un punto di forza per la vostra salute

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un punto di forza per la vostra salute
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La sclerodermia: dalla descrizione clinica
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Patologia della cuffia dei rotatori
Il sodio: né troppo né troppo poco
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Periodico della BIOS S.p.A. fondata da Maria Grazia Tambroni Patrizi
”
L’EDITORIALE
Vita lunga e di buona qualità, ma attenzione alle sciocchezze
che “girano” in rete
Patologia della cuffia dei rotatori
Vincenzo Candela
La sindrome della bambola e del soldato
Carolina Aranci
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A TUTTO CAMPO
a cura della redazione
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SELECTIO
Direzione Scientifica
Giuseppe Luzi
Segreteria di Redazione
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Coordinamento Editoriale
Licia Marti
MIXING
Alessandro Ciammaichella
IL PUNTO
Patologie correlate alle IgG4: una nuova malattia?
Giuseppe Luzi
Direttore Responsabile
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Comitato Scientifico
Armando Calzolari
Carla Candia
Vincenzo Di Lella
Francesco Leone
Giuseppe Luzi
Gilnardo Novellli
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Augusto Vellucci
Anneo Violante
Hanno collaborato a questo numero:
Carolina Aranci, Vincenzo Candela,
Alessandro Ciammaichella, Barbara De Paola,
Silvana Francipane, Francesco Leone, Giuseppe
Luzi,
Maria Giuditta Valorani, Lelio R. Zorzin
La responsabilità delle affermazioni contenute
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LEGGERE LE ANALISI
Il sodio: né troppo, né troppo poco
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In copertina: Paul Klee, Croci e colonne, part.
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IMPARARE DALLA CLINICA
Lelio R. Zorzin, Silvana Francipane
Giuseppe Luzi
28
BIOS – NOVITÀ PER IL MEDICO
Il test del D-dimero nella diagnosi di esclusione della tromboembolia venosa
Barbara De Paola
32
Un punto di forza per la vostra salute
33
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professionale, desiderano contattare gli autori
degli articoli pubblicati sulla rivista Diagnostica
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MA ATTENzIONE ALLE SCIOCCHEzzE
CHE “GIRANO” IN RETE
Giuseppe Luzi
2
L’EDITORIALE
U
n importante ricerca pubblicata sulla prestigiosa rivista Lancet (J.A. Salomon et al.
Healthy life expectancy for 187 countries, 19902012: a systematic analysis for the Global Burden
Disease Study 2010 – Lancet 2012; 380: 2144-62)
offre lo spunto per alcune considerazioni. Il lavoro,
effettuato in un ampio periodo di tempo in 187 nazioni, analizza l’attesa di vita in varie popolazione
e dimostra che in Italia l’aspettativa di vita è alta,
la seconda al mondo dopo il Giappone. È probabile
che questi risultati siano legati al tipo di dieta, alla
così detta dieta mediterranea. Si mangia con olio
d’oliva, si beve vino ai pasti evitando clamorosi
“binge drinking”, si evitano grassi di origine animale. Ma è proprio così?
Se andiamo a vedere la classifica nel gruppo
dei primi dieci paesi con maggiore longevità e
analizziamo i primi cinque, si vede che le differenze sono minime: Giappone 82,6 anni; Italia
81,5; Spagna 81,4; Israele 81,1; Francia 80,9.
Quindi, al di là delle accurate analisi di statistica, ci troviamo di fronte a un trend abbastanza
unificante. Ma proprio questo successo europeo,
con una Gran Bretagna un po’ defilata con i suoi
79,9 anni, informa su aspetti non sempre “matematicamente” riconducibili a fattori di cut-off. I
risultati sulla longevità vanno sempre analizzati
nell’ambito della longevità ben vissuta. E anche
per questo parametro sembra che noi ce la caviamo bene, con una durata media della disabilità piuttosto contenuta. Qualità della vita non è
aggiungere anni alla vita ma soprattutto vita agli
anni. E un merito non sempre quantificabile per
questo successo nazionale lo si deve sia alla sanità pubblica sia alla sanità privata, a un’informazione sempre più estesa e fruibile per la popolazione. I check-up, le visite di controllo, la
maggiore consapevolezza del rischio “malattia”
sono un punto di partenza fondamentale per impostare una politica sanitaria futura che si pro-
ponga con ampia prospettiva a incidere sulle cause che pesano di più per un’accettabile qualità di
vita: diabete, sovrappeso, scarsa attività fisica,
fumo di sigaretta, ipertensione arteriosa, inquinamento atmosferico, riabilitazione.
D’altro canto è ben noto dalla recente esperienza europea (crollo dell’Unione Sovietica in
primis, attuale crisi economica finanziaria in Europa) che un default, anche parziale, della gestione sanitaria causa un sistema di ricadute negative sulla gestione della salute. Pertanto, in
un’Italia che vedrà i prossimi anni in recessione
e con una ridotta disponibilità di risorse, è quanto mai necessario utilizzare al meglio le diverse
fonti economiche disponibili per la sanità (prevenzione prima di tutto e azione sia sullo stile di
vita sia sui determinanti sociali della salute). In
questa prospettiva è perciò tanto più drammatico
quanto emerge da Internet dove si trovano farneticanti dichiarazioni in merito, per esempio, al
danno conseguente all’uso dei vaccini e alle implicazioni che ne derivano. Si resta soprattutto
spaventati dal peso che dichiarazioni prive di
ogni significato scientifico possano essere acquisite in rete e recepite da persone che, prive di
senso critico, le fanno proprie preparando la strada a un contagioso neo-oscurantismo.
Non si deve confondere libertà di stampa e di
pensiero con indiscriminata diffusione di pericolose false informazioni che possono provocare
danni irreparabili (si pensi soltanto al successo
storico della vaccinazione antipoliomielite e alla sofferenza dei bambini che in un passato non
tanto lontano, prima della vaccinazione di massa, finivano i loro giorni con protesi degli arti o,
peggio ancora, nei “polmoni d’acciaio”). La memoria storica decade per cui sia le istituzioni sia
i professionisti della salute debbono contrastare
ogni affermazione falsa e pericolosa proveniente da qualsiasi fonte.
PATOLOGIA DELLA CUFFIA DEI ROTATORI
Vincenzo Candela
3
INTRODUzIONE
Con il termine di “periartrite scapolo omerale” Duplay nel 1872 volle identificare l’insieme
di patologie riguardanti i tessuti molli periarticolari della spalla.
Nel 1972 Neer riuscì a definire in maniera
più organica questa patologia, coniando il termine di “impingement syndrome” con il quale
intendeva il conflitto meccanico primario dei
tendini della cuffia dei rotatori e della borsa sottoacromiale sotto l’arco rigido acromion-coracoideo favorito da alterazioni di morfologia, dimensioni ed orientamento dell’acromion (fig.1).
Sulla base di queste considerazioni Neer propose una classificazione anatomopatologica che
prevede tre stadi cronologicamente successivi:
stadio I caratterizzato dall’infiammazione acuta, edema ed iperemia della borsa e del tendine
prevalentemente del sovraspinoso; stadio II, fibrosi (degenerazione) della borsa e del tendine;
stadio III o della rottura tendinea e delle modificazioni ossee.
In realtà studi successivi hanno dimostrato
che, soprattutto negli atleti e comunque nelle persone sotto i quarant’anni, le alterazioni patologiche della cuffia dei rotatori più che da un conflitto sottoacromiale primario, come ipotizzato
un primo tempo da Neer, possono essere causate da una tendinopatia primitiva della cuffia e che
le sindromi conflittuali, se
presenti, vanno interpretate come un fenomeno secondario.
Queste ipotesi possono
essere adottate per spiegaFig. 1 - Articolazione
sottoacromion-coracoidea
re l’insorgenza di una sindrome dolorosa di spalla negli atleti nei quali, almeno nelle fasi iniziali,
la gestualità tipica della disciplina sportiva praticata può indurre una tendinopatia primitiva della
cuffia (soprattutto del sovraspinoso) per prevalenti
sovraccarichi trazionali di tipo eccentrico, come
avviene in tutti gli sport dove il gesto tecnico prevede l’utilizzo del braccio e della mano sopra la
testa (ad esempio il servizio e la schiacciata nel
tennis e nella pallavolo, il tiro nella pallamano e
nella pallanuoto, il lancio nel baseball e in alcune
discipline dell’atletica leggera).
TENDINOPATIA DELLA CUFFIA
DEI ROTATORI
4
È una patologia da sovraccarico funzionale e
spesso rappresenta lo stadio iniziale di una sindrome dolorosa di spalla. L’etiopatogenesi va ricercata nell’iperuso funzionale, che si realizza
con la ripetizione di gestualità tecniche, che prevedono un atteggiamento del braccio in abduzione, extrarotazione e retroproiezione oltre i
90°. Questo determina, nel tempo, una reazione
infiammatoria con edema e iperemia tissutale alla quale segue, perdurando il meccanismo lesivo, la fase degenerativa con microlacerazioni e
tendinosi della cuffia di rotatori.
DIAGNOSI
Il dolore è il sintomo fondamentale che si localizza nella regione antero-laterale della spalla,
aumenta durante l’attività sportiva e regredisce
con il riposo.
La diagnosi di questa forma è prevalentemente clinica, basandosi sull’anamnesi e soprattutto sull’esame obiettivo. L’anamnesi deve essere quanto più possibile accurata; bisogna indagare sulle caratteristiche del dolore, se è a insorgenza lenta e graduale oppure se ha un esordio
acuto e improvviso; è utile inoltre conoscere quali sono i gesti tecnici che causano il riacutizzarsi della sintomatologia dolorosa.
L’esame obiettivo si basa sulle manovre semeiologiche e sulle indagini strumentali. L’ispezione è solitamente negativa, mentre la palpazione può mettere in evidenza il dolore alla digitopressione in corrispondenza della grande tuberosità della spalla.
I test contro resistenza dei muscoli affetti sono di fondamentale importanza per poter formulare una corretta diagnosi. Quelli che lo specialista usa più frequentemente sono descritti in seguito.
Test di Jobe: braccia atteggiate a 90° di abduzione, 30° di flessione anteriore e intrarotazione con i pollici rivolti al suolo. L’esaminatore deve invitare l’atleta a sollevare le braccia,
mantenendo il gomito in estensione, verso l’alto,
esercitando una controspinta verso il basso. Se il
paziente avverte dolore il test è positivo per una
tendinopatia del sopraspinoso (fig. 2).
Test del sottospinoso: braccio addotto al corpo, posizione intermedia di rotazione, gomito
flesso e avambraccio supinato. Il medico si pone
di fronte al paziente e offre resistenza al movimento di extrarotazione del braccio; in caso di
dolore il test è positivo per patologia del sottospinoso e del piccolo rotondo (fig. 3).
Fig. 3 - Test del sottospinoso
Lift off test: il medico è posto alle spalle dell’atleta e lo invita a effettuare una adduzione, retro posizione e intrarotazione a gomito flesso;
l’arto viene stabilizzato al gomito, il paziente
viene invitato ad allontanare la mano dalla schiena contro resistenza. La comparsa del dolore è
significativa per una tendinopatia del sottoscapolare (fig. 4).
L’esame radiografico standard è di solito negativo. Può, tuttavia, mettere in evidenza calcificazioni della borsa sotto acromiale e dei tendini
della cuffia, irregolarità delle superfici articolari
o sclerosi tuberositaria. Molto utile l’esame ecografico capace di dimostrare sia alterazioni
morfologiche sia di struttura delle formazioni
tendinee della cuffia dei rotatori.
TRATTAMENTO
Il trattamento della tendinopatia della cuffia
dei rotatori è conservativo, riservandosi quello
chirurgico (toilette artroscopia) a quei casi resistenti al trattamento incruento o nei quali la motivazione dell’atleta a proseguire l’attività sportiva è molto elevata.
Il trattamento conservativo consiste nel riposo
atletico per un periodo sufficiente, durante il quale l’atleta viene sottoposto a terapia medica, fisioterapia e kinesiterapia; in questa fase può continuare a svolgere attività fisica mirata a mantenere
allenato il sistema cardiocircolatorio e respiratorio
evitando tutti i movimenti che creano dolore.
Di fondamentale importanza è la kinesiterapia che attraverso esercizi specifici con elastici
potenzia la muscolatura della cuffia dei rotatori
in modo da riequilibrare il rapporto di forza tra
deltoide e rotatori. A queste esercitazioni vanno
aggiunte la ginnastica propriocettiva e quella di
allungamento per evitare la rigidità da non uso ed
elasticizzare le strutture capsulo-legamentose.
SINDROME DA CONFLITTO
SOTTOACROMIALE
È caratterizzata dall’attrito fra gli elementi
scheletrici e legamentosi della volta acromioncoracoidea e la porzione tendinea della cuffia di
rotatori con braccio abdotto ed extra ruotato.
Le cause che possono determinare una riduzione dello spazio sottoacromiale sono la tendinopatia della cuffia e la borsite sottoacromdeltoidea, le varianti anatomiche dell’acromion, alterazioni di posizione della scapola, l’artrosi
acromion- clavicolare, la presenza di osteofiti
della giunzione osteo-legamentosa (acromion-legamento coraco-acromiale) e lo squilibrio di forza tra deltoide e cuffia dei rotatori.
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DIAGNOSI
La diagnosi, viene posta attraverso test clinici capaci di riprodurre il meccanismo conflittuale, tra questi i più utilizzati nella pratica clinica
sono descritti in seguito,
Test di Neer: il medico è posto dietro l’atleta, con una mano solleva passivamente il braccio, mentre con l’altra stabilizza la scapola. In tal
modo si provoca una flessione anteriore in moderata abduzione; in caso di conflitto anteriore
l’atleta avverte dolore in un arco di movimento
compreso tra 70° e 120° gradi (fig. 5).
Fig. 4 Lift off test
Fig. 5 Test di Neer
6
Fig. 6 - Test di Hawkins
Fig. 7 - Test di Jocum
Test di Hawkins: si esegue con braccio abdotto a 90° e gomito flesso; in tale posizione il
medico imprime un movimento di rotazione interna all’articolazione gleno-omerale. In caso di
impingement l’atleta avverte dolore (fig. 6).
