Il potere del consumo fra storia e immaginario. Note in margine a `L`

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Il potere del consumo fra storia e immaginario. Note in margine a `L`
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PARAGRAFO
RIVISTA DI LETTERATURA & IMMAGINARI
Paragrafo
Rivista di Letteratura & Immaginari
pubblicazione semestrale
Redazione
FABIO CLETO, DANIELE GIGLIOLI, MERCEDES GONZÁLEZ DE SANDE,
FRANCESCO LO MONACO, FRANCESCA PASQUALI, VALENTINA PISANTY,
LUCA CARLO ROSSI, STEFANO ROSSO, AMELIA VALTOLINA
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Questo numero è pubblicato con il contributo del Dipartimento di Lettere,
Arti e Multimedialità e del Dottorato di Ricerca in Teoria e Analisi del Testo
© Università degli Studi di Bergamo
ISBN – 978-88-95184-50-0
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Stampato da Stamperia Stefanoni - Bergamo
Paragrafo
III (2007)
Sommario
QUESTIONI
§1. FRANCESCO GHELLI, Il potere del consumo fra storia e immaginario. Note in margine a L’impero irresistibile di Victoria de Grazia
7
§2. NUNZIA PALMIERI, L’epistolario di Umberto Saba. Storia di un’edizione mancata
29
§3. MARCO TOMASSINI, Il viaggio dell’eroe. Luther Blissett e le epifanie del molteplice
47
FORME
§4. FRANCESCA CAMURATI, Quando la tradizione è più forte della realtà.
Il modello ariostesco nella Araucana di Alonso de Ercilla
69
§5. GIULIANA ZEPPEGNO, Sergio Toppi illustra Friedrich Dürrenmatt
91
LETTURE
§6. ANTONELLA AMATO, Rilke, Nietzsche, e il Compimento dell’amore
di Musil
119
§7. SUYENNE FORLANI, Per un’analisi del messaggio pubblicitario russo
141
§8. SARA PANAZZA, Zoomorfismi dell’anima. Epifanie di decentramento
in Argo e il suo padrone di Svevo
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I COLLABORATORI DI QUESTO NUMERO
175
NUMERI ARRETRATI
177
§
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Francesco Ghelli
Il potere del consumo fra storia e immaginario
Note in margine a L’impero irresistibile di Victoria de Grazia
1. Negli ultimi anni c’è stata un’indubbia crescita di interesse da parte del
mondo accademico per il tema del consumo. Sociologi, antropologi, semiologi hanno affiancato economisti e teorici del marketing, studiando il
consumo non solo come una parte del ciclo economico altrettanto importante della produzione, ma come un agire dotato di senso da interpretare e descrivere accantonando riserve critiche del recente passato. In questo panorama gli storici hanno giocato un ruolo di primo piano ricostruendo la complessa genesi del fenomeno. La storia dei consumi è ormai una branca disciplinare affermata con una serie di fortunati filoni:
dalla storia dei luoghi di consumo – grandi magazzini ottocenteschi, supermarket novecenteschi, shopping malls e ‘non luoghi’ postmoderni –, allo studio del rapporto fra consumi e generi e ruoli sessuali, fra modelli di
consumo e classi sociali, fra consumi, urbanizzazione e stati nazionali, per
non parlare delle intersezioni fra il fenomeno e una delle parole chiave
dei nostri giorni: l’identità.1
Rispetto a questa tendenza il libro di Victoria de Grazia L’impero irresistibile, tradotto da Einaudi a un solo anno dalla sua pubblicazione negli
Stati Uniti, rappresenta un ideale coronamento e al tempo stesso un deciso passo in avanti. Nonostante la sua fortuna, infatti, il consumo corre
tuttora il rischio di essere confinato in un’area di minor interesse degli
1
Esemplare la presenza di titoli come La Rinascente, La pasta e la pizza, L’autostrada del
sole, Carosello, Il fotoromanzo nella collana del Mulino “L’identità italiana”. Sul consumo
come risposta all’odierno disagio identitario, alle “crescenti difficoltà a definirsi sul piano
sociale impiegando le elementari variabili sociologiche di tipo tradizionale (sesso, età, reddito, ecc.)”, cfr. Vanni Codeluppi, Il potere del consumo, Torino: Bollati Boringhieri, 2003,
p. 10 e passim.
PARAGRAFO III (2007), pp. 7-27
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FRANCESCO GHELLI
studi: troppo forti restano infatti, fra gli storici come fra altri intellettuali,
pregiudizi moralistici che tendono a liquidare il consumo come un tema
frivolo e poco serio. E, in effetti, al di là della loro vitalità, i molti filoni
della storia dei consumi tendono a collocarsi in un ambito ‘periferico’
della disciplina: dalla storia culturale o sociale, alla storia delle donne, dalla storia della mentalità, a quella della vita quotidiana e della cultura materiale. Al contrario, nel libro di de Grazia il consumo entra a far parte
ufficialmente della storiografia mainstream: diviene una lente per leggere
la grande storia del Novecento: un Novecento ‘secolo americano’ e ‘secolo
dei consumi di massa’, due qualifiche inestricabilmente legate.
Non a caso il libro si apre con le parole di un presidente degli Stati
Uniti, il discorso di Woodrow Wilson il 10 luglio del 1916 al World’s Salesmanship Congress di Detroit. Mentre infuria la prima guerra mondiale,
Wilson addita alla sua platea di commercianti la missione che dovrebbe affratellare politici e imprenditori: una conquista pacifica del mondo attraverso la diffusione dei beni di consumo americani e soprattutto grazie alla
capacità, sviluppata in modo pionieristico negli States, di comprendere i
bisogni dei consumatori. A dividere gli uomini, ad allontanare le classi e le
nazioni, sono infatti più le differenze di “gusti” che quelle di “principi”,2
perciò nulla quanto la diffusione di un comune e alto tenore di vita potrebbe contribuire al progresso della democrazia e della pace nel mondo:
Fate in modo che le vostre idee e la vostra fantasia si diffondano per il
mondo intero e, forti della convinzione che gli Americani siano chiamati
a portare libertà, giustizia e umanità ovunque vadano, andate all’estero a
vendere beni che giovino alla comodità e alla felicità degli altri popoli,
convertendoli ai principi sui quali si fonda l’America (p. xiv).
È solo la prima espressione – certo una delle più autorevoli – di una vulgata ideologica che identifica gli ideali di democrazia e libertà con l’obiettivo materiale dell’espansione capitalistica. Tale visione – spesso ingenua
o interessata agli occhi degli europei – accomuna molti protagonisti
dell’“impero del mercato”: imprenditori e politici, diplomatici e attaché
commerciali, magnati della grande distribuzione e dirigenti delle major
hollywoodiane, attivisti del Rotary e pubblicitari. I discorsi pubblici, i
2
Victoria de Grazia, Irresistible Empire: America’s Advance through Twentieth-Century
Europe (2005), trad. it. di Andrea Mazza e Luca Lamberti, L’impero irresistibile. La società
dei consumi americana alla conquista del mondo, Torino: Einaudi, 2006, p. xiv. D’ora in
poi numeri di pagina indicati fra parentesi nel testo.
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memorandum riservati, l’attività di lobbying, l’instancabile proselitismo di
questa nutrita galleria di personaggi ci fanno pensare che l’espansione del
modello di consumo americano sia stata qualcosa di ben diverso da un
mero prodotto dell’inerzia del mercato. Sviluppatosi in un contesto lontano dall’odierno liberismo, l’‘impero del mercato’ è il frutto di una convergenza perfetta fra interessi pubblici e privati, fra politica e imprenditoria; per usare un linguaggio quasi confindustriale, gli Stati Uniti fin dagli
anni Venti hanno saputo ‘fare sistema’ di contro a un’Europa economicamente e politicamente frammentata (anzi, sono stati fra i primi a pensare
all’Europa come un unico mercato). Quella raccontata da de Grazia è così una storia che riguarda le dinamiche del potere, più che spontanee tendenze culturali ed economiche, nella quale il consumo diviene la chiave
dell’egemonia americana.
