Lʼevoluzione storica del concetto di atomo
SALVATORE CALIFANO*
1. Introduzione
Il concetto di atomo si è affacciato al mondo della cultura occidentale da
oltre tremila anni, ma lʼesistenza degli atomi è entrata a far parte integrante
delle teorie scientifiche solo nel XIX secolo per varie ragioni che analizzeremo nel corso della presente relazione e che furono alla base del fatto che
perfino grandi fisici e chimici come Lord Kelvin, Helmoltz e Lavoisier ebbero difficoltà ad accettare un concetto che sembrava contrastare in maniera
decisiva le teorie del continuo che la fisica aristotelica aveva inserito al centro della discussione sulla natura fisica del mondo.
Le riflessioni sulla composizione e struttura della materia e il concetto di
atomo risalgono essenzialmente allo sviluppo del pensiero greco anche se
molte delle idee sviluppate dai filosofi greci sulla materia avevano radici nelle antiche civiltà sumera, babilonese e egiziana e avevano risentito perfino
lʼinfluenza di culture sviluppatesi nellʼestremo oriente.
La filosofia greca iniziò nella Ionia, oggi parte della Turchia, più esposta
alle influenze delle culture egiziane medio-orientali che raggiungevano le
città greche della Ionia seguendo le strade del commercio tracciate dalle carovane. Quando lo sviluppo della grande filosofia greca era ancora in fieri, le
culture medio-orientali, soprattutto la cultura egiziana, avevano infatti già
avuto sviluppi importanti da molti secoli in particolare in astronomia, campo
in cui i pensatori egiziani avevano sviluppato una descrizione matematica e
soprattutto geometrica del mondo fisico. Era quindi naturale che i primi filosofi ionici, Talete (640–546 a.C.), Anassimandro (610–545 a.C.) e Anassimene (585–528 a.C.), educati nel vicino Egitto, ne assorbissero le linee
fondamentali di pensiero, anche se furono proprio i filosofi ionici a porsi le
prime vere domande razionali sulla natura della materia e a cercare spiegazioni logiche dei fenomeni naturali.
2. Il concetto di infinito nella filosofia greca
La consuetudine con i concetti della geometria che gli egiziani da tempo
applicavano nella pratica della misura delle distanze e delle altezze, influenzò ovviamente i primi pensatori ionici portandoli a una «geometrizzazione»
del mondo fisico che trovò poi applicazione nello sviluppo della loro visione
del mondo naturale e nella formulazione di famosi paradossi logici necessariamente collegati alla loro definizione di spazio e di infinito.
I processi logici elementari associati a una visione geometrica dello spazio fisico assumono infatti lʼesistenza di uno spazio virtuale in cui vengono
*
Professore emerito dellʼUniversità di Firenze.
8 Salvatore Califano
inseriti gli oggetti geometrici. Questo spazio è lʼinsieme infinito di tutti i
possibili punti di un continuo a tre dimensioni. Come in ogni spazio infinito
che si rispetti la distanza tra due punti del continuo contiene sempre infiniti
punti. Tutti gli oggetti rappresentabili in termini di geometria euclidea, linee,
poligoni e poliedri sono quindi divisibili allʼinfinito. La divisibilità allʼinfinito
della materia era quindi il principio alla base della speculazione dei filosofi
ionici sulla natura del mondo fisico. Lʼinfinito era illimitato (apeiron) e poteva essere rappresentato in infiniti modi ed era quindi allʼorigine di tutto ciò
che esiste.
In realtà il concetto di infinito era essenzialmente geometrico non solo
nella filosofia ionica ma anche in quella indiana. Negli Isha Upanishad
(ca. IV secolo a.C.) è scritto che se si toglie da un infinito una sua porzione,
quello che resta è sempre infinito:
Pūrnam adah pūrnam idam
Pūrnāt pūrnam udacyate,
Pūrnasya pūrnam ādāya,
Pūrnam evāvasisyate,
ciò che è tutto è tutto
dal tutto deriva il tutto
quando dal tutto si estrae il tutto
ciò che resta è sempre il tutto
3. La comparsa del concetto di atomo
Sembra quindi molto probabile che il rivoluzionario concetto di atomo sia
giunto in Grecia dallʼIndia dove era stato sviluppato nel quadro della filosofia Vaisheshika. Intorno al VI secolo a.C. il saggio indiano Kanada (Kanabhuk, «mangiatore di atomi») aveva fondato la scuola filosofica Vaisheshika
che sosteneva che la materia fosse composta da 9 elementi: 5 sostanze (bhūtas), acqua (ap), fuoco (tejas), terra (pṛthvī), aria (vāyu) e cielo (ākaśa), più
quattro sensi esterni, tempo (kāla) spazio (dik) mente (manas) e lʼIo (ātman).
La materia non era divisibile allʼinfinito ma si arrivava a parti indivisibili. La
filosofia di Kanada adottava quindi una forma di atomismo che sosteneva
che tutti gli oggetti dellʼuniverso fossero riducibili a un numero finito di particelle. Le idee di Kanada divennero parte integrante della filosofia Vaisheshika, secondo la quale esistevano nellʼaria particelle di dimensioni minime
(il pulviscolo atmosferico) dette rasarenu, ognuna composta di triadi (tryanukas). Ogni triade era poi composta da tre diadi (dvianukas) e ogni diade da
due particelle indivisibili, i «paramanu».
Kanada utilizzava sillogismi per dimostrare che tutti gli oggetti, cioè i
quattro elementi (bhūtas), pṛthvī (terra), ap (acqua), tejas (fuoco) e vāyu (aria)
sono fatti di indivisibili paramānus (atomi). Il sillogismo di Kanaka portava a
un ovvio paradosso:
Assumiamo che la materia non sia composta di atomi indivisibili
e che sia un continuo divisibile allʼinfinito. Prendiamo una pietra. Uno può dividerla in un numero infinito di parti. Anche la
catena dellʼHimalaya è composta da un numero infinito di parti.
L’evoluzione storica del concetto di atomo
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Quindi si può costruire unʼaltra catena dellʼHimalaya partendo
dallʼinfinito numero di parti di cui è composta la pietra. Uno
comincia con una pietra e finisce con la catena dellʼHimalaya, il
che è ovviamente ridicolo. Quindi lʼipotesi iniziale che la materia sia continua deve essere falsa e tutti gli oggetti devono essere
composti di un numero finito di paramānus (atomi).
DallʼIndia queste idee passarono
in Anatolia e seguendo le vie del
caldo
commercio giunsero in Grecia e
Aria
Fuoco
poi nella Magna Grecia dove Empedocle (490–435 a.C.) di Agrigento anticipò per primo il concetto di atomo dando forma compiuta
umido
secco
ai quattro elementi di base, aria,
fuoco, acqua e terra, fatti di parti
piccolissime.
Il termine âτοµος fu però usato
Terra
Acqua
la
prima
volta da Leucippo di Mifreddo
leto, anche se fu il suo allievo
Democrito (ca. 460–360 a.C.) di
Abdera a farlo divenire famoso. Le idee di Democrito furono riprese da
Epicuro (341–270 a.C.) che sostenne la necessità di esaminare i fenomeni
naturali senza lʼidea di forze soprannaturali. Il pensiero di Epicuro trovò la
sua esaltazione nel De rerum Natura del poeta latino Tito Lucrezio Caro
(98–55 a.C.).
Per oltre 2000 anni le idee di Democrito e di Epicuro trovarono lʼostilità
delle religioni dominanti perché negavano il processo creativo dovuto alla
volontà degli dei o dellʼunico Dio delle religioni monoteistiche, cristiana,
ebraica e islamica. Nel medioevo la teoria di Democrito divenne per gli scolastici addirittura una manifestazione blasfema e peccaminosa di ateismo,
considerata eretica perché negava lʼordine cosmico e la perfezione del creato
voluti da Dio, credendo nel caos e nel disordine materiale, come descritto da
Dante nel IV canto dellʼInferno:
quivi vidʼ ïo Socrate e Platone,
che ʼnnanzi a li altri più presso li stanno;
Democrito che ʼl mondo a caso pone,
Dïogenès, Anassagora e Tale
Empedoclès, Eraclito e Zenone
Anche Aristotele credeva nella esistenza di una materia primordiale originaria (πρώτη ΰλη), da cui si erano formati i quattro elementi di Empedocle, terra,
acqua, aria e fuoco, organizzati in funzione del loro peso, in giù quelli pesanti
come la terra e lʼacqua e in alto quelli leggeri come lʼaria e il fuoco. Ai quattro elementi ne aggiunse un quinto, lʼetere, πέµπτον στοιχεîον, puro e immu-
10 Salvatore Califano
tabile, privo di peso e dotato di moto circolare. Nella tradizione medievale
lʼetere divenne poi la «quinta essentia».
I quattro elementi non potevano però spiegare il gran numero di oggetti
differenti che esistono in natura. Per superare questa difficoltà Aristotele
considerava gli elementi come combinazione di quattro qualità, caldo, freddo, secco e umido, mescolate in proporzioni variabili nella realtà fisica. Il
fuoco aveva le qualità del secco e del caldo, lʼacqua del freddo e dellʼumido,
la terra del secco e del freddo e lʼaria del caldo e dellʼumido.
4. Lʼinfinito potenziale di Aristotele
Nella fisica aristotelica non cʼera posto per oggetti come gli atomi. Per
Aristotele la velocità di un corpo era funzione del peso e della resistenza del
mezzo. Nel vuoto un corpo avrebbe avuto velocità infinita, contro il senso
comune. Quindi il vuoto che era il «nulla», il contrario dellʼessere, non poteva esistere. La materia non poteva essere composta di atomi, perché tra due
atomi ci sarebbe stato il vuoto e quindi doveva essere continua e divisibile
allʼinfinito. Il concetto di infinito assumeva particolare importanza nella fisica aristotelica. Lʼinfinito di Aristotele era un infinito potenziale nel senso
che era sempre possibile pensare a un numero maggiore di un numero pensato in quanto il numero di volte che una grandezza può essere divisa in due è
infinito. Il numero di parti che potevano essere sottratte a un tutto era sempre
maggiore di qualsiasi numero (Physica, 207 b8). In questo infinito potenziale era sempre possibile trovare un numero di enti che sorpassasse un dato
numero anche se questi enti non esistevano. In altre parole «per ogni numero
intero n esisteva sempre un intero m tale che m > n». Lʼinfinito potenziale fu
chiaramente definito in seguito da William of Ockham (1280/5–1347/9)
grande seguace delle idee di Aristotele e violento oppositore di Tommaso
dʼAquino:
Sed omne continuum est actualiter existens. Igitur quaelibet
pars sua est vere existens in rerum natura. Sed partes continui
sunt infinitae quia non tot quin plures, igitur partes infinitae
sunt actualiter existentes1.
Aristotele, rendendosi conto dei problemi logici che nascevano dalla divisione allʼinfinito, introdusse nella sua teoria una limitazione importante. La
divisibilità allʼinfinito portava sì a parti di materia sempre più piccole, ma
queste se ulteriormente divise, perdevano le proprietà della sostanza iniziale,
in quanto si alterava il rapporto delle qualità. Le proprietà fisiche di un corpo
dipendevano quindi dalla sua «estensione». Oltre una dimensione minima le
proprietà erano perdute e la sostanza si trasformava in unʼaltra. Il mescola1
«Ma ogni continuo è attualmente esistente. Quindi ognuna delle sue parti è realmente esistente in
natura. Ma le parti di un continuo sono infinite perché non ce ne sono mai troppe che non ce ne
possono essere di più e quindi le parti infinite sono realmente esistenti».
L’evoluzione storica del concetto di atomo 11
mento di due liquidi, o di due solidi, portava pertanto a una nuova sostanza
con proprietà differenti da quelle delle sostanze iniziali.
5. La teoria della trasmutazione dei metalli
Le idee elaborate dai filosofi greci sulla struttura della materia e sul numero di elementi raggiunsero il mondo arabo grazie allo studio dei testi greci, in particolare quelli di Aristotele. Per gli alchimisti mussulmani il vero
fondatore delle loro dottrine fu il principe omayyade Khāʼlid ibn Yazīd
(665–704), seguito dallʼimam sciita Jaʼfar as-Sāʼdiq (699–765), discendente
del genero di Maometto, che fu il maestro del più famoso alchimista arabo,
Giābir ibn Hayyān, noto in Occidente con il nome di Geber. Giabir o Geber
accettò la teoria dei quattro elementi fuoco, aria, acqua e terra con le quattro
qualità di Aristotele caldo, secco, freddo e umido che per lui erano proprietà
astratte della materia e divenivano concrete solo se collegate a un supporto
materiale. Il contributo più originale di Giabir al pensiero alchemico riguardava lʼorigine dei metalli formatisi nelle viscere della Terra, sotto lʼinflusso
dei pianeti, per unione dei due opposti, lo zolfo e il mercurio. Il primo impartiva le nature del caldo e dellʼarido, il secondo quelle di freddo e umido. I
metalli erano una combinazione di due tra queste nature, o freddo e secco o
caldo e umido, che potevano essere sia interiori al metallo, cioè occulte, sia
esteriori, cioè manifeste. Per esempio lʼoro aveva come qualità manifeste il
caldo e lʼumido e come qualità occulte il freddo e il secco. Nel piombo invece il freddo e il secco erano qualità manifeste e lʼumido e il caldo qualità interiori. Pertanto per trasformare il piombo in oro era sufficiente estrarre dal
piombo le qualità interiori di umido e caldo lasciando che le qualità esteriori
di freddo e secco migrassero allʼinterno. Questa teoria divenne presto la base
della ricerca della pietra filosofale e della trasmutazione dei metalli in oro, il
sogno degli alchimisti.
Nel Medioevo la teoria zolfo-mercurio di Giabir fu largamente accettata.
Per esempio Paracelso, Philippus Aureolus Theophrastus Bombastus von
Hohenheim (1493−1541), estese la teoria di Giabir a tutto il regno minerale e
anche a quello animale e vegetale. Secondo lui la materia era sempre costituita dai quattro elementi aristotelici, ma alle proprietà dello zolfo e del mercurio ne aggiunse unʼaltra quella del sale. Questi tre elementi zolfo, mercurio
e sale formavano i tria prima, cioè i tre fattori primari del cosmo. I tria prima
non vanno considerati come veri elementi ma piuttosto come astrazione delle
loro proprietà: il sale rappresentava la costanza e lʼincombustibilità, il mercurio la fusibilità e volatilità e lo zolfo lʼinfiammabilità e la combustibilità.
Nello stesso periodo anche Heinrich Cornelius Agrippa von Nettesheim,
(1486−1535) spinse la fede nei quattro elementi aristotelici fino a sostenere
che essi fossero presenti anche nel Paradiso, nelle stelle, negli angeli e perfino nella divinità.
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6. I minima naturalia
Nel Medioevo il più importante interprete delle idee di Aristotele, il filosofo arabo Muhammad ibn Ahmad ibn Rushd, noto in occidente come Averroè (1126–1198), sviluppò la teoria dei minima naturalia per superare le
contraddizioni della divisibilità allʼinfinito di Aristotele. Averroè ipotizzava
che le sostanze potessero essere divise allʼinfinito solo concettualmente. La
divisione successiva portava a minima naturalia, versione latina del termine
greco elachista, particelle di materia che se ulteriormente divise non erano più
parte della sostanza iniziale ma cambiavano natura fisica. Anche per Averroè le
proprietà fisiche di un composto chimico erano quindi legate alla sua «estensione». I minima naturalia erano la più piccola parte di sostanza che ne conservasse le proprietà.
La teoria dei minima di Averroè fu sviluppata da molti filosofi, come
Agostino Nifo (1473–1538) che sosteneva che i minima erano vere e proprie
entità fisiche, o come Giulio Cesare della Scala (1484–1558) che valutava le
dimensioni dei minima naturalia a seconda del tipo di sostanza, o come il
tedesco Daniel Sennert (1572–1637) che sosteneva che non fossero differenti
dagli atomi di Democrito e li classificava in «elementi di primo e secondo
ordine» e come Angelo Sala (1576–1637) che praticava in Germania idee
simili a quelle di Sennert.
I minima naturalia si avvicinarono ancora di più agli atomi nella cosmologia di Giordano Bruno (1548–1600) che, sfuggendo allʼinquisizione romana, si rifugiò nel 1576 prima in Svizzera, poi in Francia e infine nel 1583 in
Inghilterra, dove scrisse nel 1584 i dialoghi cosmologici italiani. Nel 1585, si
spostò in Germania, dove pubblicò a Francoforte nel 1591 la trilogia latina
De Magia, De triplici minimo et mensura e De Vinculis in Genere. Rientrato
in Italia nel 1592, fu denunciato allʼInquisizione, arrestato e trasferito a Roma dove, dopo un processo durato sette anni, fu arso vivo in Campo dei fiori
il 17 febbraio 1600. Nei dialoghi italiani di Londra lʼatomismo è ancora un
concetto virtuale, mentre nella trilogia di Francoforte assunse una vera realtà, caratterizzata da una forma di animismo che distingueva tra atomi diversi.
Fisicamente essi avevano tutti la stessa forma sferica e la stessa dimensione,
ma si differenziavano per il tipo di forza che controllava il loro movimento:
Ad corpora ergo respicienti omnium substantia minimum corpus est seu atomus, ad lineam vero atque planum minimum
quod est punctus [...]. Numerus est accidens monadis, et monas est essentia numeri; sic compositio accidit atomo, et atomus est essentia compositi.
Giordano Bruno, De Minimi Existentia Liber2.
2
«Quindi guardando i corpi apparirà come sostanza di tutte le cose un corpo minimo, ovvero un
atomo, mentre se noi guardiamo alla linea e al piano questo minimo è il punto [...]. Il numero è variazione della monade e la monade è essenza del numero; allo stesso modo la composizione è variazione dellʼatomo e lʼatomo è lʼessenza della composizione».
L’evoluzione storica del concetto di atomo 13
Nel XVII secolo ai minima naturalia cominciò a contrapporsi lʼatomismo
meccanico ereditato dagli empiristi greci grazie al meccanicismo di René
Descartes (1596–1650) e alla filosofia empirica di Pierre Gassendi (1592–
1655) che diffuse nei suoi scritti le idee di Epicuro. Gassendi considerava lo
spazio come un vuoto assoluto e infinito, vacuum separatum, esistente indipendentemente dagli oggetti. Secondo lui Dio arredava lo spazio vuoto con
atomi dando origine a un universo di dimensioni infinite. Gassendi credeva
nellʼesistenza di un vacuum disseminatum, zone di vuoto distribuite tra gli
atomi. La teoria di Aristotele del continuo e della divisibilità allʼinfinito aveva significato solo in matematica e geometria ma non nel mondo reale. Le
idee di Gassendi ebbero unʼenorme influenza non solo su pensatori minori
del secolo ma anche su importanti figure della scienza del XVII e XVIII secolo come Robert Boyle, John Locke, David Hume e perfino Isaac Newton.
7. Lʼhorror vacui
Per Cartesio la proprietà fondamentale della materia era lʼestensione, da
cui derivavano tutte le altre. Anche se accettava lʼesistenza degli atomi, negava il modello di Democrito di atomi indivisibili in movimento nel vuoto.
La negazione del vuoto, lʼhorror vacui, era in effetti il fondamento della sua
cosmologia, ereditato dalla teoria aristotelica del moto. Secondo Cartesio
ogni oggetto fisico «esiste» solo in quanto riempie uno spazio: tutto ciò che
esiste è res extensa, materia con dimensioni spaziali. Il vuoto è immateriale e
senza estensione e quindi impossibile. Se esistesse il vuoto parti diverse della materia non sarebbero in contatto e si dovrebbe ammettere lʼesistenza di
unʼazione a distanza, cioè di una azione immateriale che si propaga nel vuoto. Lʼazione a distanza diverrà poi con Newton la base dellʼattrazione universale. Per un filosofo meccanicista del XVII secolo era però impossibile
accettare lʼidea della sua esistenza perché questo avrebbe significato ammettere lʼesistenza di una entità metafisica della stessa natura dello «spirito vitale» che egli negava.
Un passo importante verso lʼaccettazione della teoria atomica fu realizzato da Robert Boyle (1627–1691) che credeva, in contrasto con il filosofo
francese, nellʼesistenza del vuoto. Gli atomi di Boyle, che chiamava «corpuscoli», erano formati tutti della stessa materia primordiale, ma con dimensioni, forma e movimento diversi. I corpuscoli di Boyle avevano due
proprietà fondamentali come progenitori degli atomi: forma e movimento. A
queste si aggiunse lʼattrazione reciproca, base della teoria delle forze interatomiche e intermolecolari. Lʼinterazione tra gli atomi fu introdotta da Isaac
Newton (1643–1727) con le forze di attrazione e repulsione, derivate dalla
gravitazione universale. Newton, seguendo le idee del suo maestro Isaac
Barrow (1630–1677), credeva nello spazio e nel tempo assoluto e sosteneva
che il tempo esistesse indipendentemente dal movimento e che addirittura
esisteva anche prima che Dio creasse la materia nellʼuniverso. Lʼazione a
distanza tra oggetti non a contatto era impensabile per i meccanicisti del
XVII secolo e inaccettabile anche per gli atomisti. Sembrava impossibile che
14 Salvatore Califano
oggetti inanimati potessero esercitare unʼazione in un posto diverso da
quello dove si trovavano, lasciando supporre che il moto fosse regolato
dallʼintervento di uno spirito magico o addirittura diabolico. Perfino Galileo
non la credeva possibile, tanto che aveva respinto lʼidea di Keplero che le
maree fossero dovute allʼazione della luna, immaginando un improbabile e
complicato effetto cinematico dovuto alla rotazione della terra. Anche Bacone e Leibnitz si erano associati alla posizione di Galileo e fisici come Faraday e Huygens non accettarono mai la teoria di Newton. Anche la forza di
gravità urtava contro il senso comune perché si esercitava tranquillamente
tra astri lontani mentre era assente tra oggetti a contatto. Perfino per Newton
era difficile conciliare lʼattrazione gravitazionale tra oggetti celesti con
lʼinterazione tra particelle a distanze microscopiche. Per evitare speculazioni
sulle interpretazioni dellʼinterazione gravitazionale, Newton sostenne che
lʼinterazione si trasmettesse attraverso una sostanza impalpabile, lʼetere, che
permeava tutto lo spazio e che funzionava da supporto alla sua propagazione. Il concetto di etere resterà vivo fino ad Einstein.
Grandi modifiche furono apportate allʼinterazione a distanza dal matematico e astronomo dalmata di Ragusa (oggi Dubrovnik), il gesuita Ruggero Giuseppe Boscovich (1711–1787), che suggerì che la materia fosse costituita da
particelle puntiformi e indivisibili tra le quali si esercitava una forza attrattiva
a grande distanza e repulsiva a piccolissime distanze, con un andamento di tipo oscillante in funzione della distanza. A una certa distanza passava per zero,
poi diveniva repulsiva, poi di nuovo zero, poi di nuovo attrattiva e così via finché diventava fortemente repulsiva tendendo allʼinfinito a brevissima distanza
in modo da rendere impossibile il contatto tra due particelle.
Un passo importante verso lʼaccettazione del concetto di atomo come
mattone fondamentale della materia fu realizzato dal francese Louis-Joseph
Proust (1754–1826), lo scopritore della legge delle proporzioni definite che
si rese conto che i composti avevano tutti una composizione fissa. Sulla base
di accurate analisi ponderali formulò la legge che stabilisce la costanza della
composizione in peso dei composti chimici e che gli elementi chimici possono, in condizioni diverse, dare solo un numero limitato di composti di diversa composizione ponderale. Questa legge è la banale conseguenza del fatto
che la materia è composta di atomi, ma questa idea non sembrava interessare
chimici e fisici ma solo i filosofi, abituati a costruire complicate cosmologie.
Per chimici e fisici era infatti sufficiente avere a disposizione gli elementi,
per costruire il loro edificio. Perfino Lavoisier, uomo di fine cultura e sottile
pensatore, considerava il discorso sul numero e la natura degli elementi di
tipo puramente metafisico
Tout ce quʼon peut dire sur le nombre & sur la nature des éléments se borne suivant moi à des discussions purement métaphysiques: ce sont des problèmes indéterminés quʼon se propose de
résoudre, qui sont susceptibles dʼune infinité de solutions, mais
dont il est très-probable quʼaucune en particulier nʼest dʼaccord
avec la nature.
L’evoluzione storica del concetto di atomo 15
Concetti analoghi e altrettanto profondi anche se decorati di sottile umorismo, furono espressi più tardi da un altro grande chimico organico, Auguste Laurent, allievo di Dumas e autore di un famoso trattato di chimica
organica Methode de chimie (Paris, 1854) nel quale scriveva:
En effet, pour nous donner une idée de la composition dʼun
corps réel, on est dans lʼhabitude dʼimaginer deux ou trois corps
hypothétiques, auxquels on assigne de nouveaux noms et une
composition particulière, de sorte que lʼétude de la chimie a non
seulement pour objet les propriétés, la composition et les noms
de milliers de corps réels, mais encore les propriétés, la composition et les noms dʼun plus grand nombre dʼêtres purement fictifs. Cʼest lʼintroduction dans la science, de cette foule dʼêtres
hypothétiques, que mʼa fait dire, il y a quelque temps, que la
chimie dʼaujourdʼhui est devenue la science des corps qui
nʼexistent pas.
Il vero padre dellʼatomismo moderno che eliminò definitivamente gli
aspetti metafisici dellʼatomo dei filosofi fu John Dalton (1766–1844), il primo a introdurre il concetto di peso atomico e a pubblicarne una tabella, dando origine a una teoria che si basava su dati sperimentali, anche se ancora
imprecisi.
La teoria di Dalton era articolata su cinque punti fondamentali:
1. Gli elementi sono formati di atomi;
2. Tutti gli atomi di uno stesso elemento sono identici tra loro;
3. Gli atomi di ogni elemento sono differenti da quelli di ogni altro elemento;
4. Gli atomi di un elemento si combinano con gli atomi di altri elementi per formare composti. Un composto sarà sempre formato dallo
stesso numero relativo di atomi di tipo diverso;
5. Gli atomi non possono essere né creati né distrutti. In una reazione
chimica tutto quello che accade è che gli atomi si riorganizzano in
maniera diversa tra i componenti.
Lʼatomismo di Dalton introduceva una concezione completamente nuova
della massa chimica, basata sul concetto di peso atomico. Il peso di un atomo
composto, cioè di una molecola, si otteneva come somma dei pesi atomici
degli atomi semplici che lo componevano. Per la prima volta si pesavano atomi e molecole.
Nella prima metà del XIX secolo la teoria di Dalton trovò grandi consensi
come anche grandi opposizioni, come sempre accade per idee rivoluzionarie.
