Madman Bovary

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Madman Bovary
Claro
Madman Bovary
Traduzione di Manuela Maddamma
A Nic
Titolo originale: Madman Bovary
Copyright © Éditions Gallimard, Paris, 2008
Traduzione dal francese di Manuela Maddamma
Per le citazioni tratte da La signora Bovary di Gustave Flaubert,
traduzione di Natalia Ginzburg, si ringrazia Giulio Einaudi editore spa, Torino
Per le citazioni tratte da Un cuore semplice di Gustave Flaubert,
traduzione di Giovanni Raboni, si ringrazia Arnoldo Mondadori editore spa, Milano
© 2009 Nutrimenti srl
Prima edizione marzo 2009
www.nutrimenti.net
via Marco Aurelio, 44 – 00184 Roma
Art director: Ada Carpi
Illustrazioni di copertina: Carlo Emilio Zummo
Illustrazioni alle pagine 125-130: Oblique Studio
ISBN 978-88-95842-24-0
Madman Bovary
I
Passione
Quando descrivevo l’avvelenamento di Madame Bovary
avevo la bocca così impregnata di arsenico, ero così
pieno di veleno da avere due indigestioni di seguito, due
indigestioni reali, tanto che ho vomitato tutto ciò che
avevo mangiato.
Lettera di Flaubert a Hippolyte Taine, 20 novembre 1866
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C’è da chiedersi se sono morto.
I miei occhi non vedono altro che i miei occhi, due buchi dove
si accumulano braci. La febbre gioca brutti scherzi… Un istante
prima: Estée, poi più nulla.
Sono le cinque del mattino e il mio corpo sembra già infuriato
con sé stesso. Divento tendine. Il sangue nelle vene fa quasi rumore. Sono in preda a una strana nausea, come se tutta la melassa lì
fuori volesse entrarmi dentro, dalla bocca, le narici, le orecchie, la
piega del culo. La mia volontà si contrae a intermittenza, un po’
d’acqua gocciola da qualche parte all’altro capo del mondo. Estée.
Dovrei alzarmi, erigere in me ciò che poco fa era sogno di verticalità, uscire dai miei cardini, sì, proprio così, strappare i battenti
della mia inanità dai suoi ultimi cardini. Ma la lampadina morta
sospesa sul mio letto ne sa più di me. Non sono pronto.
Un gesto e subito la radio mi informa su tutto quel che voglio
sapere: flora, fauna, clima, piccoli mestieri dimenticati, rancori, vendette, il sale versato sulle ferite loquaci, un incidente qua e
là e, un po’ ovunque, l’inesorabile concentrazione dei campi. La
doccia mi ripete queste verità in modo diffuso e la pelle morta
sparisce nello scarico senza che io ne sia afflitto.
Una canzone mi incide un solco nella testa e precipito giù dalla sua voluta fino al punto di evanescenza dove si riassorbe in un
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Passione
sibilo acutissimo. Non è la febbre, c’è dell’altro, devo essere scivolato, essermi spezzato. Estée.
Mi immagino temporale, buccia, bacino di depurazione, nulla
cambia. Un po’ di sabbia scivola lungo le gambe tutto sommato
inerti. Odore di stallatico. Prendo uno straccio, una calza, me la
ficco in bocca, grido, una sensazione di felicità a ritroso mi piega
in due.
Estée mi diceva: Quando sei così non ti si vede più.
Dalla finestra, vedo una gru ruotare sul suo asse. Descriverà un
cerchio? È chiaro che il mondo ha un senso, lo devo riconoscere.
Non serve a niente ricostruire tutto al risveglio.
Prendo un libro a caso dalla pila accanto al mio corpo e lo
apro non senza difficoltà. Le pagine sono diventate così lisce che
le dita credono di accarezzare, un’ultima volta, la sua pelle.
All’inizio, le righe restano addossate l’una all’altra, poi compaiono degli interstizi, fenditure bianche che a poco a poco restituiscono una parvenza di vita al rettangolo nero. Finalmente
asciutti, i miei occhi riconoscono l’aberrante geografia dell’alfabeto e mi è possibile leggere una frase, una soltanto: “Eravamo
nell’aula di studio, quando il Rettore entrò, seguito da un nuovo in abiti borghesi e da un inserviente che portava un grosso
banco”.
È l’entrata in scena di Madame Bovary, l’unico romanzo di
Flaubert che ho letto e riletto più di dieci volte, per motivi diversi, in momenti diversi. Tutti dimenticati. Estée, mi dico, ma Estée
non ci sarà. Leggerò il libro tutto d’un fiato, treno rapito dalle
rotaie, e quando l’ultimo tunnel mi risputerà all’aria aperta sarò
guarito.
Madame Bovary: ti conosco a memoria. Sarai la mia salvifica
musica da ascensore, il mio passaporto easy listening per il mondo dei vivi, o degli zombi, poco importa, spezierò l’acqua benedetta se occorre, ma sopravvivrò al passaggio. Leggere è naturale,
come il dondolio dell’altalena quando la corda è tesa.
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Estée mi diceva: C’è da chiedersi se ci sei.
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Non ha niente, mi dice il medico qualche giorno dopo.
