Approccio nutrizionale nel paziente con diabete di tipo 2
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Approccio nutrizionale nel paziente con diabete di tipo 2
G It Diabetol Metab 2015;35:51-59 Rassegna Approccio nutrizionale nel paziente con diabete di tipo 2 RIASSUNTO A. Poli Nutrition Foundation of Italy, Milano Corrispondenza: dott. Andrea Poli, Nutrition Foundation of Italy, viale Tunisia 38, 20124 Milano G It Diabetol Metab 2015;35:51-59 Pervenuto in Redazione il 16-01-2015 Accettato per la pubblicazione il 18-01-2015 Parole chiave: monoinsaturi, polinsaturi, basso indice glicemico, polifenoli, dieta mediterranea, alcol, diabete, sindrome metabolica Il paziente con diabete di tipo 2, per il suo elevato rischio cardiometabolico, deve essere orientato a curare con attenzione la qualità dei macronutrienti della sua dieta. Tra i grassi, in particolare, dovrà dare la preferenza all’olio di oliva extravergine (per il suo elevato apporto in polifenoli antiossidanti) e agli alimenti ricchi in polinsaturi, sia della serie omega-3 sia omega-6. La restrizione del colesterolo alimentare (e delle uova) va perseguita nonostante l’effetto del colesterolo alimentare stesso sulla colesterolemia, specie nel diabetico, sia modesto. I carboidrati dovranno privilegiare il basso indice glicemico e le fonti integrali, ricche in fibra. L’apporto di alcol, se moderato, non va proscritto. Nel complesso, queste indicazioni suggeriscono che la dieta mediterranea, con alcune variazioni mirate, possa continuare a rappresentare il modello dietetico di riferimento nel paziente diabetico. SUMMARY Key words: monounsaturated, polyunsaturated, low glycemic index, polyphenols, Mediterranean diet, alcohol, diabetes, metabolic syndrome Nutritional tips for the patient with type 2 diabetes Type 2 diabetic patients, with their high cardio-metabolic risk, need to pay close attention to the quality of dietary macronutrients. Among dietary fats, they should prefer extra-virgin olive oil (with its high content of antioxidant polyphenols), and food rich in polyunsaturated fats, both omega-3 and omega-6. Dietary cholesterol (and egg yolk) needs to be restricted, even though it has only weak effects on plasma cholesterol (especially in diabetics). Carbohydrates should be selected among low glycemic index products, possibly whole-grain cereals, rich in fiber. Alcohol intake, if moderate, needs not be discouraged. These general concepts suggest that the Mediterranean diet, with some selected adaptation, may continue to serve as the reference dietary model for diabetic patients. La malattia diabetica di tipo 2 si osserva con una frequenza crescente nel nostro Paese, anche in conseguenza dell’aumento della prevalenza dell’obesità e, più specificamente, della sindrome metabolica. Nonostante l’ormai ampia disponibilità di farmaci in grado di controllare adeguatamente l’evo- 52 A. Poli luzione metabolica di questa malattia, e di ridurre il rischio delle sue complicanze cardiovascolari, l’importanza di un corretto approccio nutrizionale nella gestione clinica del paziente diabetico è riconosciuta. In questa rassegna, che non intende essere sistematica, verranno analizzate le più recenti evidenze della letteratura relative al ruolo di una corretta alimentazione nel mantenimento di uno stato di benessere e di salute, essenzialmente con l’obiettivo di fornire indicazioni utili alle scelte quotidiane del paziente diabetico. Tali indicazioni, in realtà, non sono particolarmente differenti da quelle che potrebbero essere indirizzate alla popolazione generale, e specificamente ai soggetti a elevato rischio cardiometabolico, che rappresenteranno quindi la base della trattazione; le differenze, quando esistenti, saranno evidenziate e discusse. Premesso che il contenuto totale calorico della dieta deve essere calibrato in modo da riportare il paziente diabetico verso il suo peso norma (anche intervenendo sull’attività fisica, il cui ruolo nel mantenere l’equilibrio tra le “entrate” e “uscite” energetiche è evidente), è infatti di particolare rilevanza orientare il paziente diabetico a scegliere in