2. Consumo e potere: il binomio oltre che in controtendenza rispetto agli
studi recenti, può apparire a prima vista quasi un ossimoro. Il consumo,
in effetti, appartiene a una sfera privata, domestica, spesso ludica, ancor
più spesso connotata in senso ‘femminile’, apparentemente lontana quindi dalle manovre (e dalla conflittualità) del potere e della politica; ricorrendo all’opposizione quasi cosmologica del capolavoro di Tolstoj si potrebbe dire che esso si situa sul versante della pace, non su quello della
guerra. Non è un caso che i regimi totalitari sorti in Italia e Germania,
imbevuti com’erano di valori militari, si compiacessero di contrapporre la
propria cultura di ‘eroi’ all’incultura dei ‘mercanti’ americani, mentre il
fascismo avversava la ‘vita comoda’ così come la ‘barbarie del comfort’
americana. E in modo non dissimile la morale ascetica – nonché, ricorda
de Grazia, la forte componente maschilista – dei partiti e dei regimi socialisti e comunisti li portò a una duratura diffidenza verso il consumo,
visto come fucina di bisogni ‘inautentici’ e come tentazione al disimpegno. Esemplare uno dei molti episodi simbolo raccontati dall’autrice: la
Fiera internazionale di Mosca del 1959, che vide le due superpotenze
esporre in vetrina i loro progressi. Di contro agli Sputnik, ai macchinari
industriali e ai trattori sovietici, gli americani optarono per una scelta apparentemente dimessa: allestirono una “casa dei beni di consumo” con le
tipiche cucine americane piene di elettrodomestici che nel frattempo stavano rivoluzionando la vita delle donne europee. “Non sarebbe meglio
farsi concorrenza con le lavatrici anziché con i razzi?” (p. 482), chiese maliziosamente Nixon al suo ospite Chruščëv.
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FRANCESCO GHELLI
L’impero del consumo americano è in effetti il primo grande impero
della storia non costruito “manu militari” (p. xv), anzi contrapposto apertamente alla tradizione di militarismo delle potenze europee: un impero
fondato su un inedito soft power, “impero a richiesta”, “impero basato sul
consenso”, “impero dello svago” (p. xix), per citare alcune etichette con
cui si è provato a definire il paradosso del potere americano. Non che la
guerra perda importanza, come testimoniano decine di interventi militari, un terrificante arsenale nucleare, le basi e le truppe presenti sul territorio europeo, decenni di pressioni e ingerenze dei servizi segreti statunitensi. Né va trascurato – avverte l’autrice – che proprio i due conflitti mondiali, per l’impatto distruttivo che ebbero sull’economia e sul modello di
consumo europeo, hanno impresso un’accelerazione decisiva all’avanzata
dell’“impero del mercato”. Però sarebbe errato fare della forza l’elemento
chiave del potere americano, tant’è che il ricorso alla ‘guerra preventiva’
testimonierebbe più la crisi che la vitalità odierna dell’impero, minandone inesorabilmente il consenso. Per render conto della vicenda di questo
singolare potere, e quindi della storia stessa del Novecento e in particolare
del lungo e pacifico dopoguerra, occorrono così una sensibilità e strumenti particolari – de Grazia evoca la microfisica del potere di Foucault e
l’analisi gramsciana dell’egemonia –, ma anche un aggiornamento dei nostri strumenti di rappresentazione, di metafore e stereotipi radicati. È
questo l’aspetto del libro più interessante per chi voglia intraprendere
un’indagine sulle rappresentazioni (letterarie e non solo) di un fenomeno
tuttora sfuggente come il consumo.
A dispetto di quanto detto, non bisogna infatti dimenticare che in una
tradizione assai influente, specie in ambito letterario e artistico, il consumo è stato rappresentato proprio come un implacabile strumento di potere. Si pensi alla fantascienza antiutopica, a partire da Brave New World di
Huxley, alla critica apocalittica di stampo francofortese, alla denuncia dei
‘persuasori occulti’, all’immagine onnipresente di un consumatore (più
spesso di una consumatrice) manipolato, eterodiretto, schiavo di ‘falsi bisogni’. Si tratta di una critica tuttora assai influente, a dispetto dei cambiamenti di paradigma in seno alle scienze sociali, al punto da essersi trasformata in senso comune, fino a penetrare addirittura nella pubblicità e nella
stessa cultura dei consumi. Secondo questa vulgata, l’‘innocenza’ del consumo e dell’intrattenimento sarebbe il volto ingannevole di un potere repressivo. L’arte – che vive della necessità di drammatizzare i conflitti, di accostamenti bruschi e paradossali – è maestra nel proporre tale immagine:
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dai soldati americani di Kubrick che, in una scena memorabile di Full Metal Jacket, marciano al ritmo di Mickey Mouse, agli agenti schierati in assetto antisommossa davanti a Nike Town in un quadro di Julien Michel assorto a manifesto no global, fino a un pezzo rap italiano che poco prima
delle elezioni del 1994 ironizzava in chiave antiberlusconiana sulla “polizia
del Mulino Bianco”, ecc.3 Se ci pensiamo bene, non si discostano da questa vulgata nemmeno le acclamate interpretazioni del boom dei consumi
da parte di alcuni scrittori italiani: da Bianciardi per cui la frenesia del miracolo economico, con il suo corollario di frustrazione sessuale, era ciò che
“vogliono sindaco, vescovo e padrone, questurino, sociologo e onorevole”,
a Parise che parla di “lobotomia”, di una “lebbra degenerativa dei caratteri
nazionali”, fino, ovviamente, a Pasolini per cui quello diffuso in Italia è un
“fascismo consumistico”, un “totalitarismo” più efficace dei molti totalitarismi nella storia del Novecento.4 Proprio l’equazione fra fascismo e consumismo nel segno dell’indottrinamento delle masse, con il corto circuito fra
pubblicità e propaganda, fra Goebbels e Madison Avenue, è uno dei topoi
più fortunati della critica alla civiltà dei consumi, in particolare all’interno
della controcultura americana (ed è curioso che questa linea sia stata inaugurata da filosofi come Adorno e Marcuse che proprio negli States avevano trovato rifugio dal nazismo).5
Difficile districare le radici di una corrente culturale in cui siamo tuttora immersi. Certo, tanto lo specifico dei linguaggi artistici, quanto il
3
A questa tradizione non sfugge la copertina del libro: una fotografia di moda degli anni Cinquanta che ritrae una modella sorridente in tailleur rosa con cappello da cowboy a
cavallo di un simbolo della potenza americana, il reattore di un Boeing. Presentando il volume all’università di Bologna (5 dicembre 2006), de Grazia ha dichiarato che la copertina è una scelta dell’editore in parte fuorviante. In effetti è uno di quei corto circuiti fra
consumo, moda, pubblicità, da un lato, e potere (tecnologico-militare), dall’altro, fra gli
aspetti ‘femminili’ e quelli ‘maschili’ dell’egemonia americana, fra i quali invece il volume
tenta di articolare una serie di complesse distinzioni. Ma proprio perché fa riferimento a
una vulgata ben presente in letteratura, cinema e cultura di massa l’efficacia promozionale
dell’immagine è fuori discussione.
