Islam e occidente txt 1996

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Islam e occidente txt 1996
ISLAM E OCCIDENTE
Lo specchio e l'immagine
di
Stefano Allievi
Premessa: qualche problema di definizione
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Se si chiedesse a un cittadino europeo di media cultura che cosa è l'islam , risponderebbe con tutta
probabilità: una religione. Ma se al medesimo cittadino si chiedesse cos'è l'occidente, la risposta
sarebbe probabilmente meno pronta, meno immediata, e nello stesso tempo meno univoca - eppure
si tratta del suo occidente. Perché dunque mettere a confronto due identità così differenti? Per
cercare di rispondere, la cosa migliore è forse proprio quella di cercare di vedere cosa c'è dietro la
parole, approfondendone il significato e tentando una prima definizione.
Islam. Dei due termini è quello in apparenza più chiaro, più facile a definirsi. L'islam è una
religione, ci ha detto il nostro cittadino; che se avesse una cultura un po' più che media (visto che
quella media, complici tante cose tra cui l'eurocentrismo della nostra formazione e dei nostri
programmi scolastici, dell'islam sa poco più di nulla), potrebbe aggiungere: una religione rivelata,
fondata su un fatto storico - l'esistenza di un profeta chiamato dagli europei Maometto (e che d'ora
in poi chiameremo con il suo vero nome: Muhammad) e di una comunità di credenti che intorno a
lui si è raccolta -, ma soprattutto su un libro, il Corano, che contiene - e anzi, più correttamente, è
(per un musulmano, ovviamente) - la parola stessa di Dio rivelata agli uomini.
L'islam, a cui bene o male si richiama l'inezia di almeno un miliardo di persone, sarebbe dunque
questo: una religione. Ma è poi davvero così? E c'è davvero un solo islam?
Teologicamente, non c'è dubbio, l'islam si vuole uno, come una è la verità e uno è Iddio; e la
speculazione infinita sul concetto di tawhid, di unità e unicità di Dio, dal Corano ai nostri giorni,
*
Ringrazio il prof. Felice Dassetto, dell'Università Cattolica di Louvain-la-Neuve, e Massimo
Campanini, dell'Università degli Studi di Milano, con i quali ho discusso una prima bozza di questo
testo, per i consigli di cui mi hanno gratificato, dei quali ho preso buona nota ai fini della stesura
definitiva.
Come giusto, la responsabilità del risultato finale rimane integralmente di chi scrive
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In un'ottica di semplificazione, abbiamo scelto di scrivere questa come le altre parole arabe citate
nel testo con una traslitterazione semplificata, priva quindi della sua peculiare accentazione, non
utilizzata nell'alfabeto latino. Ugualmente abbiamo mantenuto i nomi propri per come sono
normalmente conosciuti in italiano. Infine, abbiamo sempre scritto islam (e anche occidente)
minuscolo, nella stessa logica con cui si scrive minuscolo cristianesimo o ebraismo. Del resto,
appare così anche in numerosi testi tradotti da musulmani: l'arabo dopo tutto non conosce
maiuscole. L'abbiamo comunque mantenuto maiuscolo (e così pure occidente) nel contesto di
citazioni da altri autori che privilegiano questo criterio
costituisce di questa propensione l'evocazione continua e quasi ossessiva. Ma attraverso l'analisi
delle scienze umane e sociali abbiamo il diritto e forse il dovere di parlare degli islam, al plurale. E
questo nonostante i potenti fattori unificanti di cui l'islam dispone: il Corano stesso, la diffusione
della lingua araba in quanto lingua sacra (Dio, per i musulmani, ha parlato "in lingua araba chiara",
come attesta il Corano), la preghiera di tutti i musulmani rivolta
verso la Mecca, il pellegrinaggio
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rituale alla Ka'ba con la sua spinta unificante ed egualitaria , nonché il richiamo, frequente anche se
spesso solo ideologico o meramente ritualistico, alla fratellanza islamica e all'unità della umma
(parola che forse potremmo tradurre come com-unità:3 "una comunità che ordina il bene e proibisce
il male", come specifica il Corano, III,104 e III,110 , con una accentuazione significativa). Tanto
forte da assumere anche coloriture non religiose: che cosa è il declinante panarabismo, dopo tutto,
se non una interpretazione in chiave laica, e probabilmente riduttiva, della umma?
Tutti i musulmani riconoscono nel Corano il proprio libro sacro (anzi, il libro sacro, ad esclusione
degli altri, che sarebbero falsificati o corrotti, anche se sono 'scesi' integri tra gli uomini), seppure
qualche gruppo del tutto minoritario rifiuta qua e là qualche sua sura o, più comunemente, una sua
interpretazione canonica; tutti o quasi concordano sul pellegrinaggio e sull'orientazione della
preghiera, tranne qualche tariqa (nome che impropriamente traduciamo come confraternita, anche
se esprime piuttosto il concetto di via) che sostituisce la Mecca con la tomba del proprio fondatore o
altro luogo sacro. E forse è in parte vero che ciò che fa l'unità di una cultura non è la sua unità de
facto, ma la sua aspirazione ad essere una, a sentirsi e a volersi tale: una sorta di "densità di senso"
unitaria. Tuttavia, nonostante questo quadro di riferimento, la pluralità degli islam si manifesta in
molti modi.
Nella divisione canonica tra sunniti e sciiti (e kharigiti, ecc., con le loro varie diramazioni),
innanzitutto; superabile solo, da parte della maggioranza sunnita, e solo nominalmente, collocando
puramente e semplicemente gli altri (come non di rado avviene nel discorso comune) fuori
dall'islam. Ma anche nelle differenze storiche e linguistiche, e magari geopolitiche e di interessi
concreti, tra islam arabo, turco e persiano, per limitarci agli apporti più conosciuti - una limitazione
un po' abusiva, per altro: che dire allora dell'Indonesia, paese forse a torto considerato periferico dal
momento che dopo tutto si tratta, quanto a popolazione, del più grande paese islamico del mondo?
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E la dimensione egualitaria nell'islam è certamente molto importante; non per caso Max Weber, di
fronte agli eventi della Rivoluzione russa, ha potuto esclamare: "E' l'islam dei tempi moderni" (cit.
in Djait, L'Europe et l'Islam, Seuil, Paris, 1978, p.138). Anche se alla spinta egualitaria della
religione fa da contrappeso, come spesso accade, il peso delle gerarchie di fatto: nel caso dell'islam,
tra le altre, fin dall'inizio, quelle tribali del mondo arabo ma anche, forse più che altrove avendole
codificate come norma religiosa, quella uomo-donna
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Rispettivamente (e insistiamo su questo aspetto perché cruciale): "E si formi da voi una nazione
d'uomini che invitano al bene, che promuovono la giustizia e impediscono l'ingiustizia" e "Voi siete
la migliore nazione mai suscitata fra gli uomini: promuovete la giustizia e impedite
l'ingiustizia" (trad. Bausani). O, se si predilige una traduzione di parte islamica: "E (si formi) da voi
una comunità, i cui appartenenti chiamino al bene, ordinando l'onestà e proibendo la cattiva
condotta" e "Siete la migliore comunità che sia stata fatta uscire per gli uomini; ordinate l'onestà e
proibite la cattiva condotta" (trad. Pasquini); "Sorga tra voi una comunità che inviti al bene,
raccomandi le buone consuetudini e proibisca ciò che è riprovevole" e "Voi siete la migliore
comunità che sia stata suscitata tra gli uomini, raccomandate le buone consuetudini e proibite ciò
che è riprovevole" (trad. Ucoii). Il concetto è ripreso più volte, a sottolinearne l'importanza, in VII,
157; IX,71.112; XXII,41; XXXI,17, etc.
ma che dire anche del troppo misconosciuto islam dell'Africa subsahariana? e delle repubbliche
islamiche dell'Asia centrale? e del sub-continente indiano? e, infine, del nascente islam dell'Europa
e delle Americhe? In fondo oggi gli arabi, all'interno dell'ecumene islamico, non sono che una
minoranza statistica, per quanto cospicua, valutabile in poco più del venti per cento, anche se
linguisticamente, culturalmente ed economicamente assai più influente. 4
Infine la pluralità è visibile nell'islam mistico e in quello delle confraternite , nelle molte
declinazioni dell'islam politico, e ancora di più in quello 'sociologico', per come effettivamente si
manifesta nel vissuto dei popoli e degli uomini che vi si richiamano (un'ortoprassi, troppo trascurata
anche dagli studi, che spesso va oltre e talvolta contro l'ortodossia riconosciuta); nonché nelle
differenze tra le grandi scuole giuridiche, per non parlare dei contrasti, anche dottrinali e spesso
sanguinosi, tra nazioni che pure si definiscono tutte islamiche - ultimi esempi, le due guerre del
Golfo, ma anche, per taluni aspetti, il conflitto intrapalestinese e i suoi immediati dintorni.
Anche storicamente il termine islam, come qualificante una unità politica, culturale, religiosa ed
economica, non vale che per un assai breve lasso di tempo (che inizia solo dopo i califfi cosiddetti
rashidun, ben guidati, e finisce forse già nell'850): "All'apogeo della sua coesione come Impero
politico - sotto gli Omayyadi -, l'islam non era che la religione degli arabi conquistatori: la maggior
parte della società non era né convertita né penetrata dei principi o della cultura islamica.
All'apogeo della sua coesione
come cultura, fede, comunità - dal X° al XII° secolo -, l'islam si
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sbriciolava politicamente" .
Diventa dunque problematica anche la definizione che spesso si dà dell'islam, e che l'islam vuole
dare di se stesso, come di qualcosa che è allo stesso tempo din e dunya, cioè rispettivamente, e un
po' grossolanamente, religione e vita (lett. il basso, l'esistenza temporale, la vita terrena) - così come
Muhammad non era solo profeta e capo religioso, ma anche capo politico e militare, giudice,
legislatore, e infine exemplum nella condotta quotidiana; e la moschea di Medina, ai tempi del
Profeta, era luogo di culto, ma anche di predicazione, non di rado a carattere sociale e politico, e di
somministrazione della giustizia. E a maggior ragione non è privo di incrinature quel monstrum
teocratico totalitario e totalizzante che è l'islam che abita gli incubi di un certo occidente (che sono
poi i sogni dell'islamismo radicale), per il quale l'islam è inevitabilmente e irrimediabilmente, e non
può non essere, din wadunya wadawla, cioè religione, vita quotidiana e governo, stato: politica.
Spesso avanzata come spiegazione della peculiarità dell'islam (a fronte di un occidente nel quale il
processo di secolarizzazione e di laicizzazione avrebbe invece del tutto separato la sfera religiosa da
quella sociale e politica), questa visione andrebbe probabilmente declinata diacronicamente e
sincronicamente, ovvero storicamente e geopoliticamente: l'islam non è rimasto immutato nel corso
dei secoli, e non è 'applicato' né vissuto allo stesso modo dappertutto. E in fondo, a una visione un
po' più distaccata e capace di storicizzare, nemmeno in occidente le cose appaiono poi così del tutto
chiare, e meno ancora definitive e irrevocabili, e in ogni caso il processo di separazione delle sfere
appare troppo recente per assurgere a criterio storico dirimente. Certo, l'islam è din wadunya (wadawla) almeno in linea di principio. Ma considerare questo il suo
solo criterio identificante, e non coniugarlo con la realtà concreta oltre che con la immagine,
potremmo dire mitologica, della società islamica ideale, potrebbe essere fuorviante: si rischia quella
ipostatizzazione delle identità che, pur necessaria come metodo conoscitivo (almeno nel senso
weberiano della costruzione di idealtipi), portata all'estremo rischia di diventare una caricatura; e in
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Termini che, contrariamente all'uso comune, non coincidono e non sono sovrapponibili: il sufismo
va oltre le confraternite, né tanto meno quelle che chiamiamo tali hanno tutte dei richiami sufi
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H. Djait, op.cit., 1978, p. 7 (la traduzione, qui come altrove nelle citazioni da libri stranieri, è mia)
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questa forma già tanti danni ha provocato sia nell'orientalismo sia, in generale, negli studi
etnologici e antropologici, in quelli di fenomenologia
delle religioni. E, anche, in quel poco di
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sociologia dell'islam che è stata finora tentato .