Test di Jocum: la mano della spalla esaminata va posta sulla controlaterale e si chiede al paziente di alzare il gomito contro resistenza, senza
muovere la spalla. In caso di positività del test si
pone diagnosi di conflitto sottoacromiale (fig. 7).
Da ricordare, comunque, che nell’atleta le sindromi da conflitto sottoacromiale sono eventi rari, incostanti e tardivi, mentre sono di più frequente riscontro forme dolorose secondarie a una tendinopatia primitiva della cuffia dei rotatori.
dei rotatori che nella maggior parte di casi interessa prevalentemente il sopraspinoso. La patogenesi va ricercata nella persistenza della sindrome conflittuale e nel continuo e progressivo
indebolimento del tessuto tendineo determinato
dal prolungato sovraccarico funzionale.
Le rotture della cuffia dei rotatori sono distinte in complete e parziali. Le prime, a seconda della entità della lesione, sono classificate in
piccole (diametro fino a 3 cm), medie (diametro
fra 3 e 5 cm), massive (diametro oltre 5 cm).
Le seconde, in considerazione della sede della rottura, in inferiori (superficie articolare), superiori (superficie bursale) e intraparenchimali.
Le rotture complete sono evenienze rare negli atleti; si riscontrano, con una certa frequenza,
negli ultraquarantenni dediti ad attività sportive
di tipo amatoriale.
TRATTAMENTO
La terapia del conflitto anteriore non si discosta, almeno nelle fasi iniziali, da quella della tendinopatia della cuffia dei rotatori e prevede riposo
atletico, terapia medica, infiltrazioni di prodotti
cortisonici, fisioterapia e kinesiterapia; quest’ultima è particolarmente importante perche permette,
attraverso esercizi specifici con elastici, di riequilibrare il rapporto tra deltoide e cuffia dei rotatori.
Il trattamento chirurgico (acromionplastica
per via artroscopia) va riservato alle forme resistenti al trattamento fisioterapico.
ROTTURE DELLA CUFFIA
DEI ROTATORI
Sono caratterizzate da una perdita della continuità più o meno estesa dei tendini della cuffia
DIAGNOSI
La sintomatologia clinica è caratterizzata dal
dolore presente sia durante attività sportiva sia a
riposo. È molto spesso presente dolore notturno
e limitazione funzionale dell’arto interessato, che
nelle forme più acute e gravi può portare a impotenza funzionale.
I test clinici sono gli stessi sia della tendinopatia della cuffia sia del conflitto sottoacromiale; tra questi i più significativi sono il test di Neer
(conflitto) e il test di Jobe (cuffia) che talvolta
sono sufficienti per porre una diagnosi certa di
rottura della cuffia dei rotatori.
Per quanto riguarda la diagnostica strumentale può essere di aiuto un esame ecografico ma
soprattutto la RMN che, oltre all’identificazione
della lesione, è in grado di quantificare l’entità
del danno tendineo.
Utile anche un esame radiografico che permette di evidenziare, come segno indiretto di una
rottura completa, la risalita della testa omerale
dovuta all’azione del deltoide e la presenza di
eventuali calcificazioni.
TRATTAMENTO
Nelle lesioni parziali il trattamento iniziale è
conservativo, basato sul riposo per almeno tre
mesi, sulla fisioterapia e soprattutto sulla kinesiterapia; la tendenza attuale è quella di operare
anche queste lesioni soprattutto in rapporto alle
motivazioni agonistiche dell’atleta.
Nelle lesioni complete il trattamento è esclusivamente chirurgico e può essere eseguito sia
per via artrotomica sia per via artroscopia. Quest’ultimo tipo di intervento, se correttamente eseguito, fornisce garanzie totali, rispetto dell’anatomia e tempi di recupero più brevi.
PATOLOGIA DEL LABBRO GLENOIDEO
SUPERIORE – SLAP LESION: SUPERIOR
LABRUM ANTERIOR TO POSTERIOR
Costituisce una patologia di spalla che coinvolge in vario grado le strutture di quello che viene indicato come complesso capsulare glenoomerale superiore (ancoraggio bicipitale).
La lesione interessa la porzione superiore del
labbro glenoideo e il segmento giunzionale del
tendine del capo lungo del bicipite brachiale
(CLB), unico tendine di tutti quelli della spalla
che non origina direttamente dall’osso ma da una
struttura “ debole” come è il cercine glenoideo
(fig. 8).
Il meccanismo lesivo più frequentemente
invocato è quello del sovraccarico funzionale,
in ragione di sollecitazioni razionali ripetute e
massimali, come si verifica negli sport di lancio, determinando, nel tempo, l’insorgenza di
fenomeni degenerativi a carico del cercine glenoideo superiore e del tendine del capo lungo
del bicipite brachiale (ancoraggio bicipitale)
Fig. 8 - Ancoraggio bicipitale
che possono evolvere in alterazioni del tipo
SLAP lesion.
Ulteriore possibilità patogenetica è un evento traumatico unico, caratterizzato da una forza
di trazione-compressione esercitata sul cercine
glenoideo superiore e sul capo lungo del bicipite quale conseguenza di una caduta sul braccio
disteso, con la spalla in leggera abduzione e in
leggera flessione in avanti al momento dell’impatto (fig. 9).
Artroscopicamente la lesione è stata suddivisa in quattro stadi:
• stadio I: degenerativo;
• stadio II: della disinserzione del labbro glenoideo superiore coinvolgente parzialmente
il CLB;
Fig. 9
7
•
stadio III: lesione a manico di secchio del
cercine e lesione vera del CLB;
• stadio IV, con lesione del cercine che si prolunga nello spessore del tendine del capo lungo del bicipite.
La diagnosi clinica presenta difficoltà tra i
vari test proposti: quello che oggigiorno riscuote maggiori consensi da parte degli specialisti è
il test di O’Brien; la RMN (fig. 10) e soprattutto
la artro-RMN è l’indagine d’elezione in queste
patologie assumendo valore dirimente rispetto a
una lesione della cuffia dei rotatori e di certezza
diagnostica.
Il trattamento nelle lesioni di I° grado è fisioterapico, mentre nelle altre lesioni (II, III, IV
grado) è per via artroscopica.
Fig. 10 - quadro RM di SLAP lesion
8
Presso la FisioBIOS di Roma, il dott. Vincenzo Candela svolge attività di consulenza ortopedica e fisiatrica.
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LA SINDROME DELLA BAMBOLA
E DEL SOLDATO
Carolina Aranci
9
LE ASPETTATIVE EGOISTICHE RIPOSTE SUL PARTNER DETERIORANO IL
RAPPORTO DI COPPIA
L
a sera è uno dei momenti in cui la famiglia
si riunisce; per alcune coppie, da occasione
di dialogo costruttivo e di coccole, diviene momento di scontro. Colpa del non sapersi mettere
nei panni del coniuge, idealizzando lei come una
bella bambola sempre sorridente e lui come un
soldato pronto a tutto. Ecco cosa fare per ritrovare la tenerezza dell’incontrarsi
Tardo pomeriggio di un giorno feriale, come
tanti. L’automobile parcheggiata nel suo riquadro bianco di sempre; l’uomo scende, prende la
valigetta e inserisce l’antifurto, trae di tasca le
chiavi del portone e, dopo aver salito le scale, fa
per aprire la porta d’ingresso di casa. L’immagine che ha in mente, una volta varcata la soglia, è
quella di sua moglie, bella come il sole, sorridente, serena, che al suo arrivo gli dia il bentornato con baci e abbracci e che magari lo accompagni a dare la buonanotte ai bimbi già pronti per
la nanna. La cena, pronta e fumante, sarà in tavola ad aspettarlo; silenzio e calma regneranno
tra le mura domestiche.
Tardo pomeriggio di un giorno feriale, come
tanti. La lavatrice continua a mescolare i panni,
mentre la pentola è sul fuoco e i bambini litigano per un cartone animato che a uno piace, all’altro no. Si danno spintoni fino a farsi male e la
mamma, abbandonate le faccende domestiche, i
capelli ancora arruffati e il grembiale addosso, è
costretta a intervenire per calmarli e consolarli.
In quel momento sente aprire la porta di casa.
L’immagine che ha in mente, una volta che il marito avrà varcato la soglia, è quella di un uomo
che la abbracci e la sollevi da qualcuna delle sue
10
occupazioni, tanto da tranquillizzarla e darle
l’opportunità di svolgere le altre attività con più
calma e concentrazione e magari riuscire a rendersi più presentabile.
Tardo pomeriggio di un giorno feriale, come
tanti. Il marito rincasa e c’è confusione nell’aria:
i bimbi piangono e urlano e si sente ancora il rumore della centrifuga della lavatrice. La moglie
gli volge appena lo sguardo salutandolo con aria
sommessa: ha tutta l’aria di non poterne più, è
stanchissima. La pentola bolle sul fuoco ma la
tavola non è ancora apparecchiata. Lui ha bisogno di una doccia, deve rilassarsi dopo il lavoro,
e si chiude in bagno; lei non riesce a gestire tutto da sola e comincia a urlare, prima con i bambini, poi con il marito, che a sua volta le risponde per le rime. Il nervosismo invade la casa, ciascuno dei genitori prende la sua porzione di cibo
e la mangia in uno spazio che ha apparecchiato
solo per sé, senza pensare – volutamente – all’altro. Non c’è condivisione, non c’è dialogo; la
serata termina con lui che mette a dormire i piccoli e lei che continua le faccende in cucina. Al
momento di ritrovarsi, sono entrambi troppo delusi dal partner e adirati, scocciati, maldisposti
al dialogo, tanto che è meglio far silenzio e addormentarsi, ognuno quando ritiene più opportuno, ma entrambi rigorosamente col muso lungo. Per poi svegliarsi al mattino successivo, uscire di casa e al rientro terminare la giornata con
modalità simili a quelle della sera precedente.
La “sindrome della bambola” è quella situazione immaginifica nella quale si idealizza la
moglie (o il marito nella corrispondente “sindrome del soldato”) scontornandola dalla vita reale
e immergendone i lati più piacevoli in una sorta
di vita virtuale, dove tutto funziona secondo i nostri desideri, dunque… alla perfezione. L’impatto con la vita realmente vissuta, con difficoltà,
ostacoli, ansietà, nervosismi, stanchezze, crea
uno scompenso tale da non riuscire più a riconoscerla. Lo stesso avviene per la donna che idealizza il marito come un uomo pronto a tutto pur
di renderla felice: quanto più emerge la vera natura dell’essere umano, tanto meno lei ne è attratta.
A determinare una situazione così spiacevole è di certo la mancanza di disponibilità nei
confronti dell’altro, ma soprattutto l’aspettativa che ci si crea su di lui e su di lei. Non ci si
mette nei panni del partner, non ci si adegua a
parlare il suo stesso linguaggio. Difficile che un
marito appena rientrato dopo ore e ore di ufficio, traffico, richiami e scadenze, riesca immediatamente a cogliere le implicite richieste
d’aiuto della moglie; allo stesso modo è impossibile per la moglie essere bella, piacevole e
sorridente, immersa com’è nei problemi della
vita familiare, senza poter mai “staccare” come
invece avviene – o meglio, dovrebbe avvenire –
per lui al termine della giornata d’ufficio. Spesso, anzi, anche la donna ha trascorso diverse ore
al lavoro, per poi immergersi a capofitto nell’attività casalinga (a volte più faticosa di quella professionale).
In maniera forse ancora adolescenziale si
pensa egoisticamente che il momento dell’incontro con il partner a fine giornata sia bellissimo, che l’altro/a sappia certamente rendersi
gradevole e aiutarci; ma questo è ciò che noi
stessi vorremmo da lui o da lei, la proiezione
del nostro volere e dei nostri desideri sul partner. Tale visione non tiene conto della giornata
del coniuge, ma solo di quanto noi abbiamo in
prima persona vissuto e di ciò che ci aspettiamo.
Come uscire dall’empasse? Pensando non a
“cosa voglio io”, ma a “cosa desidererà l’altro
ora che mi vedrà”; quali saranno le sue necessità,
come potrò aiutarlo/a, come la stanchezza della
mia giornata possa non gravare su di lui o su di
lei ma semplicemente essere superata per dare
conforto alla mia “dolce metà”, che magari sarà
ancora più stanco (o stanca) di me.
Evitando la proiezione dei nostri desideri sul
partner, ma calandoci col pensiero in quella che
deve essere stata la sua realtà quotidiana, saremo più vicini a lui/lei, ne capiremo meglio le necessità, spingendolo/a a sua volta a essere più costruttivo/a e disponibile a capire le nostre. Senza
l’infantile egoismo iniziale del “desidero che
lui/lei sia così…”, anzi trasformandolo in un “co-
me lui/lei desidererà che io sia? Cosa gli/le farebbe più piacere?”, la coppia ritrova l’armonia
e la capacità di fare fronte comune alle difficoltà.
Ciascuno dei due si sente spalleggiato dall’altro,
compreso, protetto, in una parola amato. Se lui
riesce a prendere il bimbo dalle braccia della moglie e a consolarlo al suo posto concedendo a lei
di rilassarsi, e se lei pensa ad accogliere il marito che torna a casa come un uomo stanco e bisognoso di cure, piuttosto che come un soldato indefesso, la tenerezza riemerge e la coppia è di
nuovo un tutt’uno, un punto di forza e non di debolezza.
Lasciamo pure bambole e soldatini al mondo plastificato dei giochi dei bambini; meglio
comportarsi da veri mariti e vere mogli, uomini
e donne ben formati, saldi sulle proprie gambe,
inseriti nella vita reale e non più in una proiezione adolescenziale dell’innamoramento. E ci si
immergerà sempre più nell’amore adulto, ossia
nell’amore vero, autenticamente e pienamente
vissuto.