Il medico è un uomo nobile, alto, molto alto, e sul suo tetto atterrano subito tre elicotteri da dove saltano giù, ilari, delle scimmie. Senza il minimo scrupolo mi nega speranza e morfina – no,
non sarò risarcito. E io gli frego il fermacarte di piombo sulla cui
superficie sono incise le strutture molecolari. (In tasca l’oggetto pesa poco più di un cellulare. Eppure, parla, mi chiama, mi
riattacca in faccia. È davvero un fermacarte? Che cos’è un fermacarte? Sarei tentato di rispondere: un libro). Ho fatto appena
qualche passo in strada che la nausea mi costringe a precipitarmi in un bar. Costeggio il bancone e mi risveglio nei bagni. Più
o meno.
Mi prescriva la lettura di Madame Bovary: ecco cosa avrei dovuto chiedere a quello strano dottore. Una piccola iniezione flaubertiana, per carità non più di cinquanta millilitri. Torno a vivere
sotto le lenzuola dove il mio sesso sa difendersi e le mie unghie
non si sporcano troppo. Squilla il telefono. Suonano le campane.
Suona il citofono. Madame Bovary non c’è più, non c’è da nessuna parte sul letto. Mi prende il panico. Gattono, ridivento il porco che i miei genitori hanno creduto di allevare, con il grugno
scavo nel fango, tra le lenzuola, grufolo, grugnisco, tutti i miei
amici assenti mi buttano bucce, rido.
Sposto, sparpaglio gli altri libri, ma è sempre lo stesso titolo
a tornare, sempre lo stesso nome: Estée. Estée deve aver riscattato l’intero corpus della letteratura mondiale, essere andata a letto con tutti gli scribacchini dal paleolitico fino alla data riportata
oggi dal giornale. L’avrà succhiato ai poeti, avrà infilato un dito nel culo del prosatore più audace, lisciato il moralista e si sarà sciroppata perfino il memorialista più licenzioso. Il risultato è
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Passione
lì, a caratteri minuscoli: Estée Chisciotte. Il profumo di Estée in
nero. La signorina Estée. Critica dell’Estée pura. I Fiori di Estée.
Finnegans Estée.
Me ne vado al café all’angolo e disegno dei chiodi sulla tovaglia. Mi manca l’organizzazione, ecco tutto.
Mi dico.
Sto per portarmi via la tovaglia ma mi accorgo che, malgrado
i bicchieri disposti a piramide, scivola via da sola e subito mi copre il volto. La tovaglia è un lenzuolo e alle cinque del mattino
tutti i café della zona sono chiusi. Certo. C’è una logica ma non
mi riguarda.
In frigo Madame Bovary mi aspetta, tra un porro e una vaschetta di riso. La salvo e l’abbraccio. La stringo contro il mio cuore
di pigiama. Vieni a dormire, vieni a toccarmi, non ne posso più.
Estée mi diceva: Ma perché se è solo per arrivare a questo.
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“Eravamo nell’aula di studio quando il Rettore entrò, seguito
da un nuovo in abiti borghesi e da un inserviente che portava
un grosso banco. Quelli che dormivano si svegliarono, e ognuno
s’alzò, come sorpreso nel lavoro”.
Non è un caso. Esistono proprio delle formule magiche, curiose salsicce sillabiche che la mente snocciola senza neanche starci
a pensare. La fame viene mangiando.
Ero riuscito a dimenticare la prima lettura di Madame Bovary,
che procede sempre per violenza e deflorazione, soltanto con colpi alla cieca, balzi degli occhi e balbettamenti delle orecchie. Avevo dimenticato anche la seconda, l’incurante resurrezione della
memoria disseminata di rivelazioni immediatamente appassite.
E così via: la terza cortocircuita la seconda e rinnega la prima, la
quarta si pavoneggia e la quinta si fa delle illusioni, finché ogni
strato, schifosamente impregnato del precedente, non viene dissolto nella sua stessa negazione travestita da affermazione. Avrei
dovuto addomesticare Estée allo stesso modo.
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La Madame Bovary nata dalle mie letture balbettanti ha avuto il tempo di barcollare, di sbattere il muso, di avere il ciclo, di
assoldare il suo autore. Di rammendarmi le mutande. Ero nudo,
ormai, e non lo sapevo.
“Quelli che dormivano si svegliarono, e ognuno s’alzò, come
sorpreso nel lavoro”: un giorno ci imiteranno intere nazioni, armate disarmate, mendicanti paralitici, semidei abusivi. Bisognerà
pur arrivarci. Darei l’esempio se avessi l’opportunità di parlare.
Tirare le cuoia. E, già che ci sono, firmerei Madman Bovary.
Dimenticami, diceva Estée. Pretendeva che non dimenticassi mai
di fare quello che chiedeva: dimenticarla. E cioè? Quelli che dormivano si svegliarono? E quelli che non dormivano, cos’hanno
fatto? Improvvisamente, non so da che parte rialzarmi, il Rettore entra, entra davvero, con passo marziale e gaio, accompagnato come si conviene dal Nuovo…
Il libro è aperto tra le mie mani, nasconde il mio corpo, restringe
la mia visione cosiddetta periferica, sembra ingrandirsi in tempo
reale. È il tempo reale e la crescita. Abbasso la cerniera di carne
che palpita sul lato sinistro del mio petto ed estirpo quella mollezza sanguinolenta del mio cuore, tutto costellato di coriandoli,
e lo porgo al romanzo di Flaubert cantando buon compleanno o
baciami piccina. La festa può cominciare.