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La difficoltà di definizione è aggravata da un interessante problema terminologico : il fatto che noi
usiamo una sola parola - islam, appunto - per intendere tanto la religione quanto la realtà storicosociale. Realtà che, trasportate in campo occidentale, potrebbero corrispondere, rispettivamente, a
cristianesimo e a cristianità. In arabo, forse, la religione in senso stretto la si chiamerebbe islam, la
realtà geopolitica corrispondente sarebbe piuttosto dar al-islam (la casa dell'islam), e la comunità
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Su cui si è soffermato in particolare, con un accanimento polemico che rasenta la monomania,
E.Said nel suo Orientalismo, Bollati Boringhieri, Torino, 1991. Il libro, che ha suscitato interesse al
di là dei circoli specialistici, tanto da essere letto, apprezzato e citato anche e forse soprattutto da chi
non ha mai preso in mano un volume di orientalismo, è documentato e interessante. Proponiamo
comunque di leggerlo in parallelo con la critica, di metodo e di merito, che ne ha fatto B.Lewis in
un pungente e dotto articolo per la "New York Review of Books" (in B.Lewis, La rinascita
islamica, Il Mulino, Bologna, 1991, pp.137-162). Si veda anche, per un caso particolare ma
importante, G.Scarcia, Massignon secondo Said, in C.Baffioni (a cura di), Atti del Convegno sul
centenario della nascita di Louis Massignon, Istituto Universitario Orientale, Napoli, 1985.
Tra l'altro, ci domandiamo cosa risulterebbe da un'analoga indagine fatta sull'immagine
dell'occidente (e del cristianesimo) nel mondo islamico: quanto vi troveremmo di caricatura, quanto
di mala fede, quanto di strumentalizzazione, e quanto invece di onesto tentativo di comprensione dopo tutto, l'altro è speculare a noi in molte più cose di quelle che vorremmo ammettere quando
dell'altro crediamo di aver assunto il punto di vista. Vero è, comunque, che l''occidentalismo' non si
pretende disciplina scientifica, ma è semplicemente l'insieme delle immagini (fatte di realtà come di
mitologia, di cose come di percezioni, di giudizi come di pre-giudizi, di buone intenzioni come di
fraintendimenti e di malintesi, ecc.) che circolano: la rumeur direbbero i francesi, le voci che
corrono, le dicerie.
Un curioso ritorno della polemica antiorientalistica lo ritroviamo in una recentissima edizione del
Corano curata dalla principale organizzazione islamica in Italia, che inserisce codesti studiosi,
alquanto forzosamente anche rispetto al contesto nel quale è posto questo commento, nella
categoria dei mustakbirun, degli oppressori: "Quest'ultimo termine comprende gli orientalisti, le
autorità di religioni altre che l'Islàm, i giornalisti e tutti coloro che contribuiscono alla campagna di
disinformazione a proposito dell'Islàm e dei musulmani. Costoro riceveranno un cocente
castigo..." (Ucoii, Saggio di traduzione interpretativa del Santo Corano inimitabile, Al Hikma,
Imperia, 1994, p.82, nota 420). Critiche più profonde e radicali, ma nello stesso tempo più sagge e
costruttive, vengono rivolte all'orientalismo da A.Laroui, nel denso saggio che conclude il suo Islam
e modernità, Marietti, 1992
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Sui problemi di comprensione dell'islam dovuti a questi approcci, e sui rischi opposti e speculari
di riduzionismo e di essenzialismo, si veda qualche considerazione introduttiva nei miei Seconda
religione, l'islam, "Il Mulino", n.5, 1994, pp.927-937, e, più diffusamente, in Quando l'altro è
l'islam. Esercizi di comprensione del ruolo delle comunità musulmane in Europa (Atti del convegno
L'Altro: immagine e realtà. Incontro con la sociologia dei paesi arabi, Università degli Studi di
Milano, in corso di pubblicazione)
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Così lo definisce, enunciandolo, T.Hentsch, L'orient imaginaire. La vision politique occidentale de
l'Est méditerranéen, Editions de Minuit, Paris, 1988, p. 52
dei credenti la umma. Non a torto quindi c'è chi ha cercato di introdurre nel vocabolario degli studi
un neologismo
preso a prestito dal cristianesimo ma di utilità esplicativa anche per l'islam: quello di
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muslimité , di musulmanità, parallelo al concetto di cristianità. E forse potremmo legittimamente
parlare di 'islam reale', nello stesso modo in cui si parlava in passato di 'socialismo reale', proprio
per distinguerlo da un'immagine ideologizzata e mitizzata che, con la realtà politico-sociale e con il
vissuto personale delle popolazioni dei paesi implicati, aveva veramente assai poco a che fare.
L'islam, insomma, ci appare uno solo finché non lo conosciamo (come si potrebbe dire del
cristianesimo, del resto). E, per scorno dei sapienti, mai questa pluralità è così visibile come nella
differenza tra l'islam 'di carta' e l'islam 'di carne', tra l'islam per come viene descritto nei libri (e non
solo degli orientalisti: quelli scritti dai musulmani non sono da meno) e per come viene vissuto e
praticato dai musulmani delle più varie latitudini. Indispensabili entrambi, certamente, dal punto di
vista conoscitivo: la definizione di un mondo culturale e di una geografia mentale è di utilità
indiscutibile per entrarci, in questo mondo; a patto che poi lo si verifichi nella realtà - nella carne,
appunto. O, come si dice con altra significativa espressione, nel vivo. Cosa che invece troppo
spesso si trascura: si preferisce, perché è più facile, inserire a viva forza i musulmani in un concetto
di islam definito a priori, a tavolino - operazione forse gratificante per chi la fa, illudendosi magari
di avere spiegato la realtà (più propriamente, di averla imbrigliata in un concetto), ma disonesta e
non di rado pericolosa, poiché le semplificazioni inducono più equivoci di quanti non ne risolvano.
Sarebbe evidentemente un non senso dire che categorie come 'islam' e 'musulmani' sono differenti:
è un'ovvietà e nello stesso tempo un errore, metodologico e di contenuto. E' sufficiente ricordarsi
che sono sovrapponibili e vanno sovrapposte, e che c'è tra loro un rapporto di circolarità continuo:
ma non si identificano e l'una non può sostituire l'altra - può, al massimo, essere un criterio per
verificarla.
Neanche questa, del resto, è una peculiarità del solo islam.
Occidente. Sarà forse perché quando viviamo in mezzo alle cose esse ci appaiono sempre più
complicate e ricche di sfumature di quando le osserviamo un po' più da lontano, ma le cose non
sono certo più facili (anzi!) quando si passa a cercare di definire l'altro partner di questo rapporto.
Che cos'è, chi è l'occidente? e quanti occidenti ci sono?
Nell'epoca dell'occidentalizzazione del mondo, è particolarmente difficile rispondere. In un certo
senso, anche per la percezione soggettiva che noi occidentali ne abbiamo, è un po' come la nondefinizione del tempo che dà sant'Agostino:
"se nessuno me lo domanda lo so; ma se a chi me lo
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domanda io volessi spiegarlo, io non lo so" . Occidentali siamo così abituati a esserlo che ci riesce
particolarmente difficile spiegarlo: come l'aria, ci si accorge che esiste solo quando comincia a
mancare. Eppure, mette in guardia giustamente Cardini, "poche nozioni sono (...) più infide e
scivolose di quella
di 'Occidente', tanto più nella misura in cui essa tende ad assolutizzarsi e a
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metastoricizzarsi" .
Apparentemente è un innocuo concetto geografico, senza neppure pretese di centralità (e, come gli
storici ricordano, istituzionalmente figlio della pars Occidentis dell'impero romano, voluta nel
quarto secolo da Teodosio per il figlio Onorio): si è a occidente di qualcosa, e tipicamente di un
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F.Dassetto, Socio-anthropologie de l'islam, in corso di pubblicazione; nonché, più succintamente,
in L'islam in Europa, Edizioni della Fondazione Agnelli, Torino, 1994
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Sant'Agostino, Le confessioni, Rizzoli, Milano, 1958, p.320
F.Cardini, Noi e l'Islam. Un incontro possibile?, Laterza, Roma-Bari, 1994, p.13
centro, che dunque dovrebbe stare altrove. Ma ha finito per avere soprattutto un valore storicoculturale: l'occidente in sostanza è l'area a oriente della quale non ci sono stati né Umanesimo né
Rinascimento, né Riforma né Rivoluzione industriale. Questo almeno fino a quando si limitava
all'Europa; oggi che si tende a inglobare in esso, a torto o a ragione, gli Stati Uniti e il Giappone,
l'Australia e la Russia e tra poco, forse, i paesi di nuova industralizzazione del sud-est asiatico, le
'tigri' dell'Asia, il problema definitorio
si fa anche più complicato. Se è vero, come ricordava Junger,
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che "è lo spirito a tracciare i confini" , bisognerebbe almeno sapere di quale spirito si tratta.
Forse sarebbe più facile attribuire all'occidente, più che uno spazio, un tempo: il tempo della
modernità, che lo identificherebbe con un presente senza radici, secondo una tradizione di pensiero
che identifica la modernità con i concetti di sradicamento, di abbandono della propria tradizione,
del proprio passato, dei propri confini, di deterritorializzazione dunque, in senso letterale e traslato,
financo spirituale. Del resto, occidente non deriva da occidere, tramontare: un momento, dunque, e
non un luogo? Solo che il tramonto dell'occidente, vaticinato
da molti, non comincia e non finisce
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mai - è sempre in atto, per così dire: un eterno presente . E' solo un'ipotesi, un mito, un'ombra
incombente, una condizione ontologica forse (viviamo, per così dire, sul filo del tramonto), magari
un destino, e per alcuni una consolazione e una speranza: una parte di vero, insomma, ma non la
verità14delle cose. Infine, se davvero è tempo più che spazio, si rivela illusorio sperare di uscirne
'fuori' . Si potrà solo, al massimo, coltivare la speranza apocalittica (quasi sempre, vagamente
estetizzante) che finisca - ma che finisca tutto.
Ma torniamo ad orizzonti più terreni. Toynbee, nel suo Il mondo
e l'Occidente, che pure di
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quest'ultimo parla, si guarda bene dal darne una definizione . Sarebbe certamente più facile
definire l'Europa, e confrontare essa con l'islam (e più propriamente ancora con il mondo arabo): ce
ne sarebbero gli elementi, storici e geografici - tanto che si potrebbe parlare, con Braudel, del
Mediterraneo come di una economia-mondo, o di un 'continente liquido', in qualche modo a sé
stante. Ma l'occidente ha a che fare con l'Europa, nasce in Europa, ed è però oggi qualche cosa di
molto più ampio e complesso; il suo centro non è forse più in Europa, o meglio l'Europa è solo uno
dei centri dell'occidente - ed è questa imprendibile entità che si confronta, si incontra e anche si
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E.Junger, Il nodo di Gordio, in E.Junger, C.Schmitt, Il nodo di Gordio. Dialogo su Oriente e
Occidente nella storia del mondo, Il Mulino, Bologna, 1987, p.42
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Spengler dunque è in errore fin dal titolo della sua opera: Il tramonto dell'occidente, cioè,
etimologicamente, il tramonto del tramonto (occasus), si rivela un nonsense concettuale, o meglio
un malinteso, che confonde tramonto e decadenza. Mentre si potrebbe dire piuttosto, nel solco di
una tradizione che ha nobili ascendenze filosofiche, che "l'Europa non decade tramontando, ma
decade perché rifiuta il tramonto, perché vi resiste invece di insistervi"; M.Cacciari, Geo-filosofia
dell'Europa, Adelphi, Milano, 1994, p.168
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A.Asor Rosa, Fuori dall'occidente, Einaudi, Torino, 1992
Mentre non si esime dal definire gli altri: l'islam per esempio, sulla scorta di una lunga tradizione
(su cui si veda per esempio N.Daniel, Islam and the West. The making of an image, ediz. riveduta in
Oneworld Publications, Oxford, 1993, e, in italiano, A.Malvezzi, L'islamismo e la cultura europea,
Sansoni, Firenze, 1956, e G.Rizzardi, La sfida dell'Islam, CdG, Pavia, 1992) diventa, in maniera
decisamente troppo riduttiva (e certamente inaccettabile per un musulmano, oltre che discutibile
storicamente), una semplice "eresia cristiana": un "programma di riforme mirante a eliminare gli
abusi insorti nella prassi del cristianesimo di allora"; A.Toynbee, Il mondo e l'Occidente, Sellerio,
Palermo, 1992, pp. 26-27
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scontra , globalmente, con l'islam: che anch'esso non si identifica più con il solo mondo arabo in
seno al quale è nato e con il quale si è (o è stato) soprattutto identificato, anche nell'immaginario
occidentale.