maniera appropriata la quota lipidica e glicidica della sua dieta, prestando anche attenzione ad alcuni componenti specifici della dieta stessa che possono rivestire, specie nel suo caso, particolare importanza. Grassi alimentari È diffusa ormai la tendenza a non considerare la quota calorica totale dei grassi della dieta con un fattore di rischio significativo, specie in prevenzione cardiovascolare. Il ruolo dell’apporto lipidico totale nella genesi del sovrappeso è pure dibattuto. Lo studio WHI ha dimostrato con chiarezza, a proposito, l’inefficacia della riduzione della quota calorica da grassi dal 36 al 26% del totale, in assenza di indicazioni sulla scelta dei grassi alimentari stessi, nel ridurre gli eventi cardiovascolari e l’incidenza di alcuni tumori, ma anche nel controllo ponderale(1). Un’eccessiva restrizione della quota lipidica della dieta, inoltre, comporta quasi automaticamente un aumento della quota calorica da carboidrati, e ciò, in assenza di scelte corrette (che tengano adeguatamente conto, per esempio, della risposta glicemica indotta dagli alimenti prescelti), può peggiorare il compenso glicemico del paziente. Esiste quindi ormai consenso sulla necessità di prestare più attenzione alla “qualità” che alla “quantità” dei grassi alimentari, anche se non si può trascurare il fatto che la quota delle calorie da lipidi, nel nostro Paese, è in media superiore al desiderabile (essendo compresa, nelle differenti fasce di età considerate, tra il 34 e il 37% secondo i dati INRAN relativi al 2005/2006)(2). La tabella 1 sintetizza il ruolo dei vari grassi alimentari in prevenzione cardiovascolare, e come sia evoluta, tra il 2000 e i giorni nostri, la percezione di tale ruolo nella comunità scientifica, secondo il personale parere dello scrivente. Analizziamo tali aspetti in maggiore dettaglio, iniziando dal ruolo dei grassi saturi. Alcune recenti revisioni della letteratura hanno rimesso in discussione il ruolo di questi acidi grassi nell’aumentare il rischio cardiovascolare(3); un recentissimo studio norvegese, condotto su oltre 2400 pazienti coronaropatici, non ha inoltre osservato alcun aumento del rischio di recidive coronariche (o di morte per qualunque causa) tra i soggetti del quartile superiore di consumo dei grassi saturi stessi (> 14% delle calorie totali) rispetto al quartile inferiore (< 10%)(4); l’osservazione era confermata tra i diabetici inclusi nello studio, pari a circa il 13% del campione totale. Il consumo di questi acidi grassi nella popolazione generale, in uno studio basato sulle popolazioni EPIC, non predice inoltre il rischio di sviluppare diabete di tipo 2(5). È probabilmente tuttavia troppo presto per liberalizzare il consumo di questi grassi e degli alimenti che li contengono (essenzialmente le carni – specie bovine – e i loro derivati, latte e derivati, alcuni oli tropicali e i prodotti che li contengono). L’azione proinfiammatoria di questi acidi grassi è infatti stata recentemente riconfermata, così come il loro effetto di aumento sulla colesterolemia LDL e la minore funzionalità antiaterogena delle HDL indotte dal consumo di grassi saturi(6). È invece probabilmente corretto sottolineare l’eterogeneità degli effetti dei vari acidi grassi saturi, e in particolare gli effetti – talora ben differenti – del consumo delle loro differenti fonti alimentari. Il consumo di latte e derivati, alla luce dei risultati dello studio MESA(7) e di alcune recenti metanalisi(8), non sembrerebbe per esempio da scoraggiare. Il latte, probabilmente attraverso un effetto sui valori pressori (attribuibile al suo contenuto in calcio o in tripeptidi ad azione blandamente ACE-inibitrice)(9), indurrebbe infatti una significativa riduzione del rischio di eventi cerebrovascolari, senza influenzare significativamente il rischio di eventi coronarici. Tabella 1 Acidi grassi alimentari e rischio cardiovascolare (CV): uno scenario in evoluzione. Associazione con il rischio CV: Associazione con il rischio CV: la visione del 2000 la visione del 2011 Grassi totali ++ = Grassi saturi ++ + Grassi insaturi trans ++ +++ Monoinsaturi – = Polinsaturi omega 6 – –– Polinsaturi omega 3 –– –– –: riduzione del rischio CV; +: aumento del rischio CV; =: nessun effetto significativo. Approccio nutrizionale nel paziente con diabete di tipo 2 Rimane invece un bando sostanziale per gli acidi grassi insaturi a conformazione trans di origine tecnologica, tipici delle vecchie margarine dure “in panetto”, il cui consumo andrebbe minimizzato (per i trans insaturi di origine lattiero-casearia le indicazioni sono meno definitive, ma sembrerebbero non accreditare, nei lavori più recenti, un loro significativo contributo al rischio cardiovascolare)(10); va tuttavia sottolineato come le margarine più moderne, prodotte con tecniche che non prevedono più la saturazione e l’isomerizzazione dei polinsaturi di origine vegetale, riconoscibili anche perché in genere cremose, e non dure, non contengano (a differenza delle margarine di più vecchia concezione) quantità apprezzabili di questi acidi grassi. L’apporto di acidi grassi insaturi a conformazione trans, in ogni caso, è tradizionalmente basso nel nostro Paese(11). La limitazione del consumo di questi acidi grassi (ormai presenti soprattutto in prodotti di non elevata qualità) appare comunque di particolare rilevanza nel paziente diabetico. I loro effetti metabolici tendono, infatti, ad amplificare alterazioni già tipiche della malattia diabetica stessa (o della sindrome metabolica): come i bassi valori della colesterolemia HDL, la disfunzione endoteliale, la presenza di uno stato microinfiammatorio(12). Gli acidi grassi monoinsaturi, tipici dell’olio d’oliva extravergine di cui costituiscono oltre il 70% (sotto forma soprattutto di acido oleico), ma presenti anche in molte carni (come il pollo), hanno probabilmente un effetto neutro sulla colesterolemia totale, e solo blandamente favorevole sulla colesterolemia HDL ed LDL(13); studi non recenti suggeriscono che essi possano contribuire anche al miglioramento del compenso glicemico, nel soggetto diabetico, se sostituiti nella dieta a carboidrati ad alto indice glicemico(14). In ogni caso, l’olio di oliva extravergine deve continuare a rappresentare la base della quota lipidica sia nella popolazione generale sia nel paziente diabetico: ma probabilmente più per il suo elevato tenore in polifenoli che per l’altissimo contenuto in monoinsaturi prima ricordato; il recente studio PREDIMED, condotto su una popolazione di soggetti spagnoli in prevenzione primaria, per circa la metà diabetici, mostra a proposito la rilevante differenza, in termini di rischio cardiovascolare, indotta dal consumo dell’extravergine, ricco in polifenoli, somministrato a uno dei due gruppi di intervento dello studio, rispetto al consumo di olio di oliva normale, a contenuto in polifenoli molto inferiore e largamente prevalente nel gruppo di controllo(15). I polifenoli, tra l’altro (e soprattutto, in vitro, quelli del tè verde), hanno azione inibente su alcuni enzimi amidolitici come l’alfaamilasi, rallentando la digestione degli amidi e quindi l’assorbimento del glucosio e la comparsa del picco glicemico, con un effetto acarbosio-simile (anche se naturalmente molto più blando)(16). I polinsaturi della serie omega-6 (e soprattutto l’acido linoleico), riccamente rappresentati in tutti gli oli di semi, ma anche nella frutta secca, nella verdura e nei cereali, in alcune carni (come il pollame), recentemente riscoperti dopo anni di disattenzione della comunità medico-scientifica, sono gli acidi grassi più efficaci nel ridurre la colesterolemia totale e LDL(17). L’azione di controllo sulla colesterolemia sarebbe almeno in parte dovuta alla capacità di questi acidi grassi di ridurre i 53 livelli della PCSK9, una proteina sintetizzata dal fegato e rilasciata nel torrente ematico che, legandosi alla LDL captata dal recettore per le LDL stesse ne favorisce la degradazione, dopo l’internalizzazione nell’epatocita, prevenendone così la ricircolazione sulla superficie cellulare e di conseguenza la possibilità di contribuire ulteriormente alla captazione delle LDL plasmatiche(18). Va sottolineato che, contrariamente a quanto comunemente ritenuto, questi acidi grassi non