Lʼopposizione alla teoria atomica nasceva dal fatto che i chimici non riuscivano
a rendersi conto del perché bisognasse utilizzare i pesi atomici avendo a disposizione i pesi di combinazione e le analisi volumetriche che derivavano direttamente dallʼesperienza di laboratorio. La trasformazione di questi dati sperimentali in pesi atomici portava infatti ad ambiguità che sembravano
inutilmente complicare lo scenario. Inoltre non era facile accettare la teo-
16 Salvatore Califano
ria di Dalton in un ambiente culturale dominato dalle teorie del continuo
nellʼelettricità e nellʼelettromagnetismo e abituato dagli atomisti a credere
nellʼesistenza di un solo tipo di atomo. Lʼipotesi di Dalton che esistessero
tanti tipi dʼatomi quanti erano gli elementi, portava invece di colpo a circa
cinquanta i mattoni di base con cui il Padreterno avrebbe costruito il mondo.
Questa mancanza di semplicità progettuale sembrava a molti assai poco probabile e appariva come unʼinaccettabile manifestazione di spreco e di inefficienza di madre natura.
8. Il principio di Avogadro
Una serie di precisi esperimenti effettuati allʼinizio del XIX secolo dal
chimico francese Joseph Louis Gay-Lussac (1778–1850) offrirono però il test
definitivo della teoria di Dalton. Il 31 dicembre 1808 Gay-Lussac presentò alla
Societé Philomatique di Parigi i suoi esperimenti sui volumi dei gas con il titolo Mèmoire sur la combinaison des substances gazeuses, les unes avec les autres. Da questi dati Gay Lussac dedusse la sua famosa legge che stabilisce che
i gas si combinano sempre in rapporti volumetrici semplici espressi da numeri
interi. Dalton restò sempre scettico nei confronti dei dati di Gay Lussac che
considerava errati. Chi invece diede credito agli esperimenti di Gay Lussac fu
Lorenzo Romano Amedeo Carlo Avogadro (1776–1856), conte di Quaregna e
Cerreto, con il famoso principio che volumi eguali di gas contengono lo stesso
numero di molecole. Conseguenza diretta dellʼipotesi di Avogadro fu che il
rapporto tra il peso molecolare di un gas e quello di un gas di riferimento è eguale al rapporto delle corrispondenti densità.
M. Gay-Lussac a fait voir que les combinaisons des gaz entre
eux se font toujours selon des rapports très-simples en volume, et
que lorsque le résultat de la combinaison est gazeux, son volume
est aussi en rapport très-simple avec celui de ses composants; Il
faut donc admettre quʼil y a aussi des rapports très-simples entre
les volumes des substances gazeuses, et le nombre des molécules
simples ou composées qui les forme. Lʼhypothèse qui se présente
la première à cet égard, et qui parait même la seule admissible,
est de supposer que le nombre des molécules intégrantes dansles gaz quelconques, est toujours le même à volume égal, ou est
toujours proportionnel aux volumes.
Il principio di Avogadro, non fu accettato facilmente dalla comunità
scientifica. Avogadro era in effetti ben noto a livello internazionale per le
sue ricerche sullʼelettricità ma era praticamente ignorato dai filosofi naturali.
Inoltre, anche in Italia, Avogadro aveva difficili rapporti con i colleghi
dellʼAccademia di Torino che continuavano a rifiutare i suoi articoli.
Lʼindifferenza dellʼambiente scientifico italiano per le idee di Avogadro è
testimoniata dal fatto che fino al 1901 nessun testo italiano di fisica o chimica menzionava il suo principio. Unʼulteriore complicazione comparve nel
L’evoluzione storica del concetto di atomo 17
1814 a causa di una lettera a Berthollet del matematico francese AndréMarie Ampère nella quale questʼultimo sosteneva di aver raggiunto le stesse
conclusioni di Avogadro prima di lui. Avogadro subito chiese che fosse confermata la sua priorità ma la richiesta non ebbe effetto per più di 50 anni fino
a quando un altro italiano, Stanislao Cannizzaro (1826–1910), non riprese il
problema in un famoso congresso tenutosi a Karlsruhe dal 3 al 5 settembre
1860. Lʼidea di organizzare un congresso internazionale di chimica era stata
di Kekulé che nel 1859 aveva contattato Weltzien e Wurtz per sondare la
possibilità di organizzarlo. Il testo della relazione di Cannizzaro che stabilì il
definitivo trionfo della teoria atomica è di una semplicità esemplare:
Si propone di adottare concetti diversi per molecola e atomo,
considerando molecola la quantità più piccola di sostanza che
entra in reazione e che ne conserva le caratteristiche fisiche, e
intendendo per atomo la più piccola quantità di un corpo che entra nella molecola dei suoi composti.
Il 20 marzo 1800 fu segnato da un altro evento fondamentale per lo sviluppo della teoria atomica, evento che in pochi anni diede inizio a una nuova
era in cui il continuo del fluido elettrico e della materia ponderabile si associarono di colpo, parcellizzandosi definitivamente. Quel giorno Sir Joseph
Banks, presidente della Royal Society di Londra, ricevette una lettera del
conte italiano Alessandro Volta che gli comunicava di aver costruito la pila,
a source of constant-current generation from a pile of dissimilar metals,
chiedendogli di darne comunicazione allʼassemblea dei soci. Banks mostrò
la lettera al chirurgo londinese Anthony Carlisle (1768–1842) che, resosi
conto della straordinaria importanza dellʼevento, cercò di ripetere subito
lʼesperienza di Volta con lʼaiuto di un amico chimico, William Nicholson
(1753–1815), che aveva notevole competenza di strumentazione elettrica.
Nicholson e Carlisle per misurare le cariche elettriche accumulate ai due poli
della pila di Volta aggiunsero una goccia dʼacqua al disco superiore della pila e vi inserirono un filo di collegamento a un elettroscopio. Con loro sorpresa videro apparire bollicine di gas che si rivelò essere idrogeno. A questo
punto riempirono un tubicino dʼacqua e vi immersero i due fili collegati ai
poli della pila, scoprendo che i costituenti dellʼacqua, idrogeno e ossigeno, si
sviluppavano ai poli separatamente. Senza rendersene conto avevano scoperto lʼelettrolisi dellʼacqua!
La notizia della scoperta della pila, diffusasi rapidamente, produsse un
enorme scalpore in tutta Europa. Da quel momento i chimici disposero di
una potente fonte di corrente continua per decomporre la materia negli elementi costituenti. In tutta lʼEuropa il numero di ricerche in questo campo
crebbe rapidamente, indirizzandosi da una parte allo sviluppo dellʼanalisi
chimica attraverso la scomposizione dei composti negli elementi costituenti
e dallʼaltra alla comprensione della natura elettrica della materia che offriva
una nuova visione delle interazioni tra le particelle nei termini della nuova
teoria dellʼelettrostatica.
18 Salvatore Califano
Nel XIX secolo la visione dellʼelettricità dei chimici e dei fisici era però
abbastanza diversa. I chimici, in contatto con un mondo discreto e discontinuo, fatto di atomi e di molecole che maneggiavano tranquillamente in laboratorio e combinavano a piacimento, concepivano lʼelettricità sotto forma di
cariche indissolubilmente legate alla materia e responsabili delle affinità che
tenevano insieme gli atomi nelle molecole. Una elettricità particellare sembrava invece unʼeresia ai fisici, abituati a discutere in termini di fluidi continui e legati a concetti astratti come onde, campi e potenziali. Alla fine del
secolo lʼidea della natura corpuscolare dell'elettricità riuscì però ad insinuarsi
anche nel mondo della fisica attraverso lo studio delle scariche elettriche nei
gas a bassa pressione, fenomeno noto da tempo, che veniva normalmente
presentato nei salotti eleganti per mostrare i prodigi dellʼelettricità. Allo studio di questi misteriosi raggi catodici contribuirono molti fisici importanti tra
cui in particolare Julius Plucker, Johann Crookes e Jean-Baptiste Perrin che
dimostrarono trattarsi di particelle di carica negativa.
Nel 1897 Joseph John Thomson (1856−1940), professore a Cambridge,
riprese lo studio dei raggi catodici e misurando la deviazione sia in campi
elettrici sia magnetici riuscì a calcolare il rapporto e/m tra la carica e la massa di queste particelle che chiamava «corpuscoli», mostrando che la massa
era circa 1/1000 della massa dellʼatomo dʼidrogeno. Il 30 aprile 1897, nel
teatro della Royal Institution a Londra, Thomson raccontò a un pubblico di
dame e di gentiluomini che aveva scoperto una particella 1000 volte più piccola dellʼatomo. Nel 1881 George Johnstone Stoney suggerì per questa particella di carica negativa il nome elettrone che venne rapidamente accettato.
La scoperta dellʼelettrone rappresentò una tappa fondamentale nello sviluppo
della struttura della materia. Lʼatomo indivisibile dei filosofi greci, la cui
esistenza come componente ultimo della materia aveva dato luogo a tante
discussioni e controversie nel corso del XIX secolo, risultava ora composto
di particelle di dimensioni minori di quella atomica e per di più cariche elettricamente. Lʼelettricità, a lungo considerata un fluido continuo, acquistava
anchʼessa una struttura particellare e lʼattrazione tra cariche opposte diveniva
lʼinterazione fondamentale nellʼinterpretazione della struttura atomica.
9. I primi modelli di atomo
Ben presto cominciarono a fiorire modelli di struttura atomica. Un modello di atomo era già stato proposto nel 1867, prima della scoperta
dellʼelettrone, da Lord Kelvin (William Thomson) partendo da un lavoro di
Helmholtz del 1858 sulla dinamica dei vortici. Lʼidea di Helmholtz era che
filamenti di un fluido viscoso e incompressibile arrotolati in forma di anelli
in moto vorticoso nello spazio potessero essere stabili e durare in eterno. Naturalmente i vortici nellʼaria e nellʼacqua che non sono fluidi ideali si dissolvono rapidamente. Lʼetere però era considerato un vero fluido ideale e quindi i
vortici nellʼetere potevano avere vita infinita. Lord Kelvin cominciò a interessarsi ai vortici dopo aver assistito a una lezione del suo amico Peter Guthrie
Tait (1831−1901), professore di fisica a Edinburgo, un fisico-matematico che
L’evoluzione storica del concetto di atomo 19
aveva lavorato a lungo alla teoria dei quaternioni e dei vortici. Per provare
sperimentalmente la validità della teoria di Helmholtz sui vortici, aveva costruito una macchina fatta da due recipienti ognuno equipaggiato da un diaframma di gomma che per compressione producevano anelli di fumo in
rotazione vorticosa nellʼaria. Questi anelli sembravano fatti di gomma. Se si
urtavano rimbalzavano senza rompersi e se uno tentava di romperli con un
coltello si arrotolavano intorno alla lama come degli anelli.
Lord Kelvin si entusiasmò alla teoria dei vortici nel periodo 1867−1900 e
pubblicò una serie di lavori sullʼargomento. Essendo nemico della teoria che
gli atomi fossero oggetti materiali, si avventurò con entusiasmo nellʼidea di
rappresentarli come vortici nellʼetere. La teoria dei vortici ebbe vita breve,
ma il fatto che Lord Kelvin lʼavesse adottata, stimolò lʼinteresse di molti matematici, portando a importanti sviluppi dellʼidrodinamica. Nel 1902 Lord
Kelvin lʼabbandonò proponendo un nuovo modello in cui lʼatomo era composto da una carica positiva bilanciata da cariche negative, riprendendo una
teoria avanzata circa 100 anni prima, dal fisico tedesco Franz Maria Ulrich
Theodosius Aepinus (1724−1802) che in un trattato del 1759 aveva sviluppato una teoria del fluido elettrico, fatto di minutissime particelle immateriali
permeate di fluido elettrico e di particelle invece vuote di fluido, che riempivano lo spazio. Le particelle con fluido elettrico si respingevano tra di loro
ma erano attratte da quelle senza fluido con le quali si accoppiavano.
Lʼidea di Lord Kelvin dellʼatomo formato da cariche positive e negative
fu fatta propria da J.J. Thomson che propose un modello atomico formato da
una sfera uniforme di carica positiva delle dimensioni dellʼatomo in cui erano immersi gli elettroni come i semi in un cocomero. Gli elettroni occupavano posizioni stabilizzate dalle interazioni repulsive tra di loro e da quella
attrattiva con la parte di carica positiva interna alla loro posizione. Fino a un
certo numero gli elettroni erano disposti in cerchi su un piano e per numeri
maggiori su strutture ad anello o a corteccia. In questo budino di carica positiva gli elettroni, oscillando con frequenze fisse intorno alle loro posizioni
dʼequilibrio, emettevano o assorbivano le righe spettrali caratteristiche degli
atomi. Thomson concluse sulla base di calcoli complicati che su ogni cerchio
si formavano strutture triangolari, tetraedriche ecc. di elettroni. Oltre otto
elettroni, si formavano invece cortecce concentriche nelle quali erano sistemati gli elettroni. Nel 1878 lʼamericano Alfred Mayer (1836−1897), ebbe
lʼidea di infilare aghi magnetici in tappi di sughero galleggianti sullʼacqua in
un catino, con il polo nord rivolto verso lʼalto, sospendendo al centro del catino un potente magnete con il polo sud rivolto verso il basso e scoprì che gli
aghi si disponevano su cerchi concentrici in strutture regolari. Tre formavano
un triangolo, quattro un quadrato, cinque un pentagono. Aggiungendo un altro magnetino non si aveva però un esagono ma uno si sistemava al centro e
gli altri cinque intorno. Lʼanello continuava a crescere con un magnetino
centrale finché con otto magneti due si sistemavano al centro e gli altri sei
nellʼanello esterno. Da 8 a 18 magnetini si aveva una distribuzione con uno
centrale e due anelli concentrici. Da 19 in poi si formavano tre anelli concentrici e per numeri maggiori quattro, cinque e così via. Già nel 1897 Thomson
20 Salvatore Califano
trovò lʼidea di Mayer molto suggestiva e lʼutilizzò per creare il suo modello
atomico nel quadro del sistema periodico di Mendeleev.
Nello stesso 1904 il giapponese Hantaro Nagaoka (1865–1961), professore di fisica allʼuniversità di Tokyo, sviluppò un modello planetario dellʼatomo del tipo del pianeta Saturno, formato cioè da un nucleo centrale pesante
di carica positiva circondato da un anello di elettroni che vi giravano intorno.
Il modello prevedeva che gli anelli di elettroni fossero stabilizzati dalla
grande massa del nucleo atomico, predizione che si rivelò fondata in seguito.
Poiché però molti altri aspetti del modello non sembravano giustificabili, esso fu abbandonato dallo stesso Nagaoka nel 1908.
Anche il modello atomico di Thomson ebbe vita breve. Anche i fisici si
erano ormai convinti della struttura particellare dellʼelettricità ed era difficile
accettare lʼidea di una dissimmetria così evidente tra la distribuzione della
carica negativa condensata in particelle piccolissime, e quella della carica
positiva distribuita in maniera uniforme in un volume più grande di molti ordini di grandezza.
Fu proprio da un allievo di Thomson, Ernest Rutherford, che venne
lʼesperimento cruciale che segnò la fine del modello plum-pudding e aprì la
strada alla moderna teoria dellʼatomo. Nel 1907 Ernest Rutherford professore di
fisica a Manchester iniziò a collaborare con un fisico tedesco, Johannes Wilhelm
Geiger. Geiger e un giovane studente, Ernest Marsden studiando lʼallargamento
di fasci di particelle alfa, nuclei di elio ionizzati (He++), per passaggio attraverso
sottili fogli metallici, scoprirono che alcune erano deviate tanto da tornare addirittura indietro. Rutherford presentò alla seduta del 7 marzo 1911 della Literary
and Philosophical Society di Manchester una comunicazione nella quale concludeva che lʼunico modo di spiegare i risultati di Geiger e Marsden era di ammettere che la carica positiva fosse localizzata con la massa in un volume molto
minore del volume totale dellʼatomo, che chiamò nucleo.
Sulla base di questi risultati Rutherford propose nel 1911 un nuovo modello atomico consistente in un nucleo centrale positivo intorno al quale ruotavano gli elettroni di carica negativa come i pianeti intorno al sole. Questo
modello atomico con un nucleo centrale positivo intorno al quale gli elettroni
ruotavano su orbite stazionarie presentava un affascinante parallelismo tra il
mondo dellʼinfinitamente grande e quello dellʼinfinitamente piccolo, assoggettati a muoversi su orbite fisse dalle leggi deterministiche della dinamica classica.
Esso però urtava contro la difficoltà che, secondo lʼelettro-magnetismo di Maxwell, una carica in moto su unʼorbita, essendo sottoposta ad unʼaccelerazione,
emette continuamente radiazione. Lʼatomo non sarebbe stato stabile e dopo un
tempo brevissimo lʼelettrone sarebbe precipitato sul nucleo.
Anche Rutherford si era reso conto dei limiti del modello planetario per
particelle elettricamente cariche e non aveva discusso nel lavoro del 1911 la
distribuzione degli elettroni intorno al nucleo in termini di orbite, limitandosi
a specificare che nel suo modello lʼatomo consisteva di un nucleo centrale di
carica positiva circondato da una distribuzione uniforme di carica negativa.
Il problema di assegnare gli elettroni a orbite fu invece affrontato da
Niels Bohr con un brillante tentativo di salvare il determinismo della mecca-
L’evoluzione storica del concetto di atomo 21
nica classica, utilizzando lʼipotesi di Planck che nel 1900 aveva supposto che
la radiazione non potesse essere emessa e assorbita in maniera continua, ma
solo per quantità discrete, i quanti di luce. Implicitamente questa assunzione
ammetteva che lʼelettromagnetismo di Maxwell non fosse più valido al livello submicroscopico degli atomi.
10. La quantizzazione delle energie dellʼatomo. Il principio di Aufbau
Nel modello di Bohr gli elettroni conservavano la realtà classica delle orbite circolari, ma la loro energia poteva avere solo valori discreti, definiti da
due condizioni, dette di quantizzazione. La prima condizione imponeva che
la differenza di energia tra due orbite fosse eguale a un multiplo della quantità hν, dove h è una costante introdotta da Planck e ν la frequenza della radiazione emessa o assorbita nel salto tra due orbite discrete. Bohr arrivò a
questa condizione di quantizzazione a seguito della conversazione con H.R.
Hansen, che gli parlò di una formula empirica sviluppata dallo spettroscopista svizzero Johann Jakob Balmer, formula che egli non conosceva e che collegava le frequenze emesse dallʼatomo dʼidrogeno alla differenza di due
numeri secondo la relazione:
 1 1
ν =R  − 2
H  4
n 
dove ν = 3, 4, 5, ecc. e dove RH è la costante di Rydberg (RH = 109,737 cm1).
Vedendo la formula di Balmer, Bohr si era reso conto che le frequenze
emesse dallʼatomo dʼidrogeno, erano ottenute come differenza tra due valori
numerici e ne dedusse che solo la differenza tra le energie di due stati elettronici avrebbe spiegato gli spettri atomici.
La seconda condizione «quantizzava» il momento angolare dellʼelettrone
imponendo che fosse eguale a un multiplo di hν/c, dove c è la velocità della
luce. Questa condizione fu suggerita a Bohr dai lavori di John William
Nicholson (1881–1955), un astronomo di Cambridge che aveva cercato di
interpretare lo spettro di emissione della corona solare con un modello atomico in cui anelli di elettroni orbitavano intorno al nucleo. Secondo Nicholson le oscillazioni degli elettroni in questi anelli davano origine allo spettro.
Anche se sbagliata, questa teoria conteneva unʼidea importante che fu inglobata nella teoria di Bohr. Lʼidea di Nicholson era di utilizzare la costante h di
Planck come unità di momento angolare e di ammettere che lʼatomo potesse
perdere o guadagnare momento angolare in quantità definite, multiple di h,
poiché, secondo lui, la quantizzazione del momento angolare era più corretta
e importante della quantizzazione dellʼenergia. Quantizzare il momento angolare corrispondeva, a considerare lʼelettrone non solo come particella ma
anche come onda. Unʼorbita che rispetti il principio di de Broglie per essere
stabile deve infatti corrispondere a unʼonda stazionaria e quindi la circonferenza descritta deve essere un multiplo intero della lunghezza dʼonda. Di
conseguenza solo speciali valori del raggio della circonferenza sono permessi.
22 Salvatore Califano
Lʼidea geniale di Bohr fu di accoppiare la quantizzazione dellʼenergia a
quella del momento angolare, riducendo in questo modo il numero di orbite
circolari possibili per lʼelettrone solo a quelle stazionarie. Bohr riuscì in questo
modo a ottenere uno stupefacente accordo tra la sua teoria e le relazioni empiriche trovate da diversi autori, in particolare da Balmer e da Rydberg, tra le
frequenze dello spettro visibile dellʼidrogeno. Lʼestensione della teoria di
Bohr a sistemi con più elettroni, si rivelò meno soddisfacente per
lʼinterpretazione degli spettri di emissione. Un miglioramento della teoria fu
sviluppato da Arnold Sommerfeld (1868–1951), che introdusse orbite ellittiche in aggiunta a quelle circolari con condizioni di quantizzazione del momento angolare più generali di quelle di Bohr. Con lʼaiuto di Sommerfeld,
Bohr riuscì però a utilizzare i principi della vecchia teoria dei quanti per sviluppare dal 1921 al 1923 il principio di Aufbau (costruzione) che stabiliva
come distribuire gli elettroni nelle orbite atomiche degli elementi del sistema
periodico.
11. La chimica quantistica
Il principio di Aufbau costruiva la struttura elettronica di un atomo, aggiungendo un elettrone a quella dellʼatomo precedente e applicando la quantizzazione delle orbite. Partendo dallʼatomo di idrogeno con un solo elettrone
i livelli energetici degli atomi successivi venivano mano a mano riempiti con
elettroni, a partire dai livelli di energia più bassa. Le orbite elettroniche erano distribuite negli atomi in gusci o «cortecce» che racchiudevano il nucleo
come gli strati successivi di una cipolla. La forma iniziale del principio di
Aufbau sviluppata nel periodo 1921–1923, cominciò a mostrare le sue limitazioni quando Bohr cercò di estendere la sua idea di riempimento dei gusci
elettronici ad atomi con molti elettroni. Nel 1924 una nuova e più efficiente
versione fu proposta separatamente da due scienziati inglesi, il chimico John
David Main-Smith dellʼuniversità di Birmingham e il fisico Edmund Clifton
Stoner che lavorava al Cavendish Laboratory di Cambridge.
Nel 1920 Sommerfeld propose lʼesistenza di un quarto numero quantico associato a una «rotazione nascosta», per descrivere la risposta anomala di atomi a
molti elettroni a un campo magnetico esterno (effetto Zeeman anomalo). Nel
1925 Wolfgang Pauli (1900–1958) propose il suo Ausschliessungsprinzip, il
principio di esclusione che dimostrava lʼesistenza del quarto numero quantico. Inoltre lo svedese Rydberg aveva notato che la serie dei numeri 2, 8, 16,
32, … dei periodi del sistema periodico, era la serie 2n2. Pauli si rese conto
che questo fattore 2 non aveva nessuna giustificazione teorica e che doveva
derivare da unʼaltra condizione di quantizzazione non ancora chiarita. Il
principio di esclusione di Pauli stabilisce che due elettroni non possono avere la stessa quaterna di numeri quantici. Quando un elettrone si trova in uno
stato di energia definito da quattro valori dei numeri quantici, quello stato è
occupato e non può ospitate un altro elettrone.
L’evoluzione storica del concetto di atomo 23
In seguito si chiarirà che questa regola è
valida però solo per
particelle che obbediscono alla statistica di
Fermi Dirac (fermioni).
Il primo a suggerire
che un quarto numero
quantico potesse essere
collegato alla rotazione dellʼelettrone su se
stesso, era stato un giovane studente americano di fisica, Ralph de
Laer Kronig (1904–
1995). Lʼidea della rotazione dellʼelettrone come una trottola non piacque però a Heisenberg e
nemmeno a Pauli che gli sconsigliò di insistere con questa idea balzana che
qualificò come priva di realtà fisica. Nel 1926 gli svedesi George Eugene
Uhlenbeck (1900–1988) e Samuel Abraham Goudsmit (1902–1978), che lavoravano sotto la direzione di Ehrenfest a Leida in Olanda, lessero il lavoro
di Pauli appena pubblicato, nel quale Pauli accennava a un quarto grado di
libertà quantistico. I due amici pubblicarono subito la teoria dello spin in lavori in cui lʼelettrone era considerato come una sferetta di elettricità negativa
che ruotava intorno al nucleo ruotando anche su se stessa come una piccola
trottola. Trattandosi di carica elettrica in rotazione doveva essere associata a
un momento magnetico intrinseco. I due olandesi imposero alla rotazione
dellʼelettrone la condizione che il momento angolare di spin potesse avere
solo il valore (½)h/2π e che il momento magnetico potesse orientarsi in campo magnetico solo in due modi, parallelo o antiparallelo alla direzione del
campo. I concetti di quantizzazione dellʼenergia e del momento brillantemente utilizzati da Bohr per spiegare le righe di assorbimento e di emissione
negli spettri atomici e per costruire il meraviglioso edificio del sistema periodico degli elementi in termini di elettroni erano nati sulla base di una originale teoria sviluppata dal fisico tedesco Max Planck per spiegare un
fenomeno fino allora incomprensibile per i fisici, che prendeva il nome di
emissione del corpo nero. Questa espressione era stata inventata dal fisico
Gustav Kirchoff per indicare un corpo che emette e assorbe completamente
tutte le frequenze possibili senza rifletterle. Un oggetto di questo tipo era facilmente realizzabile con una cavità metallica riscaldata ad alta temperatura
e con un piccolo foro da cui poteva uscire la radiazione elettromagnetica
prodotta allʼinterno dalle superfici roventi della cavità. A questo problema
avevano dedicato la loro attenzione molti importanti fisici dellʼepoca senza
riuscire a fornire una interpretazione accettabile dei dati sperimentali osservati che mostravano che lʼemissione di un corpo nero aumentava al crescere
della lunghezza dʼonda della radiazione elettromagnetica, raggiungeva un
24 Salvatore Califano
massimo che dipendeva dalla temperatura per poi diminuire rapidamente
tendendo a zero a lunghezze dʼonda molto elevate, come mostrato in figura.
Le curve ottenute teoricamente dallo stesso Kirchoff, e da molti altri fisici
come Wilhelm Wien, Jožef Stefan, Lord Rayleigh e James Jeans, mostravano invece andamenti in netto contrasto con i risultati sperimentali (curva
tratteggiata in figura) e tutte predicevano un aumento dellʼemissione a basse
lunghezze dʼonda, cioè ad alte frequenze, fenomeno per il quale il fisico Paul
Ehrenfest aveva coniato lʼespressione «catastrofe ultravioletta». In particolare il fisico austriaco Ludwig Eduard Boltzmann che era stato allievo di Jožef
Stefan a Vienna, aveva ricavato teoricamente da primi principi della termodinamica e sviluppando concetti statistici che lʼenergia emessa per unità di
superficie nellʼunità di tempo (radianza) da un corpo nero, doveva essere
proporzionale alla quarta potenza della temperatura assoluta.
Il 19 ottobre 1900 questa situazione di incertezza e confusione trovò una
soluzione inaspettata con lʼannuncio di Max Planck di aver risolto il dilemma della emissione del corpo nero. Da quel giorno la fisica non fu più la
stessa.