La complessità è la norma - e, ormai, anche una legge di sviluppo e un destino. L'islam appare
monoliticamente fondato su di un libro (anche se poi, come si è visto, nell'analisi ravvicinata le cose
si fanno più complesse): l'occidente su che cosa? Le sue fondamenta appaiono molteplici. C'è anche un libro: anzi, dei libri, quelli della tradizione
giudeo-cristiana che compongono la Bibbia. Diversi, scritti nell'arco di circa 1500 17anni,
tramandatici in diverse forme e in diverse lingue, plurali nei loro destinatari e nei loro obiettivi . Se
poi ci limitiamo ai testimoni del fatto fondatore di quell'occidente che si considera volentieri, a torto
o a ragione, solo cristiano, i vangeli, sono comunque quattro e non uno, come non si stancano di
rimproverare, apologeticamente, i musulmani (e questo se ci limitiamo, come giusto, a quelli
canonici; ma non va dimenticato che il Corano stesso è pieno di riferimenti a quelli apocrifi). E in
ogni caso sono solo testimonianze, per quanto autorevoli, e non sono né si pretendono, in senso
stretto, letterale, Parola di Dio; anche se la prassi ecclesiale quotidiana tende volentieri a
'dimenticare', o quanto meno a non sottolineare, questa verità. Il libro, nonostante tutto, non è
primario, se non per il suo significato testimoniale: il Dio dei cristiani si è fatto carne, non carta,
non libro (in questo senso è concettualmente fuorviante definire, come spesso accade, i tre
monoteismi del ceppo abramitico come religioni del libro: solo l'islam, a rigore, lo è davvero e fino
in fondo - letteralmente). E' Parola, ma parola incarnata ("il Verbo si fece carne" - Gv 1,14): più
difficile da decifrare, impossibile da sistematizzare una volta per tutte. 16
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"Scontro di civiltà" (The Clash of Civilization) è il titolo di un discusso articolo di un noto
politologo di Harvard, S.P. Huntington, pubblicato su "Foreign Affairs" (n.3, 1993): solo il più
autorevole di una lunga serie - uno dei tanti proiettili scagliati in quella che si annuncia come una
strana guerra, combattuta a colpi di editoriali e di propaganda spesso rozza, che in maniera un po'
nevrotica, a metà tra la malattia mentale e il virus ideologico, sta infettando in maniera sottile (ma
neanche poi molto) tanto l'occidente quanto il suo (immaginario?) contendente islamico
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E questo sembrerebbe (ma è davvero?) gia di per sé un segno significativo, una diversità quasi
provocatoria, che potrebbe implicare attitudini mentali differenti rispetto all'islam. Non più o non
solo quella che una parola araba riassume concisamente: maktub, è scritto - per cui non c'è niente da
aggiungere e nulla da discutere, ma solo da leggere e applicare (anche se poi, nel concreto, anche
nell'islam si aggiunge, si toglie, si discute, si interpreta assai più di quanto non credano
comunemente anche gli studiosi e gli specialisti). Ma appunto il bisogno di esame critico, di
esegesi: che però, occorre ammetterlo di fronte ai troppi che, da ovest, impartiscono lezioni, nella
sua forma se vogliamo più scientifica e in un certo senso destabilizzante delle certezze tradizionali,
è acquisizione recente. E, incidentalmente, è nata spesso fuori dalle istituzioni ecclesiali e contro di
esse, o per lo meno deve molto a una forte spinta culturale esterna, a un certo 'condizionamento
ambientale': le gerarchie ecclesiastiche hanno, in questo, giocato più il ruolo del freno che quello
dell'acceleratore. Questo a dispetto del fatto che, con il Nuovo Testamento, con Gesù di Nazareth, il
cambiamento, la rottura epistemologica con la tradizione precedente, fosse anche più radicale: egli
non ha mai scritto nulla, e l'unica volta che l'ha fatto, sulla sabbia, davanti all'adultera, ha cancellato
quello che ha scritto - non basta dunque leggere e applicare, o derivare conseguenze giuridiche:
occorre anche incessantemente esaminare, discutere, approfondire, confrontare, storicizzare, e
rimane uno spazio enorme per la libertà dell'uomo (anche se pure questa è acquisizione
relativamente recente, e mai definitiva, all'interno stesso del campo cristiano)
Ma oltre a quella religiosa, le fondamenta dell'occidente sono anche altre. Se dai libri citati (ma non
solo da essi) deriva la civilizzazione cristiana, quella che chiamiamo cristianità, dalla Grecia deriva
una intera concezione dell'uomo, il concetto di bellezza, l'impianto di relazioni su cui si fonda la
polis (da cui la grande razionalizzazione, insieme sogno di un paradiso in terra e tentazione
mefistofelica, che è la politica); da Roma vengono le grandi istituzioni, prima fra tutte quell'edificio
universalista che è il diritto; dal capitalismo infine, che nasce ben prima della rivoluzione
industriale, una grande 18forza economica, e per farla breve un grande potere, ivi compreso il buon
vecchio potere militare , che si esercita tuttora in ampie parti del globo se non in tutte (attraverso
gli "agenti di dominazione" dell'occidente, gli ambasciatori19dell'ideologia del progresso: "la scienza,
la tecnica, l'economia e l'immaginario sul quale si basano" - e, con un ruolo peculiare e cruciale, i
mass media, insieme mezzo e messaggio come insegnava McLuhan), ma soprattutto, cosa ancora
più importante, una gerarchia di valori e un abito mentale. Gerarchia di valori e abito mentale che hanno assunto un ruolo determinante, come aveva già
sottolineato Max Weber. "Per quale concatenamento di circostanze è avvenuto che proprio sul suolo
occidentale, e qui soltanto, la civiltà si è espressa con manifestazioni, le quali - almeno secondo
quanto noi amiamo immaginarci - si sono inserite in uno svolgimento, che ha valore e significato
universale?", si chiede nella importante 'osservazione
preliminare' alla sua opera più parafrasata e
20
citata, L'etica protestante e lo spirito del capitalismo . E si risponde parlando di scienze, di diritto,
di arte, di stampa, di sistema scolastico, di parlamenti,
di stato, ma soprattutto "della più grande
21
forza della nostra vita moderna: del capitalismo" ; e di una forma di capitalismo
che "altrove non si
22
è mai sviluppato: l'organizzazione razionale del lavoro formalmente libero" . E' questa la forza che
ha reso l'occidente vincente anche al di là dello scacchiere economico. E va da sé che, dal punto di
18
!
Guerra del Golfo docet, naturalmente, come esempio più eclatante di questa 'modalità' di
intervento; una guerra, tra l'altro, che l'occidente ha già, e con una rapidità sorprendente,
dimenticato - ma che il mondo arabo, coinvolto o meno direttamente che fosse, ricorda ancora
perfettamente. Ma possiamo inserire in questa categoria anche altri esempi di ingerenze variamente
definite: anche 'umanitarie', come si è detto di quella somala. Che contrastano singolarmente con i
loro risultati: con l'impotenza misurata altrove (in Bosnia, ad esempio), e con lo stesso fallimento
della missione somala. Casi, entrambi, che riguardavano popolazioni musulmane
19
!
20
!
21
!
!
22
S.Latouche, L'occidentalizzazione del mondo, Bollati Boringhieri, Torino, 1992
M. Weber, L'etica protestante e lo spirito del capitalismo, Sansoni, Firenze, 1977, p. 63
ibid., p. 67
ibid., p. 71
vista spirituale o comunque di altre gerarchie valoriali, dentro e fuori
l'occidente, il suo valore
23
intrinseco è o può sembrare apparentemente modesto se non inesistente . Ma è davvero così?
Una definizione sintetica dell'occidente dunque non esiste, anche se qualcuno ha creduto di trovarla:
chi nella peculiare coscienza di sé (e dell'altro) che l'homo occidentalis avrebbe elaborato,
chi
24
nell''invenzione' dei diritti dell'uomo in parallelo all'accettazione del pluralismo religioso , chi
nell'ideologia della libertà, chi nel privilegiamento dell'individuo sulla collettività, chi infine nel
25
sistema economico capitalistico. Il più 'sintetico' tentativo di sintesi ce lo offre comunque Dussel ,
un intellettuale argentino che, con lo sguardo di chi appartiene a quella che viene considerata una
delle periferie del mondo, cerca di capire come si definisce e si autodefinisce chi se ne ritiene il
centro. Dussel delinea una successione di definizioni non omogenee: in origine l'Europa si definiva
versus la Grecia (o meglio, l'ellenismo versus la barbarie europea), e occidentale versus orientale (i
due imperi romani); poi, dal VII° secolo, sarà Costantinopoli a definirsi versus il mondo arabomusulmano, e quindi l'Europa latina versus il mondo arabo; nel Rinascimento si fondono occidente
latino e oriente greco e nasce "l'equazione: occidentale = ellenico + romano + cristiano"; dal XVIII°
secolo si comincerà a parlare di Europa occidentale, e successivamente di cultura occidentale, ormai
non più solo europea, e talvolta con l'aggiunta di cristiana (anche se, a rigore, il cristianesimo, come
l'ebraismo e l'islam, nasce in quello che consideriamo oriente, nel mondo semita); poi, dal momento
in cui si comincerà a parlare di modernità e si svilupperà il capitalismo, nascerà "una nuova
equazione: modernità = europeo + occidentale + capitalista". Anche storicamente, quindi,
l'occidente si declina in modi diversi, secondo la situazione ma anche le ideologie dominanti nelle
rispettive epoche: non c'è, per così dire, un occidente ontologico. Di conseguenza, una sola cosa è certa: non c'è un punto fermo, non è definibile un solo fondamento.
Per usare una volta tanto la percezione dell'altro, e di un altro originario delle terre dell'islam,
23
!
Diciamo apparentemente perché "per la prima volta nella storia del genere umano (almeno, in
quella conosciuta) una sua parte consistente - l'Occidente - è riuscita a emergere in massa dalla zona
depressa della penuria endemica e del rischio ricorrente, e ad attestarsi sul livello di sufficienza con
margini sempre più sicuri di benessere. Misconoscere questo fatto è bestemmiare contro coloro che
si dibattono nella miseria e guardano alle nostre condizioni di vita come a una lontana terra
promessa; attribuire il fatto esclusivamente o soprattutto alle rapine perpetrate dall'Occidente nel
Terzo Mondo è preferire l'autoconsolazione alla spassionata e costruttiva ricerca di mezzi efficaci di
cambiamento. Nessuna critica (peraltro più che giustificata) al consumismo in cui naviga il Primo
Mondo e nessuna denuncia dei torti (peraltro realissimi) perpetrati contro il Terzo Mondo possono
onestamente cancellare la vittoria che la millenaria lotta per la vita ha potuto finalmente ottenere,
per quanto ancora parzialmente, attraverso il sapere e il potere tecnologici" (A. Rizzi, L'Europa e
l'altro, Edizioni Paoline, Cinisello Balsamo, 1991, p.253) - che sono frutto dell'organizzazione
razionale del lavoro formalmente libero, direbbe Weber. Ci limitiamo ad osservare che riesce
oggettivamente difficile, a chi gode i benefici di questa situazione ma sa anche riflettervi sopra,
pensare che tutto ciò possa essere ricco di utilità ma del tutto privo di significato (chissà, forse
persino spirituale), e non solo per l'occidente
24
!
Mentre, secondo l'opinione di Weber, a differenza di quanto ripete il senso comune, "la tolleranza
religiosa non è niente di specificamente moderno o di occidentale", al contrario; cfr. l'importante
nota aggiunta da Weber al suo testo, op. cit., p. 222
!
25
E.Dussel, L'occultamento dell'"altro". All'origine del mito della modernità, La Piccola, Celleno,
1993, pp.209-212
l'occidente privilegia
"il divenire sull'essere, il movimento sulla stabilità, le sue creazioni sulla sua
26
personalità" . E anche questo è indubbiamente, più che un fondamento, uno dei metodi con cui
l'occidente
si costruisce e costruisce la sua immagine: affascinante per alcuni, inaccettabile per
27
altri .
Lo specchio deformante: tempi, modi, immagini
Attraverso il Mediterraneo nei primi secoli del loro rapporto, attraverso i molteplici rapporti
innescatisi a livello globale oggi, islam e occidente si confrontano da sempre, si osservano, si
controllano, si rispecchiano. Ma l'immagine che riflettono l'uno dell'altro sembra corrispondere
poco alla realtà, e in ogni caso quasi mai l'altro vi si riconosce: oggi non meno di ieri, nonostante i
progressi delle scienze e delle conoscenze, e il moltiplicarsi di viaggi e contatti commerciali e non.