11
Presso la BIOS S.p.A. di Roma, in via Chelini 39, la dott.ssa Carolina Aranci
svolge attività di consulenza analitico-transazionale.
Per informazioni e prenotazioni: CUP 06 809641
12
MIXING
SPORT E INSULINA
L’attività fisica stimola l’ingresso delle fonti
di energia dentro i muscoli, con azione analoga
all’insulina. Già pochi minuti dopo l’inizio dell’attività muscolare il pancreas riduce la secrezione di insulina: ne deriva aumentata produzione di glucosio nel fegato (glicolisi epatica) e quindi ingresso di glucosio in maggior quantità nei
muscoli. L’attività fisica stimola la glicolisi epatica anche tramite la produzione di ormoni che
aumentano la glicogenesi epatica affinché il glucosio possa entrare nei muscoli: possibile una
ipoglicemia. L’attività fisica aerobica – specie
quella di lunga durata, come la corsa e il ciclismo
– è preferibile poiché il muscolo utilizza a scopo
energetico più grassi che glucosio: è pertanto evitata l’ipoglicemia. Tale attività aumenta la sensibilità all’insulina sia endogena che esogena: nel
diabete tipo 1 pertanto va pianificata. Il diabetico
l nello sport è facilitato se usa il microinfusore.
MALFORMAzIONI RESPIRATORIE:
TECNICA “EXIT”
Con questa nuova metodica, grazie alla collaborazione fra Policlinico Gemelli e Ospedale
Bambin Gesù, nascerà a Roma il primo Centro
europeo che è in grado – durante il taglio cesa-
reo – di intubare il neonato all’inizio del parto,
onde garantire con continuità la sua ossigenazione. In particolare, il feto viene parzialmente
estratto dall’utero, senza distaccarlo dalla placenta che continua a ossigenarlo. Il vantaggio di
questa tecnica, indicata soprattutto nelle malformazioni delle vie respiratorie (diagnosticate con
l’ecografia), è quello di consentire ai medici di
operare con calma per correggere dismorfismi
altrimenti letali, con il feto “a metà” tra il mondo e l’utero materno.
Queste malformazioni in Italia incidono all’incirca in un neonato su 15 mila, per cui si prevede una media di 20-30 interventi in un anno.
INTOLLERANzA AL LATTOSIO
Viene denominata anche ipolattasia in quanto dovuta a deficit di lattasi, l’enzima che nella
mucosa del tenue idrolizza il lattosio in glucosio
e galattosio. L’ipolattasia primaria, geneticamente determinata, interessa oltre il 50% della
popolazione mondiale, con incidenza diversa tra
i vari gruppi etnici. La quantità massima di lattosio tollerata è molto variabile tra i diversi individui: solo il 30-50% degli ipolattasici lamenta
meteorismo, dolenzia addominale o diarrea
(quante volte si dà poca importanza ai soggetti
che non tollerano il latte!).
L’ipolattasia secondaria è dovuta a infezioni
batteriche o parassitarie, farmaci, malattia celiaca, morbo di Crohn.
Il test del respiro all’idrogeno è semplice,
non invasivo, poco costoso, ripetibile. Si somministra lattosio per os, in acqua al 10% o come
latte parzialmente scremato: il lattosio, non digerito dalla flora del colon, passa nel sangue, nei
polmoni e da qui nell’aria espirata. Può talora
causare malessere. Ha una sensibilità dell’80 %
circa. Il test genetico, con prelievo ematico, ben
tollerato ma più costoso, rivela soltanto la predisposizione alla malattia.
ATEROMI CAROTIDEI E P.E.T.
L’ispessimento mediointimale della carotide extracranica, misurabile con l’ecocolordoppler, è un utile indice di aterosclerosi e di eventuali eventi cardiovascolari. Tale ispessimento,
che cresce con l’età ed è maggiore nel sesso
maschile, va considerato un precursore della
placca ateromasica carotidea. La tomografia a
emissione di positroni (P.E.T.) della carotide extracranica è in grado di valutare l’attività metabolica della parete arteriosa circostante la placca: si noti al riguardo che l’aterosclerosi (e non
l’arteriosclerosi propriamente detta) deve essere considerata un processo “attivo”, infiammatorio. La cura medica comprende anzitutto gli
antiaggreganti piastrinici, ai quali si possono
associare le statine normolipemizzanti, e non
solo. In caso di stenosi importante, può essere
indicata la rivascolarizzazione, che richiede
però un attento esame del quadro clinico generale del paziente, onde ridurre al minimo il rischio operatorio.
BETA-BLOCCANTI E ANASTOMOSI A.V.
Il microcircolo è formato da arteriole, capillari, venule, anastomosi artero-venose e collettori linfatici. Massima è l’importanza delle anastomosi a.v. i cui sfinteri, all’origine del tratto ar-
teriolare, regolano l’afflusso ematico ai capillari. Quando questi sfinteri si chiudono, favoriscono il massimo afflusso di sangue ai capillari: è
un evento che si verifica nei muscoli durante l’attività fisica e nell’apparato digerente durante la
digestione. Se invece questi sfinteri si aprono,
avviene nel microcircolo un corto-circuito del
sangue verso il tratto venulare, con conseguente
ischemia, parziale o totale, del tessuto locale. Ciò
costituisce un fatto positivo per la termoregolazione nella difesa contro il freddo: arrivando una
minima quantità di sangue alla cute, viene evitata la dispersione del calore. Ma vi è anche un effetto negativo. I beta-bloccanti – mediante l’apertura di questi sfinteri – inibiscono la vasodilatazione capillare e scatenano o aggravano la
crisi asfittica del fenomeno di Raynaud, e inoltre peggiorano la “claudicatio intermittens”
nelle arteriopatie stenosanti degli arti inferiori.
POLINEUROPATIA SENSITIVOMOTORIA SIMMETRICA DISTALE
Propria del diabete mellito tipo 1, inizia dalle estremità degli arti superiori e inferiori, per poi
estendersi prossimalmente. I sintomi variano a
seconda del tipo di fibre interessate, distinte in
fibre “sensitive”, piccole, e “sensitivo-motorie”
più grandi. Fibre sensitive: diminuita soglia per
stimoli tattili, termici e dolorifici, parestesie e dolori muscolari profondi e distali, anche a riposo
13
(di notte); in fase avanzata compare insensibilità
ai traumi. Fibre sensitivo-motorie: cinestesi e
pallestesia ridotte, diminuita sensibilità di pressione, iporeflessia tendinea (specie achillea), difettoso coordinamento motorio con instabilità
posturale: Romberg positivo.
ALCOOL CARCINOGENO
Questo effetto interessa soprattutto la mammella e il fegato. L’etanolo stimola la produzione di estrogeni che sono carcinogeni per la mammella, e in particolare per quelle neoplasie mammarie che hanno i recettori per gli estrogeni. L’azione carcinogena sul fegato non è diretta, bensì
mediata dalla cirrosi epatica: è questa che predispone alla neoplasia cioè alla cancro-cirrosi. Se
viene diagnosticata per tempo, prima della comparsa di metastasi, la guarigione è possibile con
un trapianto di fegato. In entrambi i casi l’insorgenza del tumore è favorita dal fumo.
14
ULTIMISSIMA:
LA “COLESTEROLODERMIA”
Una novità assoluta dell’ultima ora: la colesterolemia senza prelievo di sangue. Questa ricerca, condotta recentemente da ingegneri indiani, si basa sul presupposto che il colesterolo, oltre a essere presente nel sangue, è anche concentrato nella cute. Un piccolo strumento a forma
di penna viene semplicemente appoggiato sul
dorso della mano. Con una fotocamera digitale
si ottiene una foto che viene poi inviata a una
banca “on line” e qui elaborata. Trattandosi però
di dosare il colesterolo non nel sangue, bensì nella cute, il termine corretto è quello di “colesterolodermia”. L’indagine, ovviamente, è ancora
confinata nella stanze di laboratorio: occorrerà
un po’ di tempo per l’impiego clinico.
a cura di A. Ciammaichella
OSTEITE CONDENSANTE DEGLI ILEI
Fig. 1 - TC articolazioni sacroiliache: evidente addensamento
del solo versante iliaco della sincondrosi, bilateralmente
L’osteite condensante degli ilei è una condizione morbosa, di rilevanza radiologica, spesso
asintomatica; è un’affezione self-limiting, non
associata alla presenza dell’antigene HLA-B27,
a insorgenza prevalente in giovani multipare. Radiologicamente l’osteite è riconoscibile per la
presenza di un’area triangolare di osteosclerosi
densa nelle ossa iliache del bacino all’altezza
della porzione inferiore della sincondrosi, risparmiando il versante sacrale e la rima articolare; generalmente questa lesione è bilaterale (fig.
1). La diagnosi radiologica si pone con le sacroileiti di varia natura.
L
a diagnosi di neoplasia maligna effettuata
prima che si presentino i sintomi chiari è
una condizione critica che può costituire la base
per un miglior successo terapeutico e salvare la
vita (quando possibile) al malato. Uno screening
adeguato si basa su una serie di elementi di natura clinica, strumentale e di laboratorio. Senza
entrare nel dettaglio di procedure che devono essere proposte e/o gestite caso per caso, o secondo protocolli oncologici definiti di area specialistica, attualmente la letteratura medica consente
di precisare alcune realtà scientificamente acquisite e costruttivamente applicabili “sul campo”, come di seguito riportato.
SEDE DI NEOPLASIA
TEST CONSIGLIATO
Mammella
mammografia, con ecografia (in combinazione, soprattutto in donne che abbiano alta
densità del tessuto mammario o rischio elevato); in alcuni casi utile anche la risonanza
magnetica.
Cervice uterina
Pap test e screening del DNA di HPV (i tipi di HPV 16 e 18 sono responsabili di oltre il
70% dei carcinomi della cervice)
Colon retto
colonscopia (precisando che altri approcci integrati con la colonscopia prevedono la
ricerca del sangue occulto nelle feci, la sigmoidoscopia sempre associata con la ricerca
del sangue occulto nelle feci e, in taluni casi, la colongrafia con TC, la così detta
colonscopia virtuale). Non viene consigliato come screening il clisma opaco.
Polmone
tomografia computerizzata a basso dosaggio (in soggetti che sono a rischio perché
fumatori – più di 30 pacchetti di sigarette l’anno – o perché hanno smesso di fumare nel
corso degli ultimi 15 anni); non sembra di grande efficacia sulla riduzione della mortalità
la radiografia del torace di tipo standard o l’esame citologico dell’espettorato.
Prostata
esame digitale per via rettale e PSA (per quanto riguarda il PSA va considerato il
rapporto con il PSA-libero e l’andamento nel tempo del valore di PSA, prendendo in
esame la velocità di variazione; l’integrazione con ecografia transrettale completa le
indagini di identificazione del rischio); l’isoforma [-2]proPSA è una molecola associata al
carcinoma prostatico che sembra completare l’accuratezza di uno screening (in
associazione al PSA totale e/o al PSA-libero); nel cancro della prostata va posta
particolare attenzione alla familiarità (infatti il rischio raddoppia nei soggetti che abbiano
avuto un parente di primo grado con neoplasia prostatica) e alla provenienza etnica (negli
afro-americani, per esempio, il rischio è più alto rispetto a quanto osservato negli
americani di pelle chiara). In questo caso il controllo è opportuno già dopo i 40 anni di età.
Ovaio
CA-125 con ecografia transvaginale; particolare attenzione va osservata nelle donne
con mutazione in BRCA1 e BRCA2, che ne corso della vita hanno un rischio elevatissimo
di sviluppare un cancro ovarico. Secondo alcuni è opportuno iniziare il controllo dai 5 ai
10 anni prima dell’età più “precoce” riferita alla prima diagnosi segnalata in famiglia.
A TUTTO CAMPO
DIAGNOSTICARE PRECOCEMENTE
IL CANCRO
15
STILE HOLLywOOD PER COMBATTERE IL
CANCRO
I
16
l cancro causa negli USA circa 600.000 decessi l’anno e per il 2013 si prevede che un
milione e settecentomila nuovi casi saranno diagnosticati. Nell’articolo sulla rivista Time, sul
primo numero del mese di aprile 2013, Bill Saporito traccia un panorama di grande interesse
sul “nuovo metodo” per affrontare la lotta ai tumori (“The conspiracy to end cancer”, Time
2013; v. 181- n. 12: 22-27). La copertina della
rivista rinforza il contenuto dell’articolo che abbraccia gli aspetti più attuali del rapporto tra ricerca di base e implicazioni a vantaggio del paziente. L’esempio di come si affrontano i progetti di studio negli USA è il messaggio fondamentale, magari proponibile anche in Italia. Come il presidente John Kennedy propose alla nazione americana il progetto “Apollo” per andare sulla Luna, così è necessario che si attivi ai
nostri giorni un’iniziativa “strategica” per la lotta al cancro.
Oggi viviamo in un mondo di sigle e di acronimi. Da ricordare in questo caso è SU2C: Stand
Up to Cancer. Un’organizzazione che deriva
dall’impegno dell’industria del divertimento. Nel
2008 un gruppo di personalità del mondo cinematografico diede vita a una sorta di “dream
team” mettendo a disposizione una consistente
quantità di danaro. La filosofia che ha guidato
questa iniziativa ricorda, in pratica, quanto fatto
per andare sulla Luna: conosciute le leggi fisiche
era necessario dar vita a una tecnologia che realizzasse l’impresa. In qualche modo, e fatte le debite osservazioni di prudenza, conosciamo abbastanza bene la “fisica” del cancro. Ora è necessario lavorare per porsi finalità operative all’interno di un progetto integrato. Il salto di qualità
è avvenuto proprio per l’attuazione di una nuova
forma cooperativa di gruppi di scienziati esperti
in vari settori. Il titolo dell’articolo è infatti: The
hero scientist who defeats cancer will likely never exist. Immaginare il ricercatore affermato,
leader di un settore di nicchia, è ancora possibile ma il suo sforzo finirà inevitabilmente nel confluire verso un’area di vari ricercatori che affrontano problemi analoghi o assimilabili. Il metodo Hollywood sembra aver funzionato non solo per fare film ma anche per impostare un sistema efficace: …attacking cancer the way you
make a movie; bring the best and most talented
possible people together, fund them generously,
oversee their progress rigorously and shoot for
big payoffs – on a tight schedule.
