Non c`è un legame diretto fra prezzo e valore delle

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Non c`è un legame diretto fra prezzo e valore delle
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CONVERSAZIONE CON GINEVRA ELKANN
Non c'è un legame diretto fra prezzo
e valore delle cose che si usano
«La definizione di valore è soggettiva. Se una cosa è unica ed è
tua, ha un valore unico per te, completamente indipendente dal
prezzo d’acquisto. Può essere una coperta usata, ma particolare,
comprata in un mercatino, in una bella giornata di sole trascorsa con qualcuno a cui vuoi bene. Magari è stata pagata pochi
euro, però per te vale di più di un oggetto griffato e di lusso. Un
valore legato al momento, a chi sei tu». Parola di Ginevra
Elkann, 30 anni, giovane regista (è stata assistente di Anthony
Minghella nel film Il talento di Mr Rypley e ha realizzato il cortometraggio Vado a Messa, presentato alla Mostra di Venezia),
nonché vice presidente della Pinacoteca Giovanni e Marella
Agnelli. Ginevra, sorella di Lapo e John (presidente della Fiat e
di Exor) è l’esponente più giovane e glam dell’ultima generazione della dinastia che, per molto tempo, ha rappresentato nell’immaginario collettivo una specie di famiglia reale de facto.
Figlia dello scrittore e giornalista Alain Elkann e di Margherita
Agnelli, Ginevra è sposata con Giovanni Gaetani Dell’Aquila
D’Aragona. Aristocratica, ricca, elegantissima, timida, ha un
look e un atteggiamento che ricordano Cecilia Tallis, il giovane
personaggio femminile interpretato da Keira Knightley in
Espiazione, la trasposizione cinematografica (regia di Joe Wright)
dell’omonimo romanzo di Ian McEwan.
Ma perché abbiamo scelto proprio Ginevra Elkann per parlare di low-cost? Il pretesto potrebbe essere il fatto che, la giovane signora abbia accettato di fare da testimonial della campagna di Oviesse Industry, fotografata da Deborah Turbeville,
con un servizio che legava l’immagine di aristocratica eleganza di Ginevra all’immagine del marchio di fast-fashion made
in Italy. Ma c’è una motivazione più profonda. Dal dialogo con
Ginevra Elkann emerge che l’assenza di legame diretto fra
prezzo e valore delle cose che si usano è un atteggiamento che
i veri ricchi, quelli che lo sono storicamente e da generazioni,
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hanno sempre avuto. Non hanno alcun bisogno né di ostentazione né di status symbol. Sono capaci di utilizzare le stesse
scarpe da trent’anni, continuamente risuolate e manutenute,
come fa il principe Carlo d’Inghilterra, perché sono comode e
vi sono affezionati. La rivoluzione del low-cost e della neosobrietà comporta che, in una certa misura, questi comportamenti stanno entrando nella cultura di massa. «Il valore di qualcosa è legato a ciò che rappresenta ma anche al tempo speso per
cercarlo. Più si investe tempo e maggiori sono le probabilità di
trovare cose migliori. Questo vale per i mercatini dell’usato,
ma anche per le aste su Internet e perfino per gli shop fastfashion. Chi frequenta Zara lo sa. Magari ci vogliono ore per
trovare il capo che ti piace. Perché i negozi sono grandissimi,
c’è confusione, non ci sono tutte le taglie, e la merce esposta
varia considerevolmente da un negozio all’altro. Molte cose,
poi, non piacciono. Ma se si guarda bene, se si investe tempo,
magari si trova la gonna o la maglietta che fa per te, che ti fa
sentire bella, che ti convince. E non ha nessuna importanza il
fatto che costi venti euro o cinquanta».