4
Luciano Bianciardi, La vita agra (1963), Milano: Bompiani, 2001, p. 64; Goffredo
Parise, New York (1976), ora in Opere, a cura di Bruno Callegher e Mauro Portello, Milano: Mondadori, 1989, vol. II, pp. 1037-38; Pier Paolo Pasolini, Scritti corsari (1974), ora
in Saggi sulla politica e sulla società, a cura di Walter Siti e Silvia de Laude, Milano: Mondadori, 1999, p. 334.
5
Cfr. Joseph Heath e Andrew Potter, Nation of Rebels: Why Counterculture Became Consumer Culture, New York: HarperBusinness, 2004, pp. 49-54, 319-20. Un esempio italiano di questa linea è Gabriele Frasca, La scimmia di Dio. L’emozione della guerra mediale,
Genova: Costa & Nolan, 1996.
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clima della guerra fredda favorivano le semplificazioni e i corto circuiti
simbolici di contro alle mediazioni, ai distinguo, alle ricostruzioni spassionate. L’ostilità degli intellettuali verso la cultura dei consumi aveva ragioni profonde e non sempre limpide, poiché vi si fondevano il timore
per la perdita del proprio prestigio di custodi della tradizione umanistica
e un’avversione talvolta elitaria verso fenomeni di democratizzazione del
benessere. Gli apocalittici, poi, avevano piena ragione nel fare del consumo un fenomeno storicamente determinante, tutt’altro che estemporaneo
come volevano le sue apparenze. Questo nucleo di verità non deve però
far dimenticare che per varie ragioni – dal fascino delle spiegazioni complottistiche, all’incapacità di comprendere un fenomeno inedito come il
benessere diffuso e soprattutto il suo potenziale disciplinante – gli intellettuali finirono spesso per applicare ai consumi di massa un modello tanto inadeguato quanto anacronistico quale il potere totalitario, i cui tratti
di coercizione violenta e sorveglianza ‘panottica’ trovavano pochi riscontri
nell’Europa capitalista del secondo dopoguerra.
3. In campo artistico è ancora difficile sottrarsi a questa vulgata (se non
per capovolgerla in modo euforico o ambiguo dalla Pop Art al postmoderno). Ci è forse riuscito DeLillo con il suo Underworld (1997), un romanzo che è una rilettura del ‘secolo americano’ per certi versi accostabile alla
ricostruzione di de Grazia. Come de Grazia racconta il Novecento americano a partire dalle cose, dalle merci – innovazioni influenti come i prodotti di marca, le ricerche di mercato, gli elettrodomestici, i supermercati,
i detersivi, il fast food –, così DeLillo privilegia una prospettiva dal basso,
quotidiana e antieroica. È la “storia della gente” contrapposta alla “storia
segreta” della guerra fredda, perfettamente esemplificata dalla leggendaria
partita di baseball fra i Giants e i Dodgers del 3 ottobre 1951 su cui si
apre il romanzo. Un evento di cui si dice: “è possibile […] che ci entri
nella pelle in modo più durevole che non le strategie di controllo di eminenti leader, generali d’acciaio con i loro occhiali da sole”.6 In una scena
allegorica, dalle tribune esultanti dello stadio piovono frammenti di giornali e annunci pubblicitari:
Alimenti per neonati e caffè solubile, enciclopedie, automobili e tostapane, shampoo e whiskey al malto. Tempi d’oro, un’ottimistica sovrabbon6
Don DeLillo, Underworld (1997), trad. it. di Delfina Vezzoli, Einaudi, Torino, 1999,
p. 58. D’ora in poi, U seguito dal numero di pagina.
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danza […]. In un paese che ha fretta di creare il futuro, i nomi legati ai
prodotti costituiscono una durevole rassicurazione. Johnson & Johnson,
e Quaker State, e Rca Victor, e Burlington Myers e General Motors.
Questi sono i venerati emblemi di un’economia fiorente, più facili da
identificare dei nomi di battaglie e di presidenti morti (U, p. 36).
È una sorta di epocale passaggio del testimone: da una storia di guerre e
politica a una storia di pace e prosperità, in pratica il lungo cinquantennio che abbiamo alle spalle. E sembra riecheggiare le parole di quell’ufficiale americano di stanza in Italia che sosteneva che il nostro Paese non
avrebbe mai raggiunto “uno stato di prosperità o di calma” finché gli italiani sarebbero stati capaci di dire “il nome dei ministri del governo ma
non il nome dei prodotti preferiti dalle celebrità del loro paese”, e finché i
muri sarebbero stati “riempiti più di slogan politici che di slogan commerciali”; questo perché “la libertà democratica consiste in buona parte
nell’ignorare la politica e nel preoccuparsi invece dei sistemi per sconfiggere l’odore delle ascelle, la forfora, i peli delle gambe, il colorito pallido,
i capelli fuori posto”.7 In realtà la ‘storia segreta’, la guerra fredda con le
sue minacce apocalittiche, resta onnipresente nel romanzo, a cominciare
proprio dalla sinistra coincidenza del prologo. Mentre Thomson batte lo
storico fuoricampo che decide la partita, i sovietici compiono dall’altra
parte del globo il loro primo test atomico. Il titolo del New York Times
che saluta l’exploit sportivo si adatta alla perfezione anche all’evento militare: “il Botto che ha Fatto il Giro del Mondo” (U, p. 714). Ma è solo la
prima di una lunga serie di echi e sconfinamenti fra le due storie parallele, esemplari le confezioni dei prodotti o gli elettrodomestici di una famiglia suburbana degli anni Sessanta che ricordano missili e testate atomiche, oppure le pubblicità di quegli anni che alludevano spesso allo scontro fra USA e URSS, per non parlare delle esercitazioni antiatomiche nelle
scuole elementari o dell’apocalittico blackout di New York. La paranoia,
tema chiave del romanzo e dell’intera opera di DeLillo, è il vero trait d’union fra la storia privata e quella pubblica, fra teorie della cospirazione,
spionaggio e doppio gioco, da una parte, timori di manipolazioni chimiche, pubblicitarie o di contagi, dall’altra. Infine, negli anni Novanta del
dopo guerra fredda, il protagonista Nick Shay, manager nel trattamento
dei rifiuti, troverà nella steppa radioattiva del Kazakistan degli interni do7
Cit. in Stephen Gundle, “L’americanizzazione del quotidiano”, Quaderni storici, 21:
62, 1986, p. 579.
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mestici americani perfettamente ricostruiti dal KGB per dare maggiore verosimiglianza ai test atomici: “dentro le case ancora in piedi, Old Dutch
Cleanser e Rinso White, tutte quelle icone semiperdute della vita di un
tempo, Ipana e Oxidol e Chase & Sanborn ancora intatte quaggiù in
mezzo a questo nulla vicino alla Mongolia” (U, p. 843). Packaged goods tipicamente americani oppure cimeli della popular culture come la palla di
baseball al centro della trama sono fianco a fianco con le scorie radioattive della guerra fredda in una storia che prende l’aspetto di un’enorme discarica. Sono questi gli ‘inferi’, il ‘mondo sotterraneo’ (underworld) del titolo: “l’immondizia è la gemella del diavolo. Perché l’immondizia è la storia che sta di sotto, il modo in cui l’archeologo dissotterra la storia delle
culture precedenti, ogni mucchio d’ossa e strumento rotto, letteralmente
dissotterrato” (U, p. 841).