Se lo specchio è deformante, l'immagine non può che essere deformata. E lo specchio è deformante
perché è il risultato di un lungo processo di distorsioni in entrambi i campi, cominciato fin
dall'inizio del loro rapporto, con la nascita stessa dell'islam, nel secolo VII° dell'era cristiana. Nel
rapporto che allora si instaura tra questi due soggetti non coincidono né tempi, né modi, né
immagini.
I tempi. L'islam, come l'occidente, si è costruito la propria cronologia, ha 'inventato' un suo tempo,
un suo calendario: un atto d'orgoglio imperdonabile agli occhi dell'Europa cristiana. Si pone
dunque, esplicitamente, come concorrente (e questo anche se, all'atto pratico, nella gestione
concreta delle cose, dall'economia ai viaggi aerei, si è imposta la razionalità occidentale: dal
computo dei mesi ai fusi orari). 26
!
H.Djait, op. cit., p. 157, che si riferisce qui alla sola Europa, che costituisce dopo tutto l'oggetto
della sua analisi; il concetto sembra comunque estensibile all'occidente intero, di cui del resto
l'Europa è la culla, o una di esse. Con parole analoghe si esprime Cacciari, op.cit., p.142:
"l'Occidente ha sempre 'giustificato' assai più la propria fondamentale concezione del fare, che la
bontà e la purezza dei suoi dèi"
!
27
"...il disprezzo e la repulsione che gli altri popoli - gli Orientali soprattutto - provano nei confronti
degli Occidentali, provengono in gran parte dal fatto che questi ultimi gli appaiono in genere
uomini senza tradizione, senza religione, ciò che ai loro occhi è una vera e propria mostruosità"; R.
Guénon, Simboli della Scienza sacra, Adelphi, Milano, pp. 15-16. Si potrebbe forse sottolineare il
verbo scelto: "appaiono". Così indubbiamente l'occidente appare, così "si vende" sui mezzi di
comunicazione di massa, così forse è diventato agli occhi degli osservatori esterni. Di alcuni,
almeno, perché per molti altri la reazione indotta non è quella della repulsione, ma piuttosto quella
del fascino: la fascinazione dell'occidente, per parafrasare M.Rodinson e la sua "fascinazione
dell'islam". Un fascino indotto certo dalla ricchezza e dai modelli di consumo, ma anche dalla
sofisticazione della scienza e della tecnica, e non poco anche dalle istituzioni democratiche e dalla
libertà (di pensiero, di ricerca, di elaborazione, di manifestazione del pensiero, dei sentimenti, ecc.)
che potranno anche essere, e spesso sono, vuote di contenuto, e basate su un dominio economicopolitico della maggioranza (posta fuori dall'occidente) che sa essere brutale, ma nondimeno sono
reali e accessibili, e indubbiamente attrattive per coloro che non ne godono. Ricordiamo per inciso
che quella di Guénon è la percezione di un occidentale, studioso di tradizioni spirituali, che, anche
sulla base di queste premesse, ha finito per convertirsi all'islam
L'Egira (dall'arabo hijra, migrazione), il viaggio del profeta Muhammad da Mecca a Yathrib, che
diventerà Medina (la città per definizione: questo infatti significa madina), svoltosi nell'anno 622
dell'era cristiana, inaugura il computo delle ere secondo il calendario islamico: che, oltre tutto, non
combacia con quello occidentale per il suo essere calendario lunare, in continuo sfasamento rispetto
a quello che gli occidentali ritengono (e, ingenuamente, percepiscono) come universale. Ma questo
viaggio significa anche qualcosa di più: a partire da Medina inizia il processo
di sedentarizzazione,
28
per così dire, dell'islam. Il nomade darà origine al nomos, alla legge : l'islam si urbanizza. E
soprattutto, da minoranza diventa maggioranza - e governa; assumendo lo statuto che lo
caratterizzerà in tutta la sua formidabile espansione successiva, e che lo segna teologicamente e
giuridicamente. Ma più ancora del fatto di avere calendari differenti, islam e occidente conoscono cicli di sviluppo
radicalmente diversi. L'Europa, al tempo della nascita dell'islam, si trova nel suo primo Medio Evo;
poi sarà il tempo del Rinascimento, e quindi del suo sviluppo successivo e della sua espansione
mondiale, attraverso le prime 'scoperte' geografiche, poi con l'età dell'imperialismo, con il
colonialismo e il neo-colonialismo: uno sviluppo e un'espansione tali da far credere, anche in buona
fede, alla missione civilizzatrice dell'uomo bianco, al suo 'fardello', al dovere di portare la luce agli
altri popoli. Per l'islam è esattamente l'opposto. Fin dall'inizio, e già con Muhammad, l'islam conoscerà una
formidabile espansione territoriale: prima nelle zone circonvicine, poi attraverso l'Africa fino in
Spagna (e poi in Sicilia), e naturalmente verso oriente. Un'espansione tale, e in un così breve
volgere di tempo, da far veramente credere ai suoi protagonisti di essere assistiti dalla vera fede e
dal vero Dio. Del resto nella mitologia islamica resterà sempre, dal punto di vista storico come da
quello religioso, il richiamo all'inizio della sua storia come a una mitica età dell'oro: un richiamo
che mantiene anche oggi il suo peso nel senso comune di ogni musulmano e, più accentuatamente
ancora, nelle ideologie radicali di ritorno all'islam.
Il suo massimo splendore l'islam lo vive quando l'Europa è ancora in pieno Medio Evo. Tra l'VIII° e
l'XI° secolo "i centri motori della vita economica e culturale si trovano appunto nell'oriente
musulmano; dall'occidente, ridotto a una estensione di spazi vuoti e recettivi, l'attività commerciale
e intellettuale si è ritirata fin dai tempi della decadenza di Roma e delle invasioni
barbariche". E' il
29
"momento islamico della storia del mondo" come lo definisce M. Lombard .
28
!
Il processo fondamentale attraverso il quale il nomadismo origina la legge che sancisce la
stanzialità è stato messo in evidenza da Carl Schmitt. Nomos, da cui nomade ma anche legge, deriva
da nemein, parola che in origine significava dividere ma anche pascolare. E' quella che Kant
definiva "la legge che ripartisce il mio e il tuo sul territorio". Per dirla con Schmitt, "il nomos è
pertanto la forma immediata nella quale si rende spazialmente visibile l'ordinamento politico e
sociale di un popolo, la prima misurazione e divisione del pascolo, vale a dire l'occupazione di terra
e l'ordinamento concreto che in essa è contenuto e da essa deriva" (C. Schmitt, Il nomos della terra,
Adelphi, Milano, 1991, p.59). E Cacciari, 'in dialogo' con Schmitt, chiosa: "Nomas era il pastore
che veramente abitava il nomos, il pascolo. Abitare la legge - questo proteggerebbe da ogni rischio
di hybris, questa sarebbe pace divina" (M.Cacciari, Geo-filosofia dell'Europa, Adelphi, Milano,
1994, p.113). Lasciamo qui, accontentandoci di un accenno fuggevole, queste considerazioni,
suscettibili di ben altri e radicali approfondimenti. Ci limitiamo a suggerire che l'islam sembra
essere un esempio e una illustrazione particolarmente felice di applicazione della tesi schmittiana
!
29
Il cui libro è consacrato appunto allo Splendore e apogeo dell'Islam, Rizzoli, 1991, pp.9 e 273.
Anche se il titolo del volume non fu scelto da lui, morto nel frattempo, ma dai suoi curatori
Quando l'Europa è ancora avvolta in quelli che una storiografia forse superata ma perdurante
nell'inconscio collettivo chiama i secoli bui, in cui l'uomo è più che mai in balìa delle forze della
natura e degli altri uomini, la civiltà islamica racchiude in sé fiorenti città, ricchi commerci, un
grande potenziale militare, ospedali pubblici (più di cinquanta nella sola Bagdad, e a Cordova erano
ancora di più), scuole coraniche e di grammatica, biblioteche (nell'891 a Bagdad ce n'erano più di
cento, e nel X° secolo una cittadina come Nayaf, in Irak, poteva inorgoglirsi dei suoi 40.000
volumi, e un califfo del Cairo vantare una biblioteca di un milione e seicentoventimila volumi,
quando alla stessa epoca i monasteri d'occidente non ne possedevano che qualche dozzina, come
nota con qualche
ironia un osservatore documentato anche se sovraccarico di tendenze
30
apologetiche ).
Ancora nel 1600, dopo un secolo di Rinascimento, una buona parte dell'umanità conosciuta poteva
dirsi inglobata nell'ecumene islamico. Poi però sarà il declino, lento ma inesorabile: forse perché è
il momento31in cui "la società araba cessa d'essere pluralista, mentre la società europea, bene o male,
lo diventa" . Gli stessi europei ci metteranno un po' a rendersi conto che la formidabile potenza
ottomana, che ancora nel 1683 assediava Vienna per la seconda volta minacciando il cuore
dell'Europa, era in realtà un gigante dai piedi d'argilla, pronto a crollare sotto il peso delle sue stesse
contraddizioni prima ancora che sotto la minaccia esterna. Ci metteranno, per la precisione, ancora
un secolo: fino al 1° luglio 1798, con lo sbarco di Napoleone ad
Alessandria, data con cui
32
convenzionalmente si fa iniziare il periodo del dominio dell'occidente e della grande crisi (o per lo
meno della sua presa d'atto: ché la crisi inizia molto prima) della civiltà islamica, a fronte di un
invasore non solo più forte militarmente, ma soprattutto dotato di un grande apparato scientifico e
culturale; che costituisce la sua vera forza, e che non mancherà di gravare un interrogativo radicale
per una comunità islamica che si credeva la migliore delle comunità, e che viene invece surclassata,
sul piano materiale e su quello ancora più cruciale del sapere, in moltissimi campi. Tendenza che
proseguirà con il pesante interventismo occidentale nelle ex-potenze e nei nuovi stati nazionali
musulmani, con gli imperi che si giocano a tavolino il destino dei governanti e lo spostarsi dei
confini, fino all'impresa neo-coloniale recente, e non ancora sufficientemente
meditata nelle sue
33
conseguenze sui rapporti tra islam e occidente, che è stata la guerra del Golfo .
30
!
S.Hunke, Allahs sonne uber dem Abendland, trad. fr. Le soleil d'Allah brille sur l'Occident. Notre
heritage arabe, Albin Michel, Paris, 1963, pp.235-236
31
!
M. Talbi, O. Clément, Rispetto nel dialogo, San Paolo, Cinisello Balsamo, 1994, p. 265
32
!
Con qualche ragione, perché il seguito di savants che Napoleone porta con sé in una spedizione
comunque militare non ha precedenti e probabilmente non avrà seguito. E tuttavia nella
mitizzazione dell'impresa ha probabilmente un certo peso anche la tradizione orientalistica francese,
che in essa si è lasciata coinvolgere e ha profuso le proprie competenze, e per essa non ha mai
nascosto il proprio orgoglio e financo il proprio entusiasmo
!
33
Su cui rinvio ai miei Le due guerre del Golfo e Mass media, immigrazione araba e guerra del
Golfo. Il caso italiano, entrambi in "Dimensioni dello sviluppo", Avsi, Cesena, n. 1, 1992. Il testo
originale della ricerca da cui il secondo è tratto si trova in S.Allievi, A.Bastenier, A.Battegay,
A.Boubeker, Médias et minorités ethniques. Le cas de la guerre du Golfe, Academia-Sybidi,
Louvain-la-Neuve, 1992
Apparentemente, dunque,
soprattutto nella percezione occidentale, una linea di sviluppo in ascesa,
34
quella dell'occidente , e una in discesa, quella dell'islam o meglio della civiltà islamica, che solo di
recente ha cominciato a risollevarsi, in coincidenza con il nuovo potere fornito dai petrodollari e
con un nuovo ruolo geopolitico per le potenze regionali che il crollo del bipolarismo ha reso
evidente, anche se non indotto. Ma anche, non va sottaciuto, con il nuovo protagonismo e la
crescente influenza che l'islam declinato politicamente sta assumendo un po' in tutto il mondo
islamico, dal maghrib, l'occidente arabo, all'estremo oriente: passando anche per l'Europa.
I modi. Neanche i modi di rapportarsi all'altro coincidono. Dal momento del suo decollo, l'occidente
si slancia letteralmente sul resto del mondo, per dominarlo
ma anche per conoscerlo: è un'esigenza
35
della sua economia non meno che del suo stesso spirito - nel bene, come amano sottolineare gli
apologeti, e nel male, come invece hanno scoperto e pagato sulla propria pelle (e non dimenticato,
come invece è accaduto all'occidente) molti popoli che alla sfera occidentale sono appartenuti solo
come subalterni.
