Pietro Corrao Quello della storia delle mentalità è

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Pietro Corrao Quello della storia delle mentalità è
Pietro Corrao
Quello della storia delle mentalità è un ambito di studi sviluppatosi
nei fondamenti teorici e nella pratica della ricerca nel contesto della
rivoluzione storiografica del Novecento avvenuta sotto la cifra della
scuola delle Annales. Caratteristica della terza generazione degli studiosi
che fanno capo a tale orientamento, essa costituisce una delle ispirazioni
originarie e originali degli innovatori degli anni Trenta ed è al tempo
stesso strettamente connessa ad altri presupposti epistemologici,
metodologici e tematici che appartengono a pieno titolo alla storiografia
francese del Novecento, ma anche alle correnti più innovatrici europee e
statunitensi delle scienze sociali e della storia.
Se, infatti, capostipiti della storia delle mentalità – così come oggi
è intesa – sono le due grandi opere di Marc Bloch, Les rois thaumaturges
(1924) e di Lucien Febvre, Le problème de l'incroyance au
XVI
e
siècle
(1952), sia pure nei rispettivi diversi orientamenti, l'intenzione di
studiare i quadri mentali collettivi è indissolubilmente legata sia alla
reazione antindividualista, sia all'opzione interdisciplinare, sia
all'ispirazione strutturale nei contenuti, quantitativa e seriale nella
metodologia affermatesi nella storiografia francese fra gli anni Trenta e
gli anni Sessanta per poi diventare patrimonio comune della storiografia
contemporanea.
Ma certamente non può tacersi che radici lontane sono
l’ispirazione kulturgeschichtlich dell’opera di Burkhardt nella seconda
metà dell’Ottocento, né che profonde suggestioni erano giunte
dall’attenzione centrata sulle credenze, sui riti, sul senso dell’amore e
della morte presenti in Herfsttij der Middeleeuwen di Johan Huizinga
(1919) o che fra gli anni trenta e gli anni Cinquanta studiosi non
coerentemente legati all’ambiente delle Annales come Febvre o ad esso
1
del
tutto
estranei,
come
Norbert
Elias
abbiano
praticato
pioneristicamente strade poi divenute classiche per la storia delle
mentalità, studiando la genesi delle paure collettive o il condizionamento
dell’economia
pulsionale
caratteristico
della
modernizzazione
occidentale. Quasi a proseguire l’originaria caratterizzazione politica
impressa da Marc Bloch ai primi studi sulle mentalità, su un altro fronte,
Ernst Kantorowicz, con The King’s Two Bodies (1957) contribuiva a
legare insieme i temi delle ideologie, della propaganda e dei lessici
politici, ponendosi in relazione trasversale e autonoma – ma esercitando
su di essi un grande ascendente – con gli storici delle mentalità degli
anni Settanta e Ottanta. Questi, infatti, sono gli anni in cui si addensa
maggiormente la produzione di studi decisamente inquadrati in quella
dimensione teorica.
Non è infine casuale che la prima definizione degli ambiti di
indagine che saranno poi propri degli studi sulle mentalità sia fortemente
influenzata dalle stesse suggestioni che furono l'humus per la svolta
della concezione storiografica dei grandi storici francesi degli anni
centrali del secolo (Henry Berr, Ernest Labrousse, Emile Durkheim, Lucien
Levy Bruhl, Maurice Halbwachs), che le elaborazioni più recenti sono
venute in stretto dialogo con altri grandi punti di riferimento che hanno
nome Michel Foucault o Pierre Bourdieu, e che il terreno privilegiato
dell'incontro con altri ambiti disciplinari si sia sempre più addensato
nell’impostazione antropologica degli studi storici.
Può infatti apparire semplificatorio o eccessivamente banale, ma
va rilevato che alla base dello studio delle mentalità in prospettiva
storica sta la basilare acquisizione della nozione di altro , cui sono
ricondotte le rappresentazioni mentali collettive e le pratiche culturali
delle
società
preindustriali.