svolgono una significativa azione proinfiammatoria, e il loro consumo non si associa a un aumento dei livelli dei marker di stress ossidativo(19). L’apporto di questi acidi grassi con la dieta è stato recentemente associato a una significativa riduzione del rischio cardiovascolare in una metanalisi statunitense; gli autori di questa metanalisi hanno correlato la sostituzione del 5% delle calorie da saturi con acido linoleico con una riduzione del 9% del rischio coronarico(20). Anche i livelli plasmatici di acido linoleico, per parte loro, correlano negativamente con il rischio cardiovascolare stesso(21) e favorevolmente, invece, con la sensibilità insulinica(22). Secondo questo secondo studio(22), scandinavo, livelli elevati di acido linoleico nel plasma si associano anche a una riduzione del 50% circa del rischio di sviluppare malattia diabetica nei 5 anni successivi(22). La ricca presenza di questi acidi grassi nella frutta secca può inoltre contribuire a spiegare, almeno in parte, l’effetto protettivo rilevato nel braccio “nuts” dello studio PREDIMED e, più in generale, della frutta a guscio, sul rischio cardiovascolare. L’apporto di omega-6 è in media piuttosto basso in Italia: secondo la citata indagine INRAN-SCAI, nella quale gli omega-6 sono stati purtroppo rilevati assieme ai polinsaturi della serie omega-3, l’apporto cumulato di omega-6 e omega-3 copre solamente circa il 4% delle calorie totali(2). Un aumento del loro apporto alimentare, da oli di semi, vegetali e frutta secca, potrebbe contribuire a ridurre il rischio coronarico nel nostro Paese. I polinsaturi a lunga catena della serie omega-3 (EPA – acido eicoisapentenoico – e DHA – acido docosaesaenoico), presenti soprattutto in molti animali marini e in particolare in pesci grassi come il salmone, le aringhe, lo sgombro, possiedono numerosi effetti favorevoli, probabilmente rilevanti anche nel paziente diabetico, sulla trigliceridemia (anche se talora tale effetto si associa a un aumento paradosso della colesterolemia LDL), sui livelli di alcuni marker di infiammazione come la PCR o la IL-6, sull’aggregazione piastrinica(23). Questi effetti sono stati in larga parte tradizionalmente attribuiti soprattutto all’EPA, l’omega-3 a 20 atomi di carbonio, e alla sua capacità di generare, per azione di enzimi della famiglia della ciclossigenasi e della lipossigenasi (COX e LOX), eicosanoidi dotati di favorevole attività sui fenomeni infiammatori, l’aggregazione piastrinica, il tono vascolare. Attualmente, è invece noto che questi effetti sono in larga parte attribuibili anche al DHA, un omega-3 a 22 atomi di carbonio (e sono quindi di difficile comprensione secondo il modello “eicosacentrico” prima ricordato); l’azione antinfiammatoria di questi acidi grassi, inoltre, è mediata da composti (come le resolvine) la cui origine metabolica non correla con le attività enzimatiche della COX e della LOX “classiche”(23). 54 A. Poli Nel paziente coronaropatico, o comunque portatore di lesioni coronariche significative, questi acidi grassi svolgerebbero favorevoli effetti diretti sulla placca ateromasica: essi sembrano in grado di modificare la struttura delle lesioni ateromasiche stesse aumentando la loro stabilità e in particolare, specie in combinazione con le statine, aumentando lo spessore del cappuccio della placca e riducendone l’infiltrazione lipidica(24). Larga parte di questi effetti protettivi, in realtà, è descritta soltanto per apporti di questi acidi grassi tipici del trattamento farmacologico (e difficilmente raggiungibili mediante una dieta adeguata); è tuttavia plausibile che, anche a dosaggi alimentari, essi possano influenzare, seppure meno ampiamente, questi fenomeni o la loro evoluzione. La possibilità che gli omega-3 possano peggiorare la sensibilità insulinica, sollevata alcuni anni addietro, non sembra confermata dai dati più recenti. Gli omega-3 a più corta catena (essenzialmente l’acido alfalinolenico, reperibile in molti vegetali e specificamente nelle noci) ha effetti metabolici meno chiari, anche perché la sua conversione verso uno dei due omega-3 a lunga catena prima ricordati (il