Planck era succeduto a Kirchoff come professore di fisica a Berlino e si
era quindi trovato in un ambiente in cui il problema dellʼemissione del corpo
nero era fortemente sentito. Per riprodurre teoricamente la curva sperimentale dellʼemissione del corpo nero egli considerò una cavità con dentro un gran
numero di dipoli oscillanti che emettendo e assorbendo radiazione la mantenessero in equilibrio termico, cioè a un valore costante dellʼentropia. Planck cercò di interpolare tra i contributi dellʼenergia media e dellʼentropia allʼintensità
della radiazione emessa, arrivando allʼespressione
ρ (ν , T ) =
8πhν 3
1
3
h
ν
/
KT − 1
c
e
che descriveva con grande accuratezza la curva sperimentale, Questa relazione, nota come legge di Planck, fu da lui presentata il 19 ottobre del 1900
a una riunione della «Deutsche Physikalische Gesellschaft» e pubblicata il
14 dicembre negli atti della società e poi negli «Annalen der Physik».
Per giungere a questa conclusione Planck era stato costretto ad abbandonare la cieca fiducia che aveva sempre avuto nella formulazione classica del
secondo principio della termodinamica e accettare lʼinterpretazione probabilistica di Boltzmann. che sosteneva che nellʼevoluzione spontanea dei sistemi fisici lʼentropia aumentasse perché lʼaumento era molto più probabile
della diminuzione. Inoltre, per evitare che ad alte frequenze la sua formula
divergesse dalla curva sperimentale, fece unʼipotesi che al momento sembrava assolutamente folle e che invece si rivelò di importanza fondamentale
per la nascita della meccanica quantistica. Lʼipotesi di Planck era che
lʼenergia degli oscillatori del corpo nero non fosse continua, ma fosse la
somma di quantità discrete che chiamò quanti di energia. Lʼenergia di un
quanto era proporzionale alla frequenza della radiazione ed era data dalla relazione E = hν dove la costante h aveva le dimensioni di un impulso
L’evoluzione storica del concetto di atomo 25
(erg×sec). Lʼidea che lʼenergia fosse emessa o assorbita in quantità discrete
era così nuova e rivoluzionaria che sembrava difficile conciliarla con lo
schema della fisica classica. Altrettanto difficile da digerire era la comparsa
di una nuova costante universale, la costante h di Planck, che specificava
lʼenergia degli oscillatori in funzione della frequenza. Fu solo grazie alla genialità di Albert Einstein che la teoria dei quanti si affermò definitivamente.
Einstein assunse che la radiazione elettromagnetica si comportasse come
composta di particelle, i fotoni, ognuno di energia hȞ, dove h è la costante di
Planck e che i metalli emettessero elettroni solo se colpiti da radiazione di
frequenza Ȟ superiore ad un valore minimo Ȟ0 (frequenza di soglia), specifico
di ogni metallo.
Queste idee di Einstein erano decisamente rivoluzionarie, perché associavano lʼenergia di un pacchetto di energia luminosa, il fotone, alla sua frequenza, grandezza fisica caratteristica delle onde e non delle particelle,
mentre introducevano per unʼonda luminosa lʼidea dʼimpulso, caratteristica
invece delle particelle. Solo dopo 20 anni la natura ondulatoria delle particelle elementari e quella corpuscolare della radiazione elettromagnetica assumeranno uno status definitivo nella nuova fisica.
Nel 1922, nella sua tesi intitolata Recherches sur la théorie des quanta, il
fisico francese Louis de Broglie, portando alle estreme conseguenze l'ipotesi
di Einstein, aveva concluso che se la radiazione possedeva una doppia natura
ondulatoria e corpuscolare, anche gli elettroni potevano avere lo stesso comportamento dualistico:
Lʼatome de lumière équivalent en raison de son énergie totale à
une radiation de fréquence Ȟ est le siège d'un phénomène périodique interne qui, vu par lʼobservateur fixe, a en chaque point de
l'espace même phase qu'une onde de fréquence Ȟ se propageant
dans la même direction avec une vitesse sensiblement égale
(quoique très légèrement supérieure) à la constante dite vitesse
de la lumière.
Mentre da una parte si faceva strada lʼidea che sia la radiazione elettromagnetica che gli elettroni avessero la doppia natura di onda e di particella, un
altro pilastro della fisica classica cominciava a vacillare: il concetto di orbita.
Nel 1924 cʼerano due importanti centri di fisica teorica in Europa,
lʼistituto di Niels Bohr a Copenhagen e quello di Max Born a Göttingen. In
questi centri circolava da tempo il sospetto che il concetto di orbita fosse il
vero responsabile delle difficoltà di estensione della meccanica classica al
mondo degli elettroni. Tra i fisici che si ponevano questo problema, il giovane Werner Heisenberg (1901–1976) fu quello che riuscì a dare corpo
allʼeliminazione delle orbite dalla dinamica delle particelle. Nella dinamica
classica le orbite sono determinate dalle equazioni di Newton e dalle condizioni iniziali. Heisenberg si rese conto che questa descrizione deterministica
andava bene per oggetti del mondo macroscopico in cui le orbite sono osser-
avogadro2.indd 25
10/06/13 13.08
26 Salvatore Califano
vabili, ma non era trasportabile al mondo microscopico, ipotizzando arbitrariamente che gli elettroni si muovono come pianeti e satelliti.
Classicamente unʼorbita è descritta da coordinate q(t) e da quantità di
moto (momenti) p(t) che variano in maniera continua in funzione del tempo.
Le soluzioni classiche della dinamica di un oggetto come un elettrone si ottengono risolvendo le equazioni del moto dove lʼenergia potenziale è scritta
in funzione delle coordinate q e lʼenergia cinetica in funzione dei momenti p.
In questo modo si arriva però inevitabilmente a descrivere il moto dellʼoggetto in termini di traiettorie o di orbite proprio per il fatto che le coordinate
e i momenti sono variabili continue.
Heisenberg decise di usare coordinate quantistiche discrete qnn(t) definite per
descrivere lʼelettrone nello stato stazionario n e coordinate qnm(t) per descrivere
invece la transizione tra lo stato n e lo stato m. Allo stesso modo definì momenti
discreti pnn(t) dellʼelettrone nello stato n e momenti pnm(t) dellʼelettrone nella
transizione n→m. Per valutare le energie En degli stati quantici, Heisenberg calcolò lʼenergia totale H = V + T, dove V è lʼenergia potenziale e T quella cinetica. Per calcolare V e T aveva bisogno dei quadrati delle coordinate e delle
velocità. Per ottenere il quadrato di coordinate con un doppio indice, mai incontrate fino allora, Heisenberg, dopo vari tentativi ricorse alle espressioni
2
qnm
(t) = ∑ qmk (t) ⋅ qkn(t)
k
2
pnm
(t) = ∑ pmk (t) ⋅ pkn(t)
k
e cercò di eliminare uno dei due indici scrivendo il prodotto tra due grandezze diverse q(t) e p(t) nella forma
[q(t ) ⋅ p(t )]mn = ∑ qmk (t ) ⋅ pkn (t )
k
[ p(t ) ⋅ q(t )]mn = ∑ pmk (t ) ⋅ qkn (t )
k
Heisenberg arrivò a questo formalismo con un vero colpo di genio che
solo dopo qualche tempo fu dimostrato esatto. Heisenberg in effetti non conosceva lʼalgebra delle matrici, e fu Max Born (1882–1970), al quale aveva
dato da leggere il manoscritto, che si accorse che quello che Heisenberg stava facendo era nientʼaltro che utilizzare questo tipo di algebra. Max Born,
che da giovane era stato allievo di grandi matematici come Klein, Hilbert, e
Minkowski, i «mandarini» della matematica tedesca, conosceva bene questa
branca della matematica e non ebbe difficoltà a trascrivere e estendere, in
collaborazione con il suo allievo Pascual Jordan (1858–1924), il lavoro di
Heisenberg nel linguaggio matriciale.
Mentre Heisenberg, Born e Jordan perfezionavano la formulazione matriciale della meccanica quantistica e Dirac ne dava una elegante interpretazio-
L’evoluzione storica del concetto di atomo 27
ne in termini di operatori quantistici, una teoria completamente differente dal
punto di vista formale, la meccanica ondulatoria, si affacciava alla ribalta, ad
opera di un fisico viennese, Erwin Schrödinger, sostenitore della fisica del
continuo contro quella del discreto.
Ispirato dalle idee di De Broglie sulla natura ondulatoria della materia,
Schrödinger sviluppò, in opposizione alla teoria discreta della scuola tedesca, una teoria continua della meccanica quantistica. La sua preparazione teorica gli insegnava che la soluzione dellʼequazione dʼonda dei mezzi
continui per sistemi semplici come una corda vibrante fissa agli estremi, portava come risultato a un numero discreto di onde, la fondamentale ψ1 di frequenza ν, le sue armoniche ψ2, ψ3,… ψn, di frequenza 2ν, 3ν, …nν, ecc., così
come a tutte le loro possibili combinazioni, quantizzando cioè, da sola le vibrazioni delle corde senza introdurre ipotesi addizionali. Nel Natale del 1925
Schrödinger in vacanza ad Arosa sulle alpi svizzere ebbe lʼidea di inserire
nellʼequazione delle onde la lunghezza dʼonda ν = h/p e il valore
dellʼenergia E = hν di de Broglie. Per descrivere la dinamica dellʼelettrone
nellʼatomo dʼidrogeno, Schrödinger definì un insieme di funzioni dʼonda ψ n,
la cui evoluzione temporale soddisfaceva lʼequazione differenziale a coefficienti variabili
h ∂ψ
h2
i ( ) n = (− 2 ∇ 2 + V )ψ n
2π ∂ t
8π m
dove i è il numero immaginario − 1 , V il potenziale in cui si muove
lʼelettrone e
∂2
∂2
∂2
∇2 = 2 + 2 + 2
∂x
∂y
∂z
la somma delle derivate seconde rispetto alle coordinate necessarie per descrivere il sistema. Da questa equazione si ottiene, con una semplice ipotesi
sulla dipendenza temporale della funzione ψn, unʼequazione differenziale indipendente dal tempo, i cui autovalori En definiscono gli stati stazionari del
sistema, cioè i livelli quantizzati di energia. L'equazione di Schrödinger indipendente dal tempo ha la forma
(−
h2
8π m
2
∇ 2 + V )ψ n = Enψ n
che può essere riscritta più semplicemente come
Hψn = Enψn
Si tratta di una tipica equazione ad autovalori ed autofunzioni in cui
lʼoperatore
2
H = (−
h
8π m
2
∇2 + V )
28 Salvatore Califano
detto operatore Hamiltoniano, agendo sulla sua autofunzione ψn ridà la stessa
autofunzione moltiplicata per lʼautovalore En.
Risolvendo questa equazione per lʼatomo dʼidrogeno, Schrödinger ottenne automaticamente i tre numeri quantici n, ℓ e m della vecchia teoria dei
quanti e la formula di Balmer per le frequenze dellʼidrogeno. Lʼarticolo di
Schrödinger sulla teoria della quantizzazione come problema agli autovalori apparso nel gennaio del 1926 rappresentò un altro risultato formidabile del XX secolo che iniziò una nuova era della fisica e della chimica.
Dopo poche settimane Schrödinger pubblicò un secondo lavoro con lo
stesso titolo che presentava una nuova versione della sua equazione applicata allʼoscillatore armonico, al rotatore rigido e alle molecole biatomiche. Nello stesso anno pubblicò un terzo lavoro che dimostrava
lʼequivalenza della sua teoria con quella di Heisenberg e poi nel 1927 un
quarto lavoro sulla soluzione dellʼequazione dipendente dal tempo.
Questa nuova versione della meccanica quantistica, completamente
diversa da quella di Heisenberg, piacque subito a molti fisici perché utilizzava una matematica di dominio pubblico nel mondo della fisica in
contrasto a quella poco nota, molto formale e difficile da assimilare di
Pauli e di Dirac. Volenti o nolenti, i fisici che nel 1926 si trovavano di
fronte ai nuovi sviluppi della fisica, dovettero quindi accettare il fatto che
esistevano due teorie, a prima vista inconciliabili tra di loro, che davano
gli stessi risultati.
La storia della composizione intima del mondo microscopico non finirà quindi mai di stupirci e gli atomi continueranno a muoversi liberamente nello spazio con pochissima attenzione alle nostre idee che vorrebbero
costringerli a seguire teorie alle quali essi non necessariamente hanno intenzione di adeguarsi, come splendidamente illustrato in questa breve poesia di James Clerk Maxwell:
At quite uncertain times and places,
the atoms left their heavenly path,
and by fortuitous embraces,
engendered all that being hath.
And though they seem to cling together,
and form «associations» here,
yet, soon or late, they burst their tether,
and through the depths of space career 3.
3
«A un certo momento e in un certo posto / gli atomi lasciarono il loro cammino celeste / e per un
fortuito abbraccio / generarono tutto quello che esiste / E anche se sembrano aderire lʼuno allʼaltro /
e formare associazioni, / prima o poi strappano i loro legami / e si aggirano nella profondità dello
spazio».
Atomi e fisici nellʼOttocento
GIUSEPPE GIULIANI*
Affinché tu non cominci a diffidare delle mie parole − siccome i principi primi
delle cose non possono essere scorti con gli occhi − ascolta quali altri corpi è
necessario riconoscere come esistenti anche se non sono visibili.
Lucrezio, De Rerum Natura, libro I
1. Introduzione
Nel corso dellʼOttocento, il concetto di atomo (e quello di molecola) affiora in molti contesti di chimica e di fisica. Tuttavia, forse solo in un caso
esso ha permesso di effettuare predizioni non ottenibili mediante altre vie. Si
tratta della teoria cinetica dei gas nella quale le particelle sono dotate solo di
proprietà meccaniche, necessarie per dedurre relazioni quantitative tra proprietà macroscopiche: volume, pressione e temperatura. Esso ha invece svolto, prevalentemente, un ruolo ausiliario nelle descrizioni di alcuni fenomeni.
Nella voce Atomo della IX edizione dellʼEnciclopedia Britannica, Maxwell
scrive:
Inizieremo a descrivere le opposte dottrine degli atomi e della
continuità per poi delineare lo stato della scienza molecolare,
1
come essa ora è .
Secondo Maxwell, il concetto di atomo assume valenza scientifica solo
allʼinterno della teoria molecolare (intesa come teoria cinetica dei gas) sviluppata nella seconda parte dello scritto con una impostazione ipoteticodeduttiva. Per giustificare lʼuso del concetto di molecola, Maxwell non si rivolge alla chimica, bensì alle misure spettroscopiche che mostrano come le
righe di emissione e di assorbimento osservate nello spettro solare o in quello di altri corpi celesti (stelle, nebulose, comete) siano, sperimentalmente,
indistinguibili da quelle emesse/assorbite da elementi terrestri.
Siamo così condotti a concludere che in parti dellʼUniverso assai distanti tra loro esistono diversi tipi di molecole e che le
molecole dello stesso tipo hanno lo stesso periodo di vibrazio-
*
Dipartimento di Fisica, Università di Pavia, Via Agostino Bassi 6, 27100 Pavia, Italia. E-mail:
[email protected]; website: http://fisica.unipv.it/percorsi/
1
Tondi miei. J.C. MAXWELL, Atom, Encyclopaedia Britannica, IX ed., vol. III, New York, Charles
Scribnerʼs Sons, 1878, pp. 36-49, cit. pp. 36-37.
30 Giuseppe Giuliani
ne, oppure che questo periodo è talmente simile che i nostri
2
spettroscopî non riescono a trovare alcuna differenza
Secondo Alan Chalmers3 il concetto di atomo non ha svolto un apprezzabile ruolo propulsivo nello sviluppo della chimica nei primi sessanta anni
dellʼOttocento. Solo nel Novecento il concetto di atomo (e di molecola) si è
creativamente intrecciato con lʼesperimento. Salvatore Califano ricostruisce
queste vicende nel primo volume della sua Storia della Chimica4.
La presente cronologia ragionata si propone lo scopo assai limitato di
porre in evidenza alcuni passaggi significativi riguardanti il concetto di atomo
nella fisica tra Ottocento e Novecento. Essa non ha alcuna pretesa di originalità e risente di una duplice, ineludibile, ambiguità: la ambigua demarcazione,
nelle zone di confine, tra la fisica e la chimica e la altrettanto ambigua classificazione degli scienziati come chimici o fisici nel contesto storico in esame.
Questa cronologia tralascia quindi lo sviluppo delle «leggi chimiche» dei
primi decenni dellʼOttocento e si concentra invece sugli aspetti fisici della
teoria atomica, riconosciuti come tali dai contemporanei o così classificabili
alla luce degli sviluppi successivi. Particolare rilievo sarà dato alla invenzione di nuovi strumenti o alla messa a punto di nuove procedure di indagine
sperimentale: è difficile sopravvalutare il loro ruolo nello sviluppo della conoscenza scientifica (mentre è abbastanza usuale trascurare o ignorare il loro
fondamentale contributo).
2. Una strana discretezza
Nel 1802, William Hyde Wollaston (1766−1828) osserva alcune righe
nere che interrompono la continuità dello spettro della luce solare osservato
da Newton.
È interessante osservare come solo agli inizi dellʼOttocento si sia cominciato ad usare, nelle misure spettroscopiche, una (stretta) fenditura rettangolare, al posto del foro circolare usato da Newton5. Wollaston descrive le
2
J.C. MAXWELL, Atom, cit. p. 48.
A. CHALMERS, Transforming Atomic Chemistry into an Experimental Science: The Limitations of
Daltonʼs Theory (http://www.rutherfordjournal.org/article010101.html); ID., Atom and aether in
nineteenth-century physical science, Found. Chem., 10, 2008, pp. 157-166; ID., The scientistʼs atom
and the philosopherʼs stone: how science succeeded and philosophy failed to gain knowledge of
atoms, Boston Studies in the Philosophy of Science, Vol. 279, Dordrecht, Springer, 2009; ID.,
Atomism from the 17th to the 20th Century, in rete alla pagina
http://plato.stanford.edu/entries/atomism-modern/#PheConViaAto
4
S. CALIFANO, Storia della Chimica, vol. I, Torino, Bollati Boringhieri, 2010.
5
Negli stessi anni Thomas Young (1773−1829), collocando un cartoncino sottile in un fascio di
luce solare, scopriva il fenomeno dellʼinterferenza luminosa. Francesco Maria Grimaldi
(1618−1663), aveva invece scoperto il fenomeno della diffrazione intercettando parte di un fascio
di luce solare con un cartoncino largo. Usando lo stesso cartoncino avente le tre dimensioni oppor3
Atomi e fisici nell’Ottocento 31
righe nere osservate come «interruzioni» del continuo newtoniano che separano i vari colori.
Joseph von Fraunhofer (1787−1826) nel 1814 osserva diverse centinaia
di righe nere nello spettro solare6.
Figura 1. Le righe nere osservate da Wollaston nello spettro solare. Disegno tratto da W.H.
Wollaston, A Method of examining refractive and dispersive Powers, by prismatic Reflection,
Phil. Trans. Royal Soc. London, 92, 1802, pp. 365-380.
Figura 2. Disegno di Fraunhofer delle righe osservate.
La scoperta di Wollaston e Fraunhofer è stata casuale. Wollaston era interessato allo studio del potere dispersivo di vari materiali; Fraunhofer era alla
ricerca di una sorgente di luce monocromatica. I tempi non erano maturi per
trovare una spiegazione delle righe osservate: indecifrabili impronte lasciate
dagli atomi.
La spiegazione delle righe, poi dette di Fraunhofer, è attribuita a Gustav
Robert Kirchhof (1824−1887): gli atomi assorbono le radiazioni che sono in
tune, si passa dalla diffrazione allʼinterferenza semplicemente ruotandolo di novanta gradi. Piccoli
gesti che producono grandi effetti.
6
J. FRAUNHOFER, Prismatic and diffraction spectra, a cura di J.S. Ames, New York, Harper &
Brothers, 1898; cfr. http://www.archive.org/details/prismaticanddif02wollgoog
32 Giuseppe Giuliani
grado di emettere (1859−1860); tuttavia, anche Ångström7 e Foucault8 avevano avanzato la stessa ipotesi9.
3. Dulong e Petit: calori specifici dei solidi
Nel 1819 Pierre-Louis Dulong (1785−1838) e Alexis-Thérèse Petit
(1791−1820) osservano che il prodotto della capacità termica di un grammo
di un elemento moltiplicato per il suo peso atomico è, approssimativamente,
una costante (per un certo numero di elementi; figura 3).
Figura 3. Nella prima colonna
compaiono i calori specifici
(quello dellʼacqua uguale ad uno). Nella seconda, i pesi atomici
(quello dellʼossigeno uguale ad
uno). Nella terza, il prodotto dei
valori delle due prime colonne. I
valori approssimativamente costanti della terza colonna rappresentano quindi la capacità
termica molare, concetto peraltro
ignoto a quel tempo. Si veda il
testo. Tabella tratta da P.L. DULONG, A.T. PETIT, Sur quelques
points importants de la théorie de
la chaleur, Ann. Chim. Phys., 10,
1819, pp. 395-413.
Si noti che, nel corso dellʼOttocento, non esiste il concetto di mole: quindi Dulong e Petit non individuano i valori della terza colonna come la capacità termica molare. In realtà essi, sostituendo erroneamente una relazione di
proporzionalità con unʼuguaglianza, sostengono che la terza colonna rappresenta la capacità termica di un singolo atomo. Ovviamente, questʼultima è
data dai valori della terza colonna divisi per il numero di Avogadro, numero
che apparirà soltanto nel lavoro di Jean-Baptiste Perrin (1870−1942) del
190810. Per inquadrare il lavoro di Dulong e Petit allʼinterno del dibattito sulla teoria del calorico e sullʼipotesi atomica, si può vedere il lavoro di Robert
Fox11.
7
http://www.nndb.com/people/929/000100629/
http://www.chemteam.info/Electrons/Spectrum-History.html
9
In questo, come in molti altri casi, lʼattribuzione di una scoperta o di unʼipotesi teorica ad un singolo scienziato è discutibile ed appare come una eccessiva schematizzazione di un complesso processo storico.
10
J.B. PERRIN, Le Mouvement Brownien et la réalité moléculaire, Ann. chim. Phys., 18, 1909, pp. 5-114.
11
R. FOX, The Background to the Discovery of Dulong and Petitʼs Law, Brit. J. His. Sc., 4, 1968, pp. 1-22.
8
Atomi e fisici nell’Ottocento 33
4. Faraday e lʼelettrolisi
Nel 1834, Michael Faraday (1791−1867) svolge un approfondito studio
dei fenomeni elettrolitici. In questi, il concetto di atomo svolge un ruolo euristico fondamentale, sebbene in un contesto di consapevole ignoranza su
che cosa siano, in realtà, gli atomi:
Se adottiamo la teoria atomica o la sua fraseologia, allora agli
atomi di corpi che sono equivalenti nella loro azione chimica è associata la stessa quantità di elettricità. Debbo tuttavia confessare
di essere sospettoso del termine atomo; perché se è molto facile
parlare di atomi, è molto difficile formarsi unʼidea chiara della lo12
ro natura, specialmente quando si considerano corpi composti .
Questa precauzione epistemologica non impedisce però a Faraday di descrivere con precisione i fenomeni che avvengono allʼinterno di un elettrolita:
Così, quando lʼacqua, il cloruro di stagno, lo ioduro di piombo
ecc., sono, allo stato solido, tra gli elettrodi di una batteria voltaica, le loro particelle si polarizzano come quelle di ogni altro dielettrico isolante (1164); ma quando queste sostanze si trovano allo
stato liquido, le particelle polarizzate si dividono [e] le due metà,
ciascuna in uno stato altamente carico, si muovono in avanti finché incontrano altre particelle in uno stato egualmente carico ma
di segno opposto: si combinano con esse, neutralizzando le loro
forze chimiche, cioè le loro forze elettriche, riproducendo così le
particelle composte. Queste di nuovo si polarizzano e di nuovo si
13
dividono ripetendo la stessa serie di processi (1342) .
5. Reticoli di diffrazione
Già nel 1785, David Rittenhouse (1732−1796) aveva costruito un reticolo
di diffrazione tendendo capelli tra due viti parallele: ma esso non fu mai usato per esperimenti di ricerca. Nel 1821, Fraunhofer, ignaro del precedente
americano, costruisce il primo reticolo di diffrazione in Europa sostituendo
ai capelli un sottile filo metallico. Nelle parole di Michelson:
Il reticolo originale di Fraunhofer consisteva in un certo numero di fili equidistanti; successivamente, li costruiva tracciando linee sottili su una lastra di vetro coperta da una foglia
14
dʼoro e rimuovendo alternativamente le strisce .
12
M. FARADAY, Experimental Researches in Electricity, vol. I, 2a ed., London, Richard and John
Edward Taylor, 1849, par. 869.
13
M. FARADAY, Experimental Researches in Electricity, cit., par. 1702.
14
A. MICHELSON, Nobel lecture, 1907. Disponibile anche in rete.
34 Giuseppe Giuliani
Citando G.R. Harrison, J. Strong scrive:
È difficile trovare un altro dispositivo che abbia fornito ad ogni branca scientifica una maggiore quantità di basilari infor15
mazioni sperimentali del reticolo di diffrazione .
Questa affermazione acquista maggiore rilevanza se, non irragionevolmente, si associano ai reticoli artificiali anche quelli naturali costituiti da solidi cristallini, usati per la prima volta come strumenti dispersivi per i raggi
X nel 1912 da Max von Laue.
Negli anni sessanta dellʼOttocento, Anders Jonas Ångström (1814−1874)
individua, nella regione della luce visibile, quattro righe nello spettro solare
attribuite allʼidrogeno, usando reticoli di diffrazione. Il suo volume Recherches sur le spectre solaire costituisce un esemplare prodotto di fisica sperimentale in cui la precisione permessa dagli strumenti usati (reticoli) è
discussa minuziosamente16.
6. Teoria cinetica dei gas
Nella versione di Daniel Bernoulli (1700−1782), le particelle costituenti
il gas hanno tutte la stessa velocità; questa ipotesi permane anche nella versione di Rudolf Clausius (1822−1888) che introduce però il nuovo concetto
di libero cammino medio e suppone che il volume occupato dalle particelle
sia trascurabile rispetto a quello del gas da loro composto e che la velocità
delle particelle sia molto più grande di quella del gas (1857−1858).
Maxwell applica al gas procedimenti statistici pervenendo così alla legge
di distribuzione delle velocità delle particelle costituenti; estende inoltre lo
studio ai fenomeni di trasporto: diffusione, viscosità e conduzione termica
(1860). Ludwig Boltzmann (1844−1906), estendendo i lavori di Maxwell,
perviene alla cosiddetta equazione del trasporto che verrà ampiamente utilizzata in molteplici branche della fisica (1872).