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Rimasto nell’angolo, dietro la porta, così che lo vedevamo appena, il nuovo era un ragazzo di campagna sui quindici anni e più
alto di tutti noi. È un predatore, un golem, mio padre tornato
tra vecchi e ligustri per incarnarsi in un ragazzo di campagna sui
quindici anni e più alto di tutti noi. Stop! Decollo dalla scena, le
mie mutande emettono un risucchio staccandosi dalla sedia di legno e io— no, impossibile, sono ancora in piedi, lo so, il Rettore
ci farà segno di sedere. È più forte di me.
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Passione
Allora. Il Rettore ci fece segno di sedere; poi, rivolgendosi
all’istitutore.
È più forte di me, ripeto: segno di sedere; poi, rivolgendosi
all’istitutore.
Ecco che la semplice coscienza del punto e virgola arrivato dopo “sedere” a cui aspiravo con tutte le mie debolezze, ecco che il
punto e virgola, quel punto su quella virgola, quella testa su quel
corpo incurvato per cadere meglio, ecco che la mia ultima volontà mi prende all’amo e mi tira fuori dall’acqua dell’oblio.
Conosco il seguito. Come se l’avessi deglutito e digerito, risputato, nascosto e poi dimenticato. Il Rettore si rivolgerà all’istitutore, il signor Roger, a mezza voce – non sussurra o abbassa il
tono, non scandisce le sillabe, no: a mezza voce – e gli presenterà
l’alunno che ha appena introdotto in classe, ma anche nel Libro,
ma anche: nella mia testa.
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Pesce preso all’amo, dunque, ma non ancora strappato alla pozzanghera chiassosa, so quanto è fragile la mia lettura. Le parole
non hanno ancora trovato le radici, il fraseggio continua a vacillare come un dente tra le pinze, devo chiudere gli occhi che sarei
incapace di sgranare per vedere meglio i contorni dello schermo
interposto dalla lettura.
So cosa succederà se passo da un gruppo di lettere a un altro
senza volontà di rimbalzo, se scavalco le relative o calpesto gli incisi. Il granchio del rimorso stringerà le chele sui miei coglioni e addio ebbrezza. Per ricucire opportunamente l’obnubilante dolore,
le armi sono misere e mal affilate.
Bene. Raccogliete un ciottolo, infilatelo in tasca poi correte,
correte. Sbatte. Sobbalza. Tagliate le tasche. Bovarizzate tutto
quel che contengono e proteggono. Sogno una tasca che non mi
contenga in nulla e si appaghi di parole, una vescica tanto resistente da intascare solo i miei guadagni e lasciare al vento le mille e una perdita della mia piccola e soffice personalità.
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Mi sarei potuto rotolare nella steppa di Zivago o perdermi tra
i lustri del Grande Meaulnes, infilare la cotonina della signorina Else o disimparare a vivere come Pavese, ma la sorte ha voluto che la mia fissazione sposasse quella della sciocca Emma B., e
tanto meglio così. Meglio per Madman Bovary!
Flaubert può esserne fiero: s’è arraffato un borghese in più.
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Non riesco a lasciar entrare questo nuovo del quale so tutto e per
il quale non spero nulla. Il mio chiavistello resta bloccato. Rimango un lettore addomesticato da Flaubert, un macaco che scambia
il ramo per il suo arnese e lo sfrega fino all’irruzione floreale. Devo portare con me un amuleto e fare in modo che le sue vibrazioni
incantino la mia ennesima lettura. Sì. Non voglio vegetare per tutta l’età adulta nel capitolo introduttivo che conosco a menadito.
Tutto sta nel prendere velocità. Lasciarsi accarezzare i capelli dal
vento familiare del romanzo mentre gli occhi bovini fanno partire
l’indolente locomotore. È tutta un’arte. Metodo, dunque.
Quale ricordo annientare prima di partire, e che sia il fiore
mancante da tutti i bouquet imputriditi che il vaso della mia testa
non vuole più?
Mi dico.
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Ce l’ho, il ricordo! È là, nascosto nei motivi della mia paura. Comincia con la sete, e termina, probabilmente, allo stesso modo.
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Il caffè ha finito di raffreddarsi nella trasparenza del bicchiere,
ed è importante ora che la parola caffè, il suo residuo verbale, si
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depositi in fondo alla memoria, proprio come il suo gusto, per
quanto acre. La musica minaccia di tacere in ogni momento, ma
per ora la sua magia è in atto, meglio così. I rumori dei lavori al
piano di sopra fanno vrttzkkk, ghrrmm, anticipando, credo, le
grida che verranno. Estée mi aspetta senza aspettarmi veramente,
dandosi da fare in seno all’impazienza codificata dai nostri appuntamenti. È ancora l’Estée del mio ieri ma sicuramente non è
quella del suo oggi, sta lì il sale del nostro ricongiungimento. Le
nostre mani hanno cose da fare e disfare.
(Sotto le lenzuola, a qualche riga da Madame Bovary, pongo
rimedio al male).
Tra le spalle di Estée, che lei mi offre non appena la porta si
apre, un’intenzione rotola e poi scivola nella piega del gomito,
dove vado. In un mondo puramente geometrico, gli assi s’inclinano a mano a mano che i piani si abbracciano. Per amanti promossi al conflitto, idem.
Non diciamo che lo stretto superfluo per imitare la leggerezza che
ci sfugge. Tutte le nostre frasi terminano con punti interrogativi che
i nostri mezzi sorrisi ingoiano avidi. Stringo la mano sulla sua nuca e
sento che i suoi piedi vogliono staccarsi dal suolo. Con l’altra mano
le accarezzo l’anca e la invito a girare. Il ricordo non è altro che coreografia e agilità, là dove la vita ci faceva sbattere agli angoli del tavolo e godere sul manto del tappeto. Ma voglio partire così lontano,
così solo, che lesinare non fa parte del mio programma amaro.