Si
assiste
a
uno
slittamento
dell’identificazione dell’alterità culturale dal piano spaziale a quello
cronologico. Opzione di fondo degli storici delle mentalità è infatti
l’irriducibilità delle attrezzature mentali delle società tradizionali a quelle
contemporanee. Un’opzione fondamentalmente storicista, ma in una
declinazione che piuttosto che all’idealismo o al materialismo storico
appare vicina alla Begriffsgeschichte di Reinhart Kosellek.
2
La grande varietà di interpretazioni e di declinazioni del concetto
di mentalità (opportunamente dotato di una feconda ambiguità, come
rilevato da Jacques Le Goff) impediscono di tracciare una definizione
univoca di questo ambito di studi; specialmente nei suoi sviluppi più
recenti, sotto tale etichetta sono stati annoverati studi dalle
caratteristiche diverse, specie se si osserva la produzione al di fuori dai
confini storiografici francesi, all’interno dei quali tuttavia questi studi
hanno avuto il maggiore sviluppo.
Va detto anzitutto che alla definizione di storia delle mentalità (al
plurale) va aggiunta per chiarezza l'aggettivo collettive. In un certo
senso è questo il discrimine più netto con la tradizionale interpretazione
della storia della cultura o della storia delle idee.
L’oggetto delle indagini – definito in generale, utilizzando
l’apparato concettuale e lessicale elaborato e utilizzato dai maggiori
protagonisti di questa storiografia – è quell’insieme di conoscenze, di
saggezze anonime e
diffuse , inconsapevoli o solo parzialmente
consapevoli, di abitudini e modelli di comportamento automatici,
condivisi e persistenti, diffusi in una cultura, e che costituiscono
l’attrezzatura mentale collettiva, la radice delle pratiche culturali.
Credenze, visioni del mondo, sensibilità, percezioni e rappresentazioni
della realtà spesso caoticamente strutturate in nebulose mentali di lunga
durata, tali da costituire il basso continuo di una società.
Fortemente legata alla prospettiva braudeliana della storia quasi
immobile, la considerazione delle prigioni mentali in termini strutturali, di
lunga durata, è all'origine di una concezione dicotomica (società
tradizionali/società moderne) che scioglie i concetti periodizzanti e li
riconduce ad una sola grande trasformazione. Implicitamente, ciò che
viene posto al centro del cambiamento epocale non è la realtà
strutturale, ma quella che si opera nel campo delle mentalità stesse.
L'oscillazione terminologica, nella quale ha prevalso alla fine la
locuzione
storia
delle
mentalità
è
un
indice
della
relativa
indeterminatezza dell'oggetto e dell'approccio. Un'indeterminatezza sulla
quale si è concentrato il dibattito teorico, che non a caso ha richiamato
la tendenza alla bulimia onnicomprensiva dell’orientamento degli studi
3
(Michel Vovelle). Se però si fa riferimento alla pratica della ricerca e della
produzione, che ha visto negli anni Sessanta-Ottanta l'affermarsi di un
canone quasi ineludibile, tale indeterminatezza appare meno evidente:
emergono come ambiti d’indagine specifici il frequentatissimo tema degli
atteggiamenti collettivi verso la morte (Alberto Tenenti, Philippe Ariés,
Pierre Chaunu, Michel Vovelle), quello della differente percezione delle
differenze generazionali (Ariés), gli studi sulle trasformazioni della
concezione e la percezione del tempo (Le Goff), sui sistemi delle
credenze religiose (Le Goff, Jean Delumeau) e sugli universi culturali
eterodossi (Robert Mandrou, Carlo Ginsburg, Emmanuel Le Roy Ladurie,
Alberto Tenenti, Jean-Claude Schmitt).
Ad essi si affianca una vasta gamma di indagini sulle
rappresentazioni (ad esempio la celebre lettura della società tripartita
dell’Europa feudale messa in relazione da Georges Duby con un
persistente riferimento trifunzionale presente nelle civiltà indoeuropee),
sulle emozioni e i sentimenti, la paura, l’insicurezza, il pudore (Delumeau,
Jean-Claude Bologne), sulla simbolica del gesto e del corpo e sulla festa
(Vovelle, Leroy Ladurie, Schmitt), sulle idee trasformatrici (Vovelle),
sulle percezioni collettive, come ad esempio il significato dei codici
cromatici (Michel Pastoreau), sulla costruzione della memoria collettiva
degli eventi (Duby), sullo sterminato campo della messa in opera dei
modelli mentali collettivi nell’infinita ripetitività del quotidiano (Michel de
Certau, Daniel Roche), o sull’ambito, altrettanto sterminato, della
religiosità popolare e della santità come dato storico-antopologico
(Schmitt).