6.1. Loschmidt: dimensioni delle molecole
Nel 1865, Johann Joseph Loschmidt (1821−1895) si propone di calcolare,
sulla base di una serie di dati sperimentali esistenti, lʼordine di grandezza
delle dimensioni di una molecola17. Loschmidt usa la formula di Clausius
15
J. STRONG, The Johns Hopkins University and Diffraction Gratings, J. Opt. Soc. Am., 50, 1960,
pp. 1148-1152.
16
ÅNGSTRÖM, Recherches sur le spectre solaire, W. Schultz, Upsal, 1868. In rete allʼinterno
dellʼarchivio: http://www.archive.org
17
J. LOSCHMIDT, Zur Grösse der Luftmolecüle, Sitzungsber. Kais. Akad. Wiss. Wien, Math. Naturwiss. Kl, II. Abt., 52, 1866, pp. 395-413.
Atomi e fisici nell’Ottocento 35
che fornisce il libero cammino medio l di una molecola di un gas:
l=
3 1
4 nπs 2
(1)
dove n è il numero di molecole per unità di volume ed s il diametro di una
molecola supposta di forma sferica; usa la legge di Avogadro secondo cui
uguali volumi di gas alla stessa pressione e temperatura contengono lo stesso
numero di molecole; usa il rapporto tra il volume di un gas e quello del gas
liquefatto.
Ricava che lʼordine di grandezza del diametro di una molecola dʼaria è di
-9
10 m, circa tre volte superiore al valore attuale. Nel caso in esame, lʼaspetto
rilevante non è tanto il corretto ordine di grandezza trovato quanto il fatto che,
per la prima volta, si misurano le dimensioni di un oggetto invisibile anche
con lʼuso del microscopio (ottico). La misura è, ovviamente, indiretta (come la
quasi totalità delle misure); si basa su misure di grandezze macroscopiche (volumi); è resa possibile solo dalla teoria cinetica dei gas (in particolare dallʼuso
dellʼequazione (1)). È interessante infine osservare come Loschmidt non calcoli n, cioè il numero di molecole di aria contenute in un cm3. Avrebbe ottenuto: n=1.83 × 1018 cm-3. Per una trattazione dettagliata del contributo di
Loschmidt si veda, per esempio18 e la bibliografia ivi contenuta19.
7. Calori specifici dei solidi: eccezioni alla regola di Dulong e Petit
Negli anni 1872−1875, Heinrich Friedrich Weber (1843−1912) pubblica
tre lavori sui calori specifici dei solidi in cui estende precedenti ricerche di
Auguste de la Rive (1801−1873), François Marcet (1803−1883) e Henri Victor Regnault (1810−1878). Abraham Pais ha ricostruito così queste vicende:
Tuttavia, divenne chiaro abbastanza presto che anche per gli
elementi solidi la regola di Dulong e Petit non è così generale
come i suoi sostenitori avevano pensato. Amedeo Avogadro
(1776−1856) fu tra i primi ad osservare deviazioni nel caso
del carbonio, ma le sue misure non erano molto precise. La
questione si fece più seria nel 1840, quando due fisici svizzeri,
Auguste de la Rive e François Marcet pubblicarono dati sul
carbonio… Quasi contemporaneamente, il diamante fu studiato da Henri Victor Regnault che più di qualunque altro fisico
18
A. BADER, L. PARKER, Joseph Loschmidt, physicist and chemist, Phys. Today, 54, 2001, pp. 45-50.
Una traduzione inglese del lavoro originale si trova in W.W. PORTERFIELD and W. KRUSE,
Loschmidt and the Discovery of the Small, J. Chem. Ed., 72, 1995, pp. 870-881.
19
36 Giuseppe Giuliani
contribuì allo studio sperimentale dei calori specifici nel XIX
20
secolo .
E, più avanti:
[Weber] iniziò analizzando i dati di de la Rive, Marcet e Regnault e correttamente concluse che i valori differenti del calore specifico trovati da questi autori non erano dovuti ad errori
sistematici… Weber osservò che entrambi gli esperimenti avrebbero potuto essere corretti se il calore specifico del carbonio variasse con la temperatura!... Le misure riferite a dodici
temperature diverse comprese tra 0 e 200°C confermarono la
sua congettura: per il diamante c variava di un fattore tre in
questo intervallo… Incontriamo Weber di nuovo nel 1875
quando egli presentò le sue belle misure dei calori specifici del
boro, silicio, grafite e diamante, tra −100 e 1000°C. Nel caso
21
del diamante, c variava di un fattore 15 in questo intervallo .
Questa volta le orme erano state lasciate dai livelli energetici quantizzati:
i risultati di Weber del 1875 per il diamante entreranno a far parte del lavoro
di Einstein del 1907 sui calori specifici dei solidi.
8. Un lungo cammino: da un vetro soffiato allʼelettrone
Verso la metà degli anni cinquanta del XIX secolo, in due città europee
separate da qualche centinaio di chilometri, un soffiatore di vetro e un «meccanico», mettono a punto dei manufatti che avrebbero svolto un ruolo fondamentale nello sviluppo della fisica dei decenni successivi.
Heinrich Geissler (1814−1879) a Bonn, riesce a costruire delle ampolle di
vetro in cui si possono saldare elettrodi metallici; le ampolle possono poi essere parzialmente evacuate utilizzando una «pompa a mercurio» basata sullo
sfruttamento del «vuoto torricelliano».
Heinrich Daniel Rühmkorff (1803−1877), a Parigi, costruisce un apparecchio basato sul principio dellʼinduzione elettromagnetica − il «rocchetto
di Rühmkorff» − che è in grado di produrre ai capi della bobina secondaria
alcune migliaia di volt22. Lʼuso congiunto di questi due manufatti è stato essenziale per lo sviluppo dello studio sperimentale della scarica nei gas rarefatti.
20
A. PAIS, Einstein and the quantum theory, Rev. Mod. Phys., 51, (1979), pp. 863-914, cit. p. 879.
A. PAIS, Einstein and the quantum theory, cit., pp. 879-880.
22
Dispositivi simili erano stati precedentemente inventati da Nicholas Joseph Callan (1799−1864) e
da Charles Grafton Page (1812−1868). Mentre i due europei (Callan e Rühmkorff) si sono ispirati
ai lavori sullʼinduzione elettromagnetica di Faraday, Grafton Page ha avuto come riferimento i lavori di Joseph Henry (1797−1878).
21
Atomi e fisici nell’Ottocento 37
8.1. I raggi catodici
I lavori pioneristici di Julius Plücker (1801−1868) e Johann Wilhelm Hittorf
(1824−1914) permettono di individuare i «raggi catodici», così chiamati nel
1876 da Eugene Goldstein (1850−1930). Quei decenni vedono lʼaccumulazione
di una grande quantità di risultati concernenti i raggi catodici: tuttavia, la loro
attendibilità appare oggi sovente problematica a causa della complessità dei
fenomeni coinvolti e della incompleta consapevolezza di tale complessità.
Esemplare, a questo riguardo, appare il risultato ottenuto nel 1892 da
Hertz, secondo cui i raggi catodici non sono deviati da un campo elettrico.
Secondo J.J. Thomson tale risultato negativo era verosimilmente da attribuirsi ad una troppo elevata pressione del gas residuo con conseguenti fenomeni
di carica spaziale dovuti agli ioni del gas. La complessità dei fenomeni e
lʼambiguità dei risultati sperimentali ha quindi permesso la sopravvivenza,
sin verso la fine del secolo, di due ipotesi interpretative: i raggi catodici come composti da particelle cariche oppure come perturbazioni elettromagnetiche (dellʼetere). Lʼindividuazione della natura dei raggi catodici fu però
preceduta dalla scoperta dei raggi X e della radioattività naturale.
8.2. Raggi X e radioattività
La scoperta dei raggi X fu caratterizzata da un elemento di casualità.
Wilhelm Conrad Röntgen (1845−1923) si proponeva di studiare i raggi catodici utilizzando una disposizione sperimentale messa a punto da Philipp
Eduard Anton Lenard (1862−1947). Tuttavia, per motivi sconosciuti, Röntgen racchiuse il suo tubo di Geissler in una «scatola» di cartone nero, mentre Lenard aveva usato una schermatura metallica.
Röntgen si accorse che la lastra «dipinta» con platinocianuro di bario
(usata da Lenard come rivelatore dei raggi catodici) diventava luminescente
anche se al di fuori della portata del flusso dei raggi catodici: così prese avvio la scoperta dei raggi X. Lʼelemento di causalità è innegabile. Va tuttavia
osservato che, in quel contesto, era molto probabile che un simile caso si verificasse: per quante volte ancora i fisici avrebbero potuto aggirarsi intorno a
tubi di Geissler − che emettono raggi X − con rivelatori atti a segnalarne la
presenza, senza notare la luminescenza sospetta della lastra di platinocianuro
di bario?
La scoperta della radioattività naturale è un esempio di scoperta generata
dallʼintreccio di una ipotesi plausibile (anche se a posteriori sbagliata) con
un elemento di casualità. Sulla base della prima memoria di Röntgen sembrava si dovesse (correttamente) localizzare la sorgente dei raggi X nella zona del tubo di Geissler luminescente posta di fronte al catodo. Antoine Henri
Becquerel (1852−1908) pensò che la sorgente dei raggi X fosse la zona del
tubo luminescente in quanto luminescente, cioè che materiali luminescenti o
38 Giuseppe Giuliani
fosforescenti potessero emettere raggi X. Da qui lʼidea di verificare se i raggi
X sono emessi da materiali fosforescenti. Dopo diverse prove negative, Becquerel provò con il bisolfato uranico di potassio che diviene fosforescente se
esposto abbastanza a lungo alla luce solare. Come rivelatore veniva impiegata una lastra fotografica opportunamente schermata dalla luce con carta nera
e la prima verifica mostrò che il sale di uranio impiegato emetteva radiazioni
che impressionavano la lastra fotografica passando attraverso la carta opaca
alla luce. Becquerel prese atto e si dispose a ripetere lʼesperimento con qualche variante inessenziale: la variante essenziale fu invece, come nel caso di
Röntgen, dovuta al caso. Il 26 e 27 febbraio 1896 il cielo sopra Parigi era
nuvoloso e tale rimase anche nei giorni successivi: «lʼapparato» predisposto
da Becquerel fu pertanto rinchiuso in un armadio e lì rimase sino al primo
marzo quando Becquerel decise di sviluppare ugualmente la lastra anche se
questa non era stata esposta alla luce solare e quindi il sale di uranio non era
divenuto fosforesecente. La lastra (naturalmente) era rimasta impressionata e
su di essa appariva −bianca− lʼimmagine della sottile croce di rame che Becquerel aveva interposto tra il sale e la lastra: così fu scoperta la radioattività
naturale.
8.3. Lʼelettrone
La soluzione concernente la natura dei raggi catodici ha invece seguito una
via più metodica. Nel 1897 tre ricercatori – Walter Kaufmann (1871−1947), Joseph John Thomson (1856−1940) e Johan Emil Wiechert (1861−1928) − misurarono indipendentemente lʼuno dallʼaltro il rapporto m/e dei raggi
catodici, trovando che tale rapporto è molto minore di quello noto dello ione
idrogeno. Thomson, nel 1899, eseguì la prima misura della carica dei corpuscoli che − secondo lʼinterpretazione da lui proposta − costituiscono i raggi
catodici e vengono emessi anche nellʼeffetto fotoelettrico e da filamenti metallici incandescenti, trovando che la loro carica è la stessa (cambiata di segno) di quella comunemente attribuita allo ione idrogeno nei fenomeni
elettrolitici. Se si tiene inoltre conto della concomitante interpretazione
dellʼeffetto Zeeman proposta da Lorentz (1897) − in termini di oscillazioni
di particelle dotate di massa e di carica il cui rapporto risulta dello stesso ordine di grandezza di quello misurato per i raggi catodici − appare ineludibile
il riconoscimento della complessità del processo che ha condotto scoperta
dellʼelettrone23.
23
La scoperta dellʼeffetto Zeeman fu resa possibile grazie ad una innovazione tecnica: la «macchina a dividere» messa a punto da Henry Rowland per costruire reticoli di diffrazione. Zeeman usò
appunto un reticolo di Rowland.
Atomi e fisici nell’Ottocento 39
9. Atomi e loro frammenti
Nei primi anni del Novecento si individua la natura delle radiazioni emesse dai materiali radioattivi: i raggi β sono elettroni, i raggi α ioni di
elio aventi una carica positiva pari a quella di due elettroni ed i raggi γ radiazioni elettromagnetiche con lunghezze dʼonda inferiori a quelle dei raggi
X. Queste acquisizioni si sviluppano nellʼarco di un quindicennio e si intrecciano con quelle relative allo studio sperimentale della struttura della materia
mediante diffusione di particelle cariche: prima elettroni (Thomson) poi particelle α (Rutherford).
Le misure di Jean Baptiste Perrin sul moto browniano (1908), interpretate
sulla base della teoria di Einstein del 1905, conducono alla definizione e alla
determinazione del numero di Avogadro: esse sono considerate come un
punto di svolta per quanto riguarda lʼaccettazione dellʼipotesi della composizione atomica della materia. Anche la motivazione per lʼattribuzione del
premio Nobel per la fisica a Perrin nel 1926, riflette questo convincimento:
«per il suo lavoro sulla struttura discontinua della materia, e specialmente
per la sua scoperta dellʼequilibrio della sedimentazione».
In realtà il processo storico è stato molto più complesso. I nuovi risultati
sperimentali sono stati accompagnati da nuove ipotesi e modelli teorici.
Lʼintroduzione della «costante della natura h» permette a Max Planck
(1858−1947) di trovare una formula che interpola in modo soddisfacente i
dati sperimentali riguardanti la radiazione di corpo nero (1900). Einstein assume lʼipotesi planckiana come un serio indizio della natura discreta di alcuni fondamentali processi naturali: la radiazione elettromagnetica (i quanti di
luce, 1905) ed i calori specifici dei solidi (1907). In entrambi i casi si tratta
di riconoscere un substrato discreto in fenomeni sinora considerati come
continui. Lʼaccoglienza della comunità scientifica è stata assai diversa nei
due casi: sostanzialmente positiva per quanto riguarda i calori specifici dei
solidi, di rigetto per i quanti di luce.
Non a caso: mentre lʼipotesi dei quanti di luce era completamente nuova,
nel caso dei calori specifici la quantizzazione giocava un ruolo concettualmente secondario rispetto allʼidea della costituzione atomica della materia
che si stava ormai affermando.
Nel 1911, Ernest Rutherford (1871−1937) avanza lʼipotesi del nucleo e
Niels Bohr (1885−1962), due anni dopo, presenta il suo modello dellʼatomo
di idrogeno in cui utilizza una quantizzazione dei livelli energetici «alla
Planck», ignorando invece il concetto di quanto di luce. Nel frattempo, Max
von Laue (1879−1960) mostra come si possa studiare la struttura atomica
ordinata dei solidi cristallini mediante i raggi X (1912).
40 Giuseppe Giuliani
10. Epilogo
I primi quindici anni del Novecento rappresentano una fase cruciale per il
radicamento della struttura atomica della materia nella descrizione fisica del
Mondo. Gli atomi si trasformano da ipotesi euristica in oggetto di studio sperimentale diretto. Singolare appare il fatto che questo processo avvenga,
principalmente, sulla spinta della scoperta di quelli che appariranno, a posteriori, frammenti degli atomi (elettroni, parti del nucleo) o loro «radiazioni»
(fotoni γ ). La particella indivisibile dei filosofi greci, riemersa sotto sembianze assai diverse nel corso dellʼOttocento, si è manifestata attraverso la
sua divisibilità.
Ai nostri giorni, gli atomi invisibili sono «fotografati» con microscopi a
«forza atomica» e manipolati uno alla volta24.
Lucrezio scriveva: «i principi primi delle cose non possono essere scorti
con gli occhi». La situazione appare mutata. Se oggi entrassimo in un laboratorio e chiedessimo, a caso, ad un fisico che cosa è osservabile, la sua risposta sarebbe, verosimilmente: tutto ciò che è (quantitativamente) misurabile
dai nostri strumenti. Il fisico misura grandezze fisiche che descrivono proprietà di entità postulate dalle teorie e/o appartenenti al dominio della conoscenza considerata come acquisita. Per esempio, il fisico misura una serie di
grandezze fisiche attribuite allʼentità teorica «elettrone»: massa, carica, momento angolare e magnetico intrinseco. Il fisico, inoltre, ritiene di osservare
gli atomi.
La confidenza del fisico in ciò che fa, misura e osserva deve essere accompagnata da una attenta riflessione sui metodi usati e sulle conoscenze
prodotte dal suo lavoro: anche per le ricadute sociali di tali conoscenze. Se
un medico, sulla base di unʼimmagine ottenuta con la risonanza magnetica
nucleare, diagnostica al paziente un tumore, questʼultimo non si mette certamente a disquisire sullʼosservabilità dei protoni (o delle sue proprietà) il
cui momento magnetico è responsabile dei segnali di risonanza. Deve invece
farlo il filosofo. Tuttavia, il filosofo dovrebbe tener conto, anche se criticamente, di ciò che il fisico ritiene osservabile e non basarsi su concezioni non
molto dissimili da quella usata da Lucrezio25.
24
Y. SUGIMOTO et al., Complex Patterning by Vertical Interchange Atom Manipulation Using
Atomic Force Microscopy, Science, 322, 2008, pp. 413-417.
25
La letteratura riguardante questi temi è assai vasta. Si interroghi, per esempio, la Stanford Enciclopedia of Philosophy con la parola «unobservable». Lʼautore del presente articolo ha svolto
qualche riflessione sullʼargomento. Si veda al riguardo G. GIULIANI, Scienza, fisica, filosofia e senso comune, Gior. Fis., 48, (2007), 303-322.; ID., Which realism?, in rete alla pagina:
http://fisicavolta.unipv.it/percorsi/pdf/quale.pdf; ID., On realism and quantum mechanics, Nuovo
Cimento, 122 B, (2007), pp. 267-276.
Amedeo Avogadro e la cristallografia
GIOVANNI FERRARIS*
1. Premessa
Amedeo Avogadro di Quaregna fu un fisico o un chimico?
A Torino (dove lo scienziato nacque nel 1776, svolse la sua carriera universitaria e morì nel 1856) − con appendici a Vercelli (ivi il casato degli Avogadro si formò nel medioevo e, tra il 1809 ed il 1819, Amedeo pensò i suoi
lavori più importanti mentre insegnava Fisica presso il Collegio di studi liceali; Fig. 1) e a Biella (nel cui circondario si trova Quaregna dove lo scienziato
riposa nella tomba di famiglia) − le celebrazioni sono state equamente alternate
tra chimici e fisici. Nel convegno del 1911 organizzato dallʼAccademia delle
Scienze per celebrare il primo centenario della nota fondamentale di Avogadro − Essai dʼune manière de déterminer les masses relatives des molécules
élémentaires des corps, et les proportions selon lesquelles elles entrent dans
ces combinaisons1 – la commemorazione ufficiale fu affidata al chimico Icilio Guareschi (1847−1918) che curò pure il monumentale volume Opere
scelte di Amedeo Avogadro. A celebrare nel 1956 il primo centenario della
morte ci pensarono i fisici che organizzarono due convegni (Congresso internazionale sulle costanti fondamentali della Fisica e 42° Congresso nazionale di Fisica) e pubblicarono i relativi rendiconti come supplemento a «Il
Nuovo Cimento» sotto il titolo Onoranze ad Amedeo Avogadro di Quaregna
nel 1° centenario della sua morte. Tenuto anche conto dellʼuso quotidiano
che fanno i cristallografi del Numero di Avogadro (cfr. più avanti), il
IXth European Crystallographic Congress (ECM-9), svoltosi a Torino nel
1985, fu dedicato ad Amedeo Avogadro.
Per le celebrazioni del secondo centenario della citata nota del 1811, organizzate dallʼAccademia delle Scienze di Torino e dallʼUniversità del Piemonte Orientale «Amedeo Avogadro» (UPO), lo scrivente ha suggerito ai
colleghi che era opportuno ricordare anche le relazioni tra Avogadro e la
Cristallografia. La conferenza che ho tenuto presso lʼAccademia il 20 ottobre
2011 forma lʼoggetto di questo scritto; esso si avvale anche di notizie che ho
più diffusamente trattato il giorno successivo, presso il Rettorato dellʼUPO a
Vercelli, sotto il titolo Amedeo Avogadro di Quaregna professore di Fisica a
Vercelli e le sue radici vercellesi.
*
1
Dipartimento di Scienze della Terra, Università di Torino, Via Valperga Caluso 35, 10125 Torino.
«Journal de Physique, de Chimie et dʼHistoire naturelle», 73, 1811, pp. 58-76.
42 Giovanni Ferraris
Figura 1. Lapide collocata nel 1992 nellʼandrone dellʼArchivio di Stato di
Vercelli per ricordare che ivi era la sede del Collegio presso cui Avogadro insegnò Fisica dal 1809 al 1819. [Riproduzione autorizzata].
2. Il primo trattato di cristallografia in Italia
Il chimico e mineralogista Alfonso Cossa (1833–1902), socio dellʼAccademia delle Scienze di Torino, nella sua commemorazione di Amedeo Avogadro tenuta a Milano nel 18982 scriveva quanto segue a proposito della cospicua parte cristallografica contenuta nel primo volume [Fig. 2] del trattato
intitolato Fisica deʼ corpi ponderabili3:
Fra gli argomenti più diffusamente trattati in questa opera colossale, che consta di quattro volumi comprendenti più di 3700
pagine, merita di essere specialmente ricordata la Cristallografia (pag. 332 a 904 del 1° volume), nella quale alla cristallografia geometrica compilata con acume di critica sulle opere
4
5
classiche di Weiss e Naumann , sono aggiunte le più essenziali
cognizioni di cristallografia fisica e importanti considerazioni
originali sulla cristallografia chimica, che allora cominciava a
sorgere per le memorabili ricerche di Mitscherlich [cfr. Nota 14]
sullʼisomorfismo. Pertanto lʼAvogadro venne giustamente ritenuto come il primo autore italiano di un trattato di cristallografia; ma questo, affogato nella Fisica deʼ corpi ponderabili, che
con la sua mole gigantesca incute spavento ai lettori, è sfuggito
allʼattenzione della maggior parte degli studiosi. Il merito di a2
Alfonso COSSA, Il conte Amedeo Avogadro di Quaregna, Milano, 1898. Cossa fu professore di
Chimica al Politecnico di Torino e, tra lʼaltro, contribuì alla chimica agraria e mineralogica.
3
Amedeo AVOGADRO, Fisica deʼ corpi ponderabili, 4 volumi, Torino, 1837–1841.
4
Christian Samuel WEISS (1780–1856), mineralogista tedesco. Di questo autore, a pagina 336 della
Fisica (vol. I), Avogadro cita De indagando formarum crystallinarum caractere geometrico
principali dissertatio, Lipsia, 1809.
5
Karl Friedrich NAUMANN (1797–1873) mineralogista tedesco. Di questo autore, a pagina 338 e
altrove della Fisica (vol. I), Avogadro cita il trattato in due volumi Lehrbuch der reinen und angewandten Krystallographie, Lipsia, 1830. K.F. Naumann non è da confondersi con Franz Ernst
Neumann (1798–1895), mineralogista, fisico e matematico tedesco, di cui Avogadro cita (p. 628) il
trattato Beiträge zur Krystallonomie, Berlino, 1823.
Amedeo Avogadro e la cristallografia 43
vere per il primo efficacemente contribuito alla diffusione dei
buoni studi cristallografici in Italia, doveva essere riservato ad
6
un altro illustre scienziato biellese, a Quintino Sella .
Concetto analogo Cossa ha espresso nella sua analisi dellʼopera di Quintino
Sella pronunciata nel 1885 ai Lincei 7:
Al gravissimo difetto che nell'insegnamento della cristallografia
lamentavasi così in Piemonte come nelle altre parti dʼItalia,
supplì lʼillustre fisico Biellese Amedeo Avogadro, il quale nella
sua Fisica dei corpi ponderabili ha inserto un trattato voluminoso di cristallografia, trattato che non è un semplice lavoro di
compilazione, ma, come giustamente osservò il Sella, è un'opera
classica nella quale sono coordinati e riassunti i più recenti progressi che la scienza doveva in quei tempi ai lavori di Weiss,
8
Naumann ed Haidinger . È da questʼopera dellʼAvogadro che il
Sella ed alcuni chimici italiani poterono attingere i primi insegnamenti della cristallografia che invano avevano desiderato
9
nelle scuole universitarie .
6
Quintino SELLA (1827−1884), prima di intraprendere la sua brillante carriera politica, dal 1852 al
1860 insegnò a Torino: Geometria e Mineralogia, presso istituti precursori dellʼodierno Politecnico,
e Matematica, presso lʼUniversità [cfr. «Quintino Sella» in Clara Silvia ROERO (a cura di), La facoltà di Scienze Matematiche Fisiche Naturali di Torino (1848-1998), vol. II, I docenti, Torino,
1999]. In tale periodo Sella apportò contributi fondamentali alla nascente Cristallografia matematica, tanto da conseguire fama ed onori internazionali. Le sue lezioni di Cristallografia, svolte
nellʼambito del corso di Mineralogia, furono pubblicate [lʼedizione a stampa del 1877 – Primi elementi di cristallografia (Torino) – era stata preceduta nel 1867 da una edizione litografata] ed a
lungo vennero usate come libro di testo. Il riferimento fatto da Sella ad Avogadro e citato da Cossa
si trova nella memoria intitolata Studi sulla Mineralogia Sarda («Mem. Accad. Sci. Torino», serie
II, vol. XVII, pp. 289-336). Nei giorni 5-6 dicembre 2011 la poliedrica figura di Quintino Sella è
stata analizzata in un convegno tenutosi a Roma presso lʼAccademia dei Lincei. In tale occasione lo
scrivente ha presentato una comunicazione intitolata Quintino Sella tra matematica, cristallografia
e mineralogia, pubblicata a pp. 207-235 di «Atti dei Convegni Lincei», vol. 269, Roma, 2013.
7
Alfonso COSSA, Sulla vita ed i lavori scientifici di Quintino Sella, «Atti R. Accad. Lincei», serie
IV, vol. II, 1885, p. 16.
8
Wilhelm VON HAIDINGER (1795–1871) mineralogista austriaco; soggiornò a lungo a Edimburgo
per cui è noto anche come William Haidinger. Di questo autore, a pagina 568 della Fisica (vol. I),
Avogadro cita, senza darne il titolo, lʼarticolo intitolato On the regular composition of crystallized
bodies pubblicato nel 1824 alle pagine 52-62 di «Edinburgh Journal of Science».