Una visione ‘archeologica’ della storia recente che torna anche nell’eloquente finale del libro di de Grazia:
Tra non molto tempo solo l’occhio di un archeologo riuscirà a distinguere le tracce lasciate dall’Impero del Mercato nelle stratificazioni della cultura materiale depositatesi in Europa nel corso del Novecento. E si scoprirà che dagli strati più antichi delle rovine, risalenti al 1900-15, emergono manufatti estremamente pregiati. La loro varietà, quantità e mirabile fattura suggeriranno uno straordinario processo di affinamento negli
stili di vita, ma anche l’esistenza di rigide differenze di tipo castale nella
popolazione. Gli strati del periodo intermedio, risalenti al 1915-45, riveleranno grandi vortici conflittuali. Pezzi di stagno e cocci di vetro verde,
pizze ammaccate di film e frammenti di riviste popolari, soprattutto nei
siti che dall’Europa nordoccidentale si estendono a quella centrale e meridionale, suggeriranno un contatto sempre più intenso con le coste occidentali dell’Atlantico, anche se le forze della guerra l’avrebbero prima interrotto, poi riallacciato. Solo un decennio e mezzo dopo l’area centrosettentrionale apparirà invasa da manufatti ed edifici di influenza transatlantica. […] Quando si scaverà nel centro di Parigi, i resti delle drogherie
sembreranno offrire la prova schiacciante del trionfo di una nuova civiltà
materiale sincretica, che lega la Zenith, la ‘capitale dei mari di acqua dolce’ alla Ville lumière […] nell’arco di un solo secolo l’egemonia americana
ha lasciato tracce altrettanto precise di quelle lasciate in quattrocento anni
dall’Impero romano. (pp. 511-12)
Con strumenti diversi ma anche in parte convergenti – poiché c’è una
componente documentaria nel romanzo di DeLillo, così come c’è un’indubbia qualità ‘letteraria’ in diversi momenti del saggio di de Grazia –,
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entrambi i libri sono un tentativo di mettere insieme la grande storia dei
conflitti mondiali e la piccola storia dei consumi. E soprattutto di conferire a questa sfera quotidiana e ‘banale’ lo spessore epico (nel caso del romanzo), l’importanza decisiva (nel caso del saggio) solitamente conferita
alla vicende politiche e militari internazionali.8 Tutto ciò cercando di evitare gli eccessi della vulgata apocalittica sulla civiltà dei consumi o del suo
frettoloso rovesciamento. I consumatori non sono i ‘polli d’allevamento’
totalmente manipolati delle teorie cospiratorie in voga negli anni Sessanta, ma nemmeno i bricoleur, i liberi collezionisti di esperienze di molti
studi sul postmoderno.
4. Una delle più significative debolezze della critica apocalittica è la sottovalutazione delle attrattive dei beni di consumo. Troppo spesso chi tuona
contro i ‘falsi bisogni’ dimentica il profondo impatto – in termini di miglioramento della qualità della vita – che hanno avuto molte innovazioni
della civiltà dei consumi al centro del volume di de Grazia: da una dieta
più ricca e varia resa possibile dall’industria alimentare e dalla grande distribuzione, agli indiscutibili benefici degli elettrodomestici e dalla moderna stanza da bagno, alla disponibilità di abiti a buon mercato, senza
trascurare le vacanze di massa e la maggiore mobilità. Fare del consumo
lo strumento dell’egemonia americana, ricostruire le strategie dell’élite
statunitense, documentare la lunga serie di resistenze europee – dai nazisti che difendono con le armi lo ‘spazio vitale’ della loro industria cinematografica e manifatturiera fino ai piccoli commercianti francesi e italiani stritolati dai supermercati – non significa per de Grazia misconoscere il
potenziale liberatorio e democratizzante dell’avvento dei consumi di massa. Il fascino del modello americano risiedeva nella promessa di un libero
accesso ai beni di consumo che prescindesse del tutto dalle antiche divisioni di censo dei paesi europei. Gli Stati Uniti, nell’immagine popolare
che in parte corrispondeva al ‘consumismo populista’ diffuso negli USA
fin dall’inizio del Novecento, erano un paese dove anche gli operai, le cameriere e le commesse facevano una vita da ‘signori’ o da ‘signore’, avevano l’automobile, una cucina piena di elettrodomestici, vestivano alla mo8
Sulla dimensione epica di Underworld, cfr. Massimo Fusillo, “Fra epica e romanzo”
(in Il romanzo, a cura di Franco Moretti, vol. II. Le forme, Torino: Einaudi, 2003, pp. 3133), che definisce l’epica nella modernità (da Guerra e pace in poi) in opposizione al militarismo celebrativo (e alla chiusura narrativa) di quella antica e cinquecentesca: un’epica
quindi più vicina alla storia dei fenomeni di massa che alla storia ‘evenemenziale’.
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da, andavano al cinema e a teatro. A dare sostanza alla democrazia e alla
libertà sbandierate nella propaganda americana erano i carrelli colmi delle
famiglie che uscivano dai supermercati o gli immensi parcheggi delle fabbriche americane con le automobili di operai e impiegati. Il ‘pacchetto
standard’ al centro del boom dei consumi di massa – frigorifero, cucina,
lavatrice, televisione, automobile – era costituito non da status symbol, da
prodotti che indicavano l’appartenenza a una minoranza privilegiata,
bensì da ‘beni di cittadinanza’, che simboleggiavano l’ingresso in una società moderna e maggiormente egualitaria.
Uno dei meriti del volume di de Grazia è infatti l’identificazione di un
ancien regime dei consumi europeo, profondamente diverso dal “modello
dei consumi di massa” d’importazione americana che l’avrebbe soppiantato dopo la decisiva crisi della seconda guerra mondiale. L’Europa possedeva ben prima dell’arrivo dell’“impero del mercato” una propria raffinata e
prestigiosa cultura dei consumi: il che è scontato per gli storici del settore, ma è spesso dimenticato in un dibattito intellettuale che tende, ora
come mezzo secolo fa, a identificare il vecchio mondo con la Kultur, i valori immateriali minacciati dalle bieche ragioni commerciali degli Stati
Uniti. La cultura dei consumi europea era simboleggiata dal centro storico di Dresda, con le sue facciate sontuose e le sue vetrine eleganti, enormemente distante da quella rozza Duluth, la città di Babbitt, che de Grazia sceglie di contrapporgli come emblema del paesaggio urbano americano all’inizio del secolo. Ma essa era testimoniata anche dai grandi magazzini frequentati da una clientela altolocata nelle principali metropoli europee, che presto avrebbero visto la concorrenza plebea dei bazar a prezzo
fisso d’origine americana; oppure dalle gigantesche fiere campionarie –
esemplare ancora quella di Dresda – che radunavano migliaia di prodotti
e di commercianti del vecchio mondo superate nel giro di un paio di decenni dall’arrivo del marketing americano e soprattutto di prodotti di
marca che trasformavano il mercato in uno spazio astratto quasi del tutto
indipendente dagli accidenti della geografia; per non parlare dell’elegante
pubblicità europea, le affiches liberty o moderniste, le immagini variopinte dallo splendore ‘pagano’ gradualmente soppiantate dalla pubblicità
‘scientifica’ americana, più dimessa, ‘puritana’, piena di argomentazioni
utilitaristiche, legata alla stampa e alla parola scritta; e ancora, ben prima
di Hollywood, si debbono ricordare le fiorenti industrie cinematografiche
francesi e italiane, oltre ovviamente alla berlinese UFA, fucina di talenti
ma anche creatrice di blockbusters storico-mitologici nel segno della tradi-
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zione europea, che sarebbe caduta in disgrazia insieme ad Hitler, vittima
della fuga di artisti oltre Oceano (Marlene Dietrich, Fritz Lang, il produttore Pommer).