Insomma, per trovare qualcosa che valga devi avere il tempo e la
pazienza di scovare le cose. È una specie di caccia al tesoro…
«Nell’aria vedo un flusso positivo, un crescente rigetto verso
l’eccesso di bling bling e una maggiore ricerca del vero valore
delle cose. Questo atteggiamento va di pari passo con la maggiore attenzione alla sostenibilità, alla ricerca del prodotto con
minor impatto sull’ambiente. Si tende a guardare come e dove
le cose sono state prodotte. Insomma, forse la gente è più attenta all’equilibrio del mondo in cui vive, al suo domani».
Ma Lei che si occupa di arte e di cinema, come definirebbe il concetto di bello?
«Il concetto di bello è estremamente soggettivo. Ciò che io
trovo bello può parer brutto a un’altra persona. Il bello e lo
stile, e in parte anche il valore, sono concetti molto personali.
Il vantaggio dell’era dell’accesso in cui viviamo è che ci sono
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molte, ma molte più chances di mettere in pratica il proprio
concetto di bello. Oggi anche una persona di limitate disponibilità economiche può farsi una casa bella e accogliente. Basta
volerlo Io non credo che uno debba essere ricco per vestirsi
bene o avere una bella casa. È una questione di volontà. Come
essere colti».
Insomma, il bello si può trovare ovunque. Ma Lei frequenta i mercatini dell’usato?
«Certo, soprattutto il Balön (si pronuncia Balùn, ndr) di
Torino. La cucina per la mia casa di Roma proviene da lì. Mi
piace tantissimo, l’ho comprata poco tempo fa, adesso mi sto
organizzando per trasportarla. Il Balön è un luogo fantastico,
una miniera d’oro. Non conosco al mondo nessun altro posto
così. Vado speso al mercato di Portobello a Londra, o al Marché
aux puches di Parigi, ma non sono così ricchi e completi come il
Balon di Torino, dove si trova davvero di tutto. Anzi, ritengo che
ultimamente i mercati d’Oltralpe abbiano perso molto della loro
connotazione di esposizioni spontanee delle cose usate, per
diventare posti alla moda dove si trovano tante cose molto care,
praticamente di lusso. Il Balön invece non ha ancora perso la sua
anima, speriamo che la mantenga nel tempo».
Perché ha accettato di fare da testimonial a Ovs Industry?
«Era un modo nuovo di fare pubblicità, il prodotto mi piace,
le foto erano belle e il compenso era devoluto in beneficenza.
Tornava tutto. E così ho accettato».
Le piace il low-cost?
«Il low-cost, nei voli aerei come nella moda e in tante altre
manifestazioni, fa parte della generale tendenza all’allargamento dell’accesso. Io la considero molto positiva. Le persone viaggiano di più. Si accresce anche tutto l’indotto dei viaggi, anche
in senso culturale, cresce la possibilità, e quindi anche la voglia,
che le persone hanno di frequentare un museo o una mostra,
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magari a Barcellona o a Parigi. Il low-cost nei viaggi apre la
mente e l’universo delle persone, stimolate a muoversi, a conoscere, a capire».
È un bene?
«Dipende. Se ciò comporta svendersi, perdere tradizioni,
qualità, posti di lavoro, ovviamente non può essere un bene. Se
invece significa allargare il pubblico per un certo tipo di artigianato, per esempio al saper fare che connota il made in Italy, allora è sicuramente un bene. Il low-cost potrebbe rappresentare
una grande opportunità di sviluppo per il made in Italy, se riesce a integrarlo. Ma anche un rischio di morte».
E di Ovs Industry che cosa pensa?
«In genere, nel campo della moda, il fast-fashion è particolarmente apprezzabile quando rende stili più evoluti fruibili al
grande pubblico. Nel filone del fast-fashion, Ovs Industry rappresenta un netto miglioramento estetico. Apprezzo particolarmente il fatto che dia ad alcuni giovani stilisti una chance per
esprimersi. Inoltre, allarga al grande pubblico griffe di maggior
lusso come Ennio Capasa. Ciascuno si costruisce il proprio stile.