9
Sella, nella sua memoria citata in Nota 6, riconosce ad Avogadro il merito di avere introdotto in
Italia la nomenclatura cristallografica da poco adottata dai maggiori cristallografi europei. Forse
non è un caso che Cossa non citi Haüy (cfr. Nota 10) tra gli autori trattati da Avogadro; allʼepoca in
cui egli scriveva le note prima citate, la cristallografia strutturale, di cui Haüy era stato il fondatore
sul finire del secolo XVIII, era alquanto negletta. Riprenderà vigore solo nel 1912 con la scoperta
della diffrazione dei raggi X ad opera di Max von Laue (1879–1960). Per celebrare il centenario di
tale fondamentale scoperta, che permette lʼindagine a livello atomico della materia cristallina,
lʼAccademia delle Scienze di Torino e lʼAccademia Nazionale dei Lincei hanno congiuntamente
organizzato il convegno The Centennial of X-Ray Diffraction (Palazzo Corsini, Roma, 8-9 maggio
44 Giovanni Ferraris
Figura 2. Frontespizio del volume I del trattato in quattro volumi di Amedeo
Avogadro intitolato Fisica deʼ corpi ponderabili, Torino, 1837.
2012). Le relazioni presentate al convegno sono state pubblicate come supplemento al fascicolo 1
(2013) del volume 24 dei «Rendiconti Lincei – Scienze fisiche e naturali», a cura di A. MOTTANA,
G. FERRARIS e M. BRUNORI.
Amedeo Avogadro e la cristallografia 45
3. Perché la cristallografia?
NellʼIntroduzione al volume I della Fisica deʼ corpi ponderabili, Avogadro giustifica lʼampio spazio da lui dato alla cristallografia con le seguenti
parole:
La parte poi della costituzione deʼ corpi solidi alla quale ho
creduto dover dare la maggior estensione, è quella che riguarda la cristallizzazione. Questa parte è generalmente appena
indicata nei Trattati elementari di Fisica anche più recenti; ma
essa mi è sembrata troppo essenzialmente appartenente alla
natura deʼ corpi ponderabili, perché potessi omettere di esporre partitamente in questʼopera le cognizioni che la riguardano.
È vero che questo ramo di scienza è trattato diffusamente in
alcune opere speciali di cui essa forma lʼoggetto; ma queste
non ne abbracciano in generale tutto il complesso, e i loro autori riguardando la Cristallografia ciascuno sotto diversi aspetti, e relativamente a scopi particolari che si proposero,
mentre ne hanno sviluppata alcuna parte con una prolissità
forse incomoda a chi non voglia applicarsi allo studio della
medesima, che come oggetto di Scienza Fisica, hanno intera10
mente trascurate le altre parti. Così mentre Haüy nel Trattato di Cristallografia, annesso alla sua opera sulla
Mineralogia, si è principalmente occupato della struttura dei
cristalli, colla quale si cerca di spiegarne la derivazione per la
sovrapposizione di molecole di date figure secondo certe leggi
[Fig. 3], teoria di cui egli è il creatore, i Mineralogisti Tedeschi che dopo di lui si applicarono a questa proprietà dei corpi, ne studiarono principalmente le relazioni puramente
geometriche, trascurando la parte più propriamente fisica di
questa scienza. Io ho procurato di riunire, e coordinare tra lo11
ro queste due parti , aggiungendovi anche quelle altre cognizioni relative ai corpi cristallizzati che erano fin qui sparse
nelle Memorie particolari […]. Tali sono tra le altre quelle che
riguardano più da vicino la natura intima della cristallizzazione, e il suo rapporto con la costituzione deʼ corpi, quali le spe-
10
René Just HAÜY (1743–1822) ha pubblicato a Parigi nel 1784 il saggio Essai dʼune théorie sur la
structure des cristaux, seguito, nel 1792, dalla Exposition abrégée de la théorie sur la structure des cristaux. Nel 1801 riprese e sviluppò lʼargomento nei cinque volumi del Traité de Minéralogie; dal quinto
volume (di sole tavole) Avogadro trasse le figure di cristalli pubblicate nella sua Fisica (Figura 3).
11
Per una trattazione, in termini moderni di nomenclatura, delle linee guida che ispirarono la scuola
francese e quella tedesca di cristallografia si veda il recente articolo di H. KUBBINGS (2012) intitolato Crystallography from Haüy to Laue: controversies on the molecular and atomistic nature of
solids («Acta Crystallogr.», A68, pp. 3-29).
46 Giovanni Ferraris
12
13
culazioni di Wollaston e di Ampère , e i lavori sperimentali
14
più recenti di Mitscherlich ed altri, sullʼisomorfismo e dimorfismo delle diverse sostanze, ce le hanno somministrate.
Figura 3. Struttura dei cristalli basata sulla ripetizione periodica di molecole
integranti. La figura è parte di una tavola che Amedeo Avogadro ha incluso
nel volume I del suo trattato Fisica deʼ corpi ponderabili traendola dal quinto
volume del Traité de Minéralogie di Haüy (Parigi, 1801).
12
William H. WOLLASTON, The Bakerian lecture. On the elementary particles of certain crystals,
«Phil. Trans.», 103, 1813, pp. 51-63.
13
André-Marie AMPÈRE, Lettre de M. Ampère à M. le Comte Berthollet, sur la détermination des
proportions dans lesquelles les corps se combinent, dʼaprès le nombre et la disposition respective
des molécules dont leurs particules intégrantes sont composées («Annales de chimie», 94, 1814,
pp. 43-86).
14
Eilhard MITSCHERLICH, Über die Kristallisation der Salze, in denen das Metall der Basis mit zwei
Proportionen Sauerstoff verbunden ist («Abhandl.», Berlin, 1818−1819, pp. 427-437). Über das
Verhältnis der Kristallform zu den chemischen Proportionen e Über die Körper welche in zwei verschiedenen Formen kristallisieren («Abhandl.», 1822−1823, Berlin, pp. 25-48).
Amedeo Avogadro e la cristallografia 47
4. Avogadro e Haüy
È tuttavia da ritenere che lʼampio spazio dato alla cristallografia, in particolare alla teoria dellʼabate René-Just Haüy, non sia solo dovuto al desiderio
di Avogadro di fare del suo trattato unʼopera completa sulle conoscenze fisiche dellʼepoca. Anche se Haüy non era né il primo né lʼunico (possiamo ricordare Boyle e Dalton15) a proporre una teoria sulla struttura della materia,
resta il fatto che la sua teoria sulla struttura dei cristalli trovava riscontro sperimentale, seppur limitatamente alla materia cristallina. Gli stessi Wollaston,
Ampère e Mitscherlich – sopra citati – fecero riferimento ad essa al fine di
trovare supporto alle loro ipotesi sul modo di aggregarsi delle molecole elementari per formare molecole integranti (termine introdotto da Haüy).
Anche se non sono a conoscenza dellʼesistenza di dichiarazioni fatte da
Avogadro riguardo ad ispirazioni che egli avrebbe tratto dalla cristallografia,
una analisi della terminologia e dei ragionamenti utilizzati permette di arguire che grande influenza hanno avuto su di lui le idee Haüy. Questo scienziato
francese, per spiegare la morfologia regolare dei solidi cristallini, aveva supposto che particelle elementari a forma poliedrica, chiamate molecole integranti, si impacchettassero secondo posizioni regolarmente distanziate
[Fig. 3]16. Proprio supponendo che in tutti i gas le particelle costituenti siano
tra loro equidistanti, nel suo lavoro fondamentale del 1811 (cfr. la sezione
Premessa) Avogadro ipotizza che volumi uguali di gas contengano lo stesso
numero di molecole integranti. Da notare che, mentre nei solidi cristallini,
sulla base della teoria di Haüy, era necessario ammettere che lʼequidistanza
tra le molecole integranti variasse da sostanza a sostanza – ciò a motivo delle
diverse dimensioni delle molecole e della diversa azione delle forze di aggregazione – nei gas era ampiamente ammesso che non fossero attive forze
intermolecolari. In assenza di tali forze pareva logico pensare che, a parità di
condizioni ambientali, in tutti i gas le molecole assumessero la stessa equidistanza; inoltre, a motivo dello piccola frazione di volume totale occupato dalle
15
Robert BOYLE (1627–1691) è considerato il primo ad avere scritto un trattato moderno di chimica: The sceptical chymist (Londra, 1661). John DALTON (1766–1844) ha introdotto il concetto di
atomo nella scienza moderna.
16
Il concetto di reticolo cristallino, usato per analizzare la disposizione periodica di punti immateriali (nodi), sarà sviluppato più tardi da Gabriel DELAFOSSE (1796–1878) e da Auguste BRAVAIS
(1811–1863) che sostituirono le molecole integranti di Haüy con il loro baricentro. I contributi di
DELAFOSSE [De la structure des cristaux, considérés comme base de la distinction et de la classification des systèmes cristallins. Sur lʼimportance de lʼétude de la symétrie dans les différentes
branches de lʼHistoire naturelle, et en particulier dans la morphologie végétale et animale, Thèse
de sciences, Parigi, 1840] e di BRAVAIS [Mémoire sur les systèmes formés par des pointes distribuées régulièrement sur un plan ou dans lʼespace («J. Ecole Polytech.», 19 (cahier 33), pp. 1-128
(1850, ma presentato alla Académie des Sciences nel 1848)] restarono a lungo inutilizzati a motivo
della caduta di interesse per la struttura dei cristalli menzionata in Nota 9. Per ulteriori sviluppi si
veda lʼarticolo di KUBBINGS citato in Nota 11.
48 Giovanni Ferraris
molecole, eventuali differenze di dimensioni tra le molecole integranti di gas
diversi erano ritenute trascurabili. Sulla scia dellʼadozione del termine molecola integrante introdotto da Haüy, parrebbe potersi affermare che il concetto
di equidistanza tra le molecole integranti sia stato tra quelli determinanti per
fare maturare nella mente di Avogadro la sua ipotesi sui gas.
Allʼinfluenza di Haüy sullʼipotesi fondamentale di Avogadro avevo accennato per la prima volta nel 1992 in occasione dello scoprimento di una
lapide commemorativa [Fig. 1] collocata nei locali ove lo scienziato abitò,
insegnò e pensò durante il decennio (1809–1819) trascorso a Vercelli. Allora, ma vale anche per oggi, non mi risultava che qualche studioso di Avogadro avesse fatto cenni in proposito17. Lo stesso Icilio Guareschi che, come
detto nella Premessa, in occasione della celebrazione del primo secolo dalla
pubblicazione della nota fondamentale di Avogadro, dettagliatamente ne analizzò lʼopera scientifica, si limitò ad accennare ai rapporti tra lo scienziato
e la Cristallografia con le seguenti generiche parole:
Assai interessanti sono le sue osservazioni sulla cristallografia
geometrica, fisica e chimica di cui tratta in modo speciale nel
vol. I della sua opera: Fisica deʼ corpi ponderabili.
5. Riferimenti alla teoria di Haüy
Per quanto riguarda il riscontro sperimentale della teoria di Haüy cui sopra accennavo, lo si può ritrovare riassumendo il percorso tracciato da Avogadro stesso nella sua Fisica. Già prima di esporre la teoria dellʼabate
cristallografo, la sfaldatura “alla Haüy” del salgemma in cubi sempre più
piccoli è portata da Avogadro come prova che tale minerale ha una sua molecola integrante dotata di forma poliedrica (cubo in questo caso); a sua volta, la molecola integrante è composta da molecole costituenti o elementari
(in questo caso Cl e Na). La molecola integrante (cella elementare di una
struttura cristallina, diremmo oggi) possiede tutte le proprietà della sostanza
di cui essa costituisce lʼunità fondamentale. Anche nelle sostanze semplici
(elementi) la molecola integrante è (o può essere) costituita da più molecole
costituenti. Non conosciamo la forma delle molecole costituenti che «potrebbero essere sferiche» (cfr. p. 813). Le molecole integranti si dispongono
parallelamente alle facce dei cristalli (purché abbiano tempo e spazio per farlo, altrimenti «risulterà ciò che si chiama una cristallizzazione confusa, od
anche una massa affatto informe»; p. 335). A p. 635, dopo avere esposto le
basi della teoria di Haüy, Avogadro ritorna sulla forma ultima del solido di
17
Alla questione ho anche accennato nel mio contributo intitolato Mineralogia e Cristallografia
[pp. 335-340, in Clara Silvia ROERO (a cura di), La facoltà di Scienze Matematiche Fisiche Naturali di Torino (1848-1998), vol. I, Ricerca, insegnamento, collezioni scientifiche, Torino, 1999].
Amedeo Avogadro e la cristallografia 49
sfaldatura (indicandolo in questo caso con i termini forma primitiva o nocciuolo) e scrive:
se ne conchiuderà che il limite della divisione meccanica che si
può operare sopra un cristallo qualunque, dee dare la forma
della molecola integrante propria alla sostanza alla quale questo cristallo appartiene.
La teoria di Haüy prevedeva tre forme geometriche per le molecole integranti poste alla base della struttura cristallina: tetraedro, prisma triangolare e parallelepipedo. Sostanze diverse aventi la stessa forma della
molecola integrante si differenziano per le dimensioni e per il valore degli angoli di tale forma (per esempio, il parallelepipedo può essere triclino, monoclino o con tutti gli angoli retti; tra questi ultimi vi è il cubo). Si
potevano ottenere i valori degli angoli propri della forma geometrica assunta dalla molecola integrante calcolandoli dai valori degli angoli macroscopici misurati tra le facce dei cristalli; per le dimensioni, invece, si
poteva solo avere una misura relativa, ovvero si poteva solo determinare
il rapporto tra gli spigoli che definiscono la forma geometrica. Per inciso,
il problema di determinare sperimentalmente il valore assoluto degli spigoli della cella elementare – e quindi le dimensioni di molecole e atomi
in essa contenuti – sarebbe rimasto insoluto per oltre un secolo, cioè fino
alla scoperta della diffrazione dei raggi X da parte dei cristalli fatta nel
1912 dal fisico tedesco Max von Laue (cfr. nota 9).
Come potevano le molecole costituenti (atomi) aggregarsi per formare
le diverse sostanze cristalline rispettando una delle tre forme poliedriche
indicate da Haüy per le molecole integranti? Allʼepoca di Avogadro, molti degli autori che trattavano il problema lo affrontavano su un piano puramente geometrico e per lo più ritenevano che anche le molecole
costituenti fossero dei poliedri. Nel primo volume della sua Fisica, Avogadro passa in rassegna le varie proposte, fermandosi principalmente su
quelle dei già citati Ampère (1814) e Wollaston (1813) che, ancora oggi,
appaiono essere le più ragionevoli. Questi due autori avevano supposto
che gli atomi fossero sferici (o ellissoidali) e che durante il processo di
cristallizzazione si aggregassero a formare le molecole integranti disponendosi ai vertici di poliedri compatibili con le forme geometriche stabilite da Haüy. Che tutti gli atomi fossero sferici e con un diametro
dipendente dalla loro natura chimica – cosa non sempre ammessa dai vari
autori – piaceva assai ad Avogadro. Nellʼesporre le teorie altrui, il modesto Avogadro non mette però chiaramente in evidenza le sue priorità ed a
motivo di tale suo atteggiamento corse fortemente il rischio che la legge
di cui si è celebrato il bicentenario fosse attribuita ad Ampère. Questi, nel
50 Giovanni Ferraris
suo celebrato lavoro del 1814 (cfr. Nota 12), citò la memoria di Avogadro del 1811 solo en passant, in una nota, con le seguenti sospette parole:
Depuis la rédaction de mon Mémoire, jʼai appris que M. Avogrado (sic!) avait faite de cette dernière idée la base dʼun travail sur lés proportions des éléments dans les combinaisons
chimiques.
6. Atomi, molecole e cristallografia
Gli indizi sperimentali che gli atomi di elementi diversi dovessero avere
differenti dimensioni e che la loro forma più plausibile dovesse essere quella
sferica furono acquisiti tramite indagini cristallografiche sulla materia cristallina. Queste indagini presero corpo tra il 1819 ed il 1821, quando il tedesco Eilhard Mitscherlich scoprì i fenomeni dellʼisomorfismo e del
dimorfismo (poi polimorfismo; cfr. Nota 14). Il dimorfismo era già stato discusso da Haüy nel 181218, quando riportò che il carbonato di calcio
(CaCO3) si presentava sotto due forme cristalline: calcite (trigonale) e aragonite (ortorombica). Questa osservazione sperimentale urtava però contro la
convinzione di Haüy che ogni composto chimico dovesse avere una sua specifica forma cristallina; pertanto, il padre della cristallografia – pur di non
contraddirsi − preferì concludere che calcite e aragonite avessero in qualche
modo diversa composizione chimica, magari solo a livello di impurità.
Di fronte ai lavori di Mitscherlich, Avogadro deve avere molto gioito, in
quanto vi trovava un inequivocabile supporto sperimentale alle sue idee su
atomi e molecole; ciò traspare chiaramente nella esposizione che ne fa nella
sua Fisica. Lʼisomorfismo riguarda la proprietà per cui sostanze di composizione diversa limitatamente a uno o due elementi − per esempio arseniati e
fosfati degli stessi cationi, per riferire gli esempi di Mitscherlich − cristallizzano secondo forme cristalline che differiscono solo per piccole variazioni
degli angoli tra le facce. Questa quasi identità tra le forme cristalline – isostrutturalità, diremmo oggi − porta a concludere che non solo le molecole
integranti della coppia arseniato-fosfato in esame devono avere la stessa
forma geometrica, ma che, a motivo delle seppure piccole differenze tra gli
angoli, atomi diversi (As e P in questo caso) debbano differire nelle loro dimensioni. Nel fenomeno del dimorfismo, secondo cui una sostanza di determinata composizione chimica può presentarsi fondata su molecole integranti
di forma geometrica diversa – con due diverse strutture cristalline, diremmo
oggi, Avogadro vede una prova inconfutabile che la molecola integrante deve essere costituita da atomi e che questi possono addirittura aggregarsi in
18
R.J. HAÜY, Observations sur la simplicité des lois auxquelles est soumise la structure des
cristaux, «J. des Mines», XXXI, 1812, pp. 161-200.
Amedeo Avogadro e la cristallografia 51
modi diversi, dando luogo a più forme cristalline con la stessa composizione
chimica.
A pagina 828 del volume I della Fisica Avogadro riassume con la seguente lunga (e contorta) frase il suo pensiero su atomi (molecole elementari), molecole (integranti) e forme geometriche «alla Haüy»:
Secondo le idee generali esposte sulla causa fisica della cristallizzazione, la forma delle molecole integranti, e dei cristalli
che risultano dalla loro unione dee dipendere dal numero, e
dalla disposizione delle molecole elementari, dello stesso o di
diverso genere, componenti una molecola integrante, e dalla
diversa attrazione che esse esercitano tra loro, e sul calorico
od etere che le circonda, e che dee far variare le loro distanze
relative, e quindi le dimensioni, e gli angoli dei poliedri, di cui
le molecole costituenti si suppongono formare i vertici degli
angoli solidi; o se si vuole lʼestensione, e la figura delle atmosfere che si possono concepire attorno a queste molecole costituenti.
7. Conclusioni
Ci si potrebbe chiedere come mai le evidenti relazioni tra la cristallografia, da una parte, ed i primordi della teoria atomica insieme allʼevolvere delle
discussioni sulla distinzione tra molecola (integrante) e atomo, dallʼaltra parte, siano stati ampiamente sottovalutate, se non addirittura ignorate. Darei
una risposta che, tutto sommato, è valida anche per la situazione attuale per
quanto attiene ai rapporti tra cristallografia e scienze correlate: verso la metà
del secolo XIX – almeno dopo Haüy e Bravais – la cristallografia, divenuta
una scienza sempre più complessa e specialistica, fu praticata quasi solo da
chi, essendo dedito allo studio della materia cristallina (cioè, a quel tempo,
dei minerali), non poteva farne a meno. Allo stesso tempo la chimica – specialmente dopo avere acquisito la capacità di maneggiare le reazioni chimiche – fu sempre meno legata al mondo minerale e allo stato cristallino. In
tempi recenti, tuttavia, la crescita esponenziale della scienza dei materiali ha
aperto nuovi spazi alla cristallografia, in quanto molti dei materiali tecnologicamente innovativi sono cristallini.
Lo scollamento ora ricordato è avvenuto nonostante Avogadro avesse lucidamente messo in evidenza i collegamenti tra cristallografia, chimica e fisica; però il nostro scienziato era troppo modesto e, inoltre, aveva scarsi
rapporti diretti con altri scienziati, pur seguendo egli costantemente la letteratura scientifica internazionale. Era tanto modesto che solo timidamente reagì allo scippo subito per opera di Ampère cui si è prima accennato.
Localmente poi, non aveva studenti e di conseguenza non ebbe giovani collaboratori che ne potessero continuare lʼopera. Lʼassenza di studenti alle sue
52 Giovanni Ferraris
lezioni risulta chiaramente da un documento19 recante la proposta fatta, nel
dicembre 1848, dal presidente del Consiglio Universitario Cristoforo Negri,
di rendere obbligatorio per gli studenti il corso di Fisica sublime.
Lʼopera di Avogadro, in particolare la parte cristallografica, era tanto
sconosciuta che un illustre studente dellʼateneo torinese di quegli anni, Quintino Sella (cfr. Nota 6), annoverato tra i padri fondatori della cristallografia
matematica, imparò la cristallografia solo quando, nel 1848, fu inviato alla
parigina École des Mines (per tutto il XIX secolo fu Parigi la culla della moderna cristallografia)20.
Potrebbe forse consolare lʼAvogadro cristallografo il fatto che, nella nostra era, quotidianamente il suo nome risuona nel mondo della cristallografia;
infatti, il numero N a lui intitolato entra nella relazione che, per ogni sostanza cristallina, lega il volume V della cella elementare con il numero Z di unità di formula (molecole) in essa contenute, il peso specifico δ e il peso
molecolare M:
Z = (δVN)/M.
19
Archivio storico dellʼUniversità di Torino, Lettere del Presidente, VI, 6, pp. 39-42. Avogadro era
docente presso il corso di laurea di Filosofia positiva (Fisica) che, insieme a quello di Matematica,
fece parte fino al 1848 della Facoltà di Scienze e Lettere [cfr. la Presentazione in Cl.S. ROERO (a
cura di), La facoltà di Scienze Matematiche Fisiche Naturali di Torino (1848-1998), vol. I, cit.
20
In linea di principio Quintino Sella, che a Torino frequentò il corso di laurea in Matematica con
tesi ed esame finale in Ingegneria idraulica, avrebbe potuto apprendere la cristallografia frequentando il corso di Mineralogia e Geologia tenuto da Angelo Sismonda (1807−1878); questi, comunque, nel suo corso non lasciava molto spazio alla Cristallografia. Avogadro e Sismonda furono
relatori di note presentate da Sella allʼAccademia delle Scienze di Torino.
Istituzioni scientifiche e scienziati piemontesi
ai tempi di Amedeo Avogadro
SILVANO MONTALDO*
1. Scienziati nella bufera
La sociologia della scienza pone lʼaccento sulle forme di istituzionalizzazione della ricerca e di professionalizzazione dello scienziato, indicando con
la prima espressione il processo attraverso il quale la scienza ha costruito le
sue istituzioni, ovvero le accademie, le società scientifiche, i laboratori e gli
istituti di ricerca; con professionalizzazione dello scienziato si intende invece
il processo, che si svolse prevalentemente nellʼOttocento, sfociato nella trasformazione dellʼattività di ricerca in una carriera regolare1. Sotto questi due
aspetti, la vicenda delle istituzioni piemontesi preposte allo sviluppo delle
conoscenze scientifiche e degli uomini che le animarono negli anni di Amedeo Avogadro offre un quadro di notevole interesse, di cui si tenterà di dare
una ricostruzione complessiva, ancorché sintetica.
Nel 1776, alla nascita di Avogadro, Torino era parte della comunità internazionale che condivideva idee e valori del movimento scientifico, la
Nuova Atlantide immaginata da Condorcet, la repubblica delle scienze appoggiata sul reticolo delle accademie, ispirata allʼideale del bene pubblico,
impegnato nel perseguimento dellʼutilità e della verità. Se al vertice di questa comunità internazionale vi erano Parigi, Londra, Berlino, San Pietroburgo e Copenaghen, con le loro istituzioni scientifiche, Torino si situava al
secondo livello, insieme ad altre città, come Bordeaux, Edimburgo, Gottinga, e guidava il rinascimento scientifico italiano insieme alla Pavia di Volta e
Spallanzani2. Tre erano i suoi punti di forza nel campo della ricerca scientifica: lʼUniversità, riorganizzata intorno al 1720 come luogo di formazione e
controllo per le professioni togate e per una serie di professioni minori;
lʼArsenale e le scuole militari; infine lʼassociazionismo scientifico privato.
Nel 1729 era stata istituita una facoltà autonoma per le Arti, che pertanto
venivano separate dalla facoltà di Medicina, di cui avevano fatto parte fino
ad allora, ma con la quale continuarono a mantenere uno stretto legame, che
ne condizionerà a lungo gli indirizzi di ricerca. La nuova facoltà aveva fun*
Dipartimento di Studi Storici, Università di Torino, Via SantʼOttavio 20, 10124 Torino.
Cfr. P. ROSSI, Prefazione, in V. FERRONE, P. ROSSI, Lo scienziato nellʼetà moderna, Roma-Bari,
Laterza, 1994, p. IX.
2
Cfr. V. FERRONE, Lʼetà dei lumi, ivi, pp. 79-81, 83-84; B. MAFFIODO, I borghesi taumaturghi.
Medici, cultura scientifica e società in Piemonte fra crisi dellʼantico regime ed età napoleonica,
Firenze, Olschki, 1996, pp. 29-31.
1
54 Silvano Montaldo
zioni diverse: preparava gli insegnanti delle scuole regie provinciali; era
propedeutica allʼaccesso alle facoltà di Legge, Teologia e Medicina; infine
formava una serie di figure professionali non ancora dotate di un proprio
corso di studi, quali architetti, misuratori e agrimensori. La facoltà delle Arti
disponeva di un Collegio formato da trenta membri ordinari oltre ai docenti e
allʼaltezza del 1776 era dotata delle cattedre di matematica – allʼepoca formata
da un complesso di discipline – di geometria, di fisica sperimentale – che era
stata separata dallʼetica nel 1738 – e degli insegnamenti di logica, metafisica,
filosofia morale, eloquenza e lingua ebraica. Nonostante lʼaffastellamento di discipline scientifiche e umanistiche, esistevano le premesse affinché questa
facoltà evolvesse verso un livello di insegnamento superiore, soprattutto nel
caso della matematica e della fisica sperimentale, cattedra dotata dal 1721 di
un gabinetto per le dimostrazioni e portata a livelli di eccellenza dal padre
scolopio Giambattista Beccaria. Ma vi erano diversi freni a questo sviluppo,
poiché proprio in fisica non era stato differenziato lʼinsegnamento tra un livello liceale e uno universitario; inoltre, mentre rimaneva il tradizionale collegamento con la medicina, non si era creato un legame istituzionale con la
matematica, e questo spiega il progressivo affermarsi, tra i fisici che facevano capo allʼUniversità torinese, di temi relativi allo studio dei fenomeni vitali e in particolare dellʼelettricità animale e medica, soprattutto con padre
Anton Maria Vassalli Eandi3. Ancora più grave era un terzo problema, comune a tutto lʼAteneo subalpino, quello posto dalla ragion di Stato, che chiuse progressivamente gli spazi di discussione ed esercitò un ferreo controllo
sugli insegnanti. Furono i docenti delle facoltà di Teologia e di Legge a essere i più esposti agli interventi del potere regio, ma anche alcuni titolari di cattedre scientifiche non ne andarono esenti: Joseph Roma, primo docente di
fisica sperimentale, accusato di ateismo, lasciò lʼinsegnamento; Giovanni Ambrogio Bertrandi, considerato il fondatore della chirurgia piemontese, ma spesso osteggiato per i risvolti materialistici del suo insegnamento, riuscì a
resistere, per poi scomparire prematuramente nel 1765, ma non così Giovanni
Battista Carburi, il maggiore dei tre celebri fratelli di Cefalonia, che per primo
introdusse a Torino la pratica delle cartelle cliniche autoptiche, il quale lasciò
la cattedra nel 17704. Pertanto, lʼUniversità di Torino, che nella prima metà
del XVIII secolo aveva rappresentato un modello sul piano organizzativo e
che per numero di studenti era la terza nella Penisola, dopo quelle di Napoli
e di Roma, pur essendo dotata di nuove strutture di ricerca, quali lʼOrto bo3
Cfr. A. FERRARESI, Stato, scienza, amministrazione, saperi. La formazione degli ingegneri in
Piemonte dallʼantico regime allʼUnità dʼItalia, Bologna, il Mulino, 2004, pp. 47-51, 68-73.
