zero «Sì, sembra proprio un maschio, sa?» La voce dell`ecografista

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zero «Sì, sembra proprio un maschio, sa?» La voce dell`ecografista
zero
«Sì, sembra proprio un maschio, sa?»
La voce dell’ecografista fluttuava nel silenzio dello studiolo illuminato dalla sola
luce del monitor.
«Ah, se soltanto stesse fermo e si facesse
vedere bene.»
La sonda scivolava.
«Uhm. Mi pare che sia tutto a posto.
Adesso diamo una controllatina agli organi.
Un attimo solo, eh.»
Le lacrime si muovevano piano facendosi strada dagli angoli esterni degli occhi giù
verso le orecchie.
Qualcuna poi cadeva sul lenzuolo; qualche altra oscillava nella curva del collo e finiva a bagnare la scollatura della maglietta
bianca.
A smascherare il pianto fu un piccolo singhiozzo.
«Vuole un fazzoletto?» chiese l’ecografista con dolcezza passandomi un kleenex. «È
sempre un’emozione sconvolgente, lo so.»
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zero punto uno
Ci son donne a cui uno non sa dare un’età.
Questa, per esempio.
Questa che l’aveva guardato senza vederlo, dall’alto verso il basso, avvertendo solo un
tenue chiarore lilla intorno ai suoi capelli rossi appena screziati di bianco, e s’era seduta
solamente dopo che lui le aveva detto di farlo.
All’antica, pensò lui; una donna all’antica.
Questo fu forse il primissimo pensiero,
quello al cui sapore tornava ogni volta che andava in cerca di una spiegazione. Sono buone,
le donne all’antica.
uno
Hai preso una storta, sei inciampata in un
sampietrino obliquo vicino al cantiere dei
lavori per la sistemazione del sagrato di una
chiesa che a memoria d’uomo un sagrato non
aveva mai avuto.
Stavi pensando a quella volta che sei andata dall’avvocato G. senza mutande e con
le autoreggenti, e poi è finita come è finita, e
d’altra parte come vuoi che finisca se lasci che
uno ti metta le mani fra le gambe e senta che
sei bagnata e non hai le mutande; ma c’era
anche il fatto che dovevi riportare indietro le
scarpe della tua figlia più grande, che le andavano un po’ piccole anche se il numero era
quello giusto.
Questione di forma della tomaia.
Poi t’è venuto anche da dire a te stessa che
c’era ancora aperta la questione dell’affitto: il
padrone di casa lo voleva aumentare ma tu
volevi che lo diminuisse perché quando c’era
vento le imposte della cucina si aprivano da
sole, e la moquette era tanto vecchia che le
colonie di acari avevano alberi genealogici
così lunghi da non riuscire più a seguirli.
Va bene.
Comunque, sei inciampata su questo benedetto sampietrino e adesso ti duole la caviglia.
Fa male pensare contemporaneamente a
troppe cose, lo sai. Però continui a farlo perché non riesci ad alzare le pareti fra i pensieri, e così loro scavalcano senza affanno quel
poco di bordo che c’è fra l’uno e l’altro e si intrecciano così inestricabili che non riesci più
a distinguere qual è il pensiero da cui tutto è
germinato.
Ti succede sempre.
Poi ti fermi.
Con quel fastidio alla caviglia fatichi a
camminare. Chissà come, in una città dove
le hanno tolte quasi tutte come le cabine telefoniche, trovi finalmente una panchina e ti
fermi.
Ti rendi conto che non piove più, asciughi
il legno verniciato e ti siedi.
Capisci all’improvviso che per un po’ di
tempo, non sapresti dire quanto, prima di inciampare hai pensato anche al fatto che stava
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piovendo e che eri stufa della pioggia, anche
se la pioggia un suo fascino ce l’ha.
Dunque, ti siedi.
Lasci cadere la borsa sulle tue gambe e
senza badarci apri la cerniera per cercare le
sigarette. Poi ti viene in mente che hai smesso di fumare e le sigarette non ci sono. Ecco,
ti dici: anche a questo stavo pensando prima
del sampietrino.
Ma c’è una cosa importante da capire.
La confusione nella tua testa è enorme.
È per questo motivo che devi, assolutamente devi.
Devi ritrovare il pensiero da cui tutto è cominciato.
Non tanto per stabilire di chi sia la responsabilità della tua storta che, chissà, se
non smette di farti male prima o poi magari dovrai anche andare a farti vedere da un
medico.
Non per individuare il pensiero che ti ha
tradita facendoti inciampare, insomma.
Ma per capire da dove devi cominciare per
renderti conto del punto preciso a cui sei arrivata.
Della tua stanchezza, dei tuoi sensi di
colpa.
Del tuo inutile domandarti come avresti
potuto evitare tutto questo.
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I fili da afferrare sono tanti; quand’eri piccola e sognavi l’età adulta come il momento
in cui tutto sarebbe stato alla portata delle
tue piccole mani che adesso sono grandi e ti
sembrano le belle mani di una donna forte,
non avresti creduto che le decisioni potessero
essere così faticose e le loro conseguenze così
impreviste, inesorabili e violente.
Il primo pensiero, allora. Quello da cui
tutto è partito.
Tu camminavi, camminavi, camminavi.
Pensavi al gelato che forse avresti voluto
comperare e leccare per la strada.
Accarezzare, quasi, con la parte interna
delle labbra.
Poi c’è stato il ricordo di G.
E subito dopo? Cosa?
Le scarpe o che cos’altro?
G. era un uomo alto alto alto.
Non sapevi neanche bene se ti piaceva,
vero?
Però, va’ a capire perché, ti faceva voglia.
No, forse non c’è chissà che da capire: ti
faceva voglia perché ti trattava con sufficienza e aveva l’aria di quello che non avrebbe
mai tradito la moglie. Ma non perché era uno
onesto, no.
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