(Continuiamo. Ricamiamo. Siamo la sdolcinata ricamatrice di
questa fantastica derelizione).
La tenda della camera giapponizza le dita e i ciuffi delle piante. Un po’ di sole rende tutto vago. Estée mi porge le labbra che
scanso con una lingua improvvisamente asciutta. La vescica piena mi costringe a costruire in quattro e quattr’otto un bagno
contenente un armadietto per i medicinali il cui specchio scorre
per rivelarmi subito un flacone di laudano che non dovrebbe esserci, ma che tracanno rapidamente mentre accarezzo con le dita
le mutandine stese ad asciugare sulle aste rigide.
Torno nel salotto dove Estée, appollaiata più che seduta, finge
di annoiarsi per la mia volgare sparizione. La raggiungo sul divano
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e senza che se ne renda conto le confesso tutti i miei mali con un
colpetto al ginocchio. Mi afferra le guance e mi morde il naso. Le
sollevo il maglione e la inghiotto. Reticenza, abbandono, si gioca
tutto nell’intervallo.
(Sotto le lenzuola il glande stuzzica il dorso del libro).
Estée si bagna davanti ai miei occhi. Turbato, la libero dei bottoni e degli automatici. La musica scandisce il tempo. Estée gode in anticipo in un assolo che conosco a memoria. Avvinghiati
l’uno all’altra, barcolliamo verso la sua camera che, a quanto ricordo, non ha porte. I palmi, cosparsi di quel po’ di saliva che le
bocche concedono loro, conoscono il seguito. Aumento il volume. Sento la mia voce. Lei mi dedica il suo primissimo sospiro e
mi lascio inumidire dal retto alla pianta dei piedi, senza far godere
le cosce che cominciano a innervosirsi.
(Il mio ricordo si cancella a mano a mano che si inventa, votato
interamente alla negazione di quel che sovraespone).
Estée si rialza di scatto, morsa dal cobra che si chiama gioia,
e si assenta, al punto che la mia pelle cede al concetto di svezzamento. Immobile, delego alle mie orecchie il diritto e il dovere di
vigilare. Quel che sento dunque è, non può essere altro, il suono
delle sue natiche sull’omega del water, l’altro rumore è inevitabilmente il rosario sgranato dal suo meato e, sì, grazie al cielo, lo
strofinio ovattato è quello della carta igienica contro i peli del suo
sesso, tre dita premute bastano. Si risistema il ciuffo con un colpo di unghie premute poi mi raggiunge, gli occhi come estirpati
dall’oscurità che la luce del giorno ci impone.
Non smetto di insistere, di spingermi in lei. È andata via due
minuti, tre anni, è andata via e tanto è bastato a lacerarmi. Quando la rivedo, chiudo gli occhi, solo per qualcosa di meglio. Non
c’è bisogno degli occhi per vederla. Addio. No, non ancora! Lei
scende su di me in un silenzio concordato e io ripasso per la cruna di tutti i gesti ricordati finora. Rifiutiamo la sazietà. Confida allora al mio ventre verità che solo le mie anche conoscono.
Le nascondo i segreti che mi estorcono le sue caviglie. Lei mi allontana, e il suo inventario è dolore, crema, indicibile. Vorrei
bagnarmi nel verbo affievolire. Cadere in estasi cosciente.
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Ma non è più tempo per ricordare. Fa i bagagli, cancella le
tracce. Voglio sentir scricchiolare la sua ombra e sbattere le sue
suture. Un’ultima volta.
Altrove, molto vicino, in un luogo che chiamo mio malgrado
qui-là, la Bovary mi aspetta, severa nel suo abito di carta e cartone, un po’ di colla secca lungo la schiena. Per meritarla, ho accettato di disossare l’identità del mio ultimo turbamento. Cosa
dice, a qualche pagina da qui, la canzone del vagabondo? Qualcosa come…
C’era il vento quel giorno però,
E la corta gonna volò!
È questa! La corta gonna, vola via! Il ricordo! il ricordo! Il ramo
si spezza, finalmente. Non ho neanche il tempo di raccoglierne
la linfa e di portarmela alle labbra chiuse sul nome di Estée che
mi ha lasciato. Si fa avanti un’ombra, danza. È lui, è lui! L’istitutore. L’istitutore di Madman Bovary! Mi fa segno di non muovermi. Poi:
“Ecco qui un alunno che vi raccomando, entra in seconda. Se il
suo studio e la sua condotta sono meritevoli, passerà fra i grandi,
come è giusto all’età sua”.
Sono il vecchio, che viene, battuto in anticipo. Un vitello. Tutto
è scritto. Eccomi in Bovary.
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Da allora so quel che accadrà, non tanto perché la mia letturaricordo è viva quanto un rogo in cui continuano a bruciare tutte
le pagine lette, ma perché la sua sequenza ininterrotta si riproduce
nella scatola della mia testa, una colonna sonora che si può ascoltare o no a seconda del grado d’influenza concesso ai suoi motivi,
come ovunque intorno a me, poiché, nel bene e nel male (ma per
esperienza sospetto l’opzione numero 2), sono arruolato nella sua
prosa, mobilitato dal suo intrigo, condannato al suo svolgimento.