L'islam al contrario, fin dall'inizio si reputa sostanzialmente autosufficiente: ha senso della
conquista, come tutti i poteri forti, ma il meglio lo trae dal suo interno - dal mondo esterno dunque
non può ricavare nulla: può ignorarlo, o muovergli guerra (anche se, per la verità, questa diffusa
interpretazione andrebbe sfumata dal riconoscimento delle capacità sincretistiche, di comprensione
e di assorbimento, che questo stesso islam dimostrerà nei confronti delle culture e dei popoli con cui
verrà a contatto non appena messo piede fuori dalla penisola araba). La dottrina delle rivelazioni
successive costituisce la legittimazione ideologica di questo processo: se l'islam possiede in forma
perfetta ciò che il cristianesimo (e l'ebraismo, che però all'epoca non costituisce né un potere né un
pericolo) possiede solo in forma imperfetta, se il Corano è il vero e l'unico libro sacro, se sul piano
materiale la sua vita è di gran lunga più ricca di quella dell'occidente cristiano, se in più è in fase di
espansione e di conquista militare, che bisogno ha di aprirsi all'esterno? Allahu akbar, Dio è grande
- ed è con noi, sembra il logico corollario. In questa dialettica c'è spazio solo per due soggetti: la
casa dell'islam, dar al-islam, e la casa della guerra, dar al-harb. L'idea di perfezione, come aveva
intuito Lévi-Strauss, blocca ogni idea di perfezionamento.
La lingua araba giocherà in questo senso un ruolo tanto unificante quanto separante. All'interno sarà
un potentissimo fattore di unificazione (l'arabizzazione andrà quasi sempre di pari passo con
l'islamizzazione, almeno nelle intenzioni) e di riconoscimento, lingua franca della cultura (anche i
grandi filosofi 36
e poeti persiani, per esempio, scriveranno in arabo), nello stesso tempo lingua sacra e
lingua profana . Nei rapporti con l'esterno sarà invece elemento di separazione. E non tanto per la
34
!
Almeno secondo il metro con cui l'occidente è abituato a misurare, che non è evidentemente il
solo, anche se è dominante, né tanto meno può pretendersi oggettivo
35
!
Sia detto senza nessuna accentuazione hegeliana. Diciamo meglio, allora: delle sue ideologie e
delle sue tendenze profonde, dei moti che animano il suo ...movimento; e che albergano certo gli
animal spirits che guidano il mercato, ma non sono riducibili ad essi
!
36
Ma solo per i dotti. L'arabo classico, l'arabo del Corano, è vero, può essere compreso da molti
arabofoni che non lo parlano, che parlano un dialetto (usiamo questa terminologia per comodità,
consci che spesso, come noto, un dialetto non è che una lingua che ha perso sul piano storico). Ma
per costoro bisognerebbe parlare più propriamente di diglossia. E non sono stati ancora valutati
sufficientemente i legami tra la rigidità linguistica imposta dall'impossibilità di evoluzione di una
lingua sacra e dunque intoccabile, e un certo immobilismo concettuale di questa sfera culturale
difficoltà di impararlo da parte dei non arabi e non musulmani, che comunque vi si ingegneranno (il
primo glossario latino-arabo risale al XII° secolo, a testimonianza almeno di uno sforzo
conoscitivo); quanto per un elemento per così dire ideologico: se l'arabo è lingua sacra e divina,
studiare un altro alfabeto e un'altra lingua diventa elemento di empietà e di impurità. Non a caso per
lunghi secoli le traduzioni dalle lingue
vive dell'Europa saranno per lo più opera di traduttori
37
cristiani ed ebrei, o di neo-convertiti . Più radicalmente ancora Lewis afferma: "Non vi è il benché
minimo segno di un interesse culturale per le lingue occidentali e per le letterature di cui sono
depositarie e non abbiamo notizia di un solo studioso o uomo di lettere musulmano che si sia
dedicato, prima del XVIII° secolo, all'apprendimento di una lingua occidentale né, tanto meno, alla
redazione di grammatiche, dizionari o altri strumenti didattici relativi al sapere linguistico. Le
traduzioni sono scarsissime, puntualmente
dettate da esigenze pratiche e compiute per opera di
38
convertiti o di non musulmani" .
Le cose hanno comincato a cambiare, ancora una volta, dopo la data simbolo della spedizione di
Napoleone. Non va dimenticato che pochi anni prima, nel 1789, la Rivoluzione francese (almeno
secondo una storiografia 'ufficiale' e molto viziata ideologicamente, che andrebbe essa stessa
rivista) aveva introdotto nuovi valori che, bene o male applicati che fossero, avranno un effetto
dirompente anche sul mondo islamico, e risulteranno assai più pericolosi del cristianesimo (Crociate
comprese) e più efficaci nel destrutturare poteri e mentalità, ivi compresi quelli religiosi - anche se
nemmeno questo apporto va sopravvalutato. La rivoluzione e la campagna napoleonica del resto
non sono importanti in se stesse, ma perché hanno dietro di sé tecnologie, armi, stampa, sviluppo
economico, sistemi istituzionali e giuridici, che saranno i migliori alleati del nascente imperialismo.
Scienza e tecnologia soprattutto ("vele e cannoni", dirà Cipolla), che già da lungo tempo, quanto a
potenziale, stavano divaricandosi; anche se appare un po' forzata, seppure non priva di intuizione, la
spiegazione che ne dava Hegel: e cioè che l'islam si è orientato verso il trascendente come oggetto
privilegiato del sapere anziché verso il mondo storico e quello naturale, fissando come onore della
scienza il riferirsi al sacro (del resto, anche oggi, quanta enfasi a proposito delle commissioni
internazionali sul 'miracolo scientifico del Corano', e quanti libri sull'argomento
nel mondo
39
islamico!) mentre in Europa tutta l'energia era indirizzata alla conoscenza del mondo . Oggi la situazione si è probabilmente rovesciata, e più per la forza dei processi della civiltà
materiale che per una deliberata politica o per un cambiamento di atteggiamento. Attraverso la
37
!
B.Lewis, I musulmani alla scoperta dell'Europa, Laterza, Bari, 1991, p.66, riporta da una fonte
araba il destino di una missiva portata a Bagdad nel 906 da un ambasciatore toscano: "La lettera era
stata redatta su seta bianca, in una scrittura simile a quella greca ma più lineare (...) Le autorità
diedero ordine di cercare qualcuno che fosse in grado di tradurre la lettera, e fu trovato nella bottega
d'abbigliamento, insieme con Bishr l'eunuco, un franco capace di leggere la scrittura di quel popolo.
L'eunuco lo condusse dal califfo, e l'uomo lesse la lettera e la trascrisse in greco. Indi, fu convocato
Ishaq ibn Hunàyn [uno dei più illustri traduttori scientifici] che la tradusse dal greco in arabo"
Anche se forse il passo potrebbe indicare un disinteresse nei confronti delle lingue europee
(l'Europa, all'epoca, non era per così dire il centro del mondo, come si è visto), più che un
disinteresse nei confronti delle lingue tout court
38
!
ibid., p.72. Ma A.Malvezzi ricorda che nel XII° secolo nemmeno la Curia romana disponeva di
persone capaci di tradurre atti in lingue orientali; e che alcuni vescovi di paesi arabi, ignari della
lingua locale, erano costretti perfino a confessare a mezzo di interprete!
!
39
G.W.F.Hegel, Lezioni sulla filosofia della storia, cit. in Djait, op. cit., p.88-89
televisione innanzitutto, le foreste di antenne 'paradiaboliche', come le chiama chi nel mondo
islamico ne paventa il potenziale corruttore, i programmi occidentali vengono ricevuti di più e
meglio di quelli autoctoni, e risultano
più attrattivi. In tutto il Maghreb l'Italia è ormai identificata
40
come "le pays de la Rai Uno" e domina insieme a France 2, mentre altrove è Superchannel o la
Cnn; in ogni caso si tratta di Tv in lingue straniere, che vengono per questo tramite apprese anche a
livello popolare. Alla Tv bisogna aggiungere le migrazioni, spesso non definitive, che consentono di
riportare in patria delle competenze linguistiche che torneranno utili. Il lavoro nel settore del
turismo, assai consistente in molti paesi islamici non solo arabi, e il commercio sono impossibili
senza la conoscenza delle lingue straniere. Molti paesi dispongono anche di giornali in inglese o in
altra lingua europea. E spesso le scuole più prestigiose sono quelle europeee o americane, lasciate
dai colonizzatori che ne hanno impostato la struttura o frutto di nuovi apporti. Per non parlare delle
élites, mandate a studiare e a fare esperienza lavorativa e di vita nei paesi occidentali. Insomma, la
conoscenza dell'occidente e delle sue lingue si diffonde. Lo stesso non si può dire dell'arabo e di altre lingue orientali in occidente. Nonostante una poderosa
tradizione orientalistica, e apparati di conoscenza, di studio, di traduzione assai perfezionati,
dipartimenti universitari e istituti di ricerca efficienti e dotati di mezzi, mediamente la conoscenza
del mondo islamico è assai poco diffusa: anche da parte di chi frequenta questi stessi paesi per
motivi di lavoro o come turista (categoria dello spirito quanto mai superficiale e poco interessata
all'approfondimento, del resto). E la cosa riguarda anche chi avrebbe come mestiere quello di
informare, che presuppone il conoscere: valga per tutti come esempio quello della guerra del Golfo,
coperta, è proprio il caso di dire (una vera e propria 'tempesta nel deserto' di parole, che anziché
chiarire ha impedito di vedere), da giornalisti in larghissima parte del tutto ignari delle lingue
parlate nei paesi dai quali 'informavano' - pur trattandosi di giornali e di Tv che certamente si
vergognerebbero di avere, poniamo, un corrispondente da Parigi che non sa il francese.
In sintesi, l'occidente sembra molto meglio dotato di conoscenze sull'altro a livello di circoli
specialistici e di studiosi (che sovente si vantano, talvolta con qualche ragione, di saperne più dei
musulmani stessi sulla loro storia, le loro lingue, e persino, con spocchia evidentemente
inaccettabile - soprattutto se proveniente, come spesso accade, da studiosi personalmente non
credenti -, sulla loro religione), e molto meno a livello per così dire popolare. Nelle terre dell'islam
sembra accadere quasi il contrario: la conoscenza popolare dell'occidente (o almeno dell'immagine
che l'occidente si dà, o che viene percepita) è assai diffusa, e per quelli che in occidente
emigreranno si traduce in quella che il gergo sociologico chiama socializzazione anticipatoria - una
immagine già più o meno coerente, anche se per molti versi distorta e illusoria, di ciò che
l'occidente è o dice di essere, e che spinge appunto all'emigrazione; mentre non tanto gli studiosi e
l'accademia, che non mancano, quanto l'assai più vasto e capillare ceto intellettuale intermedio
(insegnanti, ecc.), ivi compresa l'influente e pervasivamente diffusa categoria degli 'educatori' e
responsabili religiosi, dagli ulema in giù (come accade del resto specularmente, anche se forse in
minor misura, in occidente), sembra accontentarsi di un'immagine fortemente stereotipata e
irrealistica, quando non surreale, tanto dell'occidente quanto del cristianesimo. Ancora una volta,
modi di conoscenza che non coincidono.
Le immagini. Le immagini per i fenomeni collettivi sono altrettanto importanti che le cose per la
vita materiale. La mitologia sociale ha una rilevanza fondamentale per comprendere i sistemi
culturali e la loro autocomprensione, nonché la loro comprensione dell'altro. Non a caso il
significato più antico della parola mythos è quello di parola, sentenza, e talvolta indica addirittura la
!
40
L'espressione è di uno studioso tunisino, K.Taamallah
cosa stessa, la realtà, mentre solo più tardi nella41lingua greca assumerà il significato di mito inteso
come leggenda, favola, addirittura invenzione . E più recentemente il 'teorema sociologico' di
Thomas ci insegna che nei fenomeni sociali non è necessario che una cosa sia vera: è sufficiente che
sia creduta vera perché produca effetti reali. Del resto, su questo si basa in buona parte il potere
odierno dei mass media, della pubblicità, ecc.