Copertina del Time
http://healthland.time.com/2013/04/01/theconspiracy-to-end-cancer/
MEGLIO AVERE FIGLI qUANDO SI è
GIOVANI
L’
autismo (definito in passato Sindrome di
Kanner) è una malattia che riguarda la
funzione cerebrale, con sintomi caratterizzati da
una forte diminuzione delle capacità comunicative e dell’integrazione sociale. Il termine fu utilizzato originalmente da Hans Asperger, e in seguito venne impiegato per descrivere una sindrome specifica (autismo precoce infantile) da
Leo Kanner. Per la varietà dei sintomi e la difficoltà di definire una forma clinica unitaria si utilizza ai nostri giorni l’espressione Disturbi dello Spettro Autistico (in lingua inglese con le iniziali ASD, Autistic Spectrum Disorders). La gravità nella sintomatologia dell'autismo varia da
soggetto a soggetto e, in linea generale, con l’età
i sintomi possono migliorare. Se non c’è ritardo
mentale o questo presenta aspetti minimi, e se è
presente linguaggio verbale che consente un trattamento precoce, gli aspetti prognostici migliorano. È ben noto che l’autismo è associato spesso ad altri disturbi, e come alcuni individui possiedano notevoli capacità di calcolo matematico,
una marcata sensibilità per la musica, o un’eccezionale memoria audio-visiva. Sulle cause dell’autismo si è molto dibattuto e il problema è ancora aperto. Un recente lavoro pubblicato sulla
rivista JAMA Psychiatry on line richiama l’attenzione su un particolare aspetto del rischio genetico. Secondo quanto riportato nel paper “Autism risk develops across generations: a population based study advancing grandpaternal and
paternal age” (Emma M. Fans et al.) diventare
genitori in età avanzata fa aumentare il rischio di
avere nipoti affetti da autismo. Se alcune muta-
zioni possono avere impatto diretto sui figli, si è
però visto che alcune forme “silenti” possono
viaggiare direttamente verso i nipoti. Nella ricerca si è osservato che gli uomini divenuti padri dopo i cinquant’anni di età hanno un rischio
più alto di avere nipoti affetti da autismo, rispetto a coloro che sono diventati padri tra i 20 e i
24 anni di età. Il rischio è aumentato è di 1,79
volte se la figlia è femmina mentre se il figlio è
maschio il rischio è leggermente più basso
(1,67). Indubbiamente i numeri sono esigui, come fattore di rischio definito, ma l’indagine ha
il pregio di dimostrare come i fattori di rischio si
accumulino nelle generazioni. Il prestigio degli
istituti (lo svedese Karolinska Institutet, il King’s
College di Londra e il Queensland Brain Institute australiano) coinvolti nella ricerca rappresenta un valido punto di riferimento e consente di
riflettere ancora sul tema della paternità/maternità quando si superano i 50 anni. Ne deriva
un’importante implicazione sociale e individuale. Il problema dell’autismo ha una forte complessità patogenetica e sono stati analizzati fattori genetici e ambientali quali cause convergenti verso la manifestazione clinica obiettivabile.
Non è chiarito il legame tra i fattori concomitanti ed è possibile che le mutazioni si manifestino
nelle cellule spermatiche del maschio. Il concetto emergente da questa indagine riguarda proprio
il “salto” del rischio che può estendersi verso le
generazioni future nelle quali alcuni individui
possono manifestare il disturbo in forma conclamata.
a cura della readazione (G.L.)
17
PATOLOGIE CORRELATE ALLE IgG4:
UNA NUOVA MALATTIA?
18
IL PUNTO
Giuseppe Luzi
G
razie alla disponibilità di progredite metodiche di laboratorio e all’incremento delle
conoscenze biomediche nel corso degli ultimi
due decenni sono state identificate diverse nuove forme morbose e per un certo numero di esse
è stata definita una migliore comprensione della
patogenesi. In questo ambito un particolare interesse ha assunto una serie di patologie correlate
all’immunoglobulina IgG4. Prima di analizzare
questo interessante aspetto dell’immunopatologia vediamo una serie di punti essenziali per capire innanzi tutto il ruolo delle immunoglobuline.
ANTICORPI: STRUTTURA E FUNzIONE
Le immunoglobuline hanno struttura glicoproteica in grado di combinarsi con l’antigene
specifico, assumendo la funzione operativa di
anticorpo. Gli anticorpi circolano nel sangue dove possono neutralizzare antigeni potenzialmen-
te patogeni. Essi risultano alquanto eterogenei e
sono in grado di combinarsi con i rispettivi determinanti antigenici (policlonalità della risposta
naturale). Il modello acquisito sulla natura strutturale dell’anticorpo deriva da numerosi studi di
biochimica che hanno permesso di valutare la
struttura primaria, secondaria e terziaria della
molecola. Trattando l’anticorpo con papaina fu
possibile ottenere tre frammenti separati del dimero nativo: una frazione Fc (frammento cristallizzabile) e due frazioni Fab (fragment antigen-binding). Se viene utilizzata la pepsina rimane un frammento dell’anticorpo in grado di
precipitare l’antigene e siglato con il termine
F(ab’)2. Grazie agli studi di Edelman e Porter si
sviluppò il modello della molecola anticorpale a
forma di Y (in modo specifico della IgG). Successive indagini hanno consentito di descrivere
in modo più definito la composizione catenaria
dell’immunoglobulina, e ne è derivato lo schema di riferimento che comprende due catene leggere k e l (frazione costante) e 5 isotipi del-
la catene H (m, g, a, d, e). Variazioni minori identificabili nelle sequenze delle catene g e a
permettono di differenziare anche 4 sottoclassi
g (g1, g2, g3, g4) e 2 sottoclassi a (a1 e
a2).
In ogni individuo della specie umana sono
rappresentate classi e sottoclassi di immunoglobuline. Loci genetici separati consentono la sintesi delle catene H ed L e delle sottoclassi, tuttavia alcuni particolari loci possono essere presenti in più di una forma all’interno della stessa specie (per la variazione all’interno della stessa specie si parla di allotipia). In particolare, nell’uomo, allotipi sono stati identificati per le catene g,
a (CH) e per la k (della catena leggera CL). Il
peso molecolare di una catena leggera è di circa
23.000, mentre per le catene pesanti le variazioni oscillano tra 50.000 e 70.000 dalton. Cinque
domain (domini) di forma globulare sono presenti nelle catene m ed e, mentre g, a e d ne contengono quattro. La percentuale dei carboidrati
presenti nelle diverse immunoglobuline è variabile (attorno al 4% per le IgG con un massimo
del 16-18% per IgD e IgE). Le cinque classi immunoglobuliniche dell’uomo possono inoltre
differire in base al coefficiente di sedimentazione, mobilità elettroforetica e numero delle unitàbase con le quali le molecole vengono assemblate. La distribuzione normale (mg/dL) nel siero dell’individuo adulto varia in ordine decre-
scente
secondo
la
sequenza
IgG>IgA>IgM>IgE>IgD. Anche l’emivita delle
immunoglobuline non è la stessa per le diverse
sottoclassi: IgG (giorni 24), IgA (giorni 12), IgM
giorni (5-6), IgE e IgD (giorni 2). Nell’ambito
delle sottoclassi, l’emivita delle IgG può variare
ancora: in particolare le IgG3 non superano i 7
giorni rispetto alle 4 settimane delle altre IgG.
Un ulteriore aspetto caratteristico delle immunoglobuline riguarda la distribuzione dei ponti disolfuro tra le catene leggere, tra le catene leggere e pesanti e tra le catene pesanti. La IgA2 presenta una particolare natura del legame in quanto le catene leggere L sono tra loro legate in modo covalente, mentre è di tipo non covalente la
relazione L-H. Studiando alcune caratteristiche
biologiche (in prima approssimazione un anticorpo è divisibile in due parti: quella -NH terminale che lega l’antigene e l’altra, la -COOH terminale, che risulta depositaria delle proprietà
“operative”), le immunoglobuline possono essere ulteriormente distinte dal punto di vista funzionale: le IgG attraversano la placenta (non le
altre), la capacità di fissare il complemento (via
classica) è massima per le IgM ed è presente sulle IgG tranne che nelle IgG4, le IgG4 e le IgA in
particolare (in minor misura le IgD e le IgE) attivano la via alternativa del complemento, la capacità di lisare batteri è presente su IgG, IgA ed
IgM ma fortemente espressa dalle IgA, le IgE so-
4 SOTTOCLASSI IgG1/IgG2/IgG3/IgG4
IMMUNOGLOBULINE MAGGIORMENTE
PRESENTI NEL SIERO (80%)
ATTRAVERSAMENTO DELLA PLACENTA
MEDIATO DA RECETTORE (FcRn)
FISSAZIONE DEL COMPLEMENTO
LEGAME CON MACROFAGI, MONOCITI E PMN FcR
(internalizzazione dell’Ag/protezione da batteri e virus)
IgG1/IgG2/IgG4
IgG3
19
Proprietà delle sottoclassi
IgG1
IgG2
IgG3
IgG4
Catena pesante
g1
g2
g3
g4
Peso molecolare (x 1000)
146
146
170
146
Numero aminoacidi in regione cerniera
15
12
62
12
21-24
21-24
7-8
21-24
50
11-15
3-6
1-4
Attivazione del complemento
+++
+
++++
no
Trasferimento via placentare
++
+
++
++
Emivita in giorni
Percentuale nel siero
20
no immunoglobuline di spiccata attività reaginica (ruolo nelle risposte allergiche anticorpo-mediate). Le IgM costitutivamente precedono la
sintesi delle IgG sia filogeneticamente sia nell’ontogenesi della risposta immunitaria propria
dei vertebrati: esse sono il fulcro della reazione
primaria all’antigene e circolano nel torrente
ematico come polimero formato da 5 subunità
tetrapeptidiche.
La concentrazione di IgG4 varia in modo significativo nella popolazione sana. Il range normale va da meno di 10mg/mL a 0,4 mg/mL, con
valori che tendono a crescere nella popolazione
adulta e con l’invecchiamento. Le IgG4 si caratterizzano perché in vivo presentano un “half-antibody exchange”, acquisendo due differenti specificità di legame. La sintesi è regolata da citochine tipo Th2. Un ruolo biologico significativo
è stato dimostrato in corso di lesioni bollose, nell’eczema atopico, nell’ambito della risposta a diversi parassiti.
Le IgG4 e le sindromi correlate. È ben noto
nella letteratura come alterazioni di immunoglobuline si accompagnino a diverse forme morbose, sono stati descritti deficit congeniti e acquisiti
nella risposta anticorpale e, nella storia naturale
delle malattie infettive, ovviamente, l’andamento
nella concentrazione di anticorpi è la risposta dell’organismo che “si difende”. D’altro canto uno
dei capitoli relativi alle patologie autoimmuni è
l’espressione del ruolo svolto da anticorpi in grado di provocare danni progressivi e talora letali
nei tessuti attaccati. In una prospettiva storica la
definizione di IgG4-Related Disease (malattia
correlata a IgG4, in sigla IgG4-RD) risale al 2003.
Con questa definizione viene descritto un partico-
lare stato fibroinfiammatorio caratterizzato da lesioni, un denso infiltrato linfoplasmocitario ricco
di plasmacellule igG4-positive, una fibrosi, e non
costantemente un rialzo dei valori delle IgG4.
Questa patologia dal 2003 viene riconosciuta come malattia sistemica, potendo colpire quasi tutti
gli organi: l’albero biliare, le ghiandole salivari, i
tessuti periorbitali, i reni, la mammella, i polmoni, i linfonodi, le meningi, l’aorta, la prostata, la tiroide, il pericardio e la cute. Indipendentemente
dal sito della malattia le caratteristiche istopatologiche sono del tutto simili e per tale motivo la
“IgG4-Related Disease” viene accostata alla sarcoidosi, un’altra malattia sistemica nella quale le
manifestazioni d’organo sono legate dalle medesime caratteristiche istopatologiche. Il salto di
“qualità” ai fini definitori si verificò quando manifestazioni extrapancreatiche furono osservate in
pazienti con pancreatite autoimmune. La nomenclatura della patologia IgG4 correlata è in continua evoluzione e per praticità è opportuno adottare la definizione, proposta da ricercatori giapponesi, che suggeriscono la terminologia di igG4Related Disease (IgG4-RD). Secondo il paper
“Comprehensive Diagnostic Criteria for IgG4RD, 2011” per una diagnosi di IgG4-RD sono necessari i seguenti parametri:
1. presenza di massa o tumefazione in un singolo o più organi;
2. elevate concentrazioni sieriche di IgG4 (>
135 mg/dL);
3. marcata infiltrazione di linfociti e plasmacellule IgG4 positive e fibrosi evidente all’esame istologico (il rapporto tra IgG4+/IgG+ >
50%).