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Non solo Madame Bovary rappresenta in me un virus che un
nonnulla – un imperfetto trattenuto a lungo, un punto e virgola
da direttore d’orchestra – risveglia, ma eccomi iscritto in Madame
Bovary, nel suo registro implacabile, che per di più è dotato di
uno strano status, poiché né personaggio – sarebbe stato compiacente – né scenario – nessuna trasmigrazione – ma movimento
stesso della lettura. Io sono il tempo dato dallo girare delle pagine
di Madame Bovary. Il loro maledetto tam-tam.
So dove vado, non essendo più chi fui. E ho il sospetto che invocare Estée pagina dopo pagina non sia affatto di buon gusto.
Sarà fuori luogo. (Comunque ci penso).
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Il nuovo mi fa la migliore delle impressioni, anche se si intrufola nella mia lettura per l’ennesima volta. Non mi stanco di vederlo venire avanti in classe come un burattino penoso, si direbbe
l’idiozia a spasso con la crudeltà, situazione che mi parla.
Aveva i capelli tagliati di netto sulla fronte, come un chierico
di paese, l’aria giudiziosa e molto impacciata. Benché non fosse largo di spalle, la giubba di panno verde a bottoni neri doveva
stargli tirata nel giro di manica e lasciava apparire, dalle fenditure dei risvolti, due polsi rossi avvezzi ad essere nudi. Le gambe,
nelle calze turchine, sbucavano fuori dai pantaloni di un colore
gialliccio, con le bretelle molto tese, bretelle che ho voglia di afferrare con entrambe le mani e scuotere, scuotere il nuovo e tutto l’avvenire che c’è in lui, far tremare la sua massa ancora docile
per costringerla a venir fuori, con le unghie e con i denti, senza
graffiare né mordere però (il sangue qui-là è vietato), risvegliare
in lui l’imminente medico di campagna, dirgli, in sintesi, e oralmente, senza parlare né gridare però (la voce qui-là è caduca):
Andiamo, charbovari dei miei c—, sai bene che l’amerai, amerai
Emma, che Emma ti tradirà, ti farà penare, ti tormenterà, tende già il collo come chi ha sete, incolla le labbra al crocifisso, ne
succhia il midollo, il tuo midollo, il tuo succo insipido di falso
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Passione
gesù, e la vedi deporre il più grande bacio d’amore che non oserai
mai incidere sul muso di una pagina. Allora Charles esci dai gangheri, io non posso, esci dalla tua carne e rompi il sapiente vetro
dello studio, e soprattutto, per pietà, mangiati il berretto. Io non
posso. Non ancora.
tanto vana quanto uterina che va a coronare il pompon odiosamente dorato di me.
Ma: Alzatevi, disse il professore. S’alzò; il berretto cadde.
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Lo so, lo so fin troppo, si tratta di uno di quei copricapi di ordine composito, proprio come me, che sono più che mai super- extra- ipercomposito, ho preso un po’ da papà un po’ del
ciapska, un po’ del berretto di pelo anche un po’ da mamma,
entrambi mescolati e intrecciati per indossarmi meglio, e fare
di me un cappello duro, un aborto, un caschetto di lontra, un
buono a nulla, un berretto di cotone, una di quelle povere cose
infine la cui muta bruttezza dice abbastanza sull’imbecillità generazionale che partorì – e me la prendo improvvisamente con
il nuovo perché mi offre, in forma di copricapo charbovarino,
la ricetta chimica e insieme psichica del mio essere perpetuamente in decomposizione, poiché anche io sono ovoidale e rigonfio di stecche di balena, rivestito di ciambelle circolari, che
finiscono in un poligono di cartone, non so, o forse lo so, ma il
titolo di arlecchino definisce bene la patetica invenzione che è
la mia piccola persona macinata e cotta a fuoco lento con salsa
Croisset.
Il berretto di Charles B., che ho ispezionato spesso col pensiero
senza avere mai il coraggio di indossarlo, ora mi sorride sulla superficie del riflesso nel quale il mio viso rifiuta di perdersi. Potrei,
se volessi, – e volerlo è facile… –, fermarmi là, fermarmi là, tra le
losanghe di velluto e il pelo di coniglio, io stesso memoria di coniglio scuoiato, geometria setosa ma perfettamente cretina, con
un’unica anima o ambizione, all’estremità d’una lunga cordicella
sottile sottile che nessuna corrente elettrica collega più alla matrice vituperata, un piccolo viluppo di refe dorato, a mo’ di nappina, diventare, insomma, questa spaventosa matrice, l’evidenza
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Posso ancora scegliere. Restare ciapska, berretto di pelo, insomma qualcosa di grottesco – comunque, lo ripeto: di composito
– o altrimenti (ma in fretta!) lasciarmi trasportare e volteggiare
da una pagina all’altra, risalire la corrente come una trota fino
a raggiungere Charles-Denis-Bartholomé, il padre del nuovo, un
tempo aiutochirurgo nell’esercito, abbastanza compromesso in
certe faccende di arruolamento, e che non esiterebbe a sfidarmi
in aperta campagna. All’alba, diretto, bang!
Il mio sguardo si posa sul berretto dal viso imbecille, come si è
detto, poi paragono le mie misere ambizioni all’avvenire che questa mostruosità mi propone. Un breve istante, la stupefacente meringa rinuncia a tutti i suoi attributi, diventa sostanza, e sostanza
semplice, come se la sua molteplicità animale, la cacofonia delle
sue cellule, per la semplice magia della mia presenza eccessiva tra
questi luoghi e pagine, comprendesse la vanità di tutti i suoi futuri sparpagliamenti, e rinunciasse al fumoso composito che può
portare soltanto alla nostra comune deflagrazione.