Tornando al nostro tema è chiarissimo, quasi solare, che le immagini rispettive che hanno l'uno
dell'altro islam e occidente, e che passano al loro interno, corrispondono poco o nulla
all'autopercezione che essi hanno di sé, e ancora meno, probabilmente, all'immagine che di sé
intendono dare. Per dirla in parole semplici, l'altro mi vede non come io mi vedo, e nemmeno come
mi faccio vedere, ma come vuole vedermi, o a essere benevoli come riesce a capirmi: e io in questa
immagine non mi riconosco.
Il discorso vale naturalmente per ogni tipo di relazione, a cominciare da quelle personali che
ciascuno può sperimentare su di sé. Ma in alcuni casi risulta più vero che in altri: ci sembra che
quello del rapporto tra islam e occidente sia tra questi. E' sufficiente trarre da quattordici secoli di
confronto un piccolo florilegio di esempi per dimostrarlo.
La battaglia di Poitiers (732 o 733 d.C.: gli storici sono discordi) e il nome di Carlo Martello come
suo eroe sono conosciuti da qualsiasi occidentale che abbia frequentato le scuole elementari. Grazie
ad essa, come ognun sa, l'Europa fu salvata da una poderosa ondata islamica che minacciava di
sommergerla, e che Gibbon descrive con queste roboanti parole: "Una vittoriosa marcia di oltre
mille miglia aveva portato i saraceni dalla rocca di Gibilterra fino alle rive della Loira; qualora
fossero riusciti a ripetere l'impresa, coprendo una distanza pari a quella già percorsa, avrebbero
raggiunto i confini della Polonia e gli altipiani scozzesi; il Reno non è più difficile da varcare di
quanto lo siano il Nilo o l'Eufrate e la flotta araba avrebbe potuto imboccare la foce del Tamigi
senza neppure impegnarsi in una battaglia navale. Forse oggi nelle facoltà di Oxford s'insegnerebbe
l'interpretazione del Corano e i suoi predicatori illustrerebbero a un popolo di circoncisi la santità e
la verità della Rivelazione di Maometto". Da questo fosco destino42"fu salvata la cristianità grazie
all'ingegno e alla fortuna di un sol uomo" - Carlo Martello, appunto .
A questo esercizio di simulazione dell'illustre storico (qui peraltro còlto in flagrante peccato di
fiction, e della più immaginifica), cosa corrisponde sull'altra sponda, a proposito del personaggio
citato? La risposta è: nulla, assolutamente nulla. In tutta la storiografia araba non esiste alcuna
menzione né di Poitiers né di Tours né tanto meno di Carlo Martello, che risultano agli arabi dei
perfetti sconosciuti. Per loro non si era trattato che di uno scontro del tutto secondario43di una banda
di razziatori ai margini delle terre da loro conquistate, e ai margini della storia stessa . Eppure per
l'occidente europeo questa battaglia segna forse l'inizio della percezione di un qualcosa chiamato
Europa meritevole di essere salvato da un pericolo esterno. Un'identità che si forma dunque, come
spesso accade, in funzione di un nemico e, in un certo senso, a causa di esso. Ma un nemico, per
molti versi, immaginario, per lo meno nelle intenzioni che gli vengono attribuite. Un altro illustre esempio può essere quello della crociata e dei crociati. Anche questi nomi nella
storiografia araba sono praticamente assenti: i combattenti cristiani sono in genere chiamati
41
!
E.Severino, La filosofia antica, Rizzoli, Milano, 1984, p.17
42
!
E. Gibbon, Il declino e la caduta dell'Impero Romano, cit. in B.Lewis, I musulmani alla scoperta
dell'Europa, cit., p.4
!
43
Si veda l'analisi delle fonti in ibid., pp.4-6
44
franchi o semplicemente infedeli, e venivano considerati uno dei tanti gruppi di miscredenti e di
barbari, e nemmeno il più insidioso, che attaccavano l'islam. Da esse non scaturirà nemmeno, da
parte islamica, un minimo di interesse per la conoscenza del mondo dei cristiani e della loro
religione; cosa che del resto è vera anche per l'occidente: "L'Europa cattolica dell'epoca contrasta
nettamente con gli altri regni cristiani [il riferimento è in particolare a Bisanzio,
ndr] per la totale
45
mancanza di interesse intellettuale nei confronti dell'Islam come religione" . E pensare
che forse si
46
trattava, come nota Gabrieli, di "due civiltà non radicalmente diverse in quel tempo" ; non diverse
forse intrinsecamente o, per dirla con categorie più recenti, strutturalmente - ma profondamente
diverse nell'immagine che avevano una dell'altra.
Si potrebbe anche prendere qua e là qualche esempio minore di questa storia, come quello
dell'incontro tra S.Francesco e il sultano a Damietta: per i cristiani di oggi è diventato un simbolo e
un riferimento quasi obbligato nel dialogo islamo-cristiano; per i musulmani resta un fatto
sconosciuto, come lo è la presenza stessa del santo in terra d'islam - a lui si accenna solo,
vagamente (e l'attribuzione non è nemmeno certa), in una cronaca, a proposito di una questione che
ha coinvolto "un monaco". Vero è che per i cristiani l'episodio ha valore metastorico e simbolico,
non per le sue effettive implicazioni storiche, del resto modeste.
D'altra parte gli arabi chiameranno quasi sempre i cristiani d'occidente con il nome di Frang, e
quelli d'oriente con quello di Rum, creando anche qualche equivoco quando, in epoca più tarda,
Rum non designerà più Bisanzio e l'impero romano d'oriente (molto più importante agli occhi degli
arabi, e vicino decisamente
più ingombrante), ma Roma, e rumi non saranno più i bizantini ma gli
47
abitanti dello stivale . E ancora oggi, con sommo disappunto degli alfieri della laicità, identificano
quasi sempre in blocco, almeno implicitamente, gli europei come cristiani, sovrapponendo
identificazione religiosa e realtà politica (ma, del resto, noi non facciamo lo stesso quando
identifichiamo d'ufficio i cittadini dei paesi islamici come musulmani?).
Ancora su questa falsariga, la questione dei predoni musulmani che tanto incisivamente sono stati
presenti nella storia e nell'inconscio collettivo delle regioni costiere d'Europa (e non solo): noti
come saraceni e più tardi anche turchi, anche quando turchi non erano affatto (da cui le miriadi di
"torri saracene" lungo le coste e il proverbiale "mamma li turchi!"), e qualificati semplicemente
come pirati, si autoattribuivano invece spesso il ruolo di soldati e combattenti del gihad contro i
nemici della vera fede. E si potrebbe continuare a lungo.
Più importante ancora, per le sue conseguenze tuttora visibili e operanti, risulta però la reciproca
percezione 'politica', per così dire. Se l'occidente distingueva innanzitutto tra cristianità e mondo
44
!
Cogliendo in questo una parziale verità, e cioè l'essere state le crociate, nonostante la sede papale
a Roma e gli importanti interessi di alcune città italiane, in primo luogo Venezia, un preminente
affaire francese
45
!
B.Z.Kedar, Crociata e missione. L'Europa incontro a l'Islam, Jouvence, Roma, 1991, p.33. E per
moltissimi esempi in tal senso si vedano i testi raccolti nel libro ingiustamente dimenticato di A.
Malvezzi, L'islamismo e la cultura europea, op. cit.
46
!
F.Gabrieli, Introduzione a Storici arabi delle Crociate, Einaudi, Torino, 1987, p.V; libro che una
volta tanto ci mette di fronte alla storia vissuta dall'altro, e del quale, se un appunto si può fare, alla
luce di quanto detto, solo il titolo risulta essere, dopo tutto, fuorviante: si tratta infatti di storici di
qualcosa che, loro, non chiamavano Crociate
!
47
Si veda a questo proposito, anche per i suoi risvolti di attualità, quanto già segnalato in S.Allievi,
F.Dassetto, Il ritorno dell'islam. I musulmani in Italia, Edizioni Lavoro, Roma, p.289 e nota 3 p.291
pagano, per poi riconoscere all'interno di essi monarchie e quindi nazioni, l'islam distingue sì tra
dar al-islam e dar al-harb, ma poi al suo interno le divisioni sono in termini tribali e di clan, oppure
dinastiche e regionali. Il concetto di nazione è stato imposto dall'occidente all'islam come del resto a
tutto il mondo, fino ad arrivare a creazioni a vocazione almeno formalmente universalistica (anche
se dominate di fatto dall'occidente) come la Società delle nazioni poi diventata Organizzazione delle
nazioni unite, ma non significa ovunque la stessa cosa. A prescindere dal fatto che gli stessi nomi
moderni di stati come l'Arabia e la Turchia sono stati introdotti dall'occidente (in arabo non vi è un
nome 48
che designi l'Arabia, e il termine Turchia è stato adottato nella lingua turca solo nel XX°
secolo - arabi e turchi erano, prima, solo nomi di popoli), le designazioni sono imprecise rispetto
ai canoni occidentali: Misr in arabo significa tanto Il Cairo quanto l'Egitto, e Tunis indica sia la
capitale che lo stato, tanto per fare degli esempi. Sarà un caso che identificazioni rispetto a un capo
e a una discendenza dinastica di prestigio e legata a richiami religiosi (è il caso di Hassan del
Marocco o di re Hussein di Giordania) appaiano tutto sommato più solide delle legittimazioni su
base elettorale più o meno democratica, importate dall'occidente, di altri leaders del mondo arabo?
Il riferimento religioso resta importante, almeno di facciata, anche per regimi e governanti tutt'altro
che a prova di specchiata fede. Non a caso i paesi con una popolazione maggioritariamente
musulmana si riconoscono49in una specie di Onu religiosa che va sotto il nome di Organizzazione
della conferenza islamica , che riunisce i capi di stato dei paesi che vi aderiscono, e l'altro
riferimento interstatuale è semmai la Lega del mondo islamico, il cui carattere religioso è ancora
più accentuato.
Oggi le designazioni in termini religiosi, in coincidenza con il cosiddetto 'risveglio' islamico,
ritornano ad avere primaria importanza anche per cause che fino a pochi anni fa (e in occidente
tuttora) erano considerate nazionali quasi per definizione, come quella palestinese, e
l'argomentazione religiosa viene richiamata anche da leaders considerati 'laici', come si è visto
limpidamente durante la guerra del Golfo. E dopo tutto a livello popolare non valeva soprattutto il
richiamo religioso alla unità della umma anche in operazioni squisitamente politiche e nazionali,
come le ripetute e sempre fallite ma sempre periodicamente rilanciate unificazioni tra stati che,
pure, ufficialmente le ascrivevano alla causa del panarabismo? L'islam sembra dunque sminuire il concetto di nazione in favore di un ritorno alle definizioni sue
proprie di appartenenza, e sopra a tutte quella primaria tra dar al-harb e dar al-islam. Questo
almeno in apparenza. Perché poi, tra l'una e l'altra, si inserisce la terra della conciliazione, della
tregua, dar al-suhl, dove il commercio (in ogni senso) con l'infedele diventa possibile. E anche
questa definizione non basta più, laddove questa terra di emigrazione, dar al-hijra, oggi è diventata
48
!
B.Lewis, I musulmani alla scoperta dell'Europa, cit., p.49. Per la verità già Ibn Battutah parlava
di al-Turkiye riferendosi all'Anatolia, qualificandolo però come "paese dei Rumi", cioè dei romani e
dei loro eredi greci, seppure sotto la protezione dei turkmeni musulmani. E il nome ritornerà qua e
là tra storici e geografi arabi anche a proposito di terre (peraltro arabe, come l'Egitto e la Siria)
governate dai Mamelucchi, fino intorno al 1500; cfr. J.-P. Roux, Storia dei turchi, Garzanti, 1988, p.
19
!
49
Creando talvolta qualche problema non secondario alle minoranze non musulmane che in questi
paesi risiedono
50
non solo terra di insediamento definitivo, ma assume anche significazioni positive : di riscatto da
un destino peggiore che, probabilmente, si sarebbe vissuto in dar al-islam. E anche questo è un
paradosso non da poco, simile a quello che avevano già vissuto i pensatori 'modernisti' arabi, ma
oggi sperimentato nella carne su scala assai maggiore dalla gente comune costretta ad emigrare:
quello per cui la religione migliore non ha dato luogo ai poteri migliori e ai luoghi migliori dove
vivere. Un paradosso che l'islam, ivi compreso quello in emigrazione, non ha ancora elaborato in
maniera sufficientemente esplicita e consapevole; ma che, nel concreto, nel vissuto di migliaia di
musulmani, produce già i suoi effetti. Non sarà male comunque ricordare, a questo proposito, che il concetto di nazione è un concetto
storico, dunque transeunte: e infatti stiamo assistendo alla sua ridefinizione non sempre pacifica, se
non al suo superamento o addirittura al suo affossamento, in varie parti anche del mondo
occidentale - anche se per lo più si fa finta di non vedere. I processi reali, economici e tecnologici
prima ancora che politici, vanno decisamente in direzione transnazionale.