DHA) è limitata nell’uomo(25). L’apporto alimentare di colesterolo va moderato, anche se il suo effetto sulla colesterolemia totale e LDL è probabilmente, in media, blando o molto blando. Nel paziente diabetico, caratterizzato in genere da un pattern di tipo “sintetico” e non “assorbitivo”(26) (dato cioè da un contributo proporzionalmente maggiore della sintesi epatica che dell’assorbimento intestinale ai livelli plasmatici del colesterolo LDL), il colesterolo preformato presente negli alimenti influenza infatti in maniera ridotta la colesterolemia(27); è peraltro possibile (come suggeriscono alcuni studi recenti) che il colesterolo alimentare stesso aumenti il rischio di sviluppare la malattie diabetica nella popolazione sana(28), attraverso meccanismi non ben compresi, ma che potrebbero correlare con il ruolo del colesterolo alimentare nella sintesi intestinale di chilomicroni. È infatti possibile che una maggiore disponibilità di colesterolo intestinale faciliti la sintesi, nel villo, dei chilomicroni, e che tali particelle, dopo l’attacco da parte della lipoproteina lipasi (LPL), e quindi trasformate in remnant, trasferiscano una maggiore quantità di trigliceridi negli epatociti, riducendo la sensibilità epatica all’insulina. L’apporto di colesterolo alimentare va pertanto moderato, anche, come si ricordava, in assenza di effetti particolarmente marcati sulla colesterolemia. Una delle più tipiche fonti di colesterolo alimentare, e cioè il tuorlo d’uovo, è inoltre ricco di colina; secondo dati recenti, in presenza di un microbiota intestinale adeguato, la colina può essere convertita in TMA (trimetilamina) che, ossidata a livello epatico a TMAO, svolge una documentata azione aterogena(29). Anche per questi motivi, l’apporto alimentare di uova non dovrebbe probabilmente eccedere le due unità settimanali. Carboidrati e zuccheri Nella popolazione generale i carboidrati (inclusi gli zuccheri) dovrebbero coprire tra il 50 e il 60% del fabbisogno calorico giornaliero complessivo. Gli zuccheri totali (che comprendono quelli aggiunti agli alimenti e alle bevande – tipicamente saccarosio – e quelli naturalmente contenuti nella frutta e nel latte) non dovrebbero eccedere, in particolare, il 15% dell’apporto calorico totale giornaliero secondo i LARN recentemente pubblicati. L’apporto alimentare di questi macronutrienti è intuitivamente di grande importanza nel paziente diabetico, ma è significativo che le principali linee guida, a proposito, concordino nel mantenere la quota dei carboidrati nel paziente diabetico a un livello sostanzialmente simile a quello della popolazione generale; secondo le Raccomandazioni Nutrizionali 2013-2014 del Gruppo di Studio congiunto ADI-AMD-SID, l’apporto calorico giornaliero dovrebbe essere compreso tra il 45% e il 60% per i carboidrati totali e non superiore al 10% per il saccarosio aggiunto (nei soggetti in buon compenso metabolico)(30). È tuttavia importante sottolineare alcuni aspetti di rilievo, che anche in questo caso orientano a porre un’attenzione crescente alla qualità dei carboidrati. Gli amidi, che rappresentano la quota largamente prevalente dei carboidrati che introduciamo quotidianamente, sono com’è noto costituiti da lunghe catene di molecole di glucosio. La struttura di questi polimeri è ormai ben conosciuta, ed è noto che la loro digeribilità da parte degli enzimi digestivi è piuttosto variabile. La digeribilità degli amidi, infatti, è influenzata da vari parametri (struttura, trattamento tecnologico utilizzato durante la preparazione dello specifico alimento considerato, tempi e condizioni di cottura); ancora, la contemporanea presenza o meno di fibra, di grassi o di altri macronutrienti (come le proteine), può influenzare lo svuotamento gastrico, e quindi il rilascio e l’assorbimento del glucosio degli amidi, nonché la risposta insulinica. Amilosio e amilopectina, per esempio, che costituiscono per il 25% e il 75% circa, rispettivamente, l’amido di frumento, vengono attaccati in maniera diversa, e quindi digeriti in tempi diversi, dagli enzimi amidolitici, perché la struttura delle catene di glucosio che li