4
Cfr. D. CARPANETTO, Lʼuniversità nel XVIII secolo, in G. RICUPERATI (a cura di), Dalla città razionale
alla crisi dello Stato dʼAntico Regime (1730-1798), vol. V della Storia di Torino, Torino, Einaudi, 2002,
pp. 188-189, 195-196. Cfr. P. DELPIANO, Il trono e la cattedra. Istruzione e formazione dellʼélite nel
Piemonte del Settecento, Torino, Deputazione subalpina di storia patria, 1997, pp. 51-61.
Istituzioni scientifiche e scienziati piemontesi ai tempi di Amedeo Avogadro 55
tanico, il Teatro anatomico, la Specola, in cui operavano docenti di fama internazionale come Beccaria, Gianfrancesco Cigna e Carlo Allioni, intorno al
1776 stava perdendo terreno non solo rispetto agli altri centri europei più
importanti, ma anche di fronte a quelli italiani5. La vicenda della chimica è
esemplare: proprio nel 1776 questa disciplina, che non era ancora insegnata
in Ateneo, avrebbe dovuto essere affidata a Vittorio Amedeo Gioanetti, nominato docente ordinario, ma la cattedra non fu mai attivata per
lʼopposizione del capo del Magistrato della riforma, che sovrintendeva al sistema degli studi6.
Al decennio successivo alla rifondazione dellʼUniversità di Torino risale
la creazione di un rapporto organico tra scienza e apparato militare: nel 1738
iniziò la costruzione del nuovo, grandioso Arsenale e lʼanno seguente furono
istituite le Reali Scuole teoriche e pratiche di artiglieria e fortificazioni, per
la formazione degli ufficiali di artiglieria e degli ingegneri militari. Nelle
Scuole insegnarono grandi studiosi, come Luigi Lagrange, che dal 1751 ebbero a disposizione laboratori di chimica, metallurgia e balistica impiantati
allʼArsenale. Si creò una specifica cultura tecnico-scientifica in campo militare, che si esplicava nella gestione della Regia Fonderia per la produzione
delle armi e nella Regia Polveriera, ma anche altri settori produttivi ne beneficiarono, come quello minerario. Nel 1752, sempre presso lʼArsenale, fu istituita una scuola, con laboratorio e museo, diretta da Benedetto Spirito
Nicolis di Robilant, che fu allʼorigine della cultura mineraria sabauda7.
Terzo punto di forza, radicato nella società civile, ma comunque intrecciato con il mondo dei militari tecnocrati e di alcuni insegnamenti universitari, fu lʼambiente della Società privata, lʼaccademia scientifica fondata nel
1757 a palazzo San Germano dal conte Angelo Saluzzo di Monesiglio, insieme al medico Cigna e al matematico Lagrange. Il sodalizio, dotato di un
proprio laboratorio, fu presto circondato da un prestigio internazionale, soprattutto grazie alla eccezionali capacità di Lagrange – il quale nel 1766 si
trasferì a Berlino come direttore della sezione di matematica dellʼAccademia
prussiana – e alla partecipazione su fronti diversi di alcuni suoi membri ai dibattiti che prepararono e accompagnarono la rivoluzione chimica. Nel 1776 la
Società privata non godeva ancora della protezione regia, come accadeva invece ad altre accademie europee, ma con lʼascesa al trono di Vittorio Amedeo
III, avvenuta due anni prima, si erano create le premesse politiche perché il riconoscimento del sovrano fosse concesso, seppur con qualche esitazione.
Nacque così, nel 1783, lʼAccademia Reale delle Scienze di Torino, che usufruiva di una sede prestigiosa, nel palazzo del Collegio dei nobili, di laboratori
5
Cfr. D. CARPANETTO, Lʼuniversità nel XVIII secolo, cit., pp. 204-207.
Cfr. A. FERRARESI, Stato, scienza, amministrazione, saperi, cit., p. 74, in nota.
7
Ivi, pp. 25-32.
6
56 Silvano Montaldo
e di una dotazione annua di 12.000 lire da parte del sovrano, non piccola se
commisurata alle dimensioni dello Stato sabaudo, ma certo poca cosa rispetto
alle 250.000 lire che ogni anno la corona francese versava allʼAcadémie royale
des sciences. Il potere sabaudo sembrava tuttavia aver accettato lʼidea, sostenuta da Saluzzo, che lʼAccademia non doveva avere un ruolo propulsivo solo
nellʼambito della ricerca scientifica, ma che essa potesse suggerire al governo
le riforme necessarie per razionalizzare e modernizzare lo Stato, in unʼetà in
cui si assisteva a unʼespansione della società civile, caratterizzata dalla nascita
di altre associazioni, tra cui le logge massoniche, e di periodici scientifici8.
Nel 1785 Gustavo III, re di Svezia, veniva accolto dagli accademici torinesi
e nasceva la Società agraria, che nel 1789 ottenne la protezione del sovrano,
il quale, da quellʼanno, iniziò a presenziare alla cerimonia di apertura dei lavori dellʼAccademia delle Scienze, che si svolgevano nel salone delle adunanze appositamente ristrutturato come tempio di Salomone. Lʼavvenimento,
rimarcato da Vittorio Amedeo III con il dono di un suo splendido ritratto, eseguito da Giuseppe Mazzola, e della Specola per le osservazioni astronomiche, sanciva di fatto il riconoscimento della pubblica utilità delle scienze e,
insieme, la definitiva presa di rango dellʼintellettualità scientifica subalpina,
che ben poteva riconoscersi nel discorso del presidente dellʼAccademia, il conte Morozzo, in cui riecheggiavano le idee-forza del movimento scientifico europeo9. Ma si era ormai arrivati alla fine di quella breve stagione, in cui i valori
dellʼIlluminismo e lʼassociazionismo massonico avevano portato a una politicizzazione della cultura, non esente da spiriti repubblicani10. Sotto la crescente
preoccupazione per gli eventi francesi, nel 1792, con lʼinizio della guerra, le
lezioni allʼUniversità furono interrotte, così come le pubblicazioni dellʼAccademia delle Scienze, le cui riunioni si diradarono notevolmente, mentre le logge e le società letterarie furono chiuse con regio decreto nel 1794.
Con la crisi dellʼantico regime sabaudo iniziò una fase nuova, che influì
fortemente sulla vita delle istituzioni scientifiche, poiché molti degli scienziati attivi in Piemonte parteciparono con ruoli di primo piano alla lotta politica su posizioni repubblicane, la cui accettazione era stata preparata negli
anni precedenti. Non solo i più giovani, ma anche studiosi che erano cresciu8
Cfr. V. FERRONE, La nuova Atlantide e i Lumi. Scienza e politica nel Piemonte di Vittorio Amedeo III, Torino, Albert Meynier, 1988, pp. 109-135.
9
Cfr. V. FERRONE, LʼAccademia Reale delle Scienze. Sociabilità culturale e identità del «letterato» nella
Torino dei Lumi di Vittorio Amedeo III, in G. RICUPERATI (a cura di), Dalla città razionale alla crisi dello Stato dʼAntico Regime (1730-1798), cit., pp. 691-695, 722; B. MAFFIODO, I borghesi taumaturghi, cit.,
pp. 29-32; E. BORGI, 400 lire ben spese? Costruzione e storia della specola dellʼAccademia delle Scienze, in Osservar le stelle. 250 anni di astronomia a Torino. La storia e gli strumenti dellʼOsservatorio
Astronomico di Torino, Cinisello Balsamo, Silvana editoriale, 2009, p. 129.
10
Sul dibattito riguardo al rapporto tra illuminismo, repubblicanesimo e rivoluzione in Italia
cfr. V. CRISCUOLO, Albori di democrazia nellʼItalia in rivoluzione (1792-1802), Milano, Franco
Angeli, 2006, pp. 28-67.
Istituzioni scientifiche e scienziati piemontesi ai tempi di Amedeo Avogadro 57
ti allʼombra dellʼantico regime ed erano, verosimilmente, ben integrati nelle
sue strutture, aderirono alla rivoluzione, che sembrava garantire loro un ruolo eminente non più solo nei consigli del principe, ma nellʼattività di governo. Il 9 giugno 1796 il matematico Gaspard Monge, di passaggio a Torino
con lʼincarico di dirigere la requisizione delle opere dʼarte italiane destinate
ad arricchire il patrimonio della Repubblica, incontrò «parecchi uomini di
scienza entusiasti della Rivoluzione francese»11. Dopo lʼabdicazione di Carlo
Emanuele IV, nel preambolo di un decreto del governo provvisorio piemontese, si poteva leggere:
In una società dʼuomini selvaggi, seppure con tale nome si può
chiamare la loro comonunanza, le scienze potrebbero forse riuscire dannose, dando loro quellʼattività irrequieta e quellʼamor
proprio dai quali ogni vizio dellʼuomo sociale procede. Ma
nelle strette società civili esse sono di tutta necessità perché in
esse non sorgano tiranni; perché disvelando le scienze i diritti
naturali dellʼuomo mostrano nello stesso tempo ai principi e ai
governatori delle nazioni i limiti della loro autorità. E in vero
non furon essi gli scienziati che prepararono da lungo tempo e
12
sostennero ed a buon fine condussero la rivoluzione francese?
Se forse non li prepararono da lungo tempo, certamente gli scienziati
piemontesi non furono spettatori passivi degli avvenimenti di quella fine secolo: il chimico Costanzo Benedetto Bonvicino fu membro della prima municipalità repubblicana di Torino e presidente della seconda; il giurista e noto
botanico Luigi Colla fu membro del primo governo provvisorio piemontese
e nel 1799 partecipò alla repressione dellʼinsorgenza antifrancese nella provincia di Acqui; al governo provvisorio appartennero anche il chimico Giovanni Antonio Giobert, che fu direttore della Zecca, commissario per
lʼannessione alla Francia e segretario delle due municipalità repubblicane di
Torino, e il botanico Giovanni Battista Balbis, già coinvolto nella congiura
repubblicana del 1794, di cui aveva fatto parte pure il medico collegiato Carlo Botta, organizzata da due club che avevano sede nelle case dei medici
Ferdinando Barolo e Guglielmo Cerise; lʼanatomista Carlo Giulio fece parte
con Botta della Commissione esecutiva; il medico Michele Buniva fu presidente dellʼAdunanza patriottica, società popolare istituita nellʼUniversità,
tentò di organizzare unʼestrema difesa contro lʼavanzata degli austro-russi
11
Lettera di Monge a Catherine Huart, 21 pratile dellʼanno 4, cit. in G. MONGE, DallʼItalia (17961798), a cura di S. CARDINALI e L. PEPE, Palermo, Sellerio, 1993, p. 58.
12
Rapporto del Comitato degli affari interni, preambolo al decreto del governo provvisorio piemontese 3 piovoso anno 7° (22 gennaio 1799), cit. in U. LEVRA, La nascita, i primi passi: organizzazione istituzionale e ordinamento didattico (1792-1862), in I. LANA (a cura di), Storia della Facoltà
di Lettere e Filosofia dellʼUniversità di Torino, Firenze, Olschki, 2000, p. 37.
58 Silvano Montaldo
arringando gli allievi ai piedi dellʼalbero della libertà piantato nel cortile
dellʼAteneo e fu maire adjoint della terza municipalità repubblicana; studioso di elettricità e tra i primi a sperimentare la vaiolizzazione in Piemonte,
Giuseppe Gardini ebbe lo stesso incarico in un club politico ad Alba13.
Lʼinsegnamento e la ricerca scientifica furono investiti dalla forte progettualità
che caratterizzò i mesi della prima esperienza repubblicana. Il celebre Allioni
presiedette la Commissione di scienze e arti che elaborò un progetto di riforma
dellʼUniversità, volta a unificare ricerca e didattica ed estendere il numero
delle discipline istituzionalizzate, attraverso uno stretto collegamento tra Ateneo e Accademia delle Scienze14. Questʼultima, tre giorni dopo la partenza
della corte per lʼesilio, stabilì di inviare una deputazione presso i comandanti
francesi e il governo provvisorio, onde «significar loro i sentimenti di riconoscenza e lo zelo» dellʼistituzione. Stando alla massiccia adesione degli accademici alla deputazione, alle parole del presidente, alla partecipazione alla
riunione accademica del 13 gennaio 1799 da parte del commissario del governo Eymar, che poi venne nominato socio del sodalizio, e di alti ufficiali
francesi, la decisione di mutare il nome del consesso in «Accademia piemontese delle scienze», sotto il motto «Libertà, Virtù, Eguaglianza», non fu solo
dettata da opportunismo15. Inoltre, su richiesta del governo provvisorio, «dopo varie riflessioni ed eccitamenti», ma con «ballottazione» segreta,
lʼAccademia diede allʼunanimità il proprio voto allʼunione del Piemonte con
la Francia16. Pochi mesi più tardi, allʼarrivo dellʼarmata austro-russa, mentre
Colla, Gardini e Giobert furono arrestati, altri loro colleghi seguirono
lʼesercito in ritirata e vissero per alcuni mesi al di là delle Alpi, dove rinsaldarono i legami con gli scienziati francesi, e dopo Marengo rientrarono a
Torino, potendo contare su un certo credito verso i nuovi governanti, che
13
Cfr. F. ABBRI, Giobert, Giovanni Antonio, in Dizionario biografico degli italiani, vol. 55, Roma,
Istituto dellʼEnciclopedia italiana, 2000, pp. 92-94; D. CARPANETTO, La politica e la professione.
La scuola di medicina a Torino nellʼetà francese, in «Annali di Storia delle Università italiane»,
n. 5, 2001, pp. 83-85; ID., Buniva riformatore della medicina e delle professioni sanitarie in età
francese, in G. SLAVERIO (a cura di), Michele Buniva introduttore della vaccinazione in Piemonte.
Scienza e sanità tra rivoluzione e restaurazione, Atti del convegno di studi, Pinerolo, 14 ottobre
2000, Torino, Archivio Scientifico e Tecnologico dellʼUniversità di Torino, 2002, pp. 27-72; ID.,
Repubblica e rivoluzione, in S. MONTALDO (a cura di), Le Langhe di Camillo Cavour. Dai feudi
allʼItalia unita, Milano, Skira, 2011, pp. 53-54, 57-58; B. MAFFIODO, I borghesi taumaturghi, cit.,
passim; E. GENTA TERNAVASIO, Dal giacobinismo al costituzionalismo: Luigi Colla giurista, in
I. BENIAMINO (a cura di), Luigi Colla. Piante dal mondo nellʼOrto botanico di primo ʼ800 a Rivoli,
Rivoli, Città di Rivoli – Neos Edizioni, 2011, pp. 11-12.
14
Cfr. U. LEVRA, La nascita, i primi passi: organizzazione istituzionale e ordinamento didattico
(1792-1862), cit., pp. 39-41.
15
Archivio dellʼAccademia delle Scienze (dʼora in poi AAST), Verbali della classe di fisica,
vol. II, 1790-1800, riunioni del 22 e 26 frimaio, 3, 14 e 24 nevoso, 5 piovoso anno 7° (12, 16, 23
dicembre 1798, 3, 13 e 24 gennaio 1799).
16
Ivi, riunione del 18 piovoso anno 7° (6 febbraio 1799).
Istituzioni scientifiche e scienziati piemontesi ai tempi di Amedeo Avogadro 59
permise loro di riorganizzare lʼUniversità, pur in un contesto politico di rapida francesizzazione e di graduale emarginazione dei democratici17. Di
nuovo la vicenda della cattedra di chimica è esemplare, perché questo insegnamento fu istituito per la prima volta nel 1798 dal governo provvisorio e
poi definitivamente nel 1800, come chimica farmaceutica. Il primo titolare
dellʼinsegnamento fu Bonvicino: eletto al corpo legislativo, amico di Fourcroy e Chaptal, fu il leader di quella che gli avversari definirono la cabale
des médecins che dominò allʼinizio del secolo lʼAteneo e lʼAccademia.
Lʼanno seguente fu attivata anche la cattedra di chimica generale, affidata a
Giobert. Il documento che sintetizza il progetto culturale di questi scienziatipolitici è il Regolamento per la scuola di medicina di Torino, del 1803, volto
alla istituzione di una struttura didattica che cambiava in profondità lʼassetto
degli studi, attraverso lʼunificazione della medicina e della chirurgia e
lʼaccentramento di tutti gli istituti di ricerca necessari alla formazione della
nuova figura professionale del medico-chirurgo: Orto botanico, Museo di
storia naturale, laboratorio di chimica, cliniche ospedaliere, apparati per le
dimostrazioni anatomiche, biblioteca specializzata18.
Questo progetto non si realizzò a causa della riforma che nel 1805 impose
in tutto lʼimpero francese un sistema uniforme di istruzione universitaria.
Medicina, una delle otto scuole speciali in cui fu ripartita lʼuniversità, perse
autonomia e i suoi docenti dovettero confrontarsi, dal settembre 1805, con il
nuovo rettore dellʼAteneo torinese, Prospero Balbo, già ambasciatore sabaudo e membro dellʼAccademia Reale delle Scienze, il quale avviò unʼabile
azione di ridimensionamento della forza degli scienziati-politici19. Emergeva
però la scuola di Scienze, nata dalla soppressione della facoltà delle Arti e
dalla separazione con le materie umanistiche, che veniva dotata di unʼampia
gamma di insegnamenti, alcuni inediti a Torino, come zoologia, anatomia
comparata, mineralogia, meccanica, astronomia, affidati a docenti di valore
quali Andrea Bonelli, Giovanni Plana, Stefano Borson, Vassalli Eandi, selezionati attraverso un pubblico concorso e non più con il vischioso sistema
della cooptazione dai collegi delle facoltà . La ricerca scientifica nellʼateneo
torinese fu sicuramente rafforzata nel periodo napoleonico, quando quella
subalpina era la seconda, per numero di cattedre e di studenti, tra le università dellʼimpero francese. Lo stesso discorso vale per lʼAccademia delle
Scienze, riaperta già nel periodo degli austro-russi dal conte Morozzo, che si
17
Sul periodo francese di Botta e Buniva cfr. A. M. RAO, Esuli. Lʼemigrazione politica italiana in
Francia (1792-1802), Prefazione di G. GALASSO, Napoli, Guida Editori, 1992, passim.
18
Cfr. D. CARPANETTO, La politica e la professione. La scuola di medicina a Torino nellʼetà francese, cit., pp. 90-91.
19
Cfr. G. P. ROMAGNANI, Prospero Balbo intellettuale e uomo di stato (1762-1837), vol. II, Da
Napoleone a Carlo Alberto (1800-1837), Torino, Deputazione subalpina di storia patria, 1990,
pp. 37-123.
60 Silvano Montaldo
commosse nel presentare i volumi del Voyage de La Perouse autour du
monde, che erano stati donati al sodalizio da Carlo Emanuele IV al momento
di partire per lʼesilio20. Al ritorno dei francesi furono però gli scienziati più
vicini al nuovo corso politico a riorganizzare lʼAccademia, stabilita il
17 gennaio 1801 in Accademia nazionale di scienze, letteratura e belle arti
dalla Commissione esecutiva, che triplicò il finanziamento e raddoppiò il
numero degli accademici residenti, suddividendoli in due classi, una di fisica
e matematica, lʼaltra di lettere e arti, sul modello dellʼInstitut national di Parigi21. Bonvicino e Giobert furono eletti, rispettivamente, presidente e segretario
della prima classe, mentre Gaetano Emanuele Bava di San Paolo e Vittorio
Marenco lo erano della seconda22. La fase repubblicana si sarebbe chiusa ben
presto, qui come altrove nei territori controllati dai francesi: Napoleone nel
1804 fu acclamato presidente perpetuo del sodalizio che, con decreto 7 giugno
1805 fu trasformato in Académie Impériale. In una nota a margine della supplica presentata a Napoleone, di passaggio a Torino, il ministro dellʼInterno
Champagny aveva osservato che «les service quʼelle à rendu aux sciences, le
dévouement qui anime ses membres pour la personne de Votre Majesté, lui
donnent, Sire, quelques droit à votre bienveillance». E aveva aggiunto, per
motivare il suo assenso alla richiesta, sia la «justice politique» nei confronti
di una città che aveva perso il rango di capitale, sia il fatto che
unir plus fortement encore à Votre Trône les hommes éclairés
du cidevant Piémont cʼest avec eux y rattacher plus fortement
aussi les principaux mobiles de lʼopinion; la science honorée
partout de la protection de Votre Majesté se charge partout
aussi du Dépôt de sa Gloire23.
I nuovi statuti del sodalizio furono preparati da una commissione formata da
Angelo Saluzzo e da suo figlio Cesare, da Tommaso Valperga di Caluso, Vassalli Eandi e Balbo: gli esponenti più colti di una nobiltà che sotto lʼimpero
francese stava riassumendo il controllo delle istituzioni piemontesi24. La
produzione di studi in questi anni da parte degli accademici fu tuttavia im20
AAST, Verbali della classe di fisica, vol. II, 1790-1800, riunione del 7 aprile 1799.
Cfr. L. PEPE, Istituti nazionali, accademie e società scientifiche nellʼEuropa di Napoleone, Firenze, Olschki, 2005, p. 259.
22
Il decreto del governo è riportato sulle prime tre pagine del Verbali delle classi unite, vol. I,
1801-1806. La prima stesura del Regolamento per lʼAccademia nazionale di Torino fu inserita nel
verbale della riunione del 15 gennaio 1801. Non si trova invece nella Raccolta delle leggi, provvidenze, e manifesti pubblicati dai governi francese, e provvisorio e dalla municipalità di Torino,
unitamente alle lettere pastorali del cittadino Arcivescovo di Torino, Torino, Davico, anno 7°,
vol. I (1798−1799).
23
Archives Nationales, Paris, AF/IV/1050, Rapport à lʼEmpereur, Turin, 8 floreal an XIII.
24
Cfr. G. P. ROMAGNANI, Prospero Balbo intellettuale e uomo di stato (1762-1837), vol. II, cit.,
pp. 127-129.
21
Istituzioni scientifiche e scienziati piemontesi ai tempi di Amedeo Avogadro 61
ponente: tra il 1801 e il 1813 apparvero ben 11 volumi di memorie, di oltre
500 pagine ciascuno25.
Se dunque Ateneo e Accademia trassero beneficio dal cambio di regime,
non fu così per il terzo polo della ricerca scientifica piemontese, quello degli
apparati produttivi dellʼindustria bellica e del sistema di istruzione militare.
Le Regie Scuole di artiglieria e fortificazioni furono chiuse; il personale addetto alla produzione di armi venne allontanato e le sue competenze disperse.
LʼArsenale e la fonderia dei Savoia furono radicalmente rinnovati con nuovi
impianti e tecnologia francese. Torino fu uno dei centri dellʼindustria bellica
dellʼimpero napoleonico, ma i piemontesi – persino uno scienziato allineato
come Giobert – vennero esclusi dai ruoli direttivi, una scelta volta a tutelare
il segreto delle conoscenze tecnologiche in campo militare. La volontà di
non divulgare i segreti circa la produzione di armi e proiettili fu ribadita nel
1814, quando i francesi sconfitti smantellarono gli impianti dellʼArsenale,
riportandoli al di là delle Alpi, e consegnarono a Vittorio Emanuele I una scatola vuota26. La distruzione della tecnologia e della scienza militare sabauda
segnò una svolta per gli studiosi piemontesi, poiché il periodo francese pose
fine a quella osmosi di conoscenze tra campo militare e campo civile che era
anche una circolazione e una compresenza di uomini e idee di cui aveva beneficato la ricerca scientifica torinese, la quale da allora e per decenni assunse un
indirizzo applicativo in campo civile27. Questa dispersione di competenze fu
però compensata dal fatto che i migliori studenti piemontesi poterono accedere
allʼÉcole polytechnique, la nuova scuola di lavori pubblici ad alto contenuto
tecnico-scientifico creata nel 1794-95: ben 23 piemontesi, tra cui Plana, Carlo Bernardo Mosca, Giovanni Antonio Carbonazzi, Charles Despine, Giuseppe Domenico Botto – ovvero alcune delle maggiori personalità
scientifiche piemontesi del primo Ottocento – la frequentarono negli anni
dellʼannessione. Non bisogna trascurare anche il fatto che nella formazione
di una ricca personalità scientifica come quella di Alberto La Marmora fu
decisivo il periodo trascorso alla scuola militare di Fontainebleu, fucina
dellʼufficialità napoleonica28. Altro aspetto che va sottolineato è lʼincidenza
della politica di lavori pubblici dellʼImpero, che in Piemonte fu particolar25
Cfr. L. PEPE, Istituti nazionali, accademie e società scientifiche nellʼEuropa di Napoleone, cit.,
p. 263; A. CONTE, L. GIACARDI, La matematica a Torino, in G. BRACCO (a cura di), Ville de Turin
1798-1814, Torino, Archivio storico della Città di Torino, 1990, pp. 281-325.
26
Cfr. V. MARCHIS, Ingegneri e soldati: lʼArsenale di Torino come baricentro di uno Stato tecnocratico, in G. RICUPERATI (a cura di), Dalla città razionale alla crisi dello Stato dʼAntico Regime
(1730-1798), cit., pp. 753-754.
27
Cfr. M. CIARDI, Reazioni tricolori. Aspetti della chimica italiana nellʼetà del Risorgimento, Milano, Franco Angeli, 2010, p. 53.
28
Cfr. S. CAVICCHIOLI, Alberto La Marmora: dallʼesplorazione della Sardegna al Senato del Regno dʼItalia, in EAD. (a cura di), Una famiglia nel Risorgimento. I La Marmora dal Piemonte
allʼItalia, Biella, Eventi & Progetti Editore, 2011, p. 39.
62 Silvano Montaldo
mente intensa in quanto nei dipartimenti subalpini passavano le comunicazioni da e verso la penisola italiana. Ciò permise a ingegneri, architetti e funzionari piemontesi di entrare in contatto con lʼingegneria francese e di
assorbirne la grande esperienza tecnica e direttiva29.