Magari mixando capi vintage a fast-fashion e, anche, a qualche
griffe di valore. Ci sono molte possibilità di crearsi un proprio
stile. Molti, ormai sono informati. Anche perché l’informazione,
non costa nulla, basta andare su Internet e si entra in un mare di
informazioni. Certo un rischio di auto-inganno c’è, perché il
vero sapere è frutto di approfondimento, ma è indubitabile che
la Rete aumenti la quota di notizie, e di lì di stimoli. Le persone
vedono gli stili su Internet e li replicano. È normale che sia così.
Vedo che questa tendenza è particolarmente significativa fra gli
adolescenti.
Il low-cost viene incontro a questo desiderio. Chi ha possibilità economiche più limitate magari compra una gonna di Zara
o di Ovs Industry perché riproduce uno stile che gli piace. Chi
ha qualche risorsa in più ne acquista due o tre».
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L’allargamento dell’accesso è una tendenza visibile anche nel mondo
dell’arte che Lei frequenta?
«Indubbiamente. L’accesso all’arte si sta allargando. Anche
l’arte contemporanea, che prima era più di nicchia, si è avvicinata maggiormente al pubblico. Un pubblico che – per inciso – è sempre più informato. Le code per andare a visitare i
musei e le mostre sono diventate la normalità. Se uno parla a
qualche persona anziana, non ha memoria di cose del genere.
Fino a ieri i musei erano luoghi per studiosi, per esperti. Per
molti erano sinonimi di noia, di grigiore. Adesso sono diventati una forma di intrattenimento come altre, come il cinema o
come i parchi tematici. Certo, molta gente ci va per moda e fa
magari fatica a capire che cosa viene esposto. Ma comunque
ne esce arricchita, anche di poco ma arricchita. E questo non
può che essere positivo».
Ma l'arte potrebbe diventare un prodotto low-cost?
«Certo, oggi è disponibile a un pubblico più allargato, anche
grazie a Internet che permette di accedere remotamente a opere
e persino a interi spai espositivi. Ma questo non significa che
possa essere low-cost. Assolutamente no. Anche le mostre che
facciamo come Pinacoteca Agnelli sono organizzate in modo
che un pubblico più largo possa capirle. E ci siamo organizzati
per allargare l’accesso, con riduzione dei biglietti per alcune
categorie e con l’inclusione dell’accesso alla Pinacoteca in alcune card, come la Carta Torino».
Anche in questo caso è importante una precisazione:
«Vogliamo allargare l’accesso senza svenderci. Non possiamo
certo diminuire la qualità del nostro lavoro». E in tema di allargamento dell’accesso aggiunge: «Il punto di incontro più importante con il pubblico è la didattica, che crea un rapporto col
museo. Dà alle persone un rapporto col museo e al museo una
motivazione per esistere».
Certo, anche il target dell’arte si è molto allargato.
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«Ci sono più artisti, più mostre, più possibilità di esporre.
Coerentemente con il fatto che viviamo in un mondo più aperto. Anche la produzione degli artisti contemporanei è più veloce e rivolta a un pubblico più ampio. L’allargamento del mercato sta avvenendo anche grazie alla nuova borghesia proveniente da Paesi in forte sviluppo, in Asia, America Latina, Russia.
Questa nuova borghesia non è composta interamente da personaggi privi di gusto, come si tenderebbe convenzionalmente a
credere. E comunque, il fatto che ci sia più gente che compra le
opere – anche al di là dell’effettiva capacità di capirle – non è
necessariamente un male. Sarebbe scioccamente snobistico
vederla così».
L’allargamento dell’accesso vale anche per il cinema?
«Qui il merito è soprattutto di Internet. Youtube è un formidabile canale di pubblicità e comunicazione, mentre iTunes di
Apple è un efficacissimo strumento di vendita. Questo vale sia
per il cinema di intrattenimento e consumo sia per quello di
qualità».
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