In verità la letteratura sul ruolo delle IgG4 in
diverse patologie ha generato qualche problema,
soprattutto nell’approccio patogenetico alle diverse forme morbose. Il fatto stesso che siano
stati proposti diversi nomi per descrivere questa
patologia mostra una qualche incertezza sia nell’ambito della descrizione nosologica sia nella
comprensione del ruolo patogenetico. Per esempio, leggiamo tutte le definizioni acquisite dalla
letteratura:
❑ IgG4-related disease
❑ IgG4-related systemic disease
❑ IgG4-syndrome
❑ IgG4-associated disease
❑ IgG4-related sclerosing disease
❑ IgG4-related systemic sclerosing disease
❑ IgG4-related autoimmune disease
❑ IgG4-positive multiorgan lymphoproliferative syndrome
❑ Hyper-IgG4 disease
❑ Systemic IgG4-related plasmacytic syndrome
❑ Systemic IgG4-related sclerosing syndrome
❑ Multifocal fibrosclerosis
❑ Multifocal idiopathic fibrosclerosis
Come regolarci? Un buon ancoraggio lo fornisce il lavoro di Stone. In questo paper del 2012
è effettuata una disamina a tutto campo con un
adeguato aggiornamento della letteratura. Per
esempio, gli autori riportano una serie di sindromi che, prima separate, possono confluire nel
contesto della IgG4-RD:
• syndrome di Mikulicz (a carico delle ghiandole salivari e lascrimali);
• tumore di Kuttner (a carico delle ghiandole
sottomandibolari);
• tiroidite di Riedel;
• eosinophilic angiocentric fibrosis;
• fibrosi multifocale (a carico di diversi distretti anatomici, tra i quali il retroperitoneo
e il mediastino);
• pseudotumore infiammatorio;
• fibrosi del mediastino;
• malattia di Ormond (fibrosi retroperitoneale);
• periarteriti e periaortite;
• aneurisma infiammatorio dell’aorta;
•
nefrite idiopatica ipocomplementemica tubulo interstiziale con estesi depositi tubulointerstiziali.
Per comprendere la patogenesi e tentare un
inquadramento della/e IgG4-RD dobbiamo ricordare alcune caratteristiche morfofunzionali
delle IgG4. Le IgG4 sono prodotte, come si verifica per tutti gli anticorpi, dalle plasmacellule.
A causa della marcata instabilità a carico dei legami disolfuro fra le due catene pesanti, alcune
molecole di IgG4 formano legami disolfuro intracatena nella così detta regione cerniera, dando
luogo a interazioni non covalenti. Si osserva poi
una fase intermedia o transitoria che precede la
formazione di molecole di IgG4 asimmetricamente strutturate, con lo scambio del tratto Fab.
Pertanto si formano IgG4 bispecifiche grazie allo scambio di mezza molecola proveniente da altre IgG4. Ne consegue che le IgG4 con due differenti siti combinatori per l’antigene si comportano come un anticorpo monovalente. Il risultato netto è che il “Fab-arm exchange” fa perdere la capacità di cross-legare l’antigene e formare immunocomplessi.
La patologia di “riferimento” nella storia recente delle forme IG4-RD è la pancreatite cronica, malattia infiammatoria del pancreas a carattere progressivo con danno non reversibile a carico del tessuto pancreatico esocrino e insufficienza endocrina. In particolare dobbiamo considerare la pancreatite cronica autoimmune, che
presenta aspetti clinici distinti, con caratteri sierologici, istologici e di imaging ben definiti e inserita, oggi, nel gruppo delle patologie da iperIgG4.
La pancreatite autoimmune è caratterizzata
clinicamente da ittero (con o senza massa pancreatica), istologicamente da infiltrato linfoplasmocitario e fibrosi, terapeuticamente da risposta
favorevole al trattamento con steroidi. Nell’ambito della pancreatite autoimmune si distingue un
tipo 1 (pancreatite sclerosante linfoplasmocitaria, istologicamente caratterizzata da infiltrato di
plasmacellule e linfociti, fibrosi, vascolite e presenza di numerose plasmacellule IgG4 positive)
e un tipo 2 (pancreatite idiopatica duttocentrica
21
22
caratterizzata da neutrofili intraduttali e intraepiteliali, con plasmacellule IgG4 positive assenti o
scarsamente rappresentate). Alla luce degli studi
effettuati il tipo 1 può considerarsi una manifestazione pancreatica di una malattia sistemica
correlata alle IgG4, caratterizzata da elevati livelli sierici di IgG4 e lesioni extrapancreatiche
(colangite sclerosante, scialoadenite sclerosante,
fibrosi retroperitoneale, nefrite interstiziale). Ha
una maggiore prevalenza in regioni asiatiche, si
presenta con ittero ostruttivo e colpisce soggetti
maschi in età avanzata. Le manifestazioni pancreatiche ed extrapancreatiche rispondono bene
agli steroidi.
Il passaggio “concettuale” dalla patologia
d’organo (pancreatite autoimmune) alla variante sistemica ha portato all’accumularsi di numerose osservazioni che solo in parte, malgrado
l’autorevolezza dei report, rendono del tutto
chiara la relazione tra IgG4 e patologia correlata. Pur con questa limitazione e nell’ambito del
dibattito in corso sul tema alcune considerazioni
acquisite debbono essere tenute presenti sia nel
profilo della ricerca sia per le implicazioni cliniche pratiche che ne derivano. La IgG4-RD presenta varie manifestazioni cliniche come la pancreatite sclerosante, la colangite sclerosante, la
nefrite tubulointerstiziale, la prostatite, la pneumonite interstiziale, l’allargamento delle ghiandole salivari. In passato queste entità cliniche
erano considerate del tutto scollegate. Il comun
denominatore che associa queste manifestazioni
è l’elevato livello delle IgG4, l’infiltrazione dei
tessuti con plasmacellule IgG4 positive, l’evoluzione fibrotica sclerosante. Un esempio è l’ingrossamento delle ghiandole salivari, con incremento delle IgG4 sieriche e plasmacellule IgG4
positive presenti negli infiltrati delle ghiandole
salivari, quadro patologico prima identificato come malattia di Mikulicz o tumore di Kuttner (sialoadenite sclerosante) e per lungo tempo valutato come sottogruppo della sindrome di Sjogren
Osservazioni pratiche. Quale riferimento
deve avere il medico per sospettare e/o inquadrare, almeno in prima approssimazione, questa
“nuova” malattia, che poi tanto nuova non è? I
punti essenziali sono di seguito riportati da una
sintesi della letteratura:
IgG4-RD riguarda soprattutto uomini di mezza età e include una serie di alterazioni in diversi organi e apparati; molte manifestazioni
cliniche erano in passato entità cliniche non
correlate. Il prototipo della patologia è la pancreatite autoimmune di tipo 1. La malattia di
Mikulicz, la sialoadenite sclerosante, lo pseudotumore infiammatorio periorbitale e la dacrioadenite sclerosante fanno parte delle patologie associate.
Inserire nelle condizioni IgG4-RD i seguenti quadri:
• nefrite tubulo interstiziale;
• aortite e periaortite sclerosante;
• fibrosi retroperitoneale;
• tiroidite di Riedel;
• pneumonite interstiziale e pseudotumori polmonari infiammatori.
I punti base da tenere presente sono: infiltrazione plasmacellulare IgG4-positiva, tessuti con
carattere sclerotico, flebite obliterante e incremento nella maggior parte dei casi di IgG4 nel
siero (dato non costante).
Non è ben chiaro quale meccanismo patogenetico sia alla base delle manifestazioni cliniche
e consenta di inquadrare l’aspetto sistemico del
processo morboso e non è ben definito il ruolo
svolto dalle stesse IgG4. Tuttavia i risultati terapeutici non sono sfavorevoli.
Di solito si inizia il trattamento con glicocorticoidi (prednisone al dosaggio di 40
mg/die) per un paio di mesi. I risultati, oltre al
beneficio clinico prevedono una riduzione delle masse e un decremento del volume dell’organo colpito, con miglioramento delle funzioni e spesso con un ritorno dei valori delle IgG4
nella norma. Se il trattamento con gli steroidi
non va a buon fine la letteratura prevede azatioprina o micofenolato mofetile. In forme resistenti si ricorre al rituximab. La storia naturale non è facilmente riassumibile: talora il miglioramento clinico può essere spontaneo, talora si osservano ricadute al decremento della
terapia con steroidi. Il maggior rischio di evo-
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Pathological features of IgG4-related sclerosing
23
Presso la BIOS S.p.A. di Roma, in via Chelini 39, il prof. Giuseppe Luzi svolge
attività di consulenza specialistica in qualità di immunologo clinico.
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Una nota malinconica
[Friedrich Nietzsche, Frammenti postumi]
Per chi è molto solo, il rumore è già una consolazione.
nessUna falsa modestia
[Joseph Rochefort, La guerra dei codici - Ed. Garzanti, 2002]
Per essere un crittoanalista non è necessario essere pazzi, ma aiuta.
siamo seri
24
SELECTIO
[Arthur Schopenhauer, L’arte di essere felici - Ed. Adelphi, 2002[
Ciò che nei nostri progetti di vita trascuriamo più spesso, quasi di necessità,
sono le trasformazioni che il tempo produce in noi stessi; ne deriva che molto
spesso miriamo a cose che, quando alla fine le raggiungiamo, non ci si adattano
più, oppure passiamo gli anni con i lavori preparatori a un’opera, i quali, senza
che ce ne accorgiamo, ci sottraggono nel contempo le forze per l’opera in
quanto tale.
Un po’ di sano distacco
[Legge di Murphy sulla termodinamica]
Sotto pressione, le cose peggiorano.
senza dUbbio
[Oscar Wilde, il ritratto di Dorian Gray]
La giovinezza sorride senza motivo. È una delle sue principali attrattive.
ben detto
[Karl Popper, La lezione di questo secolo - Ed. Marsilio, 1992]
Dobbiamo renderci conto che una grande quantità di speranze culturali è stata
distrutta dalla televisione.
IL SODIO: Nè TROPPO, Nè TROPPO POCO
I
l sodio è il catione principale presente nel fluido extracellulare. È, tra gli elettroliti, quello
che ha la concentrazione maggiore. Il ruolo del
sodio è importante nei parametri che regolano l’equilibrio acido-base e nella funzione neuromuscolare.
Vari meccanismi ne modulano la concentrazione nel sangue: ormoni che incrementano
(peptidi natruretici) o fanno diminuire la perdita di sodio con le urine (aldosterone), l’ormone
antidiuretico che previene la perdita di acqua.
Un elemento fondamentale di regolazione del
sodio è la quantità di acqua presente, che determina il senso della sete: in pratica quando i livelli di sodio crescono nel sangue si comincia
ad avvertire la necessità di bere; bevendo ne ripristiniamo i valori necessari all’equilibrio dell’organismo. I reni svolgono in tal senso un ruolo fondamentale: se nel volume dei liquidi corporei c’è un aumento della quantità d’acqua, la
concentrazione del sodio scende e i reni reagi-
scono eliminando acqua per ripristinare l’equilibrio. Gli ioni di sodio svolgono un ruolo importante in numerosi processi fisiologici. Cellule eccitabili, ad esempio, si basano sull’azione del Na+ per attivarsi con una depolarizzazione della membrana cellulare: questo fenomeno, detto potenziale d’azione, consiste in rapide variazioni nel potenziale elettrico di membrana che cambia, dal normale valore negativo
verso un valore positivo, e termina con un ripristino del potenziale negativo. Il potenziale
d’azione nelle cellule del sistema nervoso permette, ad esempio, attraverso un processo di depolarizzazione/ripolarizzazione, di spostare il
segnale dalla sua origine alla cellula effettrice.
In sintesi, il significato clinico del sodio nel nostro organismo si fonda su questi punti fondamentali:
• il sodio è presente negli spazi extracellulari;
• il sodio è il principale soluto osmoticamente
attivo;
LEGGERE LE ANALISI
Francesco Leone
25
•
se il contenuto del sodio si riduce ne consegue
un’ipotensione arteriosa;
• un aumento del contenuto del sodio nell’organismo causa un incremento del volume extracellulare, fino alla genesi dell’edema, condizione clinicamente pericolosissima.
In termini fisiologici la sodiemia o, meglio, la
natriemia (sodio nel circolo ematico) non identifica automaticamente la quantità di sodio presente nell’organismo, ma si può considerare più
propriamente un indicatore dello stato di idratazione.
Nell’organismo è essenziale mantenere entro
limiti fisiologici i valori della natriemia. Il range
di normalità è abbastanza ristretto: 135 mEq/L145 mEq/L.
IPERNATRIEMIA
26
In caso di ipernatriemia (concentrazione sodio > 145 mEq/L) è necessario correggere la
concentrazione plasmatica somministrando soluzioni di sodio cloruro ipo/isotoniche o sottoponendo il paziente a dialisi (se la concentrazione di sodio è particolarmente elevata, al di sopra
dei 155-180 mEq/L). Il sodio è un importante regolatore dell’osmolarità del plasma e del liquido
extracellulare. Quando la concentrazione di sodio supera il range di normalità (eccesso di sodio
o ipernatriemia) si assiste a un aumento più o
meno significativo del volume di sangue e liquido interstiziale, ponendo le basi per creare edema e ipertensione. Contemporaneamente, si riduce l’acqua intracellulare e la cellula “raggrinzisce” (disidratazione intracellulare). L’ipernatriemia ha un elevato rischio di mortalità sia nella forma acuta sia in quella cronica. La disidratazione dei tessuti che induce l’ipernatriemia
provoca una redistribuzione dei liquidi corporei
a causa dell’ipertonicità degli stessi, generando
gravi effetti tossici (in modo particolare a carico
del sistema nervoso centrale e cardiovascolare).
Le cause sono legate a un ridotto introito d’acqua, a una perdita pura di acqua o a perdita di acqua prevalente rispetto alla perdita di sodio. Cli-
nicamente si descrivono: convulsioni, confusione mentale, incremento dell’eccitabilità neuromuscolare, stupore, aumento della frequenza cardiaca, decremento del volume vascolare, fino all’instaurarsi di coma con exitus. L’ipernatriemia
è un reperto laboratoristico piuttosto frequente
nella pratica clinica, anche se, fortunatamente,
nella maggior parte dei casi non si osservano livelli di ipersodiemia molto alti. Questi ultimi, infatti, come già detto, possono essere letali.