2. La scienza restaurata
Il 1814 segnò un altro punto di svolta per le istituzioni scientifiche
piemontesi. Se Napoleone aveva disperso e cancellato le conoscenze tecnico-scientifiche in campo militare, fu Vittorio Emanuele I a colpire duramente lʼUniversità, causando un regresso nel processo di istituzionalizzazione
della scienza e di professionalizzazione dello scienziato in Piemonte.
LʼAteneo imperiale venne smantellato: su 37 docenti in servizio alla caduta
dellʼimpero, solo 13 furono confermati dal governo sabaudo. Oltre alla soppressione di molte cattedre, venne ripristinata lʼorganizzazione settecentesca,
già allʼepoca attardata, che annullò la più moderna suddivisione del sapere attuata in epoca francese. Tornò la separazione tra medicina e chirurgia, che non
aveva altre giustificazioni se non quella di costituire una barriera per lʼaccesso
alla professione medica; tornò lʼantica facoltà delle Arti, sia pure con un ventaglio di discipline più ampio rispetto al XVIII secolo. Il danno più grave fu
però, di nuovo, la dispersione delle competenze: molti dei sostituti, scelti in
base a relazioni personali e senza subire alcun esame che ne accertasse le capacità didattiche e gli interessi scientifici, furono tratti dalla scuola o dalla libera professione30. La Scuola di Medicina fu la più danneggiata, con 7 professori
su 8 epurati, poiché al suo interno si erano annidati gli uomini più legati al Triennio repubblicano. Balbis emigrò in Francia, dove divenne direttore dellʼOrto
botanico di Lione; Giobert, che aveva un passato politico compromettente,
venne temporaneamente epurato, ma la stessa sorte toccò pure al moderato abate Vassalli Eandi. La mannaia della Restaurazione si accanì soprattutto con
Buniva, lo studioso filantropo che aveva riformato la sanità piemontese e devoluto un enorme impegno nelle campagne di vaccinazione31. Buniva subì una
specie di ergastolo accademico: cacciato dallʼUniversità, non fu riammesso neppure allʼAccademia delle Scienze dove, grazie alla presidenza di Balbo, negli
anni successivi si era potuto porre rimedio alla drastica epurazione che pure
questa istituzione aveva subito nel 181532. Anche al di là delle Alpi il gover29
Cfr. A. FERRARESI, Stato, scienza, amministrazione, saperi, cit., pp. 114-121.
Cfr. S. MONTALDO, Università ed accademie: le scienze naturali, matematiche, fisiologiche e
mediche, in U. LEVRA (a cura di), La città nel Risorgimento (1798-1864), vol. VI della Storia di
Torino, Torino, Einaudi, 2000, pp. 643-644.
31
Cfr. D. CARPANETTO, Il pregiudizio sconfitto. La vaccinazione in Piemonte nellʼetà francese
1800-1814, con un appendice di Documenti a cura di G. ACTIS ALESINA, D. CARPANETTO, M. FERRO, Pinerolo, Centro Studi Buniviani, 2004, pp. 43-128.
32
Ivi, pp. 148-149.
30
Istituzioni scientifiche e scienziati piemontesi ai tempi di Amedeo Avogadro 63
no restaurato aveva compiuto delle scelte analoghe nei confronti di alcuni
degli scienziati che avevano maggiormente collaborato con la Rivoluzione e
lʼImpero, ma il regolamento di conti sembrerebbe aver assunto maggiore intensità nel piccolo regno subalpino. Inoltre, al contrario che in Francia, a Sud
delle Alpi lʼallontanamento degli scienziati fu accompagnato, dopo i moti
del 1821, da un pesante giro di vite sul sistema scolastico, che assunse i toni
di una vera e propria politica culturale marcatamente oscurantista, sostenuta
dagli ambienti dellʼAmicizia Cattolica, lʼassociazione del marchese Cesare
dʼAzeglio, che si ispirava agli ideali del pensiero antilluministico di Sigismondo Gerdil e Joseph De Maistre. Questʼultimo, nelle Soirées de SaintPétersbourg, apparse postume nel 1821 a Parigi, scagliò una veemente condanna verso le scienze esatte e i loro addetti33. «La religion est lʼaromate qui
empêche la science de se corrompre»: è uno dei motti del savoiardo che
compare sul frontespizio di varie annate dellʼ«Amico dʼItalia», il periodico
dellʼAmicizia, pubblicato dalla Stamperia Reale dal 1822 al 1828. Sostenitore del legittimismo teocratico e dellʼinfallibilità pontificia, lʼ«Amico
dʼItalia» diede vita, nei confronti del movimento scientifico, a unʼoffensiva
cattolica che aveva altri punti di forza a Modena, con il matematico apologetico Paolo Ruffini e monsignor Giuseppe Baraldi; a Napoli, con il vescovo
Francesco Colangelo; e a Milano con Gabrio Piola, assertore con Ruffini di
una teoria spiritualistica della matematica che influenzò profondamente Antonio Rosmini34. LʼUniversità di Torino visse tempi difficili per almeno un
ventennio, con ripetute chiusure, dispersione di parte degli insegnamenti e
del corpo studentesco in provincia, dove la loro presenza sollevava minori
timori, soppressione di cattedre, controllo asfissiante su opinioni, comportamento, condotta religiosa, tanto da far passare in secondo piano anche quei
punti di forza che indubbiamente continuavano a esistere. Nel 1814 era rientrato a Torino dalla Sardegna Luigi Rolando, autore di uno studio fondamentale sulla struttura del cervello, il quale ottenne una delle cattedre rese
vacanti dallʼepurazione. Giobert fu reintegrato e sempre grazie a Balbo fu
istituita per la prima volta la cattedra di fisica sublime, assegnata ad Avogadro. Si introduceva così un indirizzo completamente nuovo nello studio delle
discipline sperimentali in Piemonte, ma questi passi in avanti furono in gran
parte cancellati durante la repressione che seguì alla sconfitta dei moti del
33
Cfr. M. CIARDI, Reazioni tricolori, cit., pp. 53-61.
Cfr. P. REDONDI, Cultura e scienza dallʼilluminismo al positivismo, in G. MICHELI (a cura di),
Scienza e tecnica nella cultura e nella società dal Rinascimento a oggi, Annali, 3, della Storia
dʼItalia, Torino, Einaudi, 1980, pp. 711-718; M. CIARDI, Reazioni tricolori, cit., p. 54; M. TORRINI,
Il caso Galileo nellʼapologetica cattolica tra Ottocento e Novecento, in «Galilæana», a. VII (2010),
pp. 66-70. Sui rapporti tra il marchese dʼAzeglio e Ruffini cfr. F. BARBIERI, F. CATTELANI DEGANI,
Amedeo Avogadro, Paolo Ruffini e la matematica, in M. CIARDI (a cura di), Il fisico sublime. Amedeo Avogadro e la cultura scientifica del primo Ottocento, Bologna, il Mulino, 2007, p. 159.
34
64 Silvano Montaldo
1821: la cattedra di fisica sublime fu soppressa; Giobert venne nuovamente
sospeso dallʼinsegnamento e Plana fu sul punto di seguirne la sorte a causa
dei suoi legami con lʼambiente del «Conciliatore»35.
Gli spazi di discussione furono preservati, almeno in parte, solo allʼAccademia delle Scienze, considerata meno pericolosa dellʼUniversità perché le sue
attività coinvolgevano solo un piccolo gruppo di studiosi. Inoltre, essa era ritenuta utile dal governo per la funzione di controllo dellʼinnovazione tecnologica e della produzione attuata attraverso le procedure di esame per la concessione dei privilegi, secondo gli schemi dellʼassolutismo settecentesco. Anche
la tradizione piemontese nel campo delle scienze e delle arti belliche stentò a
rinascere. LʼArsenale e la Regia Fonderia furono riattivati, ma dopo il 1822
la produzione di pezzi di artiglieria si attestò su livelli assai bassi e senza che
intervenisse un rinnovamento tecnologico, tanto che nel 1845 quasi tutti i
macchinari erano in cattive condizioni e vi erano solo due trapani per forare i
cannoni alimentati ad acqua, mentre tutti gli altri strumenti erano mossi a forza
di braccia36. Fino agli anni Quaranta lʼAccademia militare, creata nel 1814 per
istruire gli ufficiali dellʼesercito, agì più come un filtro sociale in favore
dellʼaristocrazia che come luogo di insegnamento e di formazione di competenze tecnico-scientifiche. Diverso il discorso per le Scuole di applicazione del
Genio, di Artiglieria e di Sperimento, frequentate dagli ufficiali destinati alle
armi dotte, ma non è forse un caso se il Pinelli, nella Storia militare del Piemonte, dedicò velenose e sarcastiche pagine allʼostinata ignoranza della nobiltà militare piemontese, descritta come una massa di semianalfabeti tesi
unicamente a rivendicare privilegi di casta, incapaci di accettare quel progresso culturale e tecnologico ormai imprescindibile nella vita di un esercito
moderno37.
La rinascita delle istituzioni scientifiche in Piemonte iniziò con gli anni
Trenta e il regno di Carlo Alberto, benché egli fosse salito al trono con
lʼUniversità nuovamente chiusa e parte degli studenti trasferiti in provincia.
Nellʼimminenza dellʼascesa al trono, uno dei suoi consiglieri, Carlo Ilarione
Petitti di Roreto, lo aveva esortato a non ascoltare lʼopinione degli avversari
del progresso scientifico, come De Maistre, per i quali «i dotti per lo più potersi ritenere al dominio nemici, propagatori nella gioventù dʼindipendenza e
ribellione». Il conte di Roreto, giudicando che «lʼistruzione ben diretta [fosse] necessaria al governo come ai sudditi», riteneva che gli insegnanti dovessero garantire «un primato di notabilità scientifica e morale» per istruire e
35
Cfr. ID., Amedeo Avogadro. Una politica per la scienza, Roma, Carocci, 2006, pp. 38-42.
Cfr. F. DEGLI ESPOSTI, Le fabbriche di Marte. Gli arsenali del Regno di Sardegna nellʼetà del
Risorgimento. Organizzazione, economia, tecnologia, vol. I, Gli stabilimenti piemontesi, San Marino, Edizioni del Titano, 1997, pp. 66-67.
37
Cfr. P. DEL NEGRO, Guerra e politica nel Risorgimento: la «Storia militare del Piemonte» di
Ferdinando Augusto Pinelli, in «Rivista storica italiana», 1986, n. 1, pp. 221-244.
36
Istituzioni scientifiche e scienziati piemontesi ai tempi di Amedeo Avogadro 65
insieme educare le nuove generazioni, mentre il governo aveva il compito di
«proteggere, favorire ed incoraggiare con ricompense [i dotti], senza tollerarne però la menoma opposizione». E aggiungeva:
Così interveniva difatti durante il governo bonapartiano, che a
molti può essere ancora dʼutile ammaestramento. Allora i
scienziati [sic] non erano liberali come di presente, anzi secondavano con ogni loro mezzo le di lui viste tanto assolute; e
ciò perché? … Perché in certi punti lusingavasi la loro ambizione, premiavansi generosamente le fatiche da essi intraprese,
né specialmente si umiliavano col farli governare da altri che
da uomini di Stato a essi pari in dottrina, e contenevansi a un
tempo nel menomo trascorso38.
Stando a quanto lo stesso sovrano scrisse ad Alessandro Saluzzo in funzione della preparazione della riunione degli scienziati italiani a Torino, possiamo pensare che il suggerimento di Petitti per una governance degli
scienziati sulla base dellʼesempio napoleonico fu accolta:
Jʼhonore, jʼaime la science, ceux qui la cultivent; mais je ne
flagorne personne; je me contente de protéger et encourager
39
les savants .
Molti indizi paiono confermare lʼipotesi che Carlo Alberto abbia consapevolmente avviato unʼazione volta a riconquistare il consenso degli ambienti scientifici verso la corona e abbia impresso una svolta rispetto
allʼoffensiva cattolica e alla repressione politica degli anni Dieci e Venti, pur
confermando fino alla metà degli anni Quaranta la politica scolastica del suo
predecessore, che aveva lasciato ampio spazio agli ordini religiosi40. «Il Re
ambisce assai il nome di Mecenate delle Scienze; giorni fa promise a me
stesso tutti gli incoraggiamenti, ma i Gesuiti regnano!», scriveva nel 1834 da
Torino un ignoto corrispondente del fisico Carlo Matteucci, evidenziando le
contraddizioni di una linea culturale che il 1848 avrebbe affossato, ma che
allʼepoca sembrava potersi sviluppare nella ricerca di una conciliazione tra
38
C. I. PETITTI DI RORETO, Dellʼattuale condizione governativa degli Stati di S. M. Ragionamento
agli ultimi di marzo 1831, in Id, Opere scelte, a cura di G. M. BRAVO, Torino, Fondazione Luigi
Einaudi, 1969, vol. I, p. 136.
39
Lettera di Carlo Alberto ad Alessandro Saluzzo di Monesiglio, 11 dicembre 1839, cit. in
A. MANNO, Aneddoti documentati sulla censura in Piemonte dalla Restaurazione alla costituzione,
Torino, Fratelli Bocca, 1907, p. 112.
40
Cfr. E. DE FORT, Lʼistruzione, in U. LEVRA (a cura di), Il Piemonte alle soglie del 1848, Roma,
Carocci (Pubblicazioni del Comitato di Torino dellʼIstituto per la storia del Risorgimento italiano),
1999, pp. 241-274.
66 Silvano Montaldo
scienza e fede41. A diffondere lʼimmagine di un sovrano illuminato aveva
contribuito la fondazione, fin dal 1831, di un nuovo ordine equestre, al merito civile, per premiare con pensioni tratte dal tesoro dellʼOrdine mauriziano
scienziati, eruditi ed esponenti del mondo delle arti meccaniche.
Allʼ«anoblissement du travail et de lʼintelligence et de la science», fece
seguito la pubblicazione dello studio di Plana sul movimento lunare e la rifondazione della cattedra di fisica sublime, destinata allʼultras Cauchy, il
quale offriva al re garanzie di «buona morale e politica», poiché questo studioso di valore aveva scelto lʼesilio dopo la caduta dei Borbone in Francia ed
era fortemente appoggiato dai gesuiti42. Pur importante, il periodo torinese
del matematico transalpino si concluse rapidamente, e la cattedra di fisica
tornò nuovamente ad Avogadro43. La Teoria del moto della luna fu la prima
di una serie di opere di particolare pregio scientifico pubblicate dalla Stamperia reale, tra cui la Fisica deʼ corpi imponderabili di Avogadro, in 4 volumi
(1837−1841), mentre altre opere furono comunque finanziate o incoraggiate44.
Per iniziativa del sovrano si procedette alla costruzione e al potenziamento del
teatro anatomico, dellʼanfiteatro di chimica e del gabinetto di fisica45. Nel
1836 fu creata la Regia Commissione superiore di Statistica: seppur rallentata
da carenze di organico che la resero inadatta a svolgere i compiti per la quale
era stata pensata, la sua istituzione sanciva il riconoscimento dellʼimportanza
dellʼesatta conoscenza delle grandezze sociali ed economiche come base della
buona amministrazione e della produzione legislativa. Indirettamente, le sue
pubblicazioni segnavano anche lʼaffermazione del ruolo dei dotti come indagatori dei problemi del paese, consiglieri e giudici del buon operato del governo, secondo gli schemi della monarchia consultiva46. Tre anni dopo,
lʼAccademia militare e le scuole di applicazione furono riformate, per dare
maggiore spazio al merito. Il 1840 fu lʼanno in cui gli scienziati italiani si
radunarono a Torino, un evento che ripropose la città allʼattenzione degli
studiosi italiani ed europei. «Conceduta a malincuore, proprio perché non si
potea rifiutare», stando ai verbali del Consiglio di conferenza, il massimo
organismo decisionale della monarchia carloalbertina, la riunione fu orga41
Archivio di Stato di Torino, Alta polizia, m. 148, f. 9, cit. in S. MONTALDO, Università ed accademie, cit., p. 664.
42
Cfr. E. DE FORT, Lʼistruzione, cit., p. 275.
43
La frase citata è tratta da L. F. MENABREA, Memorie, a cura di L. BRIGUGLIO, L. BULFERETTI,
Frirenze, Giunti-Barbéra, 1971, p. 20. Sulla vicenda della cattedra di fisica cfr. M. CIARDI, Amedeo
Avogadro. Una politica per la scienza, cit., pp. 72-85.
44
Cfr. A. MANNO, Aneddoti documentati sulla censura in Piemonte, cit., pp. 155-156.
45
Cfr. E. DE FORT, Lʼistruzione, cit., pp. 275-276.
46
Cfr. S. MICHELETTA, La Regia Commissione Superiore di Statistica del Regno di Sardegna
(1836-1861), tesi di laurea magistrale, corso di laurea in Storia, Facoltà di Lettere e Filosofia, a.a.
2011-2012, relatore S. MONTALDO.
Istituzioni scientifiche e scienziati piemontesi ai tempi di Amedeo Avogadro 67
nizzata da Alessandro Saluzzo, il primogenito del fondatore dellʼAccademia
delle Scienze, che era stato tutore del principe di Carignano nella fase più
difficile della sua giovinezza47. Una lettera di Giuseppe Gené, il naturalista
lombardo che dal 1831 insegnava zoologia a Torino ed era direttore del Museo di storia naturale, e che fu segretario generale del congresso subalpino,
arricchisce il quadro in cui fu presa la decisione da parte di Carlo Alberto: il
sovrano e il conte Saluzzo gli erano parsi assai soddisfatti del successo della
prima riunione pisana e determinati a porre il Piemonte in competizione con
il Granducato di Toscana sul piano del mecenatismo scientifico48. In sostanza, se si preoccupava di non scontentare le forze della conservazione, dalle
quali non voleva né poteva prendere le distanze, ed era sospettoso egli stesso
verso questo tipo di riunioni che in Svizzera, Germania, Francia e Inghilterra
aveva già una storia piuttosto significativa, Carlo Alberto non intendeva lasciare al solo Leopoldo II il prestigio derivante dal ruolo di protettore delle
scienze, e pertanto non solo permise che il congresso si svolgesse, ma volle
che lʼevento fosse organizzato con una certa liberalità. Inoltre, nei giorni della
riunione concesse udienza a Carlo Luciano Bonaparte, il promotore dei congressi degli scienziati italiani, pur facendolo sottoporre a sorveglianza dalla
polizia insieme a numerosi altri scienziati, ed ebbe lunghe conversazioni con
uno dei maggiori matematici europei, Charles Babbage, al quale nel 1838 aveva fatto pervenire una medaglia dʼoro, benché questi fosse accompagnato dal
suo amico e interprete Fortunato Prandi, un esule del 1821 sul cui capo pendeva una condanna a morte49. Di lì a breve iniziò negli organi di governo una discussione sulla riforma dellʼinsegnamento scientifico, anche alla luce degli
esiti dellʼEsposizione dei prodotti dellʼindustria organizzata nel 1844, anno in
cui un personaggio di notevole prestigio e spessore politico, Cesare Alfieri,
fu nominato reggente della Riforma, lʼorgano statale che sovrintendeva
allʼintero sistema scolastico50. Sempre nel 1844 avvenne anche la riunificazione delle facoltà di Medicina e di Chirurgia, quattro decenni dopo la prima
47
Cfr. A. MANNO, Aneddoti documentati sulla censura in Piemonte, cit., p. 112.
Lettera di Gené a Corridi, 31 ottobre 1839, cit. in M. P. CASALENA, Per lo Stato, per la Nazione.
I congressi degli scienziati in Francia e in Italia (1830-1914), Roma, Carocci, 2007, p. 140. Sulla
famiglia Saluzzo tra Sette e Ottocento, cfr. P. GENTILE, Dal feudo alla corte. I Saluzzo di Monesiglio, in S. MONTALDO (a cura di), Le Langhe di Camillo Cavour, cit., pp. 159-164. Sui sospetti del
conte Clemente Solaro della Margarita, potente ministro degli Esteri del Regno di Sardegna cfr.
I.A. VALABREGA, Il secondo Congresso degli Scienziati. Torino 1840, in «Rassegna storia del Risorgimento», a. X (1923), f. V, pp. 754, 760-761.
49
Sulla visita di Babbage, che permise a Luigi Federico Menabrea di realizzare la prima descrizione della macchina analitica inventata dallʼinglese cfr. C. BABBAGE, Passaggi della vita di uno
scienziato. Autobiografia dellʼinventore del computer, a cura di A. VILLA, Introduzione di V. MARCHIS, Torino, Utet, 2007, pp. 112-118, 250-260. Sulla medaglia, cfr. A. MANNO, Aneddoti documentati sulla censura in Piemonte, cit., p. 157.
50
Cfr. E. DE FORT, Lʼistruzione, cit., pp. 264-279.
48
68 Silvano Montaldo
unione attuata in epoca francese. Nel 1845 a Torino e lʼanno seguente a Genova furono aperte le Scuole di meccanica e chimica applicate alle arti, volute da Carlo Ignazio Giulio, figlio del quasi omonimo che era stato membro
del governo repubblicano, per diffondere le conoscenze scientifiche e tecniche tra gli addetti alle manifatture. Il processo di industrializzazione era accettato dal liberalismo, sia moderato che radicale, concorde sia nel vedervi
una possibilità di incivilimento e di rigenerazione della patria sia nella convinzione della necessità di impedire lo sfruttamento selvaggio dei lavoratori,
soprattutto per i rischi di disgregazione sociale e instabilità politica che vi
erano associati. Le divergenze tra le due anime del movimento non riguardavano le fabbriche, la cui diffusione era ritenuta inevitabile e anzi auspicabile,
ma nascevano da una discordanza riguardo ai rimedi alle patologie sociali e
alla diffusione di unʼetica utilitaristica e individualistica, e in particolare sul
ruolo attribuito dellʼistruzione religiosa, che rimaneva essenziale per Petitti,
mentre il democratico Lorenzo Valerio poneva lʼaccento sulla lungimiranza e
la filantropia dei proprietari e dei direttori delle manifatture51. Idee diverse
erano presenti anche riguardo al rapporto tra scienza, tecnologia e produzione.
Giulio era portatore di una visione più liberista rispetto a quella di Avogadro:
questi era rimasto legato allʼimpostazione data dallʼassolutismo illuminato,
volta a favorire il progresso scientifico e tecnologico ma anche a controllarlo
in un progetto globale di equilibrato sviluppo della società, mentre Giulio era
più orientato a diffondere nozioni elementari e istruzione tecnica ad ampio
raggio, lasciando al mercato il compito di definire le possibilità di successo
economico. Entrambi però potevano sottoscrivere le parole pronunciate dal
chimico Michele Peyrone in apertura del corso presso le Scuole di chimica e
di meccanica applicate alle arti a Genova: affinché fosse possibile produrre
molto, bene e a buon prezzo – i criteri del successo nella concorrenza commerciale, che sembrava aver ormai sostituito i conflitti armati nel decidere
del destino dei popoli – era necessario che la scienza illuminasse con la sua
fiaccola tutte le operazioni industriali52.
Carlo Alberto riuscì a coinvolgere gli scienziati, come gli altri settori della cultura piemontese, nel sostegno alla monarchia. Per molti aspetti la sua
politica culturale restava quella di un sovrano illuminato dellʼantico regime,
al cui controllo doveva sottostare lʼintera organizzazione scientifica, dalle
università e dalle accademie più antiche e celebri, ai nuovi sodalizi sorti ne51
L. VALERIO, Igiene e moralità degli operai di seterie, Torino, Baglione, 1840; C.I. PETITTI DI
RORETO, Del lavoro dei fanciulli nelle manifatture. Dissertazione, in «Memorie della reale Accademia delle scienze di Torino», serie II, 1841, vol. III, pp. 209-306 (ora in Id, Opere scelte, cit.,
pp. 591-691). Cfr. R. ROMANI, Lʼeconomia politica dei moderati, 1830-1848, in «Società e storia»,
n. 111, 2006, pp. 33-42.
52
Cfr. C.G. LACAITA, La cultura tecnico-scientifica, in U. LEVRA (a cura di), Il Piemonte alle soglie del 1848, cit., p. 467.
Istituzioni scientifiche e scienziati piemontesi ai tempi di Amedeo Avogadro 69
gli anni Quaranta, ma la sua azione di governo, pur nei limiti di un prudente
riformismo, era aperta al contributo del sapere, come dimostra la presenza di
studiosi e tecnici di valore, quali Plana, Avogadro, Despine, Mosca, Angelo
Sismonda, Angelo Abbene, al vertice di importanti strutture istituzionali e la
folta partecipazione dei funzionari governativi e dei militari alle riunioni degli scienziati che si svolsero a Torino e, nel 1846, a Genova53. Per Petitti, le
accademie scientifiche «associandosi alle questioni attuali […] giovano al
pubblico bene», non solo nellʼinteresse del governo, ma anche degli stessi
«corpi scientifici», i quali «accrescono il proprio lustro, mostrandosi inclinati
a promuovere lʼuniversale prosperità»54. Tuttavia, come il resto dʼItalia, Torino rimaneva ai margini del movimento scientifico europeo e la sua élite
scientifica non era né numericamente ampia né intensamente partecipe dei
processi di specializzazione disciplinare che si stavano realizzando a livello
internazionale. Tranne qualche eccezione – Avogadro, Plana, Rolando, Sobrero – gli scienziati piemontesi erano in grado di diffondere e applicare le
conoscenze scientifiche, ma non di contribuire allʼavanzamento del sapere,
anche perché la politica carloalbertina di coinvolgimento degli scienziati
nellʼattività amministrativa, se aveva un chiaro riferimento nel modello napoleonico, si muoveva in direzione opposta ai nuovi schemi di organizzazione del lavoro scientifico, che volevano la ricerca assolutamente libera perché
fosse più produttiva e innovativa55. Inoltre, a una dotazione tecnologica comunque ridotta, si aggiungevano da parte del governo preoccupazioni di natura politica e religiosa nei confronti dellʼambiente scientifico, che se non
costituivano più un pericolo effettivo, come ai tempi di Vittorio Emanuele I
e di Carlo Felice, certamente rimasero come una forma di condizionamento
sul lavoro di ricerca.
3. Scienza e patria
Lʼemanazione dello Statuto e la fine del regno di Carlo Alberto determinarono unʼulteriore accelerazione del processo di sviluppo delle istituzioni
scientifiche in Piemonte, che portò la Torino degli anni ʼ50 ad essere il principale centro scientifico italiano. Dopo il 1848, che vide non solo la partecipazione alle vicende politiche di molti scienziati, ma addirittura la loro
mobilitazione nella lotta armata, il quadro del rapporto tra scienza e potere
assunse le dimensioni di una vera e propria operazione politica, che fece parte di un piano più vasto, per porre il Piemonte alla guida della civiltà italia-
53
Ivi, pp. 450-451, 457.
C.I. PETITTI DI RORETO, Del lavoro dei fanciulli nelle manifatture, cit., p. 601.
55
Ivi, pp. 453-453.