caratterizzano – rispettivamente lineare e ramificata – offre un diverso numero di punti d’attacco agli enzimi amidolitici stessi. La cottura, favorendo la cosiddetta gelatinizzazione degli amidi, ne facilita la digestione da parte delle amilasi, tanto più quanto è più prolungata. Il raffreddamento successivo alla cottura induce il “riavvolgimento” delle catene di amidi, nel processo detto di retrogradazione, riportando gli amidi stessi a una condizione di minore digeribilità. Questi complessi fenomeni sono frequentemente indagati, nella loro interezza, valutando la risposta glicemica successiva al consumo di un alimento; tale risposta dipende (oltre che da parametri individuali, non facilmente quantificabili), dall’indice glicemico degli alimenti e dalla loro quantità. L’indice glicemico, com’è noto, rappresenta l’area incrementale della curva glicemica (AUC) conseguente al consumo di una quantità standard di un alimento (specificamente, la quantità che contiene 50 grammi di carboidrati disponibili), raffrontata all’area incrementale della curva glicemica ottenuta dopo il consumo di 50 g di glucosio in soluzione acquosa(31). L’indice glicemico è quindi una caratteristica di ogni specifico alimento; moltiplicato per la sua quantità di consumo fornisce un parametro, il carico glicemico(32), che meglio correla con la risposta glicemica postprandiale successiva al consumo di una porzione di un alimento. Approccio nutrizionale nel paziente con diabete di tipo 2 Le obiezioni all’uso dell’indice glicemico in nutrizione umana sono note; in particolare è incerto se l’indice glicemico dei singoli componenti di un pasto complesso influenzi nella direzione prevista la risposta glicemica finale al pasto stesso, ed eventualmente in che termini. La maggior parte della letteratura disponibile, tuttavia, suggerisce che questo criterio possa consentire di categorizzare in maniera appropriata i carboidrati alimentari, stimandone l’impatto su alcuni parametri metabolici, in primis la glicemia e la risposta insulinica. Sul tema Nutrition Foundation of Italy (NFI) ha organizzato, nell’estate del 2013, una Conferenza di Consenso a Stresa, cui hanno preso parte i maggiori esperti mondiali del settore. I lavori del convegno hanno concluso che esiste consenso su alcuni punti specifici, relativi soprattutto agli effetti favorevoli di un’alimentazione selettivamente arricchita in alimenti a basso indice glicemico (e quindi a ridotta risposta glicemica) sul rischio cardiovascolare e metabolico (Tab. 2)(33). Queste conclusioni hanno un solido retroterra clinico e sperimentale. Gli effetti sul compenso metabolico nel paziente diabetico e sul rischio di sviluppare il diabete sono stati oggetto di recenti conferme(34,35), così come l’effetto di riduzione degli eventi coronarici(36,37); a proposito è interessante anche ricordare i risultati di STOP-NIDDM, uno studio randomizzato e controllato, condotto impiegando l’acarbosio (o un placebo) in circa 1400 soggetti con ridotta tolleranza glicidica. In questo studio, come è noto, si è osservata una riduzione del 36% del rischio di sviluppo di diabete, e di ben il 50% del rischio di eventi coronarici(38). Poiché l’unico effetto farmacologico dell’acarbosio è l’inibizione dell’alfa-amilasi, e quindi il rallentamento dell’assorbimento del glucosio dagli amidi alimentari, il suo effetto è concettualmente simile a quello dell’adozione di Tabella 2 Indice glicemico, carico glicemico, risposta glicemica: le principali conclusioni del Scientific Consensus Summit di Stresa (2013)(33). La scelta preferenziale di alimenti a basso indice glicemico, che inducano una bassa riposta glicemica: – riduce il rischio di sviluppare, nel tempo, il diabete di tipo 2, e migliora il compenso metabolico nei pazienti diabetici; – riduce il rischio di eventi cardiovascolari, e specificamente dell’infarto miocardico; – migliora i livelli della colesterolemia LDL, della trigliceridemia e della colesterolemia HDL, e i livelli di alcuni marker infiammatori (come la PCR); – può essere utile nelle strategie di controllo ponderale. Indice glicemico e carico glicemico vanno sempre valutati nel contesto di una dieta equilibrata, e sono complementari all’uso di altri parametri che caratterizzano i carboidrati, come il tenore in fibra e la quota di cereali integrali; gli effetti del loro impiego sono probabilmente maggiori nei soggetti con resistenza all’insulina. 