Tale sostanza, lo sento, si concede, in extremis, il lusso dell’unicità, l’illusorio orgasmo dell’uno – ma a costo della mia abdicazione, non c’è alcun dubbio.
Mi sorprendo a corteggiare la massa di questa cosa al di là di
ogni cosa. Non essere altro. Il tumulto scemato. Agli occhi dello
scolaro completamente sfregiato, ma ai miei più integro del pianeta più antico.
Poi, con voce più dolce:
“Eh! lo ritroverete di sicuro il vostro berretto, mica ve l’hanno
rubato!”.
Certo, certo. Che tipo sono. Peggio: quella nappina che penzola da una brutta cordicella. Ma ho perso Estée e chi non ha mai
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Passione
perso un’Estée abbia l’ardire di farsi avanti, nell’arena dello studio, e dire, berretto, no mai, grazie tante.
Stavo per squagliarmela. Dovevo soltanto copiare cento volte
le parole ridiculus sum.
Poi, con voce più dolce:
“Eh! lo ritroverete il vostro berretto, mica ve l’hanno
rubato!”.
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E mentre dalla bocca smisurata del nuovo spunta il freak, quel
nome che è il nome del caos ostile a qualsiasi battesimo, questo
“Charbovari” che un tempo mi sembrava arlecchinato e composito (ma di cui sento la fredda resistenza), mentre il baccano s’alza improvviso, sale in crescendo, con scoppi di voci acute, mi
sento a mia volta charbovarizzato, masticato, vedo Estée ritornare in fondo al corridoio della nostra sconfitta, vedo il gioioso alone dei suoi capelli rossi sciogliersi e tingere quel vestito che
non indosserà mai, una larga e lunga tunica sulla quale si alternano, separate da una striscia rossa, losanghe di velluto e pelo di
coniglio.
Prigioniero del solco della frase, vomere sono io, e il mio eterno ritorno è un calmo incedere nella notte, il vasetto blu, il sapore
acre e la sete che farà crepare, come Emma, anche me.
Almeno, credo.
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C’era il vento quel giorno però,
E la corta gonna volò!
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Il padre di Charles, lo seguo da lontano, dall’alto, divento falco,
il punto di vista di una nuvola, attraverso piagnucolando il fumo
che esce dalle sue grandi pipe di porcellana. Della madre mi interessa poco. Li ho subiti, da scolaro, i suoi monologhi senza fine,
pieni di allegrie malinconiche e di moine ciarliere. Li ho vissuti,
prima, o dopo, dipende, ma non li definirei malinconici o ciarlieri, non potrei calcolare il peso sulla mia testa delle sue vanità
sparse, frantumate. Perché probabilmente avrebbero sgocciolato
sul mio viso un connubio di amore e stupidaggine, come il tuorlo
dell’uovo misto all’albume e pezzettini di guscio, dopo che l’uovo è colato via, insomma, non ho avuto come Charles una madre
che mi insegnasse a cantare due o tre piccole romanze su un vecchio pianoforte e tutte quelle litanie algebriche che vi aiutano a
sommare le ore troppo lunghe per evitarle meglio. Certo. Aveva
tanto sofferto senza lamentarsi, prima, quando lo vedeva correr
dietro a tutte le mignotte del paese, e venti luoghi malfamati glielo restituivano, la sera, sfatto, che puzzava di sbornia, e percorrere ancora e ancora luoghi malfamati, in sogno, alla cieca, per
procura e con l’allegria nel cuore, in un senso e poi nell’altro, la
prima volta con passo fiducioso alimentato dallo slancio dell’impazienza, ah che mignotte, ah che bevute, la seconda disegnando
serpentine e incrinature, la terza in ginocchio, la quarta arrampicandosi, la quinta lumaca, bava, poi nuovamente conquistatore,
Attila, lepre, la coda folta, poi sordo, infermo, talpa, cominciano
ad essere più di venti i luoghi, malfamati o no, secondo me molti
più di venti, 20, 120, attenzione, curva; si diventa matti a metterli insieme, berretto, gonnellina, figlio morto. Ma virgola a tutto
questo virgola Monsieur Bovary virgola incurante di lettere virgola diceva che non era il caso punto esclamativo.
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Non uno di noi saprebbe adesso ricordare nulla di lui.
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Andiamo su.
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Non uno di noi saprebbe adesso ricordare nulla di lui.
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Ripetendosi, stranamente, per testardaggine o incoscienza, le cose procedono comunque, mi precedono di qualche casella, mi
colpiscono come echi, accuso il colpo, a che scopo retrocedere.
È come dimenticarsi di Estée: un lavoro da titano che il mio spirito formica compie a ogni istante e quando la montagna è stata spostata sono costretto a scalarla per credere che nulla più mi
domina.
(Lei fumava piluccando, abbottonava e sbottonava le camicie
portando avanti il piede sinistro come per tastare la temperatura
di cosa ci si domanda, e poi cantava con una voce che avrei potuto sgretolare con la punta delle dita tanta era la rugosità sabbiosa
che possedeva e come la sabbia accumulava in modo quasi indefinito il calore proveniente dal sole suo malgrado quale sole? Sii
sabbia, mi dicevo, una volta nella vita sii sabbia, e tieni a mente, non la lezione, solo questo, il processo, il miracolo, lei come
fa come fa come fa a parlare dal fondo della sabbia io sento che
mi impantano. E tieni a mente, dicevo, e tieni a mente, tieni, non
il legame, no, non il legame, la lezione, o piuttosto non la lezione, sì, solo questo, meglio, solo questo, il processo, il miracolo, il
momento in cui ciò che si abbottona e ciò che si sbottona aziona
una volta per tutte la trappola nella quale si cade, il collo crac, il
cuore crac, ho detto il cuore?).