IPONATRIEMIA
È la riduzione della concentrazione di sodio
nel sangue al disotto della norma. Si possono
differenziare iposodiemie ipo- normo- o iper-volemiche. Le iposodiemie ipovolemiche si manifestano quando la perdita di sodio, di solito dal
tratto gastrointestinale o renale (diuretici, morbo di Addison), supera la perdita di acqua. Le
manifestazioni cliniche riflettono lo stato di ipovolemia. L’iposodiemia normovolemica si verifica nella sindrome da inappropriata secrezione
di ormone antidiuretico (ADH o vasopressina),
nella quale l’eccessivo riassorbimento di acqua
è causa di iposodiemia da diluizione. Le cause
più comuni sono: produzione ectopica di ADH
da parte di neoplasie, iperproduzione endogena
da pneumopatie, malattie del sistema nervoso
centrale, condizioni di stress. L’iposodiemia
ipervolemica si manifesta quando l’aumento
dell’acqua corporea totale supera l’incremento
del sodio. Si riscontra nello scompenso cardiaco congestizio grave, nelle cirrosi e nella sindrome nefrosica. Si può avere anche una falsa
iposodiemia in corso di iperlipidemia. I sintomi,
che compaiono quando la sodiemia scende sotto livelli critici, sono soprattutto neurologici:
stato confusionale, sonnolenza fino al coma,
crampi, convulsioni.
La terapia è diversa a seconda delle diverse
cause e, comunque, nei casi gravi il paziente va
posto in osservazione ospedaliera.
Iponatriemia è, nel comune linguaggio medico, il termine che indica che la sodiemia infe-
riore a 135 mEq/L. In base alla gravità si distinguono:
• iponatriemia lieve (sodiemia compresa tra
131 e 134 mEq/L);
• iponatriemia moderata (sodiemia compresa
tra 126 e 134 mEq/L);
• iponatriemia grave (sodiemia <126 mEq/L).
L’iponatriemia è una condizione di eccessiva
quantità di acqua rispetto al quantitativo totale di
sodio contenuto nell’organismo. È importante ricordare le modalità con le quali si arriva all’iponatriemia:
• forme da perdita di sodio primitiva (ridotto
apporto, incremento delle perdite renali, insufficienza renale con poliuria, perdite gastrointestinali con vomito e diarrea, perdite
transcutanee con introduzione d’acqua);
• forme da ritenzione d’acqua (eccesso di li-
quidi introdotti, scompenso cardiaco, cirrosi
epatica, ridotta escrezione d’acqua per esempio correlata all’ormone antidiuretico, stati di
iperglicemia, ecc.).
Un aspetto importante dell’iponatriemia riguarda le sue relazioni con l’attività sportiva.
Infatti l’iponatriemia è all’origine di numerosi
collassi collegati all’attività sportiva di impegno elevato, anche se non necessariamente
“particolarmente” elevato. Sono imputati i prodotti che vengono assunti da chi pratica l’attività sportiva, prodotti che hanno talora poco sodio e che servono, in prima approssimazione, a
contenere le perdite di sudore. In generale le
forme più importanti sono associate a sforzi fisici di lunga durata.
27
Struttura di un cristallo di sale
LA SCLERODERMIA: DALLA DESCRIzIONE
CLINICA DI TEODORO VON JURGENSEN,
ALL’ARTE DI PAUL KLEE
28
IMPARARE DALLA CLINICA
Lelio R. Zorzin e Silvana Francipane
L
a sclerodermia, già segnalata nel 1888 nel
Manuale di Patologia Speciale Medica del
dr. Teodoro von Jurgensen, come “nevrosi diffusa senza nota base anatomica”, trova successivamente un’accurata descrizione clinica da
parte del medico napoletano Carlo Curzio. Possiamo attualmente definire la sclerodermia un
disordine generalizzato del tessuto connettivo,
con riferimento sia alla cute sia agli organi interni; si associa a specifici anticorpi (anticentromero e anto Scl-70). È una caratteristica clinica di questa malattia l’ispessirsi del tegumento delle mani, con secondaria rigidità delle dita,
dei piedi, della faccia e del tronco; coesiste il
fenomeno di Raynaud e l’interessamento degli
organi interni è irreversibile.
Una recente esposizione a Roma di opere di
Paul Klee ha stimolato una riflessione sul parallelismo tra la sclerodermia di questo famoso
pittore e la sua produzione artistica, in altre parole la possibile correlazione tra l’infermità e la
creatività pittorica dell’ultimo periodo della sua
vita (fig. 1). Klee, riconosciuto affetto da sclerodermia nel 1935, si spegneva cinque anni più
tardi a Berna, dove si era rifugiato per motivi
politici; la sua arte era considerata “degenerata”
Fig. 1 - Negli ultimi anni di vita Paul Klee, consapevole della progressiva
trasformazione del suo aspetto esteriore, sembra trasfondere nei soggetti dipinti
quella plasticità lineare che ormai sta compromettendo il suo corpo.
dal nazismo. La sclerodermia digitale e il volto
amimico dell’artista hanno senz’altro inciso negativamente sulla sua vita di relazione, ma anche sulla sua pittura; secondo Ricardo Cenci la
“sua iconografia perde dinamismo e si popola
di forme inorganiche e scarnificate; il suo figurativo non fa più riferimento sia alla Natura con
i suoi credibili contrasti di luce e ombra, sia ad
una geometrica rappresentazione di forme e alternanza di colori”.
MACCHIE PERICOLOSE:
PREVENIRE IL MELANOMA
Giuseppe Luzi
La cute è formata da:
• EPIDERMIDE (derivazione ectodermica);
• DERMA (derivazione mesodermica);
• IPODERMA o tessuto adiposo sottocutaneo
(derivazione mesodermica).
L’epidermide è formata da un epitelio di rivestimento pavimentoso, pluristratificato, corneificato di origine ectodermica. In una sezione
che descrive gli strati da quello più esterno fino
al confine con il derma, possiamo distinguere 5
strati (corneo, lucido, granuloso, spinoso, basale). Lo strato basale è quello germinativo, dal
quale derivano le cellule che evolveranno verso
lo strato corneo.
Interposti allo strato basale troviamo i melanociti, cellule dendritiche di origine ectodermica,
evidenziabili alla colorazione argentica, presenti con un rapporto di 1:4-1:10 rispetto ai cheratinociti. Essi producono melanina. I melanociti derivano dalla cresta neurale (melanoblasti migrati nello strato basale dell’epidermide durante il
periodo embrionario). Queste cellule hanno un
aspetto tondeggiante e sono dotate di alcuni prolungamenti con i quali formano una sorta di reticolo che si estende alla giunzione dermo-epidermica. Grazie ai numerosi processi citoplasmatici, distribuiscono la melanina nello strato
dei cheratinociti. Il pigmento di melanina si trova in granuli citoplasmatici dei melanociti che
vengono definiti melanosomi. Sono i melanosomi a definire il colore della pelle.
Il temibile tumore maligno che ha origine dai
melanociti è il melanoma (fig. 1).
Ha un incidenza di circa 7 casi per 100.000
abitanti. Si può sviluppare dai melanociti che si
trovano nella cute e nelle mucose, ma anche dai
melanociti presenti nei nevi e, in rarissimi casi,
anche con insorgenza da sedi extracutanee (per
esempio, occhio o meningi). Caratterizzano,
classicamente, il melanoma quattro distinte varietà:
Fig. 1 - Esempio di melanoma
a diffusione superficiale
(gentile concessione del dr. Massimo Alotto)
29
1.
2.
3.
4.
30
melanoma a diffusione superficiale;
lentigo maligna melanoma;
melanoma lentigginoso acrale;
melanoma nodulare.
L’andamento iniziale delle prime lesioni ha
una morfologia piana, a crescita orizzontale sulla cute. Nel corso del tempo si osserva un graduale andamento nodulare e si parla di melanoma piano-cupoliforme. La variante propriamente nota come melanoma nodulare ha, sin dal suo
primo manifestarsi, la caratteristica del nodulo e
tende a svilupparsi in profondità. Questa distinzione non ha solo una valenza didattica, ma
esprime una precisa implicazione clinica. Infatti
la prognosi della neoplasia correla significativamente con lo spessore che assume il melanoma
durante la crescita.
Molti studi, epidemiologici, clinici, di sperimentazione sono stati effettuati su questo tipo di
tumore e i dati statistici tendono a dimostrare
un’incidenza in costante crescita. Sono colpiti prevalentemente individui tra i 30 e i 60 anni. Il melanoma cutaneo è, in particolare, più frequente nei
soggetti di ceppo europeo (caucasici) rispetto ad
altre etnie. I tassi di incidenza più elevati si osservano nelle aree molto soleggiate e in popolazioni
di ceppo nordeuropeo, con la pelle particolarmente chiara. Nelle regioni italiane settentrionali
Fig. 2 - Nevo melanocitico congenito
(gentile concessione del dr. Massimo Alotto)
la mortalità per melanoma cutaneo è – per entrambi i sessi – circa il doppio di quella registrata
nelle regioni meridionali. Il melanoma cutaneo ha
una prognosi strettamente dipendente dallo spessore raggiunto nello strato cutaneo al momento
della sua diagnosi. Se il melanoma ha solo coinvolto gli strati più superficiali la sua asportazione
chirurgica significa guarigione. Lo stesso non si
può dire se il melanoma ha aggredito gli strati più
profondi, avendo avuto tempo per accrescersi ed
essendo stato diagnosticato tardi.
Una prima fase nell’approccio medico al
controllo del melanoma si è basata sull’identificazione delle lesioni precoci. Ma si è visto che
in termini strategici ha più valore una prevenzione di tipo primario, mirata a identificare le
persone con significativi fattore di rischio. In
particolare evidenza è la familiarità: una neoplasia si definisce familiare quando nella stessa famiglia vi sono almeno due membri parenti di primo grado affetti dalla stessa neoplasia.
Anche se il melanoma colpisce prevalentemente le classi dell’età matura (picco di incidenza tra 60-70 anni), è importante attivare la prevenzione già in età giovanile: è significativa la
correlazione tra esposizione in forma intensa e
breve all’irraggiamento solare (con comparsa di
ustioni) in età infantile e/o giovanile e la comparsa di melanoma in età adulta.
Dal registro dei tumori nel Veneto si evince
che il 35% dei casi di melanoma viene diagnosticato entro i 50 anni d’età e che è il 3° tipo di
tumore nei maschi e il 2° nelle femmine.
Quali sono i parametri del rischio per melanoma?
Si possono riassumere facilmente:
1) cute chiara, parenti di primo grado con il melanoma;
2) nevi cutanei a rischio di essere o diventare un
melanoma;
3) elevato numero di nevi (non esiste sostanzialmente chi è del tutto privo di nevi); particolare attenzione ai nevi di forma irregolare
e con dimensioni superiori ai 5 mm;
4) presenza di uno o più nevi congeniti di dimensioni superiori ai 6 cm. (fig. 2).
Ma cosa dobbiamo intendere per nevi: i nevi o nei, termine usato nel linguaggio comune,
sono disembrioplasie, cioè malformazioni cutanee di origine embrionale, dovute ad anomalie
di sviluppo di un qualsiasi componente della cute. Si dicono congenite se si presentano precocemente o acquisite se si presentano durante
l’infanzia o in età adulta. Di particolare interesse sono i nevi melanocitici, derivanti dalla proliferazione di melanociti. L’importanza dei nevi
melanocitici riguarda la diagnosi differenziale
con il melanoma.
Si avvicina l’estate e già in primavera, in alcune aree dell’Italia, comincia l’esposizione al
sole. Sui giornali compaiono le solite “raccomandazioni” che, pur essendo abbastanza accu-
rate, spesso mancano di semplificazione. Con
poche informazioni si può fare veramente molto.
Esiste una regola che suggerisca di valutare il
rischio, per esempio con la stessa autovalutazione? Si, e si ricorda facilmente perché utilizza le
prime cinque lettere dell alfabeto, A B C D E:
A → ASIMMETRIA forma irregolare;
B → BORDI irregolari, frastagliati, non ben definiti;
C → COLORAZIONE disomogenea, a macchie,
dal grigio-rosa al marrone-nero;
D →DIAMETRO ≥ 5 mm;
E →EVOLUZIONE cambiamento nella dimensione, forma, colore, spessore, superficie.
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BIOS NOVITÀ PER IL MEDICO
IL TEST DEL D-DIMERO NELLA DIAGNOSI
DI ESCLUSIONE DELLA TROMBOEMBOLIA
VENOSA
Barbara De Paola
Strumento diagnostico per il dosaggio del D-dimero
I
l D-dimero plasmatico è un prodotto di degradazione della fibrina stabilizzata. La sua presenza nel sangue dipende dall’attivazione della
coagulazione con formazione di fibrina, stabilizzazione della fibrina per azione del fattore XIII e
successiva proteolisi da parte del sistema fibrinolitico.
Il D-dimero è presente in basse concentrazioni nel sangue di soggetti anziani, ma la sua concentrazione aumenta in tutte le circostanze associate o caratterizzate da fibrino-formazione e fibrinolisi. I principali determinanti della sua concentrazione plasmatica sono dunque l’entità della
formazione di fibrina stabilizzata, l’entità dell’attivazione del sistema fibrinolitico e infine la clearance dei prodotti di degradazione della fibrina.
Il principale impiego clinico del dosaggio
del D-dimero plasmatico è rappresentato dalla
diagnostica di esclusione di trombosi venosa
profonda o embolia polmonare (tromboembolia venosa, TEV). Si tratta di patologie potenzialmente fatali e frequenti sia nei pazienti ambulatoriali sia in quelli ospedalizzati.
La trombosi venosa profonda (TVP) consiste in un’occlusione completa o parziale di un
tratto del sistema venoso profondo, più spesso
quello degli arti inferiori. L’incidenza annua di
nuovi casi nella popolazione è stimata tra 1 e 2
casi ogni 1.000 abitanti. Superata la fase acuta
compare frequentemente la cosiddetta “sindrome post-flebitica”, una condizione altamente invalidante caratterizzata da dolore, edema cronico, distrofia e discromia cutanea e dalla possibile insorgenza di ulcere trofiche croniche.
L’embolia polmonare è una patologia molto
frequente e molto spesso fatale. La sua incidenza si aggira intorno a 100 nuovi casi per
100.000 abitanti ed è la causa principale di morte nel 10% dei decessi intra-ospedalieri. Si stima che la mortalità per embolia polmonare raggiunga il 30% qualora non sia adeguatamente
trattata.