Ebbene, gran parte di questa cultura del consumo era intimamente elitaria, specchio di una società in cui i differenti stili di consumo, così come
l’ineguale distribuzione del gusto o di quel che Bourdieu ha denominato
“capitale culturale” riproducevano fedelmente gerarchie sociali preesistenti. Il consumo in Europa aveva ancora tratti ‘suntuari’, era uno dei principali indicatori della ‘distinzione’, di quegli steccati sociali che fino al boom
degli anni Sessanta facevano di contadini, operai e borghesi, delle cameriere e delle signore di cui erano al servizio, quasi delle specie antropologiche
separate. La sola idea di estendere la base dei consumi con l’aumento dei
salari e la ridistribuzione dell’incremento della produttività nella prima
metà del secolo incontrava in Europa ostacoli insuperabili. Per le élite europee gli alti salari di Ford avrebbero minato inesorabilmente la debole etica del lavoro delle classi inferiori.9 D’altro canto riformatori socialisti e comunisti consideravano la povertà della classe operaia il prezzo da pagare
per l’uguaglianza e un virtuoso antidoto agli eccessi della borghesia. Di
contro alla ‘sensibilità femminile’ dimostrata dalla cultura del consumo
americano – soprattutto nel secondo dopoguerra quando creerà la figura
della “Signora consumatrice modello”, amministratrice della casa e destinataria delle pubblicità di detersivi ed elettrodomestici –, i socialisti mostravano i segni di un ritardo culturale dagli evidenti tratti di genere: “Le
molteplici comodità che sarebbero facilmente venute in mente anche a
una casalinga della classe operaia – dalle pentole di alluminio, all’acqua
calda, ai guanciali in piume, a una rudimentale lavatrice, senza andare a tirare in ballo le calze di seta, i vasi da fiori o i sottobicchieri di pizzo – non
sfioravano neppure la loro immaginazione di maschi socialisti duri e puri”
(p. 117). Sarebbe impossibile, senza tener conto di questi antecedenti,
spiegare il successo e soprattutto il diffuso consenso del modello di consumo americano nell’Europa degli anni Cinquanta e Sessanta, con la sua
tendenza ad “abbattere le barriere, uniformare le differenze” (p. 387),
smussare nel nome di un mercato “monoclasse”, o tutt’al più segnato da
semplici stratificazioni di reddito, “quelle gerarchie simili a caste tipiche
dell’epoca precedente alla Seconda guerra mondiale” (p. 388).
9
Cfr. Gary Cross, Time & Money: The Making of Consumer Culture (1993), trad. it. di
Valeria Ottonelli, Tempo e denaro. La nascita della cultura del consumo, Il Mulino: Bologna, 1998, capp. 1-2.
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FRANCESCO GHELLI
Sarebbe altrettanto difficile immaginare i movimenti degli anni Sessanta senza l’effetto dirompente che il consumo di massa ebbe sulle strutture gerarchiche tradizionali, tanto in seno alla famiglia che in seno alla
società. C’è un’analogia che salta subito agli occhi fra la promessa del benessere consumista e alcune rivendicazioni di quegli anni – ‘vogliamo tutto!’ – che sembrano volgere contro il ‘sistema’ i desideri da lui scatenati.
Ed è stato spesso notato come contrariamente a tutte le previsioni, la prima generazione di figli della TV, di coloro che più dovevano essere istupiditi dai ‘persuasori occulti’, sia stata anche la più combattiva sul piano sociale, spesso usando in funzione critica lo stesso linguaggio e gli stessi
simboli della pubblicità, come testimoniano le vignette détournées dei Situazionisti o molti slogan del ’68 e del ’77. È una storia che resta ancora
da scrivere – de Grazia ne analizza l’importante componente femminile,
altri studi si soffermano invece sul nesso fra consumi e l’ascesa di un nuovo protagonista socio-politico: la gioventù. Si può ipotizzare che almeno
in Italia, la duratura incomprensione della civiltà dei consumi da parte
della sinistra, la persistenza di atteggiamenti austeri o apocalittici, abbia
contribuito alla lunga a quel distacco fra il Partito comunista e l’onda
lunga dei movimenti degli anni Sessanta. Ed è qui che forse si possono ricercare alcune radici di quell’anomalia tutta italiana chiamata Berlusconi.
Un partito elaborato a tavolino in base a strategie di marketing ha ottenuto un consenso che per diffusione e stabilità eccede di gran lunga il pur
forte blocco sociale che difende, e tutto ciò grazie a un linguaggio e ad un
immaginario legato in gran parte alla civiltà dei consumi, di cui il proprio
leader è divenuto una sorta di incarnazione messianica. Ma perché in Italia – e ripeto solo in Italia – è stato possibile fare di qualcosa abitualmente ‘traversale’ come la cultura dei consumi un fattore di forte polarizzazione politica?10 Per uno strano paradosso che avrebbe forse sorpreso il già
citato ufficiale americano, gli italiani non sono diventati dei quieti consu-
10
Sulle radici socio-economiche delle utopie politiche degli anni Sessanta resta essenziale il saggio di Fredric Jameson, “Periodizing the 60s”, in Sohnya Sayres et alii (a cura di),
The 60s Without Apology, Minneapolis: University of Minnesota Press, 1984, pp. 178209. Sul ’68 e i ‘figli della TV’ classiche le osservazioni di Umberto Eco in Sette anni di desiderio, Milano: Bompiani, 1983. Per il nesso fra consumi e movimenti giovanili si veda
Paolo Capuzzo (a cura di), Generi, generazioni e consumi, Roma: Carocci, 2003. Sui limiti
della sinistra italiana di fronte ai consumi e l’avvento di Berlusconi seguo Adam Arvidsson, Marketing Modernity: Italian Advertising from Fascism to Postmodernity, New York:
Routledge, 2003.
IL POTERE DEL CONSUMO FRA STORIA E IMMAGINARIO
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matori abbandonando la passione politica, ma piuttosto sono diventati
dei consumatori anche di politica.11
5. Questo sguardo d’insieme sulla storia del Novecento è possibile solo
perché siamo fuori dall’epoca descritta, situati su un punto di osservazione ormai altro. Il ‘secolo americano’ si è concluso e l’“impero del mercato” ha mostrato vistose crepe fin da quel lontano 1989 che avrebbe dovuto consacrarne il definitivo trionfo. Certo, alcuni colossi statunitensi –
McDonald’s e Wal-Mart in testa – hanno sposato con successo la vecchia
ricetta fordista (economie di scala, prodotti standardizzati e a basso costo)
alle nuove opportunità offerte dalla globalizzazione (apertura di nuovi
mercati e manodopera a prezzi stracciati). La nuova economia, sviluppatasi dopo il boom dell’informatica, vede uno schiacciante predominio
americano, così come non appare scalfito il primato di Hollywood e dell’industria televisiva statunitense. De Grazia, ricorda tuttavia la significativa inversione di tendenza nel settore più americano che si possa immaginare: quello della grande distribuzione, con imprese europee come Carrefour, Aldi, Ikea, Benetton, Zara che dopo una forte espansione nel vecchio mondo sono andate alla conquista degli Stati Uniti, di quello che è e
resta il mercato più difficile (e protetto, a dispetto delle professioni di liberismo). Ciò è stato possibile grazie a innovazioni della cultura e dei
luoghi di consumo fiorite, per la prima volta dopo anni, nel brodo di coltura di un’Europa occidentale ormai altrettanto opulenta degli States. È il
caso della “boutiquizzazione” (p. 490) dei supermercati introdotta da
Carrefour: l’ibridazione del self-service americano e del paesaggio di negozi – il panificio, il macellaio, il fruttivendolo – familiare a ogni europeo; oppure della singolare formula dei punti vendita Ikea che sembrano
riassumere i luoghi caratteristici dei diversi regimi di consumo dall’Ottocento ai giorni nostri: il grande magazzino nella ‘mostra’ di arredamento e
design, il supermercato ‘fordista’ nel ‘negozio’, fino al discount senza
fronzoli del magazzino di mobili con i suoi scatoloni.12
Ma più di ogni altra cosa pesa sull’impero il fatto che, almeno dagli anni Settanta, gli Stati Uniti non possono più essere considerati “i principali
11
Ma sulle analogie fra politica e consumo cfr. Richard Sennett, The Culture of New
Capitalism (2006), trad. it. di Carlo Sandrelli, La cultura del nuovo capitalismo, Il Mulino:
Bologna, 2006, cap. 3.