Non uno di noi saprebbe adesso ricordare nulla di lui oh mio
Dio se almeno fosse vero.
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Andiamo, devo, credo, riposarmi. Mi spezzerò, altrimenti. Nelle belle sere, sì, proprio così, nelle belle sere d’estate, in quell’ora
che le strade tiepide sono deserte, quando le serve giocano al volano sulle soglie, lui apriva la finestra e s’appoggiava al davanzale,
ne approfitto per essere quei due gomiti e l’angolo che formano
senza alcun dolore sul davanzale rispetto al corpo che non ho bisogno di occupare poiché non è il mio, qui-là non è mio, non sono lui in nulla non più di quanto non lo sia lui o non voglia, sono
sicuro di essere io, visto che non ho nessun gomito da offrire, e
sicuramente non due gomiti così puri, tracciati dall’inchiostro di
Flaubert nel più fetido e remoto angolo di Rouen. Di fronte, al di
là dei tetti, si stendeva il cielo vasto, limpido, con il sole rosso che
tramontava, mentre cerco di non sprofondare a testa bassa la prima testa sulla scena, per la troppa paura di vederlo cadere dalla
pagina che gira e poi più nulla, o altre pagine. Vi ricordate: Non
uno di noi saprebbe adesso – sì, vi ricordate.
Voglio veramente che il Rettore ci faccia segno di sedere; poi,
rivolgendosi all’istitutore? No, non l’eterno ritorno, soltanto il
suo sapiente annegamento e io con esso.
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Prese l’abitudine alla bettola, e passione al gioco del domino.
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Comincia chi ha la tessera più alta: deve sistemare le sue tessere combinandole (uno dei lati della tessera piazzata deve avere
lo stesso numero di quella sul tavolo) finché non gli rimane più
nulla in mano. Il giocatore successivo dispone a sua volta tutte le
tessere finché non gli rimane più nulla in mano. I doppioni si sistemano perpendicolarmente.
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Le tessere devono essere sistemate a turno una dopo l’altra.
Il primo ad aver messo giù tutte le tessere conta i punti di quelle che restano in mano agli altri giocatori e se li attribuisce.
Se nessuno le ha messe giù tutte, chi ha il minor numero di
punti prende quelli che restano sulle tessere in mano agli altri
giocatori.
Colui che domina.
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La passione?
Molte cose compresse dentro di lui si dilatarono.
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Proviamo. Diciamo che ho la tessera più alta, è una macchina
da guerra da tirare fuori, un fiero momento con elmo nero e corazza bianca, si fa avanti, mai si vide tessera più imponente, la
piazzo, schiaccia tutto, sotto di lui si contorcono braccia e gambe ma non giungono grida (qui-là, nessun suono). La tessera più
forte! Tu parli, Charles! (Ad ogni modo non si sente nulla, quilà). Dunque, il re del domino, più crudele di tutti i miei dinieghi,
piazzato per primo, come per dissuadere tutte le altre piccole penose insignificanti paurose deboli puzzolenti meschine ridicole
tessere dall’osare accostare il loro culo al suo muso. Mai, dico
che non oserete mai. La tessera più alta ha dalla sua il vantaggio
di sapersi sola, al di sopra delle leggi comunque dominanti, e il
suo corpo sembra diviso in due per raddoppiare meglio la forza,
per decuplicare meglio la rabbia assoluta che non gli piacerebbe
vedersi rivolgere contro, sì, là ancora in guardia! Quante tessere
mi restano? Cento, duecento, mille, due?
Ho messo per prima la sezione punti neri|superficie bianca, in realtà solo un punto ma subito dopo, sorpresa: superficie
nera|punti neri. Deve essere un errore. Verifico.
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Superficie nera, è sicuro, quasi laccata, sotto in legno, il bosso,
così leggero anche se, sicuramente: la tessera più forte.
Punti neri. Nessun dubbio. Anche sulla superficie nera vedo i
punti neri, cento, duecento, mille, due, che importa, il più forte, vi
dico. La passione. Nero su nero, è questa la mia forza, con questo
stratagemma domino. I punti neri necessari perché la superficie
sia più nera di una superficie nera sprovvista del minimo punto,
nero o bianco. Un cielo notturno interamente bucato da buchi neri, diciamo astri, diciamo buchi neri, diciamo costellato, e per il
cielo non so, diciamo solo la notte, ma non l’oblio, non la paura.
L’ultima tessera. Semplicemente virgola con noncuranza
virgola si sciolse da tutte le risoluzioni che dentro di sé aveva
formulato.
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Finché non ha più nulla in mano: sì, capisco meglio.
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Devo aver perso conoscenza, paragrafo, pazienza. Rapida traversata di un paesaggio in bianco e nero crivellato di macchie nere e
bianche, rapida traversata nella mia paura, mi sento ritorto, folle, frattura. Ancora più semplice: sono la frattura alla gamba che
Charles è venuto a curare. La gamba appartiene all’agricoltore
Rouault, ma la frattura resta la mia, benigna, certo, ma bisognosa comunque di tutti i tipi di carezze di chirurgo, che sono come
l’olio di cui si ungono i bisturi. Quello che sento è il dolore dell’osso che sostituisce il mio essere. L’ho già provato? Sono già stato osso? E chi mi ha rotto? Estée? Da solo si rompe l’osso, da solo
si aggiusta, la pelle un tempo violacea ritrova in fretta il colorito
bruno, in attesa di quello nero.