Purtroppo i sintomi e segni clinici di queste
patologie non sono specifici per cui il sospetto
clinico va sempre confermato da risultati di test
diagnostici oggettivi.
Sono attualmente disponibili diversi metodi
per il dosaggio del D-dimero plasmatico, tutti basati sull’impiego di anticorpi monoclonali che riconoscono specifici epitopi della molecola. La
difficoltà di standardizzare metodi diversi purtroppo non consente di comparare risultati ottenuti con metodi diversi. Per questo motivo è stato necessario individuare livelli decisionali per
ogni sistema diagnostico che permettano di identificare pazienti con alta probabilità di essere indenni da patologia trombotica.
I metodi per il dosaggio del D-dimero plasmatico applicati alla diagnostica delle tromboembolie venose hanno un’elevata sensibilità
ma purtroppo una bassa specificità e dunque so-
no utilizzati soprattutto per l’elevato valore predittivo negativo ossia servono per escludere (in
caso di risultato normale), ma non per confermare (in caso di risultato alterato) una diagnosi
di TEV.
È stato dimostrato che l’accuratezza del test
è maggiore se il paziente viene esaminato precocemente rispetto all’insorgenza dei sintomi e se
non è stato sottoposto a trattamenti anticoagulanti, che inducono una riduzione del livello del
D-dimero.
Va inoltre ricordato che il livello di D-dimero può essere aumentato in numerose condizioni fisiologiche e patologiche: nell’anziano,
in età neonatale, in gravidanza, in corso di infezioni, traumi o ustioni, nel paziente con neoplasie, in presenza di cardiopatia ischemica, di
malattie epatiche, renali o malattie infiammatorie croniche.
Nel nostro laboratorio il dosaggio del D-dimero plasmatico viene eseguito utilizzando il
metodo VIDAS (bioMerieux) semi-automatico
che fornisce risultati in tempi molto rapidi. Si
tratta del metodo che presenta la più alta sensibilità e valore predittivo negativo tra tutti quelli che attualmente sono disponibili in commercio.
Presso la BIOS S.p.A. di Roma in via Chelini 39, si eseguono quotidianamente
esami di laboratorio di routine e specialistici.
Per informazioni e prenotazioni: CUP 06 809641
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FROM BENCH TO BEDSIDE
I BENEFICI CLINICI DELLA RICERCA:
SELEzIONE DALLA LETTERATURA
SCIENTIFICA
MONITO DA “SAVE THE CHILDREN”:
“ALTOLÀ AL LATTE ARTIFICIALE, CON
L’ALLATTAMENTO AL SENO 95 BAMBINI IN PIù SALVATI OGNI ORA”
http://www.savethechildren.org.uk/news-andcomment/news/2013-02/breastfeeding-could-save830000-lives-year
Report “Superfood for babies”: http://www.savethechildren.org.uk/sites/default/files/images/Superfood_for_Babies_UK_version.pdf”
“Superfood for babies” (“Supercibo per bambini”) è il nuovo rapporto presentato dall’Organizzazione umanitaria “Save the Children” che
segnala le discutibili politiche di promozione dei
produttori di latte artificiale sostitutivo nei Paesi in via di sviluppo o emergenti. Ogni ora potrebbero essere salvati 95 bambini in più,
830.000 in un anno, se le mamme li allattassero
al seno immediatamente dopo la nascita.
Se i neonati ricevessero entro la prima ora di
vita il colostro – il primissimo latte materno – si
attiverebbe infatti rapidamente il sistema immunitario, rendendoli tre volte più capaci di sopravvivere alle condizioni avverse. Inoltre, se
l’allattamento esclusivo al seno dei neonati nei
Paesi meno sviluppati proseguisse anche nei 6
mesi successivi, li renderebbe 15 volte più forti
contro il rischio di morire per malattie letali frequenti (in alcuni Paesi) come la polmonite o la
diarrea.
“Nonostante il valore e la gratuità dell’allattamento esclusivo al seno siano ben noti nei Paesi meno sviluppati, esistono e persistono vere e
proprie barriere che ne ostacolano l’adozione”,
ha dichiarato il dr. Valerio Neri, dirigente di “Save the Children Italia”.
Secondo la Onlus i progressi fatti a livello
globale contro la mortalità infantile sarebbero
ancora più rapidi se le mamme fossero adeguatamente incoraggiate e sostenute nell’allatta-
Foto da www.savethechildren.it
mento naturale, mentre invece le statistiche indicano che la diffusione di questa pratica fondamentale non solo è in stallo, ma nell’Asia orientale e in alcuni tra i più popolosi Paesi africani
come Etiopia e Nigeria, sta addirittura regredendo. Una prima barriera è costituita dalla scarsa
educazione e responsabilizzazione delle madri,
spesso legata a contesti culturali nei quali non
sono loro a decidere liberamente su come allattare i neonati e dove, in alcuni casi, nella prima
ora di vita, al posto del colostro viene somministrato caffè, burro di karitè o cenere. Una seconda barriera è rappresentata dalla grave carenza di
ostetriche o operatori sanitari che possano informare e sostenere le neomamme verso l’allattamento naturale. Un terzo ostacolo è posto dall’inadeguatezza, o nel caso di molti Paesi in via di
sviluppo, dalla totale assenza di una legislazione
di tutela economica delle mamme lavoratrici.
Tra le barriere che attivamente penalizzano
la diffusione dell’allattamento naturale il Rapporto segnala le discutibili politiche di marketing
per alcuni dei produttori di latte artificiale che,
violando le norme del Codice internazionale dell’OMS, possono far credere alle mamme che
quello sia il modo migliore per allattare i propri
figli, anche se non possono permetterselo economicamente. D’altra parte, il Codice internazionale è stato recepito completamente solo da
37 Paesi, altri 47 lo hanno recepito in buona parte, ma i restanti Paesi hanno accolto solo una minima parte delle raccomandazioni o ne stanno
ancora valutando l’attuazione legislativa.
“Superfood for babies” mette in luce, in particolare, quello che avviene nei mercati emergenti, come quello asiatico, particolarmente attraente per l’industria del latte sostitutivo artificiale, dove la diminuzione del numero di madri
che ha scelto l’allattamento naturale specificatamente nell’Asia Orientale e Pacifico, è sceso dal
45% del 2006 al 29% del 2012.
Le ricerche condotte da “Save the Children”
in Asia hanno raccolto testimonianze dirette di
mamme sulla violazione del Codice internazionale da parte di alcune aziende produttrici come
nel caso della Cina, dove il 40% delle intervistate ha dichiarato di aver ricevuto campioni di latte artificiale direttamente dai rappresentanti delle aziende stesse (per il 60%) o dagli operatori
sanitari (per il 30%).
“Save the Children” chiede oggi che tutti i
governi adottino in pieno le raccomandazioni del
Codice internazionale nella legislazione e ne garantiscano il rafforzamento e il controllo indipendente, mentre rivolge un appello ai produttori di latte artificiale perché rendano più chiare le
raccomandazioni sanitarie sulle confezioni in
vendita, con una indicazione dell’inferiorità del
prodotto rispetto al latte materno, e che queste
indicazioni occupino almeno 1/3 dell’involucro,
continua il dr. Valerio Neri.
L’Organizzazione si appella inoltre a tutti i
governi perché vengano dedicate più risorse alla
lotta alla malnutrizione infantile che colpisce circa 200 milioni di bambini sotto i 5 anni ed è responsabile di più di 1/3 delle morti infantili nel
mondo, e che l’allattamento al seno sia parte integrante degli interventi. Infine, “Save the Children” chiede ai Paesi in via di sviluppo di adottare piani specifici che possano aumentare significativamente la percentuale di adozione dell’allattamento al seno.
AIDS: CON CURE PRECOCI GUARISCE
UNA NEONATA
htp://www.hopkinschildrens.org/deborah-persaudmd.aspx
Una bimba nata nel Mississippi con il virus
dell’AIDS sembra essere guarita dopo essere stata curata con un cocktail di medicine sin dalle
prime ore dopo la nascita. Lo hanno reso noto i
ricercatori che hanno seguito il suo caso che potrebbe aprire la strada alla cura di migliaia di
bambini nati affetti dall’AIDS, soprattutto in
Africa. Il caso di questa bambina, che ora ha due
anni e mezzo, se confermato, scrive il “New
York Times”, sarà il secondo documentato di un
paziente guarito dall’HIV.
Il primo è quello di un uomo adulto, Timothy
Brown, noto come il paziente di Berlino, guarito nel 2007 dopo un trapianto di midollo osseo.
La bimba, hanno riferito i medici, è stata curata
con medicinali antiretrovirali sin da 30 ore dopo
la sua nascita, una pratica inconsueta. “Per i pediatri si tratta del nostro Timothy Brown”, ha
detto la dottoressa Deborah Persaud, del John
Hopkins Children’s Center, che ha redatto il rapporto sulla bimba e secondo la quale si tratta della “prova di principio che possiamo curare l’HIV
se riusciamo a riprodurre questo caso”. I ricercatori esortano però alla cautela, sottolineando
che al momento si tratta di un caso unico.
La pratica stabilita dall’Organizzazione Mondiale della Sanità prevede che un bambino nato
da una mamma infetta dall’HIV venga curato
con una quantità limitata di antiretrovirali per
quattro o sei settimane, fino a che il bimbo non
risulti a sua volta positivo ad un test, nel qual caso si aumentano le dosi. Nel caso della bambina
del Mississippi, quando la mamma è andata a
partorire in un piccolo ospedale di campagna non
sapeva di avere l’HIV e, quando è risultata positiva al test, la bimba, che era nata da poco più di
un giorno, è stata trasferita in un ospedale dove
le è stato immediatamente a sua volta praticato il
test. Secondo la dottoressa Hannah Gay, che ha
esaminato il risultato, la bimba era stata infetta-
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ta quando era ancora nel grembo della madre,
piuttosto che durante il parto e poiché il livello di
infezione era ancora basso ha immediatamente
prescritto alla bimba tre differenti farmaci come
trattamento, e non come profilassi. I livelli del
virus, scrive ancora il “New York Times”, si sono ridotti rapidamente e dopo un mese non erano neanche più rilevabili.
E ancora così fino a che la bambina non ha
compiuto 18 mesi. Poi la madre ha smesso di farle fare i test per cinque mesi ma, quando ha ripreso di nuovo, i test sono risultati negativi. La
dottoressa Guy ha quindi fatto sottoporre la bimba a una serie di test più sofisticati, che hanno rilevato solo piccole tracce del virus integrate nel
materiale genetico, che però non sono in grado di
replicarsi. Secondo i medici, la decisione di intervenire con i farmaci, sin da poche ore dopo la
nascita, ha impedito la formazione della cosiddetta riserva virale che ospita il virus e, dal momento che il virus non è stato più rilevato nel
sangue della bambina, il trattamento è stato sospeso. Poiché da allora non è stato più rilevato il
virus, affermano i medici, evidentemente la bimba è guarita.
menti giudiziari, a progetti sperimentali di navigazione a vela rivolti a ciechi e ipovedenti, a persone con sindrome di Down, ma anche semplicemente a chi ha più di 60 anni o è ospite di istituti geriatrici. La barca dei Tetragonauti è la
“Lady Lauren”, un ketch di 22 metri a due alberi, capace di ospitare otto persone più l’equipaggio e di garantire una navigazione serena e sicura. A bordo gli ospiti trovano il comandante e
operatori qualificati e specializzati sia dal punto
di vista nautico, sia educativo. I partner e i finanziatori sono istituzionali e privati. Fra di essi
moltissime amministrazioni comunali, regioni, il
Ministero della Giustizia, banche, fondazioni,
yacht club. “L’andar per mare – spiegano gli artefici di queste iniziative sul loro sito internet
www.itetragonauti.it – non è solo un’esperienza
di viaggio, ma un momento in cui si vive la possibilità di cambiare, magari in modo minimo, ma
comunque significativo: poco importa se è il
cambiamento infinitesimale del disabile che si
convince a tenere il timone per tre minuti o il
cambiamento di chi ha compiuto reati che dopo
un viaggio per mare rivede se stesso e il suo copione di vita”.
ASSOCIAzIONE TETRAGONAUTI: ANDARE PER MARE COME TERAPIA. 10
ANNI DI INIzIATIVE
INDICE DI MASSA CORPOREA (BMI:
BODy MASS INDEX) SUPERATO. ARRIVA
IL NUOVO CALCOLO
www.itetragonauti.it
http://people.maths.ox.ac.uk/trefethen/bmi.html
Compie 10 anni, l’Associazione dei “Tetragonauti”, Onlus che propone il mare come opportunità di cambiamento per tutti coloro che si
trovano, per varie ragioni, in una situazione di
fragilità: non vedenti, disabili, malati, bambini e
giovani in difficoltà, anziani. Innumerevoli, in
questi 10 anni, i progetti realizzati in tutti i mari
d’Italia, tra la Riviera ligure, lo Stretto di Messina, la Sardegna. E vanno dai corsi di acquaticità
e subacquea per minori disabili, a interventi di
educazione per mare rivolti a minori disagiati in
carico ai Servizi Sociali; da iniziative dedicate
alle comunità che ospitano ragazzi con procedi-
I ricercatori della Oxford University hanno
aggiornato il calcolo del BMI, l’indice di massa
corporea usato per calcolare lo stato di “peso forma”, con una nuova formula più accurata che
identifica la quantità di grasso effettiva del proprio corpo. Il calcolo classico (peso/altezza al
quadrato) è una semplice operazione matematica
che risale al 1830, ideata dallo scienziato belga
Adolphe Quetelet. “Si tratta di una stima approssimativa che non tiene conto delle persone basse
e di quelle molto alte” spiega il professor Nick
Trefethen docente di analisi numerica all’università di Oxford e autore del nuovo calcolo: “Il no-
stro algoritmo è invece preciso perché bilancia
più accuratamente il peso con l’altezza”. Il nuovo calcolo, più complesso rispetto al precedente,
si realizza così: 1,3 moltiplicato per il peso; il risultato deve essere diviso per l’altezza elevato a
2,5. “Con il calcolo classico i bassi pensano di essere più magri del reale e i molto alti credono di
essere più grassi di quanto non siano in realtà. Col
nuovo calcolo”, precisa il matematico, “chi misura meno di 1 metro e 52 guadagna 1 punto di
BMI (e risulterà quindi più grasso) chi si avvicina ai 2 metri di altezza perde 1 punto (risultando
quindi al calcolo con meno grasso)”.