54
70 Silvano Montaldo
na56. Questa è lʼespressione usata da un medico marchigiano, Diomede Pantaleoni, nello scrivere, allʼindomani della caduta della Repubblica romana,
alla quale aveva partecipato su posizioni moderate, al suo amico Massimo
dʼAzeglio, che a Roma aveva fatto il pittore ed era stato appena nominato
alla guida del governo piemontese. Pantaleoni inviò una serie di lettere ad
Azeglio per consigliargli una precisa condotta politica, ritenendo che quanto
avveniva in Piemonte avrebbe avuto influenze decisive anche sul resto
dellʼItalia. A suo avviso, occorreva attirare capitali, favorire gli investimenti
e aiutare gli imprenditori, ma anche potenziare lʼistruzione universitaria per
formare la classe dirigente liberale:
Queste istituzioni che daranno al Piemonte il primato dʼItalia
varranno ad esso la pace interna perché le menti si getteranno
sulle arti sulle industrie, sulle scienze anziché adoperarsi in
57
agitazioni e sommosse .
Cʼera la preoccupazione da parte di Pantaleoni di evitare una deriva radicale e repubblicana, quale si era avuta a Roma, ma è indubbio che il rapporto con
la scienza innervò lʼesercizio del potere durante il cosiddetto «decennio di preparazione». Mentre nel resto della Penisola le università e il mondo accademico
entravano nel cono dʼombra della repressione, che segnò la caduta delle ultime
illusioni sulle possibilità di collaborazione con le monarchie restaurate, in Piemonte la legge Boncompagni decretò lʼimpegno dello Stato nella promozione
del sapere, il monopolio dello Stato sul sistema dellʼistruzione e il pubblico
concorso come criterio di selezione dei docenti universitari, anche se si prevedeva pure il meccanismo della nomina per chiara fama58. Nello stesso anno
della sua promulgazione rinacque, dalla separazione da Lettere, la facoltà di
Scienze e Torino iniziò ad essere lʼapprodo per molti dei maggiori scienziati
italiani, dal lombardo Gianalessandro Majocchi al siciliano Stanislao Cannizzaro, dal calabrese Raffaele Piria al modenese Francesco Selmi, ai veneziani
Pietro Paleocapa e Giovanni Minotto59. Le loro competenze, come quelle di al56
Sulla partecipazione degli scienziati al 1848 cfr. C. CIPOLLA, “Questi Rubini campestri …” Lettura sociologica di una sconfitta vittoriosa, in C. CIPOLLA, F. TAROZZI (a cura di), Tanto infausta
sì, ma pur tanto gloriosa. La battaglia di Curtatone e Montanara, Milano, FrancoAngeli, 2004, pp.
17-81. F. TOSCANO, Per la scienza, per la patria. Carlo Matteucci, fisico e politico nel Risorgimento italiano, Milano, Sironi Editore, 2011, pp. 11-45.
57
Lettera di Pantaleoni ad Azeglio, 10 maggio 1850, cit. in R. PICCIONI, Diomede Pantaleoni, Roma, Edizioni dellʼAteneo, 2003, p. 149.
58
Cfr. U. LEVRA, La nascita, i primi passi: organizzazione istituzionale e ordinamento didattico
(1792-1862), cit., p. 87.
59
Cfr. M. CIARDI, Reazioni tricolori, cit., pp. 121-125, 166-170, A. BASSANI, Minotto, Giovanni,
in Dizionario biografico degli italiani, vol. 74, Roma, Istituto dellʼEnciclopedia italiana, 2010,
pp. 699-702.
Istituzioni scientifiche e scienziati piemontesi ai tempi di Amedeo Avogadro 71
tri celebri esuli nel campo del diritto e dellʼeconomia politica, furono valorizzate
dal governo, nonostante gli allarmi dei giornali conservatori e qualche caso di
aperta rivalità con i colleghi piemontesi, attraverso lʼassegnazione di cattedre
universitarie o nella scuola secondaria e con incarichi nella direzione di organismi statali o di consulenza per la preparazione di leggi e per lo studio di svariati
problemi. Anche le accademie scientifiche accolsero gli esuli, molti dei quali
erano già membri non residenti o soci corrispondenti di tali consessi, e lʼeditoria
scientifica e scolastica poté giovarsi delle loro competenze nella produzione di
manuali e nella traduzione di opere straniere, in cui Torino divenne il secondo
centro della Penisola, dopo Milano60. Si realizzò una collaborazione tra studiosi
e ceto politico che non aveva precedenti nella storia italiana recente, e forse anche pochi altri esempi a livello europeo. Paleocapa, ufficiale del genio e già direttore generale delle pubbliche costruzioni del Regno veneto, poi ministro nel
governo provvisorio Manin, ebbe la guida del dicastero dei Lavori Pubblici nei
governi Casati, Azeglio e Cavour e in tale qualità coinvolse una pattuglia di
scienziati nellʼattività di studio e di progettazione di ferrovie, strade, porti, cui
veniva assegnato un valore economico e insieme politico. Giulio, Sismonda,
Menabrea, Giovanni Cavalli, Giovanni Ansaldo, Severino Grattoni, Sebastiano
Grandis, Germano Sommelier, Quintino Sella collaborarono nella realizzazione
della rete ferroviaria: prima ancora del Frejus, la realizzazione della galleria dei
Giovi, per collegare Torino a Genova, fu il primo traforo ferroviario al mondo61.
Oltre che utile, lʼintegrazione degli scienziati esuli era una necessità dettata dalla
consapevolezza del ritardo della cultura scientifica piemontese rispetto a quelle
di Francia e Germania, che iniziava a trapelare dalle esperienze dei primi studenti inviati a specializzarsi allʼestero presso gli istituti di alta formazione, come
Sella, ed era un forte motivo propagandistico, tanto sul piano italiano che su
quello internazionale62. Nel 1855, di fronte allʼardua scelta per la cattedra di
chimica tra Ascanio Sobrero, scopritore della nitroglicerina, e Piria, il ministro
della Pubblica istruzione Giovanni Lanza aveva ricordato al sovrano che
il regno sardo rappresentava lʼItalia, e [che il re] doveva virtualmente considerare suoi concittadini tutti gli italiani; che
bisognava prima conquistare lʼItalia moralmente per agevola63
re il compito con le armi .
60
Cfr. P. GOVONI, Scienza ed editoria dallʼUnità alla rete, in F. CASSATA, C. POGLIANO (a cura di),
Scienza e cultura nellʼItalia unita, Annali, 26, della Storia dʼItalia, Torino, Einaudi, 2001, p. 843.
61
Cfr. A. FERRARESI, Stato, scienza, amministrazione, saperi, cit., pp. 244-247.
62
S. POLENGHI, La politica universitaria italiana nellʼetà della Destra storica (1848-1876), Brescia, La Scuola, 1993, pp. 31, 35, 53; U. LEVRA, La nascita, i primi passi: organizzazione istituzionale e ordinamento didattico (1792-1862), cit., pp. 82-98; A. FERRARESI, Stato, scienza, amministrazione, saperi, cit., pp. 238-239.
63
Cit. in S. POLENGHI, La politica universitaria italiana, cit., p. 34.
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72 Silvano Montaldo
Non tutto può essere letto teleologicamente in funzione dellʼunificazione,
ma in quegli anni rinacque anche la scienza applicata alla produzione bellica.
Nel 1851 Cavalli, posto a capo dellʼArsenale e della Regia Fonderia, avviò
un programma di rinnovamento tecnologico degli impianti, che permise entro il 1856, lʼanno della scomparsa di Avogadro, di produrre cannoni in ghisa, che fino ad allora erano acquistati a caro prezzo allʼestero64. Negli anni
cavouriani il richiamo alle certezze della scienza moderna assume però un
significato più vasto, anche se la libertà di insegnamento non era menzionata
nella legge Boncompagni e il primo articolo della carta costituzionale, proclamando il cattolicesimo religione di Stato, sembrava ostacolarne alla sua
piena applicazione. Tuttavia, comʼè stato osservato, tanto la legge Boncompagni, quanto la successiva legge Lanza sul riordinamento della amministrazione superiore della pubblica istruzione, non nominavano la libertà di
insegnamento proprio perché il governo era consapevole di dover fronteggiare la notevole influenza che il clero ancora esercitava nel campo scolastico.
Col tempo, inoltre, lʼimpronta confessionale dello Statuto andò sbiadendosi,
di fronte allʼaffermarsi di un processo di laicizzazione che costituì il cemento
del connubio cavouriano65. Lʼesplodere del conflitto tra Stato e Chiesa poneva però anche il problema delle forme di legittimazione del potere politico, e
in tal senso il prestigio del pensiero scientifico moderno, lʼidea che il governo agisse applicando le teorie più avanzate ebbe un ruolo presso lʼopinione
pubblica borghese, che aveva invece difficoltà ad ammettere lʼautorevolezza
di unʼaltra fonte di legittimazione, quello della sovranità popolare, in unʼepoca
in cui solo il 2% della popolazione aveva il diritto di voto e sia i moderati, sia i
democratici temevano che il suffragio universale potesse favorire le forze reazionarie e clericali. La conoscenza come legittimazione a governare era insomma un elemento condiviso nella cultura politica della classe dirigente
liberale, così come lʼidea che i requisiti di capacità, proprietà e indipendenza
fossero le basi per lʼesercizio dei diritti politici66. Massimo esponente di questa
visione della vita politica fu proprio Camillo Cavour. Certo, quando il conte
associava scienza e arte di governo egli voleva intendere lʼeconomia politica,
la scienza del momento, la scienza dellʼamore per la patria, la più importante, a suo dire, tra le «scienze morali», ovvero sociali67. Ma se Napoleone era
stato un ufficiale di artiglieria, egli aveva il brevetto di ufficiale del genio,
lʼaltra delle armi dotte, e le scienze esatte gli diedero una forma mentis che
64
Cfr. F. DEGLI ESPOSTI, Le fabbriche di Marte, cit., pp. 83-96.
Cfr. S. POLENGHI, La politica universitaria italiana nellʼetà della Destra storica, cit., pp. 23-31.
66
Cfr. M. L. SALVADORI, Il liberalismo di Cavour, in U. LEVRA (a cura di), Camillo Cavour,
lʼItalia e lʼEuropa, Bologna, il Mulino, 2011, pp. 82-83; F. TRANIELLO, Chiesa e laicità in Cavour,
ivi, pp. 143-144.
67
Cfr. A VIARENGO, La formazione intellettuale di Camillo Cavour, ivi, p. 24. Cfr. anche M.L.
SALVADORI, Il liberalismo di Cavour, cit., p. 86.
65
Istituzioni scientifiche e scienziati piemontesi ai tempi di Amedeo Avogadro 73
gli permise di gareggiare e vincere contro avversari più colti o eloquenti di
lui, sia nel giornalismo che in Parlamento68. Di queste discipline Cavour
aveva una conoscenza avanzata, soprattutto di matematica e di meccanica
analitica, tanto da aver scritto un piccolo trattato sulla balistica allʼetà di diciotto anni69. E intorno alla scienza le due anime del liberalismo si potevano
trovare concordi: nel 1856, di fronte alla richiesta del moderato Menabrea di
introdurre nel bilancio del ministero dei Lavori pubblici uno stanziamento
straordinario per pubblicare i documenti relativi alle nuove vie ferroviarie,
utili alla circolazione delle conoscenze e dimostrazione della posizione che il
Piemonte occupava tra le nazioni più progredite, il democratico Valerio rispondeva che «quando si tratta di progresso della scienza e dellʼonore del
paese in questa Camera non vi è né vi deve essere dissidio»70. Un capitolo a
parte, tuttʼoggi poco noto, del processo di professionalizzazione dello scienziato riguarda il ruolo e la considerazione che gli scienziati avevano nella
società dellʼepoca e la loro consapevolezza come componente particolare
dellʼélite. Interessante, sotto questo aspetto, potrebbe essere una ricerca volta
a rintracciare lʼesistenza di legami familiari tra i vari studiosi. Ad esempio,
Bonvicino era cognato di Gioanetti, Plana sposò una nipote di Lagrange ed
era parente dei due Sismonda, Angelo ed Eugenio, questʼultimo era assistente del fratello in università e al Museo mineralogico. Beccaria e Cigna erano
imparentati, mentre delle figlie di Avogadro, Carolina divenne nuora di Colla, Clara andò in sposa a Benedetto Trompeo, interessante figura di psichiatra e alto membro della Carboneria71. Lʼesistenza di queste unioni e parentele
non indica solo la possibile attivazione di meccanismi di patronage, del resto
tipici non solo di quellʼepoca, ma anche che quella delle scienze poteva essere intesa come una professione e che gli scienziati iniziavano a costituire una
sorta di comunità, come fanno pensare anche varie forme di solidarietà, di
accoglienza e di aiuto, messe in atto da alcuni scienziati piemontesi, come
Giulio, nei confronti di colleghi esuli dopo il fallimento delle rivoluzioni del
1848. Su questo stesso piano, i monumenti e la toponomastica sono rivelatori
di un crescente prestigio sociale che avvolse e innalzò nel corso del XIX secolo la figura dello scienziato, in contrasto sia con una visione denigratoria
68
Cfr. A. VIAREGO, La formazione intellettuale, cit., p. 19.
Cfr. V. MARCHIS, Camillo Cavour, giovane ufficiale nel Corpo Reale del Genio alle prese con la
balistica, in C. CAVOUR, Del tiro di rimbalzo, a cura di V. MARCHIS, Torino, Fondazione «Filippo
Burzio» – Centro Studi Piemontesi, 2011, pp. 3-4.
70
Cit. in A. FERRARESI, Stato, scienza, amministrazione, saperi, cit., p. 270.
71
Cfr. A. GAUDIANO, Bonvicino, Costanzo Benedetto, in Dizionario biografico degli italiani, Roma, Istituto dellʼEnciclopedia italiana, 1970, vol. 12, pp. 476-477; E. GENTA TERNAVASIO, Dal giacobinismo al costituzionalismo: Luigi Colla giurista, cit., p. 16. Su Trompeo cfr. S. MONTALDO,
Manicomio e psichiatria nel Regno di Sardegna 1820-1850, in CENTRO ITALIANO DI STORIA SANITARIA E OSPEDALIERA. SEZIONE PIEMONTESE, Il Regio Manicomio di Torino. Scienza, prassi e
immaginario nellʼOttocento italiano, Torino, EGA, 2007, pp. 30-38.
69
74 Silvano Montaldo
del loro status e della loro attività, diffusa anche tra democratici come Brofferio e non solo tra gli intellettuali reazionari, sia con un trattamento economico che li poneva solitamente sullo stesso piano dei ranghi inferiori della
burocrazia, e comunque si riduceva a «poca cosa» persino nel caso di un
personaggio come Plana72. I monumenti agli scienziati iniziarono a sorgere
seguendo lʼesempio della Francia, che allʼaltezza del 1846 aveva già dedicato numerose statue ai suoi figli più celebri nel campo della scienza73. Nel
1790 allʼAccademia Reale delle Scienze si era sviluppato un dibattito sulla
maniera di ricordare Cigna, che si concluse con la decisione di porre una lapide sulla tomba dello scienziato74. In seguito, i primi ritratti, dopo il superbo
dipinto del Mazzola che ritrae Vittorio Amedeo III, e il più prosaico busto in
gesso del Bernè, voluto subito dopo la scomparsa del sovrano, erano stati
quelli di Napoleone e di alti funzionari e generali francesi75. Poi però nelle
auliche sale dellʼex collegio dei nobili erano entrati i busti e le statue degli
scienziati, insieme con gli umanisti e altri sovrani. Al ritorno dei Savoia,
mentre il busto e il ritratto di Napoleone finivano in un guardaroba e le erme
dei suoi generali scendevano nei sotterranei insieme a statue romane e greche, lʼingresso dellʼAccademia si onorava dei busti di Vittorio Emanuele I,
opera dello Spalla, e di Carlo Denina, scolpito dal Lavy, ma la «biblioteca
grande» era decorata dei busti in stile neoclassico di Saluzzo, Lagrange e Caluso. A un generale francese si deve anche il primo monumento pubblico di
Torino, la cosiddetta Guglia Beccaria, lʼesile obelisco di Piazza Statuto,
sormontato da uno gnomone, innalzato nel 1808 sul luogo dove, quasi mezzo
secolo prima, padre Beccaria aveva puntato i suoi strumenti per misurare il
Gradus Taurinensis, il meridiano passante per Torino76. Il primo monumento
72
Cfr. sulle satire di Brofferio verso gli scienziati cfr. I. A. VALABREGA, Il secondo Congresso degli Scienziati. Torino 1840, cit., pp. 791-798. Sugli stipendi dei docenti universitari in Piemonte,
quasi dimezzati nel 1814 rispetto al periodo francese e fortemente diversificati tra loro, a svantaggio della componente scientifica, fino agli anni Cinquanta, cfr. U. LEVRA, La nascita, i primi passi:
organizzazione istituzionale e ordinamento didattico (1792-1862), cit., pp. 56, 88, 96; S. POLENGHI, La politica universitaria italiana, cit., pp. 48-49; M. CIARDI, Amedeo Avogadro. Una politica
per la scienza, cit., p. 76.
73
Si trattava di Cuvier, Fourier, Bichat, Laplace, Chaptal, Buffon, Descartes. Cfr. G. ABELLI, Per
la decretata erezione dʼun monumento al Padre G.B. Beccaria delle Scuole Pie. Ragionamento del
teologo D. Giuseppe Abelli, Cuneo, Tip. Galimberti, 1846, pp. 47-48.
74
Cfr. B. MAFFIODO, I borghesi taumaturghi, cit., p. 41.
75
AAST, m. 3, f. 5, Inventario, 22 ottobre 1816. Il documento reca le firme di Giacinto Carena e
Valerio Appiano. Si trattava dei generali Massena, Jourdan e forse Berthier, ma da un altro documento risulta che il Comolli aveva realizzato i busti degli ispettori generali degli studi. Ivi, m. 3,
f. 2, lettera di Comolli a Angelo Saluzzo, 30 frimaio an. XII.
76
Il monumento ha una copia identica a Rivoli, nei pressi dellʼaltro punto di riferimento utilizzato
da Beccaria. Entrambi inaugurati nel 1808, furono proposti dal generale Sanson in collaborazione
con lʼAccademia imperiale delle scienze. Archivio storico della Città di Torino (dʼora in poi
ASCT), Miscellanea amministrazione, n. 930.
Istituzioni scientifiche e scienziati piemontesi ai tempi di Amedeo Avogadro 75
cimiteriale raffigurante uno scienziato, a Torino, è probabilmente quello che
gli allievi vollero dedicare a Michele Buniva, morto nel 1834. Realizzato
dallo scultore Luigi Bogliani su disegno dellʼarchitetto Giuseppe Leoni, rappresenta la vaccinazione con le tre figure – il bambino, la madre e un ormai
anziano Buniva – nelle vesti di antichi romani. Inaugurato nel 1837, il piccolo monumento funebre precedette di un anno la statua di Volta, anchʼessa
neoclassica, innalzata in una piazza di Como e di due il Galileo del cortile
della Sapienza a Pisa, scoperto in occasione del primo congresso degli scienziati italiani77. Il classicismo fu lo stile adottato per rappresentare la scienza e
gli scienziati in quegli anni: Bogliani vi fece ricorso per un altro monumento
funebre, quello in memoria di Luigi Rolando, realizzato nel 1847, oggi collocato allʼinizio dello scalone monumentale del Palazzo degli Istituti anatomici di Torino. Vi si ammira lo scienziato intento a dissezionare un cervello
umano, incoronato da Minerva, che appoggia lʼaltra mano sulla spalla di un
allievo78.
Nel 1829 lʼAccademia delle Scienze aveva ordinato la realizzazione di
due medaglioni con i ritratti di Carlo Emanuele IV, Vittorio Amedeo III e
dei tre fondatori Cigna, Saluzzo e Lagrange. Col tempo, i ritratti degli scienziati finirono con lʼessere in maggioranza: nellʼetà del positivismo il cortile
porticato di ingresso e i locali dellʼAccademia si erano trasformati in un
pantheon della gloria, soprattutto scientifica, quasi sempre piemontese79.
Allʼepoca, anche il cortile e il portico del palazzo dellʼUniversità erano fregiati dalle statue di numerosi scienziati: i primi a venir immortalati furono
Lorenzo Martini e Michele Schina, nel 1846 e nel 1848, ancora con il consueto registro neoclassico. Ai tempi di Torino capitale del Regno dʼItalia fu la
volta delle statue allʼanatomico e chimico Luigi Gallo e al celebre Alessandro Riberi, cui seguì una gemmazione di statue, busti ed erme, ispirati a un
realismo naturalistico, per ricordare Timmermans, Genocchi, Plana, Bertran-
77
Cfr. D. CARPANETTO, Il pregiudizio sconfitto. La vaccinazione in Piemonte nellʼetà francese
1800-1814, Pinerolo, Società di Studi Buniviani, 2004, p. 109; Notizie patrie. Inaugurazione del
monumento Volta, in «Gazzetta della provincia di Como», n. 20, 18 agosto 1838, pp. 82-83;
F. SCOLARI, Il monumento di Alessandro Volta nel centenario della sua inaugurazione (18381938), in «Il Broletto. Rivista di cultura e turismo», pp. 3-12; A. MARUCELLI, Scienziati italiani a
congresso. Pisa 1-15 ottobre 1839, in Una città tra provincia e mutamento. Società, cultura e istituzioni a Pisa nellʼetà della Restaurazione, catalogo della mostra documentaria, Pisa, Archivio di
Stato, 1985, pp. 121-122.
78
Cfr. G. GIACOBINI, I musei dellʼUniversità di Torino: strumenti di conoscenza scientifica e patrimonio in beni culturali, in ID. (a cura di), La memoria della scienza. Musei e collezioni
dellʼUniversità di Torino, Torino, Fondazione CRT, 2003, p. 19.
79
AAST, m. 4, f. 1, Inventario, 31 marzo 1894. Erano ritratti, in statue a figura intera, busti, dipinti,
litografie, incisioni: Galileo, Avogadro, Lagrange, De Candolle, Morozzo, Galvani, Sella, Plana,
Vassalli Eandi, Giobert, Cigna, Genocchi, Gené, Saluzzo.
76 Silvano Montaldo
di, Avogadro, De Filippi80. Ma ormai la celebrazione della scienza e dei suoi
protagonisti era uscita dai recinti del sepolcro o dellʼaccademia, riversandosi
nelle piazze e nelle strade: nel 1851 fu realizzato il monumento a padre Beccaria che la classe dirigente monregalese attendeva da due decenni, tardivo
risultato di unʼepoca che aveva cercato, anche attraverso unʼinterpretazione
apologetica della vicenda di Galileo e la celebrazione di figure di ecclesiastici-savant, di ribadire la possibilità di una conciliazione tra scienza e fede81.
Ben più in accordo con lʼidea di una scienza militante saranno due altri monumenti coevi, il busto con targa dedicata a Buniva dalla sua città natale di
Pinerolo nel 1853 e quello albese inaugurato nel 1857 in onore del repubblicano Gardini e di Carlo Bertero, sfortunato studioso e viaggiatore romantico82. Non farà in tempo a partecipare a quel clima culturale un altro monumento, quello volto a rivendicare lʼitalianità di Lagrange: ideato nel 1856, fu
inaugurato nel 1867, nello stesso periodo in cui Sella stava portando a compimento lʼoperazione volta a dedicare un monumento ad Alberto La Marmora a Biella83. Più rapida fu la vicenda della statua gemella a quella di
Lagrange come dislocazione, nella piazzetta attigua a Piazza Carlo Felice,
dedicata a Paleocapa, ideata nel 1869, inaugurata due anni più tardi84. Altri
ne seguirono, carichi di significati laici, come la svettante rupe artificiale in
memoria del Traforo del Frejus (1879), lo scalone monumentale e soprattutto
le navate del Museo di Anatomia umana: una cattedrale della scienza con gli
anatomisti e Darwin collocati negli spazi che solitamente occupano i ritratti
dei santi nellʼarchitettura ecclesiastica. Il tutto, nello sforzo di dar vita a
unʼeducazione civile volta a inculcare i valori della scienza, del merito, della
razionalità, dellʼutilità per «fare» gli italiani85. Non era un caso se il canale di
accesso al Senato del Regno che lo Statuto albertino riservava agli accademici fu percorso da alcuni dei personaggi qui ricordati: Colla, La Marmora,
Giulio, Plana e Riberi nel 1848−49, cui seguirono entro il 1861 Menabrea e
il chimico piemontese Gian Lorenzo Cantù, lʼastronomo napoletano Ernesto
80
Sul monumento a GALLO cfr. P. DRAGONE, Vincenzo Vela e la Torino di metà Ottocento, in Vincenzo Vela, Minerva, contributi di V. BERTONE, P. DRAGONE, Torino, Edizioni LʼAteneo, 2004, p. 24.
81
Sul monumento di Mondovì cfr. C. BOVOLO, Memoria e celebrazione del Risorgimento in provincia di Cuneo, tesi di laurea in Storia sociale del XIX secolo, Facoltà di Lettere e Filosofia, Università di Torino, a.a. 2010-2011, relatore S. MONTALDO, pp. 10-19.
82
Cfr. F. ASTEGIANO, Notizie storiche intorno allʼerezione del monumento in Alba alla memoria di
Carlo Bertero e Franc. Giuseppe Gardini inaugurato il XVIII settembre MDCCCLVII in occasione
del VI congresso solenne della medica associazione degli stati sardi e biografie del Bertero e del
Gardini compitale per cura di Francesco Astegiano di Monticelli Albese dottore in medicina, Alba,
Sansoldi, 1857.
83
Cfr. S. CAVICCHIOLI, Alberto La Marmora, cit., pp. 45-47.
84
ASCT, Miscellanea amministrazione, n. 950.
85
Cfr. R. VILLA, Scienza e scienziati di pietra e di bronzo, in F. CASSATA, C. POGLIANO (a cura di),
Scienza e cultura nellʼItalia unita, cit., pagine dellʼinserto iconografico.
77
Istituzioni scientifiche e scienziati piemontesi ai tempi di Amedeo Avogadro 77
Capocci, il clinico salernitano Francesco Prudente e il geologo pugliese Arcangelo Scacchi. Allʼalba dellʼunificazione italiana, lʼuomo di scienza appariva come uno dei pilastri della nazione ed era entrato nellʼuniverso
simbolico di un progetto educativo cui tutti potevano conformarsi, come Michele Lessona mostrava nel 1869 con Volere è potere, infarcito di esempi di
scienziati italiani del presente e del passato.
INDICE
Introduzione, di Alberto Conte........................................................................ 3
Saluti, di Pietro Rossi....................................................................................... 5
L’evoluzione storica del concetto di atomo, di Salvatore Califano............7-28
Atomi e fisici nell’Ottocento, di Giuseppe Giuliani..................................29-40
Amedeo Avogadro e la cristallografia, di Giovanni Ferraris....................41-52
Istituzioni scientifiche e scienziati piemontesi ai tempi di Amedeo Avogadro, di Silvano Montaldo......................................................................53-77
Finito di stampare nel mese di ... 2013
Stampato da
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