12
Cfr. Rachel Bowlby, Carried Away: The Invention of Modern Shopping, New York: Columbia University Press, 2001, cap. 1.
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difensori del diritto universale a godere di un tenore di vita dignitoso […]
negli anni Ottanta, per quanto concerneva la salute, il tempo libero, le abitudini alimentari, la sicurezza sociale e numerosi altri indicatori, l’Europeo
occidentale medio giunse a godere di uno standard di vita più elevato dell’Americano medio” (pp. 492-93). L’Europa è divenuta il vero “paradiso
del consumatore” (p. 490), sposando i consumi di massa d’origine americana alle perduranti garanzie di un Welfare State non ancora del tutto liquidato. Ma soprattutto potendosi giovare di una ricchezza di modelli culturali,
di un “caleidoscopio di ‘eurostili’”, di una “miriade di culture regionali”, di
“identità di nicchia, oltre ad attingere alla rinascita e alla ricombinazione di
status symbol ereditati dal regime borghese di consumo” (p. 495) che nel
nuovo contesto più che un freno rappresentano un’opportunità. In qualche
modo la storia si è capovolta. Il primato della civiltà dei consumi americani
ha avuto una decisiva premessa nella dimensione geografica del Paese, nella
presenza di un enorme mercato precocemente unificato, nel quale è stato
possibile sperimentare innovative strategie commerciali e decisive economie di scala; tutto ciò mentre l’Europa viveva ancora in una dimensione
nazionale, se non locale. L’attuale gioco economico sembra premiare al
tempo stesso un ulteriore giro di vite in direzione della standardizzazione,
dell’uniformità, delle economie di scala (modello McDonald’s), ma anche
la valorizzazione delle nicchie, la segmentazione esasperata del mercato, la
ricerca della qualità, il sovrainvestimento culturale di prodotti e marchi,
tutte ricette per le quali il mosaico europeo può essere un vantaggio.
Sarebbe assurdo tuttavia pensare che l’Europa abbia già in tasca il modello alternativo all’impero americano, del resto la debolezza politica dell’Unione è sotto gli occhi di tutti. Non è un caso che de Grazia dopo aver
raccontato l’ascesa di decisive invenzioni americane come il marchio o i
supermercati, simboleggi con voluta ironia la riscossa dell’Europa con un
fenomeno tutt’altro che determinante sebbene sintomatico, ossia il movimento Slow Food. Con Slow Food per la prima volta l’opposizione di sinistra al capitalismo della Fast Food Nation assume un volto edonista, anziché austero, una rivolta in nome della qualità e del piacere oltre che dell’equità e della giustizia. Una strategia soft che grazie al suo internazionalismo e al suo rifiuto di ogni protezionismo ha riscosso notevoli successi.
Molti dei tratti di Slow Food – la difesa delle produzioni territoriali e
di nicchia, la riscoperta del tipico, del tradizionale, dell’artigianale, il forte investimento sul valore storico, culturale e simbolico dei prodotti (e si
tratta del cibo, la cosa più deperibile e di rapido consumo che esista) –
IL POTERE DEL CONSUMO FRA STORIA E IMMAGINARIO
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sono in sintonia con l’odierna cultura dei consumi che sembra caratterizzata da un rifiuto di molti valori guida del regime dei consumi di massa.
Ho qualche dubbio semmai sul carattere solo e tipicamente europeo di
queste tendenze. Thomas Frank, ad esempio, descrive l’avvento negli Stati Uniti, a partire dai primi anni Sessanta del cosiddetto hip consumerism,
una nuova cultura del consumo che sceglie come bersagli polemici l’uniformità, il conformismo, la standardizzazione del consumismo anni
Cinquanta, perfettamente simboleggiati dall’organization man, l’impiegato in completo grigio, o dalla famigliola suburbana al centro di molte
pubblicità. C’è così una perfetta convergenza e un rapido interscambio
fra l’industria della moda, fra la pubblicità – che vive in quegli anni la sua
‘rivoluzione creativa’ – e la nascente controcultura. Il ribelle, l’anticonformista, il bohemien diviene lo “stile ufficiale del capitalismo”; l’opposizione fra il conformismo e il suo rovesciamento, le maggioranze ottuse e le
minoranze consapevoli di trend setters è la chiave per un avvicendamento
sempre più rapido delle mode (e per la proliferazione della logica della
moda in ambiti diversi dall’abbigliamento). Il cool, questa fantomatica
qualità divulgata negli anni Cinquanta dai jazzisti neri e dalle nuove star
maschili di Hollywood – sia esso stile, individualismo e freddezza –, diviene la ricetta per il lancio pubblicitario di marche e prodotti, nonché
l’aspirazione di una fetta sempre più ampia di consumatori.13
Non c’è dubbio che in questo ulteriore mutamento del modello dei
consumi gli Stati Uniti abbiano giocato ancora un ruolo tutt’altro che secondario potendo mettere a frutto tanto la singolarità dei loro Sixties,
quanto la perdurante egemonia della loro industria culturale. Da un lato,
una controcultura meno politicizzata in senso tradizionale rispetto al ’68
europeo, che invocava la liberazione dell’individuo e del desiderio dalle
pastoie sociali e dal patriarcato, si è rivelata assai appetibile per il mercato,
penetrando nella mentalità di una nuova classe dirigente (esemplare l’icona del manager-guru della new economy in jeans e maglietta).14 Dall’altro,
13
Cfr. Thomas Frank, The Conquest of Cool: Business Culture, Counterculture, and the
Rise of Hip Consumerism, Chicago: University of Chicago Press, 1997; Joseph Heath e
Andrew Potter, op. cit.; Dick Pountain e David Robins, Cool Rules: Anatomy of an Attitude,
London: Reaktion, 2000.
14
Una prova a contrario è la scarsità di elementi controculturali nella pubblicità europea
fra anni Sessanta e Settanta rispetto a quella americana. Di contro al profluvio di esempi
di Frank si possono ricordare le campagne vagamente ‘hippie’ dell’inizio degli anni Settanta con cui Piaggio tramuta lo scooter da un’alternativa economica all’auto a un prodotto per giovani, cfr. Adam Arvidsson, “From Counterculture to Consumer Culture: Vespa
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in una temperie che registra un’implosione degli ambiti un tempo delimitati dell’economia e della cultura, della produzione di merci e di quella di
significati e immagini – per cui ogni consumo assume tratti culturali –, il
primato americano nell’industria dello spettacolo e dell’intrattenimento
diviene ora più che mai un vantaggio strategico.15 Certo, l’Europa ha dimostrato di sapersi adattare al nuovo contesto, mettendo a frutto le sue
risorse secolari di produzione e valorizzazione di status symbol: esemplare
la trasformazione del comparto un tempo elitario dell’alta moda in un sistema di marche globali capaci di conquistare mercati e pubblici di consumatori impensabili fino a qualche decennio fa. Se gli americani hanno
inventato il marchio, come garanzia della qualità standard dei prodotti,
come volto riconoscibile e quasi personale dell’industria fordista, la griffe
europea, con la sua aura di originalità e creatività, è forse il modello del
logo postmoderno; un marchio sempre più svincolato dai prodotti – e anche dai produttori reali: gli Sweatshops invisibili del Terzo mondo – al
punto da trasformarsi in “allucinazione collettiva”, in “uno stile di vita,
un modo di pensare, una gamma di valori, un look, un’idea”.16
6. La mia impressione allora è che il declino dell’impero americano sia
solo uno dei molti volti di un nuovo regime dei consumi che presenta
tratti inediti rispetto al regime dei consumi di massa, ma che, per la vicinanza storica e per la presenza di tendenze contraddittorie, è ancora difficile da descrivere e etichettare nel suo complesso (lo stesso termine postmoderno non gode ormai di buona stampa). Il boom dei consumi estetici
e culturali, lo hip consumerism col suo rovesciamento dei valori patriarcali,
and the Italian Youth Market, 1958-78”, Journal of Consumer Culture, 1:1, 2001, pp. 4771. Sulla continuità fra controcultura e new economy in California, cfr. Mark Dery, Escape
Velocità: Cyberculture at the End of the Century (1996), trad. it. di Mirko Tavosanis, Velocità di fuga. Cyberculture di fine millennio, Milano: Feltrinelli, 1997, cap. 1.