MALATTIE RARE: 30 MILIONI I PAzIENTI IN EUROPA. DALL’UE 144 MILIONI EURO PER RICERCA PER FINANzIARE 26 PROGETTI
Uno stanziamento di 144 milioni di euro diretto per finanziare 26 progetti di ricerca sulle
malattie rare è stato annunciato dalla Commissione Europea. I progetti aiuteranno a migliorare la vita di circa 30 milioni di europei, in gran
parte bambini, che soffrono di queste malattie.
Nella ricerca sono coinvolti 300 partecipanti, di
29 paesi tra Unità Europea e non. L’obiettivo è
raggiungere una migliore comprensione delle
malattie rare e trovare le terapie adeguate.
ITALIA PAESE INDENNE DA RABBIA:
ULTIMO CASO NEL 2011
L’Italia ha riacquisito lo status di Paese indenne da rabbia. Lo status di Paese indenne da
rabbia, come stabilito dalle procedure dalla
World Organisation for Animal Health (OIE),
(Organizzazione Mondiale della Salute Animale), può essere riacquisito, trascorsi due anni dall’accertamento dell’ultimo caso di malattia che
in Italia risale al 14 febbraio del 2011. Il risultato è stato conseguito a seguito dell’applicazione
delle misure previste dalle Ordinanze che il Ministero della Salute ha emanato nel novembre
2009 e nel febbraio del 2012 la cui applicazione
è stata curata dalla Direzione Generale della Sanità Animale. Un esteso piano di vaccinazione
orale antirabbico nelle volpi e l’obbligo di vaccinazione dei cani presenti nelle zone a rischio e
degli animali condotti al pascolo in diversi parti dei territori del Nord Est d’Italia, effettuati col
sostegno finanziario dall’Unione Europea, sono
stati efficacemente attuati nei territori interessati con la collaborazione del centro nazionale di
referenza presso l’Istituto Zooprofilattico di Padova e dai veterinari sia pubblici sia privati. Nonostante la favorevole situazione epidemiologica l’Italia, rende noto il ministero della Salute,
manterrà un piano di vaccinazione nelle volpi
nella Regione Friuli Venezia Giulia, lungo il
confine italo-sloveno, in considerazione del permanere della situazione di rischio nell’area balcanica.
RIPOSARE BENE AIUTA A VIVERE MEGLIO. IL 30% DEGLI ITALIANI HA PROBLEMI
Dormire bene aiuta a vivere meglio e a prevenire le malattie. È questo il messaggio lanciato in occasione della giornata mondiale del sonno, promossa dalla “World Association of Sleep
Medicine” (WASM). L’attenzione quest’anno è
stata puntata in particolare modo sulla terza età e
su i ricorrenti disturbi del sonno: secondo recenti studi, infatti, circa il 50% degli anziani ha difficoltà a dormire a causa dell’invecchiamento in
sé, ma prevalentemente per disturbi respiratori,
malattie e assunzione di medicinali.
In generale, in Italia la mancanza di un riposo adeguato colpisce secondo gli esperti circa il
30% della popolazione, con effetti negativi nel
lungo e breve termine, come obesità, diabete, indebolimento del sistema immunitario e predisposizione all’ansia e alla depressione.
Per tutti coloro che hanno difficoltà a dormire la WASM ha realizzato il decalogo del sonno
perfetto, che prevede regole come darsi un orario fisso per il sonno e il risveglio, non esagera-
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re con i riposi durante il giorno, rinunciare ad alcol e fumo nelle quattro ore prima di andare a
dormire, evitare a cena cibi pesanti, speziati o
troppo zuccherati, non bere caffè nelle sei ore
che precedono il riposo e non fare esercizio fisico subito prima di andare a dormire. Inoltre, viene consigliato di indossare biancheria confortevole, curare il microclima della stanza, che deve
sempre essere ventilata, evitare rumori, attenuare la luce e, se possibile, non lavorare a letto.
TUMORI AL SENO: UN NUOVO TEST GENETICO EVITA LA CHEMIOTERAPIA
INUTILE E EVIDENzIA CASI NEI qUALI
è INVECE NECESSARIA
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Un nuovo test genetico, disponibile anche in
Italia, ma non ancora rimborsato dal Sistema Sanitario Nazionale, potrebbe evitare la chemioterapia a un quarto delle donne malate di tumore al
seno. Lo affermano gli esperti durante la St. Gallen international Breast Cancer Conference tenutasi nella città svizzera.
L’esame si basa sui livelli di espressione di
21 geni e su un algoritmo che, in base a questi,
elabora una probabilità che il tumore si ripresenti o dia luogo a metastasi entro 10 anni. Se il rischio è basso, sottolineano gli esperti, la chemioterapia non serve, e l’analisi funziona particolarmente per tumori allo stadio iniziale, positivi ai recettori ormonali estrogenici o progestinici e senza interessamento dei linfonodi ascellari, quelli per cui è più difficile stabilire una terapia dopo l’intervento chirurgico.
“Questo specifico test diagnostico permette
di selezionare in maniera accurata coloro che
potrebbero trarre un reale beneficio da una chemioterapia – spiega il professor Paolo Pronzato, Direttore della Divisone di Oncologia Medica dell’Istituto San Martino-IST di Genova –
evitandone il ricorso nei casi in cui essa potrebbe rappresentare soltanto un danno in termini di
peggioramento di qualità di vita o, al contrario,
di trascurarne l’impiego laddove sarebbe necessaria”.
Grazie al test, hanno spiegato gli esperti, in
un terzo delle pazienti l’oncologo ha potuto modificare il piano terapeutico, evitando la chemioterapia in un quarto e aggiungendola invece nel
5-10% delle pazienti.
GUARDARE LA TV ALIMENTA AGGRESSIVITÀ NEI BAMBINI. I GENITORI DOVREBBERO LIMITARE IL TEMPO DEI
LORO FIGLI DAVANTI ALLA TELEVISIONE E SCEGLIERE I PROGRAMMI
ADATTI PER I FIGLI
http://pediatrics.aappublications.org/content/131/3/439.full.pdf
Uno studio su bambini e adolescenti mostra
che, per ogni ora di TV in più vista tardi la sera
da bambini e adolescenti, cresce del 30% il rischio di avere guai con la giustizia nella prima
età adulta. Inoltre, vedere la TV è risultato ancora una volta associato a comportamenti antisociali e a tendenza all’aggressività. Lo studio è
stato condotto su circa 1.000 bambini e adolescenti di età compresa tra i 5 e i 15 anni seguiti
nell’arco del loro sviluppo, quindi un vero studio di osservazione sul campo. Pubblicato sulla
rivista Pediatrics, lo studio è stato diretto dal
professor Bob Hancox ed è il primo a dimostrare in modo concreto che esiste una causalità tra
visione della TV e certi comportamenti aggressivi e antisociali, indipendentemente da altri fattori che possono inficiare il dato, come l’estrazione socio-culturale dei genitori. Un altro lavoro, sempre apparso su la stessa rivista Pediatrics,
firmato dal professor Dimitri Christakis della
University of Washington, mostra invece che
sensibilizzando i genitori a seguire i propri figli
che guardano la TV e a scegliere per loro programmi didattici (che spronano all’empatia e insegnano il valore di aiutare il prossimo), nel giro di alcuni mesi i bambini risultano meno aggressivi dei coetanei che, a parità di ore davanti
allo schermo, guardano quello che vogliono.
L’Accademia Americana di Pediatria raccomanda di evitare che i bambini guardino la TV più di
1-2 ore al giorno e comunque invita a vedere solo programmi adatti a loro. I genitori, suggeriscono gli autori di questo studio, dovrebbero limitare l’uso della TV per i propri figli.
RAGAzzI CHE FANNO SPORT HANNO
UNA PAGELLA PIù BRILLANTE. CHI è
IN FORMA RENDE MEGLIO A SCUOLA
http://www.ncbi.nlm.nih.gov/pubmed/23187329
I teenager che fanno sport non solo stanno
meglio in salute ma prendono anche voti migliori a scuola. Lo dimostra una ricerca che conferma scientificamente quanto invocato già nell’antichità dai romani, “mens sana in corpore
sano”. Lo studio, svolto al Dipartimento di Kinesiologia in collaborazione con quello di Epidemiologia dell’Università del Tennessee, a
Knoxville, è stato condotto su 312 studenti delle scuole medie. Pubblicato sul Journal of
sports medicine and physical fitness, fa luce sul
rapporto fra rendimento scolastico e livello di
fitness dei ragazzi, valutandolo attraverso le loro pagelle ma anche attraverso l’uso di test standardizzati di valutazione delle capacità di apprendimento, che non dipendono dal giudizio
soggettivo dei professori. È stato quindi anche
monitorato il livello di fitness fisico dei ragazzi calcolando la quantità di grasso corporeo, la
forza muscolare, la flessibilità e la resistenza e
sottoponendoli a corse in staffetta, flessioni ed
esercizi vari.
“Al più alto punteggio di fitness corrispondono migliori capacità di apprendimento e di
rendimento scolastico” spiega il professor Dawn
Coe che ha diretto l’indagine. “Gli studenti con
il più basso punteggio di fitness, invece, avevano anche le peggiori performance in classe e voti più bassi”.
Gli autori sottolineano che eliminare l’ora di
ginnastica nelle scuole sia un errore gravissimo.
L’attività fisica è essenziale perché propedeutica alle altre materie, il fitness è fortemente connesso con il successo dei ragazzi a scuola.
IL PRESIDENTE AMERICANO OBAMA
LANCIA UN PIANO DECENNALE DI
MAPPATURA DELLA MENTE UMANA
L’amministrazione Obama sta lanciando un
piano di studi scientifici di durata decennale allo scopo di esaminare il lavoro della mente umana e tracciare una mappa della sua attività, analogamente a quello che i genetisti fecero anni fa
con il genoma grazie allo “Human Genome
Project”.
Come anticipa il “New York Times” in prima pagina, il piano – denominato “Brain Activity Map Project” – verrà concretamente presentato e prevede una stretta collaborazione pubblico-privato.
Molte agenzie federali, assieme a fondazioni
scientifiche, aiuteranno un team di neurologi e
“nanoscienziati” nei loro sforzi per portare avanti la conoscenza dei miliardi di neuroni presenti
nel nostro cervello, per capire meglio come funziona la nostra percezione sensoriale e in ultima
analisi il nostro stato di coscienza.
Con questo progetto si spera anche di acquisire nuovi sviluppi scientifici e tecnologici per
trovare terapie a malattie gravi come l’Alzheimer e il morbo di Parkinson.
REALIzzATO PRIMO VACCINO CON
DNA IN FORMATO CEROTTO. RILASCIA
GRADUALMENTE IL FARMACO PER INTERE SETTIMANE
http://www.nature.com/nmat/journal/v12/n4/full/nmat
3550.html
Supplementary information
http://www.nature.com/nmat/journal/v12/n4/extref/n
mat3550-s1.pdf
Realizzato il primo vaccino contenente un
tratto di DNA, il tutto nel formato di un cerotto:
si tratta di uno strato di minuscoli aghi che rilasciano gradualmente il farmaco per intere settimane, garantendo così un dosaggio continuo al
paziente e una maggiore risposta alla terapia; si
è inoltre riscontrata con l’uso di questo metodo
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una buona conservazione del farmaco. Questa
modalità di rilascio del vaccino, realizzata da un
gruppo di ricercatori coordinato dall’Istituto di
Tecnologia del Massachusetts (MIT) e descritta
su Nature Materials, potrebbe risultare importante per i Paesi in via di sviluppo perché non richiede refrigerazione e risulta facile da immagazzinare e trasportare.
Il cerotto realizzato dai ricercatori statunitensi potrebbe dunque aprire la strada all’utilizzo degli economici e innovativi “vaccini a
DNA”, una nuova tipologia di farmaci candida-
ta a sostituire i vaccini tradizionali. A differenza
di questi ultimi, realizzati normalmente iniettando virus o batteri “depotenziati”, i vaccini a DNA
prevedono direttamente l’inserimento nelle cellule di un tratto di DNA con le istruzioni per
combattere l’infezione. Una soluzione teoricamente molto semplice ed economica ma che ha
prodotto finora scarsi risultati e si è rivelata molto difficile da attuare.
a cura di Maria Giuditta Valorani
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HANNO COLLABORATO A qUESTO NUMERO
dr. Carolina Aranci
Counsellor professionista analitico-transazionale
Presidente Associazione Internazionale Donne
dr. Vincenzo Candela
Specialista in Ortopedia e Fisiatria
FisioBIOS
prof. Alessandro Ciammaichella
Medico chirurgo, Specialista in Medicina Interna
già Primario medico ospedaliero
dr. Barbara De Paola
Biologa
Reparto Patologia Clinica BIOS
- Sezione Ematologia
prof. Francesco Leone
Specialista in Malattie Infettive
Docente presso “Sapienza” – Università di Roma
Direttore sanitario Bios S.p.A.
prof. Giuseppe Luzi
Specialista in Allergologia e Immunologia Clinica
Professore associato di Medicina Interna (f. r.)
Docente presso “Sapienza” – Università di Roma
Facoltà di Medicina e Psicologia
dr. Maria Giuditta Valorani, PhD
Research Associate
Institute of Child Health
University College of London – London, GB
prof. Lelio R. Zorzin
dr. Silvana Francipane
Medico chirurgo
Specialista in Reumatologia
Professore associato di Reumatologia (f.r.)
DIAGNOSTICA PER IMMAGINI
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↪ LESIONI FINO A 2/3MM
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