Nonostante tutte le differenze, sulla scorta della storiografia più consapevole potremmo forse dire
che la distanza e l'alterità assoluta tra islam ed occidente sono vere solo nella autopercezione,
viziata ideologicamente, di questi due mondi culturali. Nella realtà forse si è trattato, in molte
epoche storiche e almeno in un punto preciso del globo terrestre (ma assai ampio, e particolarmente
generoso di apporti culturali e di civilizzazioni),
di una sola ed unica economia-mondo, che
51
comprendeva tutto il bacino del Mediterraneo , 'continente liquido': assai più permeabile agli
scambi tra le sue rive di quanto ai poteri contrapposti piacesse pensare, e di quanto forse si
rendessero conto i nostri avi di entrambe le sponde (nonché, oggi, i nostri contemporanei); e questo
appare evidente tanto nelle vicende degli uomini (mercanti, corsari, perseguitati, schiavi, rinnegati
di ambo le parti e, oggi, migranti e, per altri versi, operatori economici e turisti) quanto, ciò che è
forse più importante, nella storia delle idee. Ma tutto ciò, dal punto di vista culturale, della
formazione e della percezione della identità propria e altrui, può anche continuare a significare poco
se non vogliamo accorgercene. Nella lettura sociologica il già citato 'teorema' di Thomas, in qualche
modo, ce lo spiega (nelle parole dell'autore: "se gli uomini definiscono come reale una situazione
essa sarà reale nelle sue conseguenze"). Se crediamo davvero, se vogliamo credere di essere diversi,
separati, irriducibili gli uni agli altri, allora è probabile che lo saremo effettivamente. Anche a
dispetto della realtà.
L'islam in occidente
50
!
F.Dassetto, op.cit., pp.45-46. E, come è stato notato, la dar al-hijra diventa anche dar al-da'wa,
terra di missione, assumendo dunque un significato positivo anche in chiave islamica, spirituale,
non solo di miglioramento della propria situazione materiale; cfr. W.A.Shadid e P.S. van
Koningsveld (a cura di), Islam in Dutch society: current developments and future prospects,
Kampen, Kok-Pharos, 1992
!
51
Sui legami storici tra le rive del Mediterraneo, F.Braudel (a cura di), Il Mediterraneo, Bompiani,
Milano, 1987, e in particolare il cap. Il mare, pp.31-53. Si veda anche M.Aymard, Migrazioni, in
id., pp.219-241, sintetico schizzo di quattromila anni di movimenti migratori; e, con tutt'altro taglio,
l'appassionata testimonianza di P.Matvejevic, Mediterraneo. Un nuovo breviario, Garzanti, Milano,
1991
Oggi non si può più parlare solo di rapporti tra islam e occidente. E' accaduto qualcosa che rende il
rapporto qualitativamente diverso: oggi l'islam è in occidente.
Il processo inverso era in corso da tempo. L'occidente ha invaso progressivamente il territorio
dell'islam, nel bene e nel male: prima nell'età dell'imperialismo e delle colonizzazioni, e oggi
soprattutto attraverso l'economia, la tecnologia e i media, nonché, citiamo alla rinfusa, i sistemi
istituzionali (dal sistema scolastico a quello statuale) esportati quasi ovunque, il turismo di massa, il
linguaggio scientifico, l'ideologia dei diritti dell'uomo, e magari anche forme filantropiche ma
spesso subalterne ad esigenze politiche o economiche come la cooperazione allo sviluppo e, più
recentemente, la cosiddetta ingerenza umanitaria - e occasionalmente, anche di recente, attraverso
l'occupazione militare, il vecchio tradizionale linguaggio della guerra. L'arrivo dell'islam in occidente, e il suo insediamento ormai definitivo e irreversibile, sono invece
assai più recenti. E' storia di oggi. Un processo che per un sottile paradosso della storia, al tempo stesso ironia e nemesi, è stato
innescato dall'arrivo in occidente (e non solo in Europa: anche nelle americhe e altrove) di gruppi
via via più cospicui di immigrati: poveri, deboli, spesso analfabeti, quasi sempre del tutto
impreparati all'impatto con società in pieno dinamismo e strutturalmente forti o almeno percepite
come tali, economicamente e culturalmente - del resto chi è costretto ad emigrare è il più debole per
definizione.
Laddove non erano riusciti il feroce Saladino e la Sublime Porta, il turco e il saraceno, laddove gli
eserciti non avevano potuto prevalere, sui Pirenei o a Vienna, ecco che riescono, senza averlo
voluto, le armate Brancaleone dei nuovi immigrati. L'islam, che non era riuscito a conquistare
l'Europa manu militari, comincia adesso ad abitarla pacificamente: e per le conseguenze impreviste
(anche se tutto fuorché imprevedibili) di fenomeni sociali più o meno sotterranei anziché per effetto
di un deliberato disegno.
L'islam nasce migrante. E non solo perché religione di un popolo di nomadi, impostasi in un
contesto di tribù beduine in continuo movimento. Non solo perché il suo fondatore era egli stesso
carovaniere e poi mercante prima di diventare profeta. Non solo perché, come altre, religione a
vocazione universalistica e dunque missionaria. L'islam letteralmente nasce con una migrazione:
non per caso il calendario islamico, come abbiamo visto, non inizia con la nascita di Muhammad o
con la sua morte, ma con la sua hijra, la sua migrazione da Mecca a Medina, con la quale si attuerà
il disegno di costituire una vera e propria società islamica.
Ma la sua espansione, facile e quasi travolgente a est come a ovest, avrà molte più difficoltà a
dirigersi verso il nord. In Europa, con la notevole eccezione della Spagna e in minore misura della
Sicilia, non riuscirà a stabilirsi durevolmente; e anche da qui i dominatori musulmani saranno
comunque cacciati. Solo più tardi, in alcune zone dell'Europa orientale e dei Balcani, la loro
presenza diventerà stabile, integrata persino nelle imperial-regie strutture istituzionali del mondo
asburgico (e solo oggi viene semmai messa in questione, come è drammaticamente sotto gli occhi
di un mondo colpevolmente distratto nella odierna Bosnia): sarà questo uno dei non molti casi in
cui l'islam si integrerà senza problemi, anche istituzionalmente, come consapevole minoranza in
una società non musulmana.
L'islam, abbiamo detto, nasce migrante; ma la migrazione non è un fine in sé: come il suo prototipo,
la hijra, è il mezzo attraverso il quale costruire una società islamica. In una parola, l'islam
apparentemente non sopporta di rimanere in situazione di minoranza. Un musulmano dovrebbe
vivere in una società informata islamicamente, islamizzata nella sua struttura e nelle sue istituzioni,
anche se può consentire la presenza di minoranze non musulmane. Come il profeta stesso, che non
52
accettato a Mecca se ne va con i suoi a Medina, un buon musulmano non può vivere in una società
non musulmana, anche se questa lo accetta (ma non accetta di islamizzarsi essa stessa) - chi non è
come me, è contro di me o, almeno,
è altro-da-me, ed è meglio che l'uno o l'altro stia altrove.
53
Questo almeno vuole la dottrina : la realtà si incarica more solito di complicare le cose, di renderle
meno univoche, più sfumate; anche perché di fatto oggi forse un terzo dei musulmani del mondo
vive in situazione di minoranza, e non si tratta di un dato trascurabile anche se viene volentieri
trascurato da un'ortodossia che non sa come gestirlo e da una teologia che non è in grado di
interpretarlo - vale anche in questo caso, come sempre, la distinzione tra islam di carta e islam di
carne. Ma è tanto sentito questo aspetto, anche tradizionalmente, che un musulmano che viveva in
un paese successivamente conquistato dai cristiani, e persino un 'infedele' che si convertiva
all'islam, avrebbero dovuto, secondo l'opinione della maggior parte dei giuristi musulmani, sulla
base del resto del testo coranico, lasciare il loro paese, ormai diventato dar al-harb, per cercare
rifugio e una vita consona altrove, in dar al-islam: il che non significa, naturalmente, che tutti
ottemperassero a questa disposizione. Il tema assume rilevanza peculiare oggi, che milioni di immigrati vivono in realtà non islamiche e,
tutto fa prevedere anche se la volontà di Dio è certo imperscrutabile, non islamizzabili; al punto che
è diventato oggetto di riflessione, di discussione e di pareri giuridici tanto nella54pamphlettistica che
circola nelle comunità immigrate quanto tra esponenti dell'ortodossia islamica . Ma prima ancora
delle riflessioni innescate da questa nuova realtà, è il nudo fatto che va adeguatamente messo in
luce.
L'islam è ormai diventato la seconda religione in quasi tutti i paesi dell'Europa, sia cattolica che
protestante (e laddove è la terza, lo è solo considerando separatamente i due apporti cristiani).
Anche se non ce ne siamo ancora veramente accorti, si tratta di un cambiamento storico, epocale.
Avvenuto, ed è questo uno dei dati sorprendenti, nel silenzio e nella sostanziale inconsapevolezza
dei suoi stessi attori, come anche nella
distrazione e nella quasi totale incomprensione degli
55
osservatori (o presunti, sé-dicenti tali) .
Il silenzio degli attori rispondeva a una condizione effettivamente inconsapevole. Gli immigrati
sono venuti appunto come tali, cioè in primo luogo come persone in cerca di un lavoro, per giunta
temporaneo; solo in una seconda fase hanno sentito il bisogno di esprimere la propria identità
islamica, e di cominciare a trasmetterla alla seconda generazione che nel frattempo si manifestava e, anche, di esprimerla pubblicamente, di renderla visibile nello spazio pubblico. L'islam, arrivato in
Europa chiuso nelle valigie degli immigrati, nient'altro che un elemento, per quanto importante, di
un'identità culturale e religiosa che chi partiva si portava con sé in terra di emigrazione, è stato
progressivamente, in coincidenza con una stabilizzazione che si faceva ormai definitiva, tolto da
quelle stesse valigie, e per così dire socializzato, vissuto collettivamente, in qualche modo messo in
52
!
Anche se non gli era impedito di essere ciò che era dal punto di vista religioso, ma solo ciò che
voleva essere dal punto di vista sociale, legislativo, se si vuole 'politico'
53
!
v. per esempio Corano IV,97
54
!
Se ne veda un esempio in una fatwa sull'emigrazione e i problemi delle minoranze musulmane in
paesi non islamici riportata in F.Castro, L'islam e il diritto. Tra legge dello stato e legge di Dio, in
"Orientamenti", Centro Sociale Ambrosiano, Milano, n.4-5, 1993, pp.71-74
!
55
Per qualche riflessione sui perché di questo silenzio e di questa distrazione cfr. il mio Seconda
religione, l'islam cit.
mostra, reso pubblico attraverso la costruzione di una rete di moschee che copre ormai
abbastanza
56
omogeneamente tutta l'Europa e gli altri paesi in cui ha cominciato ad essere presente .
La distrazione degli osservatori in un certo senso sorprende meno. Come potevano accorgersi di una
specificità islamica dell'immigrazione paesi che, in parte almeno, non accettavano di riconoscere
l'esistenza stessa di un fenomeno migratorio come realtà stabile e irreversibile e, per altro, innescata
dall'Europa stessa,
in una fase di ciclo economico in cui la manodopera immigrata era giudicata
57
indispensabile ? come si potevano accettarne tutte le conseguenze se per lungo tempo
l'atteggiamento generale è stato quello di genuino stupore così ben descritto dallo scrittore svizzero
Max Frisch: aspettavamo braccia, sono venuti uomini? E la cosa non riguarda solo l'ipocrisia
terminologica che chiama gastarbeiter, lavoratori ospiti, persone che ormai sono presenti in
Germania da due se non addirittura da tre generazioni, per le quali non ha più senso nemmeno, a
rigore, la qualifica di immigrato, visto che non si sono mai mosse. In questo caso è solo più esplicita
la terminologia. Di fronte all'islam nessun paese si è accorto della sua esistenza e del suo
dinamismo (come si è già detto, tutto fuorché imprevedibile), fino a che non ci è per così dire
inciampato sopra, e in qualche caso malamente. Anche se poi qualcuno ha saputo gestire la
situazione con intelligenza e fair play, altri decisamente meno.