Non sono sicuro di voler lasciare la magia della frattura per divenire il frustino che Charles ha smarrito e che Emma cerca. Ma
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Passione
la cosa capita come si perde la testa, a colpi di nerbo di bue ben
piazzati, dati e ridati, finché non si smette di invidiare l’idea stessa
di salute. Ed è quello che deve aver sentito Estée quando è uscita
di scena.
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Vedo la mano di Emma frugare sotto il letto, dietro gli usci, sotto
le sedie: nulla di più inquietante di una mano che cerca un frustino quando l’uomo che ne ha appena perso uno ne sogna già un
altro. Io, ci sono, nel cuoio intrecciato, fra i sacchi e il muro. Sono
il re dei frustini! Posso frustare tutto se voglio, i fianchi dei cavalli, il muso dei paesani, rovesciare le lampade a petrolio e tagliare
le tende, fare il solletico al naso della cameriera, perfino ridurre a brandelli con un rapido mulinello il fascio di pagine che mi
imprigiona. Posso, nell’ordine: frustare Charles, frustare Emma,
frustare il vecchio Rouault, frustare l’ombrellino di seta cangiante che, attraversato dal sole, illuminava di mobili riflessi l’incarnato bianco del viso di Emma. E frustare anche la frase affinché
acceleri l’andatura, salti i fossati, calpesti le pause.
La lista delle cose di cui sono capace è quasi infinita, vertiginosa, mi ci perdo come in un’idea fissa di cui ci si è dimenticati
l’oggetto. Manca solo una cosa per raggiungere l’infinito +1: rinunciare tranquillamente a questa asinaggine d’infinito per dedicarmi al +1, che richiede del tempo.
Ma senza collera né violenza, lacerarmi da solo, che ironia!
Che vittoria sarebbe. Ma non sogniamo.
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Sento, improvvisamente, una spaventosa nuvola sorvolare la pagina. L’ombra di Flaubert, né più né meno. È la prima volta che
un simile fenomeno atmosferico si verifica qui-là. Il calamaio a
forma di rospo, la piuma d’oca, tutti i piacevoli dettagli della
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sua casa che è possibile visitare se il cuore, insomma, si sa, la
scena della declamazione, le grida, le esclamazioni, contraffatte
o estorte, la sedia scossa, tutto questo mi lascia impietrito. Ma
l’ombra che avanza come una folla, come ricordo di squartamento, ecco che mi paralizza. Mi vede? Cosa vede? Non è né dio né
boia. Figlio di un chirurgo con la passione per la letteratura, che
un giorno ha scopato con Eulalie Foucaud de Langlade, frequentato la facoltà di Giurisprudenza a Parigi e che si è fatto espellere.
Si dice sia stato colpito da un attacco apoplettico mentre guidava
la sua cabriolet. Il che non gli ha impedito sei anni dopo di andare a far visita alla cortigiana Kuchuk Hanem. Nel 1870 i prussiani sono a Croisset. Louise muore. Frattura del perone. Decesso.
E non se ne parli più.
L’ombra di F., è lei, che scuote. Ancora e ancora.
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Allora sì, devo prendere tutto, Emma.
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Ma mai poté immaginarla, diversamente da come l’aveva vista
la prima volta o da come l’aveva appena lasciata poco prima,
mai potrò distruggere la sagoma sul lenzuolo del letto per sempre stropicciato rimasto fuori da questi luoghi, in altri luoghi, e
probabilmente in altri tempi, il tempo di girarmi e lei è sparita e,
come crudele penitenza per la mia vile, per la mia goffa, per la
mia insufficiente presenza, il – il – il Rettore entrò, seguito da un
nuovo in abiti borghesi e da un inserviente che portava una lama
già rossa che tutti gli alunni mi conficcarono nel cuore gridando:
“Madman Bovary! Madman Bovary!”.
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Prendere tutto da Emma, dunque, fargliela pagare per Estée, strigliarla, piegarla, insultarla, aiutarla a rimangiarsi perfino il suo
nome. Intimidirla. Scusa, Emma, ma è così che succede qui-là,
che succederà ormai. Scelta, non ne ho.
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Si lamentava di provare, dall’inizio della stagione, sensi di stordimento, e dirlo è poco, i capelli crescono al contrario, per due
volte le unghie rientrano nella carne senza uscire fuori, si inventa
incubi invasi da aerei, incursioni, telefoni sotto controllo, dischi
consumati dai quali nessuno sente nulla, soprattutto io, la sera
invoca il mattino e al mattino benedice la notte. Non ho nulla
da invidiarle. E Emma cercava di sapere che cosa si intendesse di
preciso nella vita con le parole felicità, passione ed ebbrezza, che
le erano sembrate così belle nei libri. No, nulla da invidiarle.
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Eh? Cosa? Che cosa ho letto? La cortigiana Kuchuk Hanem?
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Kuchuk kuchuk kou-kou-kouchouk! Lancio il mio grido di guerra, il grido di non adunata di madman bovary, quel povero
pazzo a cui si negano qui-là perfino i tacchi di Lady Chatterley,
perfino la fica di Molly Bloom. Perfino il dito di Estée.
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