15
Sul postmoderno come congiuntura “marcata da una de-differenziazione di ambiti,
così che l’economia ha finito per sovrapporsi alla cultura: tutto, compresi la produzione di
merci e la speculazione finanziaria, è diventato cultura; e la cultura in ugual modo è divenuta profondamente economica o orientata alla merce”, si vedano Fredric Jameson, The
Cultural Turn: Selected Writings on the Postmodern, 1983-1998, New York: Verso, 1998, p.
73 e passim; e Id., Postmodernism, or the Cultural Logic of Late Capitalism (1991), trad. it.
di Massimo Manganelli, Postmodernismo, ovvero La logica culturale del tardo capitalismo,
Roma: Fazi, 2007, cap. 1.
16
Naomi Klein, No Logo (2000), trad. it. di Equa Trading e Serena Borgo, No Logo.
Economia globale e nuova contestazione, Milano: Baldini&Castoldi, 2001, cap. 1.
IL POTERE DEL CONSUMO FRA STORIA E IMMAGINARIO
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l’onnipresenza della moda e l’ipertrofia del cool – tutti tratti che fanno
parlare Zygmunt Bauman di una sorta di deregulation esistenziale, un
crollo della “gabbia d’acciaio” della modernità –,17 sono infatti solo una
faccia della medaglia. Il cui rovescio può essere rappresentato dal fenomeno low cost, dalla formula hard discount con la riduzione dei servizi al minimo che, grazie allo spostamento della produzione nei paesi in via di sviluppo, abbatte i costi di molti prodotti e consumi. I protagonisti di questa rivoluzione sono marchi di successo planetario: Ikea per l’arredamento, Ryanair per il turismo, Skype e Google per la comunicazione e l’informazione, Zara per la moda, ai quali bisogna aggiungere però, per avere
una panoramica del fenomeno, anche i discount alimentari, le innumerevoli varianti etniche del fast food per la ristorazione, nonché la galassia
della pirateria informatica per i consumi musicali e cinematografici, senza
trascurare il mare magnum della contraffazione.18 Difficile dire se si tratti
di un’ulteriore democratizzazione dei consumi rispetto agli anni Cinquanta-Sessanta. In effetti, parte del nuovo scenario è anche l’affacciarsi
di interi paesi e continenti – le centinaia di milioni di nuovi ricchi di India e Cina in testa – al banchetto dei consumi: un fenomeno che può farci sentire, noi occidentali opulenti, altrettanto ‘declassati’ e minacciati nel
nostro privilegio di quanto lo fosse la borghesia europea di fronte all’avanzata del consumismo americano più di mezzo secolo fa. È stato osservato che le imprese low cost sono la risposta del mercato al tramonto del
ceto medio nei paesi occidentali, sostituito da una “classe della massa”
impoverita in una società che vede aumentare la forbice dei redditi, resa
più precaria dai mutamenti del mercato del lavoro e dall’erosione del Welfare State, ma ugualmente vogliosa di continuare a consumare, e anzi di
farlo senza le remore e i calcoli a lungo termine delle passate generazioni.
In effetti – e qui le due facce si toccano –, se i consumi low cost sono ‘poveri’ per la ‘proletarizzazione’ del loro scenario (prendere un aereo come
se fosse un autobus, comprare mobili in scatoloni di cartone…), oltre che
per la qualità medio-bassa e la scarsa durevolezza dei beni, tutt’altro che
primari sono invece i bisogni che soddisfano: intrattenimento, viaggi e
tempo libero, stile, cura del sé e della casa, ecc.
17
Zygmunt Bauman, “Consuming Life”, Journal of Consumer Culture, 1:1, 2001, pp. 9-29.
Qui e più avanti seguo Massimo Gaggi e Eduardo Narduzzi, La fine del ceto medio e
la nascita della società low cost, Torino: Einaudi, 2006. Sulla contraffazione come paradossale volano del successo delle griffes, vd. Roberto Saviano, Gomorra, Milano: Mondadori,
2006, pp. 49 e segg.
18
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Si potrebbero attribuire le due facce del nuovo regime di consumo ai
due segmenti sociali che sembrano profilarsi sempre più nei paesi occidentali: da un lato, il consumismo hip e un mercato del lusso fiorente come non mai per le nuove minoranze privilegiate, le “classi creative” e i
bourgeois bohemien della finanza, dell’hi-tech e dell’industria culturale,
dall’altro il surrogato low cost per le masse precarie e impoverite. Difficile
pensare però che da questa polarizzazione possa rinascere una qualche
forma di coscienza di classe con le conseguenze politiche del caso. Come
de Grazia dimostra, il modello di consumo di massa ha eroso le antiche
divisioni di casta, creando alla lunga una società più interclassista. Pierre
Bourdieu aveva elaborato la sua teoria della ‘distinzione’, del valore socialmente discriminante dell’esperienza estetica e delle scelte di gusto osservando quel che restava, nella Francia dell’inizio degli anni Settanta, dell’ancien regime dei consumi.19 L’espansione della classe media fino ad assorbire ampi strati della classe operaia avrebbe reso di lì a poco del tutto
anacronistico il valore distintivo di contrassegni borghesi come l’educazione liceale umanistica o la predilezione per la musica classica documentate da Bourdieu. Un’industria culturale ormai trasversale e capace di offrire ogni sorta di prodotti – dall’accademia all’avanguardia, dal trash fino
ai complessi ibridi postmoderni – avrebbe abbattuto le divisioni dei livelli
– highbrow, midbrow, lowbrow – e soprattutto il loro sottinteso classista.20
Eppure, nel nuovo regime dei consumi, la lezione di Bourdieu, se si prescinde dai tratti desueti del paesaggio sociale analizzato, resta di straordinaria attualità. Come osservano Potter e Heath, il bisogno di ‘distinzione’
è il vero e proprio movente primario del consumatore contemporaneo.
Più che ‘di massa’, come vuole la vulgata apocalittica, quello odierno è un
consumo “competitivo”: “le persone comprano qualcosa che le faccia sentire in qualche modo superiori, sia per mostrare che sono più cool (le scarpe Nike), meglio introdotte (i sigari cubani), più esperte (lo Scotch al puro malto), di miglior gusto (l’espresso di Starbucks), moralmente superiori (i cosmetici del Body Shop), o semplicemente più ricche (le borse di
Louis Vuitton)”. Distinguersi, in questo nuovo contesto, non significa solo “essere differenti”, bensì esserlo “in un modo che ci renda riconoscibili
19
Pierre Bourdieu, La distinction (1979), trad. it. di Guido Viale, La distinzione. Critica
sociale del gusto, Il Mulino: Bologna, 2001.