Oggi ci sono nell'Europa comunitaria, secondo le varie fonti, sette-otto milioni di musulmani, forse
anche dieci, e qualcuno azzarda anche cifre significativamente superiori. Il problema è naturalmente
di definizione su chi è musulmano e perché:58a seconda del criterio scelto si potrebbe anche scoprire
che i musulmani sono in realtà molti meno . Per dirla con un noto hadit: "Solo Allah conosce il
cuore degli uomini". O, con un'altra diffusa espressione proverbiale islamica, posta in genere a
conclusione di un discorso o di un testo, a significarne la umana precarietà: Wa Allahu huwa'l-'
alìmu, " E Iddio è più sapiente".
In sostanza si tratta del 2-3% della popolazione: non moltissimo, ma molto concentrata nelle realtà
altamente urbanizzate, e in alcune in particolare - il che fa la differenza sia in termini di
organizzazione interna che di percezione esterna. Ai musulmani d'origine occorre aggiungere un
numero non travolgente ma che comincia a essere significativo di convertiti europei, il cui ruolo e la
cui funzione, in alcuni paesi tra cui l'Italia (ma molto meno in altri), è assai più importante di quanto
non indichino le evidenze statistiche. Inoltre comincia a rendersi sempre più evidente una seconda
generazione di musulmani che costituisce in fondo il vero islam d'Europa, che può dirsi a tutti gli
effetti, insieme a quello dei convertiti ma con maggiore incisività numerica e più complesse
implicazioni qualitative, il primo vero islam autoctono europeo. Un islam che cambia, che si
56
!
Per un approfondimento che ripercorra le tappe di questa storia si veda F.Dassetto, A.Bastenier,
Europa: nuova frontiera dell'Islam, Edizioni Lavoro, Roma, 1991 e, per quanto riguarda in
specifico l'Italia, S.Allievi, F.Dassetto, Il ritorno dell'islam. I musulmani in Italia, Edizioni Lavoro,
Roma, 1993
57
!
Per una interpretazione dei cicli migratori in Europa si veda in particolare A.Bastenier,
F.Dassetto, Nodi conflittuali conseguenti all'insediamento definitivo delle popolazioni immigrate
nei paesi europei, in AA.VV., Italia, Europa e nuove immigrazioni, Edizioni della Fondazione
Agnelli, Torino, 1990. Per un inquadramento generale delle problematiche europee e italiane
rimando anche al mio La sfida dell'immigrazione, EMI, Bologna, 1991
!
58
Per una tipologia delle forme di appartenenza all'islam adattata al contesto italiano si veda
S.Allievi, F.Dassetto, op. cit., pp.35-45. Per una più generale elaborazione in chiave europea
F.Dassetto, L'islam in Europa, op. cit., pp.37-46
59
evolve, che per molte ragioni non è più quello dei padri senza per questo perdere la propria
identità, disperdendosi nel mare dell'indeterminato e dell'indifferenziato. Un islam sì in evoluzione,
ma che in questo stesso processo sancisce la sua progressiva stabilizzazione, candidandosi a
divenire parte dell'identità culturale della nuova Europa in via di faticosa costruzione - se non è una
svolta storica questa! Un islam inoltre minoritario, che in questa sua condizione, e con poche
speranze di cambiarla, deve giocare il suo ruolo e contrattare il suo spazio nella società, al pari di
altre minoranze religiose e sociali: un cambiamento non da poco, anche teologico, ancora tutto da
esplicitare ma che promette risvolti interessanti e, in avvenire, un effetto di feedback con i paesi
d'origine dell'islam - implicazioni queste di cui probabilmente l'islam europeo comincia solo adesso,
e a stento, a rendersi conto (o forse non comincia nemmeno: le vive, semplicemente). Cambia
l'Europa insomma,
cambia l'occidente: ma cambia anche l'islam - "realtà in mutamento, ma anche di
60
mutamento" .
Nessun fenomeno sociale, nessun fatto storico aveva potuto tanto. Non c'era riuscita la guerra. Né,
lo si è visto, la minaccia militare islamica né, in tempi più recenti, la presenza di musulmani negli
eserciti di alcuni paesi europei: a combattere, questa volta, non contro di noi ma per noi - dall'unità
di lanceri prussiani creata da Federico il Grande, che concesse loro la prima sala di preghiera e il
primo cimitero islamico della storia tedesca, ai tirailleurs algerini
dell'esercito francese che hanno
61
combattuto persino nelle battaglie del risorgimento italiano e poi, con altri, nella prima guerra
mondiale, ottenendone come ringraziamento la moschea di Parigi, fino alle SS islamiche. Il
processo vero è cominciato solo, per alcuni paesi, con gli effetti della decolonizzazione (si pensi
alla presenza degli harkis in Francia o ad alcuni provenienti da paesi del Commonwealth,
soprattutto asiatici, in Gran Bretagna): e poi, per tutti, con le nuove immigrazioni.
Una storia, oltretutto, che si sta ripetendo, seppure in percentuali e soprattutto con impatto diverso,
anche al di fuori del vecchio continente, e in particolare nelle americhe, in cui un islam
peculiarmente autoctono rappresentato dai black muslims (che ogni tanto conquista fuggevolmente
il palcoscenico dei media grazie alla conversione di un pugile in galera o di un jazzista), insieme a
quello più propriamente definibile come immigrato, stanno creando una miscela assolutamente
inedita anche per il nuovo mondo.
La realtà si fa dunque più complessa, lo sguardo reciproco tra islam e occidente riguarda soggetti
sempre più vicini tra loro: così vicini da unirsi talvolta in un vincolo non metaforico di matrimonio,
62
come accade già oggi in quelle che si chiamano con qualche imprecisione coppie miste . Se non
59
!
Esaminate in S.Allievi, I giovani musulmani in Europa: tra identità tradizionale e mutamento
culturale, in L.Tomasi (a cura di), I giovani e le religioni in Europa. Persistenze valoriali e nuovi
orientamenti, Reverdito, Trento, 1993
60
!
F.Dassetto, L'islam in Europa, Edizioni della Fondazione Giovanni Agnelli, Torino, 1994, p.6
61
!
S.Allievi, F.Dassetto, op. cit., pp.66-67 e, per i riferimenti europei, J.Nielsen, Muslims in Western
Europe, Edinburgh University Press, Edinburgh, 1992
!
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Fenomeno sul quale avanzo qualche considerazione introduttiva in L'islam e i matrimoni
interreligiosi. Le implicazioni giuridiche e sociali dei matrimoni misti nella comunità musulmana,
in "Orientamenti", Centro Sociale Ambrosiano, Milano, n.5-6, 1994, numero monografico
Questioni sull'islam; v. anche M.Borrmans, L'avvenire dei matrimoni misti islamo-cristiani in Italia,
in "Studi interdisciplinari sulla famiglia", Vita e Pensiero, Milano, n.12, 1993, numero monografico
su La famiglia in una società multietnica
vogliamo che l'occhio diventi strabico per lo sforzo dovremo imparare a guardare al problema (e
all'altro che lo rappresenta e che lo incarna) non tanto con un diverso paio d'occhiali, quanto
attraverso una nuova dislocazione dei punti di riferimento delle nostre geografie mentali.
Il dibattito, oggi, prima ancora che tra occidente e islam, è quello di ogni occidentale
con la propria
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immagine dell'islam, e di ogni musulmano con il proprio occidente interiore . Un dibattito che, per
tutti, implica anche uno sguardo nuovo
su quello che definiamo pluralismo religioso, e dunque sulla
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immagine religiosa di sé e dell'altro . E che per i credenti significa costruire e quasi 'inventare' una
riflessione originale su quelli che si definiscono rapporti interreligiosi o, con una impostazione più
esigente (e un po' abusata: nella teoria, più che nella pratica), dialogo interreligioso. Un dialogo che,
dal punto di vista spirituale, dovrebbe forse essere definito più propriamente, come qualcuno
comincia finalmente a riconoscere, intra-religioso. Definizione che da sola, se accettata, ci porrebbe
in tutt'altra situazione.
Qualcuno, in occidente, ha già messo in atto una strategia culturale che va nella direzione opposta,
identificando volentieri nell'islam il nuovo nemico dopo la caduta del comunismo: illustri storici e
politologi, e meno illustri commentatori e giornalisti, stanno già propagandando, anche in Italia,
questa tesi. E con successo, perché risponde alle attese
profonde, ai pre-giudizi viscerali di molti: la
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storia pesa, e il passato non passa facilmente . Specularmente nel mondo dell'islam la
demonizzazione dell'occidente continua a far proseliti, e finisce per diventare un comodo
parafulmine e un eccellente alibi per paesi travolti contemporaneamente dall'esplosione
demografica, dalla crisi economica, e dalla propria incapacità di gestire politicamente un processo
di crescita (solo occasionalmente accompagnata da sviluppo) oggettivamente troppo rapido e
culturalmente, non di rado, devastante. Entrambi i casi appaiono come la prova testimoniale
dell'incapacità dell'uomo di vivere senza un nemico, della sua difficoltà di uscire dalle dinamiche
amico-nemico che da Tucidide a Carl Schmitt, passando magari per Machiavelli e Hobbes,
accompagnano l'uomo nel suo agire sociale e politico: homo homini lupus, ci hanno insegnato a
scuola, anche se ci rifiutiamo di crederlo.
Questo forse significa che in fondo, anche in questo, islam e occidente si assomigliano più di
quanto amerebbero ammettere: e nel peggio il fatto è visibile più chiaramente che nel meglio. Dopo
63
!
Parafrasiamo un'immagine di H.Djait, op. cit., p.26, che la riferiva all'Europa
64
!
Introduco una prima riflessione in proposito, basata su una rilettura dei testi fondatori del
cristianesimo, nel mio Il libro dell'altro. Il Vangelo secondo lo straniero, EDB, Bologna, 1995, che
raccoglie e commenta in questa chiave i passi principali del Nuovo Testamento e dei salmi in
materia
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La paura dell'islam è storia antica. J.Delumeau vi dedica un capitolo del suo fondamentale La
paura in occidente, SEI, Torino, 1979, analizzando i musulmani insieme ad altri 'inviati di Satana':
idolatri, ebrei, donne (streghe). L'autore rileva (p.404) la grande quantità di libri sui turchi
pubblicata negli anni della grande paura, dalla seconda metà del quattrocento e per tutto il
cinquecento. E' lecito un parallelo con il crescere oggi, in Europa, di una pubblicistica sull'islam che
definiremmo volentieri popolare, di taglio superficiale e banalizzante quando non esplicitamente
faziosa? Solo che nel 1453 era caduta Costantinopoli, e lo choc fu, comprensibilmente, enorme.
Ancora nel 1530 Lutero scriveva: "Tutto è consumato: l'Impero romano è alla fine del suo corso e il
turco all'apice..." (p.330). Oggi, a quale Costantinopoli riferirsi?
tutto, come diceva Lévi-Strauss, "conosco fin troppo bene il motivo del disagio provato66in vicinanza
dell'Islam: ritrovo in esso l'universo da cui provengo; l'Islam è l'Occidente dell'Oriente" .
Spiritualmente lo si potrebbe leggere anche come la chiamata ad un medesimo destino: perché "a
Dio appartiene l'Oriente e l'Occidente" come dice il Corano (II,115). Il che vuol dire anche,
specularmente, che le vie di Dio si incontrano ovunque. Come un mistico, che non riusciamo a
definire musulmano perché è patrimonio comune dell'umanità - del resto, fu martirizzato dai suoi
correligionari, come spesso è accaduto ai mistici di tutte le religioni -, Al-Hallaj (già intuendo, si
potrebbe dire mettendosi nei panni dei musulmani occidentali, il manifestarsi dell'islam anche in
occidente - ma in realtà in senso più profondo), aveva già chiaramente 'visto':
"Talvolta, ad Occidente appari agli intelletti,
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pei quali, talaltra, ad Oriente tramonti" .
La nuova storia occidentale dell'islam implica dunque anche questo. E contraddice in primo luogo,
con la sua stessa esistenza, il mito hegeliano (di mito si tratta, anche se il libro in cui è sviluppato
vuol essere una 'lezione sulla filosofia della storia'), secondo il quale l'islam sarebbe "da lungo
tempo scomparso dal piano della storia del mondo". Errore ed illusione: non solo non è scomparso
dalla storia - è entrato anche nella nostra storia particolare. Per rimanerci.
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67
C.Lévi-Strauss, Tristi tropici, Il Saggiatore, Milano, 1960, p.394
Al-Hallaj, Diwan, Marietti, Genova, 1987, p.75 (trad. di A.Ventura)