Questi studi si congiungono con le rivisitazioni in chiave collettiva
di campi specifici della storia della cultura e delle idee (la lettura, la
circolazione dell’informazione), in cui svaniscono i confini fra cultura
dotta e popolare, degerarchizzate e poste in relazione di circolarità
(Roger Chartier, Robert Darnton, Natalie Zemon Davis, Carlo Ginsburg).
Non dissimile l’operazione condotta nel campo delle credenze e delle
rappresentazioni attraverso il concetto di immaginario collettivo, che
aspira a ricomporre la frattura fra generi letterari, fra invenzione
tradizionale e invenzione dotta.
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Originale apporto di questi orientamenti è – per quanto teorizzato
in maniera relativamente episodica e incompleta o forse solamente
enunciato – il corto circuito fra dimensione biologica e culturale,
entrambe considerate concorrenti nella definizione delle correnti
profonde della storia umana; la storia delle mentalità, dunque, non
appare disgiunta dall’altro grande orientamento di studi generato nella
stessa temperie storiografica, quello della storia della cultura materiale.
Né, d’altronde, la molteplicità delle suggestioni provenienti da questi
studi ha mancato di provocare un effetto di ritorno su ambiti più
tradizionali della ricerca storica, quali la storia politica e sociale; si pensi
alla biografia di S. Luigi di Le Goff, condotta sulla costruzione della
rappresentazione collettiva del re santo o agli studi sull’aristocrazia di
Lawrence Stone, intrecciati con l’indagine sulle morali sessuali e sulle
radici mentali delle pratiche di trasmissione dei patrimoni, o ancora agli
studi sulla mentalità e la politica nella Francia del Settecento e nella
rivoluzione francese (Vovelle, Darnton) e al fecondo concetto di
rappresentazione del sociale che ha ispirato molta storiografia della fine
del
XX
secolo (Chartier).
Tali opzioni tematiche hanno comportato a loro volta una forte
opzione metodologica in senso quantitativo e all’estensione smisurata
del concetto di fonte; va però rilevato, a questo proposito, l’originale (e
obbligata) congiunzione da parte degli storici delle mentalità di
prospettive di analisi quantitative e impressionistiche, come pure – sul
secondo versante – l’adozione privilegiata della fonte iconografica,
seriale o meno, con il forte supporto del ricorso a strumenti e
orientamenti propri della scuola di Warburg (Ginsburg).
L’influsso delle prospettive di osservazione e di interpretazione del
passato preindustriale propri dello studio delle mentalità non hanno
mancato di segnare anche alcuni dei più originali orientamenti che pure si
collocano in contesti storiografici e tematici molto differenti; si pensi, ad
esempio, all’elaborazione del concetto di economia morale per la lettura
delle idee collettive delle plebi inglesi del Settecento di Edward P.
Thompson o al forte rapporto fra microstoria e studi sulle mentalità
collettive e perfino ad orientamenti recentissimi della storia
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contemporanea che hanno dedicato attenzione alla simbolica del corpo
(Sergio Luzzatto).
Dopo gli anni Ottanta, in conclusione, più che un ambito di
indagine specifico, la storia delle mentalità è divenuto un atteggiamento
dello storico della cultura e della società e dello storico tout court nei
confronti del proprio campo di osservazione; l’esperienza e la riflessione
degli anni Sessanta-Ottanta hanno insomma introdotto negli studi storici
sia nuovi oggetti di ricerca, sia una diversa sensibilità e attenzione nei
confronti di dimensioni ancora largamente inesplorate del passato.
(Cfr. anche Critica archetipica, Imagologia, Materialismo culturale,
Microstoria, Storia della cultura, Teorie della corporeità)
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collettivo, Relazione trasversale, Lunga durata.
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