20
Una recente analisi sull’erosione di “distinzioni di gusto” che erano “distinzioni di casta” limitata al contesto americano è contenuta in John Seabrook, Nobrow: The Culture of
Marketing and the Marketing of Culture, New York: Vintage, 2001.
IL POTERE DEL CONSUMO FRA STORIA E IMMAGINARIO
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come parte di un club esclusivo”.21 Si tratta, tuttavia, di un collettivo artificioso e temporaneo che quasi mai coincide con le consolidate classi di
un tempo, sia esso un gruppo di pari adolescenti, la conventicola dedita a
un particolare street style, gli appassionati di un hobby o di uno sport, i
devoti di una marca o una di quelle effimere ‘tribù’ di cui parlano sovente
gli esperti di marketing e pubblicità. Affiliazione e disaffiliazione, attrazioni e insofferenze si contendono continuamente la psiche di un consumatore attanagliato sempre più dal doppio legame familiare a tutti i lettori di René Girard: l’imitazione di un modello e il desiderio di soppiantarlo, di negare la dipendenza, il carattere ‘mimetico’, non originale del proprio desiderio.22
La letteratura degli ultimi anni ci ha dato alcune illuminanti rappresentazioni del nuovo ethos del consumo competitivo. Dal paesaggio
darwiniano presente nei primi due romanzi di Michel Houellebecq,
quell’“estensione del dominio della lotta” che vede gli individui impegnati
in una contesa per l’affermazione individuale perfettamente simile alla
competizione sessuale degli altri mammiferi, fino all’ironia di Labranca sul
“neoproletariato” nostrano: “essere popolo significa essere massa, compatta, unita. Nessuno vuole più esserlo […]. Il sistema industriale produce
oggetti di massa, ma li riveste di sogni individualizzanti. […] ‘Neoproletari di tutto il mondo, separatevi, individualizzatevi, opprimete il vostro simile con la vostra carica di eleghanzia superiore’”.23 Ma il romanzo più
esemplare è probabilmente Le correzioni (2001) di Jonathan Franzen, dove
i due diversi regimi di consumo – di massa e postmoderno – si incarnano
nei padri e nei figli di una famiglia americana, i Lambert. A confronto due
varietà storiche di infelicità: la vita di frustrazioni, inibizioni e ‘correzioni’
dei due anziani coniugi, vissuta interamente nella provincia del Midwest,
dall’altro il nuovo disagio della libertà dei figli che hanno cercato sulla costa metropolitana quella realizzazione personale impensabile per i genitori.
Se Chip e Denise – aspirante accademico l’uno, chef sofisticata l’altra – sono vittime di picaresche disavventure sessuali, Gary, un uomo sposato con
un lavoro di successo, non dovrebbe incontrare ostacoli sulla via della felicità e dell’integrazione. Eppure anch’egli sprofonda nella depressione, vit21
Joseph Heath e Andrew Potter, op. cit., pp. 103, 214-15.
Cfr. per es. René Girard, La violence et le sacré (1972), trad. it. di Ottavio Fatica e Eva
Czerkl, La violenza e il sacro, Milano: Adelphi, 1992.
23
Tommaso Labranca, Neoproletariato. La sconfitta del popolo e il trionfo dell’eleghanzia,
Roma: Castelvecchi, 2000, pp. 43, 48-49.
22
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tima di una civiltà dei consumi di cui ha provato, con il suo gusto esigente
e aggiornato, a giocare sul serio la partita:
Quel giorno indossava una giacca sportiva misto seta verde cappero, una
camicia button-down di lino écru e pantaloni neri senza piega […] esaminò la sala da ballo per avere la conferma di essere davvero l’unico maschio senza cravatta, ma quel giorno il contrasto fra sé e la folla lasciava
molto a desiderare. Solo pochi anni prima la sala sarebbe stata una giungla di gessati blu, abiti da mafioso, camicie tono su tono e mocassini con
nappetta. Ma adesso, nella tarda maturità del lunghissimo boom economico, persino i giovani zoticoni del New Jersey compravano abiti italiani
su misura e occhiali sofisticati. […] Oh misantropia e frustrazione! Gary
voleva godersi la ricchezza e gli agi, ma il suo paese glielo stava rendendo
difficile. Intorno a lui, milioni di miliardari americani di fresca data si davano da fare per sentirsi straordinari, per acquistare la perfetta casa vittoriana, per sciare su montagne incontaminate, per conoscere di persona lo
chef, per trovare la spiaggia mai calpestata da piedi umani. C’erano altre
decine di milioni di giovani americani che non avevano un soldo ma che
tuttavia inseguivano il Perfetto Cool. E intanto la triste verità era che non
tutti potevano essere straordinari, non tutti potevano essere estremamente
cool; perché in questo modo non ci sarebbero più state persone comuni.
Chi avrebbe sostenuto il ruolo ingrato di essere relativamente non-cool?24
Come spiegano ancora Potter e Heath, riprendendo le teorie di Fred
Hirsh sui “limiti sociali dello sviluppo”, nel cuore dell’opulenza c’è un’inesorabile fonte di penuria. Il gusto, la distinzione, il cool sono ‘beni posizionali’, per loro natura scarsi, un po’ come i terreni appetibili di una
città o i posti di una facoltà a numero chiuso. Quando certi prodotti di
moda si diffondono fra un pubblico più vasto semplicemente perdono il
loro valore distintivo: la competizione non si quieta, si sposta su altre poste in gioco, a loro volta scarse. Gli attacchi, più o meno motivati, radicali o estetizzanti, al gregge dei consumisti, lungi dal disinnescarlo hanno
contribuito a inasprire e quasi a stabilizzare l’intero processo.
L’odierna società occidentale, di cui de Grazia ha tracciato un’esemplare genealogia, è un’evidente dimostrazione del potere del consumo. Sarebbe sbagliato tuttavia rappresentare questo potere come un monolite
schiacciante e compatto, un principio d’ordine anziché di anarchia. Se le
teorie e l’immaginario degli apocalittici appaiono in parte superati, l’o24
Jonathan Franzen, The Corrections (2001), trad. it. di Silvia Pareschi, Le correzioni,
Einaudi: Torino, 2002, p. 206.
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dierno consumo competitivo è una clamorosa smentita anche delle profezie degli ‘integrati’ di un tempo, di chi come Francesco Alberoni negli anni Sessanta salutava il consumo di massa come un nuovo cemento sociale,
capace di traghettare la società italiana verso la modernità, senza le divisioni, i risentimenti, le invidie del passato. Com’è lontana quella pace sociale, quel melting pot dall’odierno scenario competitivo!25 Ma le nuove
folle di consumatori con la loro debole coesione sociale, minata dalla competizione per effimeri status symbol, sensibili in modo allarmante alle sirene del populismo, della xenofobia, di una politica spettacolo tanto da evocare gli spettri di un passato non tanto remoto, rischiano di farci guardare
con rimpianto proprio l’epoca aurea dell’impero americano. In effetti c’è
una sottile, sorprendente nota di nostalgia tanto nei quaranta anni di segreti e paranoia narrati da DeLillo, quanto nella vicenda di potere ricostruita da de Grazia: il rimpianto della guerra fredda e del fordismo come
di sistemi capaci, pur con tutte le loro storture, di garantire quella stabilità
che appare minacciata nell’odierno scenario di incertezza. Ritrovarci a
rimpiangere quella breve stagione di pax americana e consumista per gli
scettici antiamericani che siamo non sarebbe certo una beffa da poco.
25
Cfr. Francesco Alberoni, Consumi e società, Il Mulino: Bologna, 1967.