55 una dieta a basso indice e carico glicemico, che pure induce una riduzione della risposta glicemica: il favorevole risultato di STOP-NIDDM si riflette pertanto, concettualmente, anche sugli interventi di controllo della risposta glicemica mediante interventi di natura dietetica. Anche il rischio neoplastico sembra influenzato favorevolmente dalla scelta preferenziale di elementi a basso indice glicemico(39), probabilmente per la ridotta risposta insulinica indotta da questi alimenti (l’insulina, come è noto, presenta analogie strutturali con una famiglia di fattori di crescita, gli IGF, i cui livelli, secondo alcuni studi di epidemiologia osservazionale, correlano con un blando aumento del rischio neoplastico stesso). La rilevanza clinica dell’uso dell’indice glicemico, come si ricordava, è tuttora dibattuta, come dimostra una serie di prese di posizione recenti, sia a favore sia contro tale ruolo(40,41); è tuttavia difficile immaginare, alla luce delle conoscenze attuali, che un parametro che condiziona la risposta glicemica successiva al consumo di un alimento possa essere irrilevante nella gestione del paziente diabetico o della popolazione generale. L’adozione del criterio dell’indice glicemico consente comunque di gerarchizzare gli amidi alimentari in modo relativamente semplice, e si traduce in implicazioni pratiche per la vita quotidiana. La pasta all’italiana (preparata a partire da semola di grano duro, cotta al dente, con l’aggiunta di sughi con una non trascurabile componente lipidica – olio d’oliva o burro) presenta per esempio un indice glicemico più basso di quello del pane comune e delle patate, e induce quindi una risposta glicemica sensibilmente migliore di entrambi questi alimenti. Un quadro riassuntivo dell’indice glicemico di alcuni alimenti di uso comune nel nostro Paese è presentato nella tabella 3. Lo zucchero da cucina (saccarosio) merita a proposito un discorso specifico. Il saccarosio è caratterizzato da un indice glicemico relativamente basso (circa 66, raffrontato al glucosio, il cui indice glicemico è per definizione pari a 100); ma tale ridotto indice glicemico è dovuto al fatto di essere costituito per il 50% Tabella 3 Indice glicemico di alcuni alimenti, rispetto al glucosio. Per ottenere il valore rispetto al pane bianco, moltiplicare per 1,38. Cibo Indice glicemico Pomodori 9 Ciliegie 23 Fagioli 30/45 Mele 38 Spaghetti 38 Maccheroni 49 Pizza 62 Saccarosio 66 Pane bianco standard 72 Patate bollite 86 Glucosio 100 56 A. Poli da fruttosio, che induce una risposta glicemica molto bassa ed evidentemente indiretta. Ciò suscita perplessità in una parte della comunità medico-scientifica: il dibattito sugli effetti metabolici del fruttosio è infatti piuttosto aperto. Molti studi suggeriscono che il fruttosio stesso (rapidamente ottenuto dall’idrolisi del saccarosio a livello intestinale) possa svolgere effetti sfavorevoli sulla trigliceridemia, sull’infiltrazione lipidica epatica, sul peso corporeo, sulla sensibilità all’insulina(42,43). La maggior parte dei dati sperimentali a supporto di questa visione, in realtà, è stata ottenuta in studi condotti utilizzando livelli elevati, e talvolta estremamente elevati (fino a 200 g/die), di fruttosio alimentare; alcune metanalisi recenti (svolte soprattutto dal gruppo canadese di David Jenkins) hanno rilevato come, a livelli di consumi non eccessivi, gli effetti metabolici del fruttosio siano invece sostanzialmente neutri(44,45). Le Raccomandazioni Italiane per il paziente diabetico suggeriscono comunque, come si ricordava, un consumo alimentare di saccarosio che non ecceda, nei soggetti in buon compenso metabolico che lo desiderino, il 10% delle calorie totali(30), nell’ambito di un apporto calorico totale da carboidrati del 45-60%. Tali raccomandazioni, anche alla luce dei dati più recenti, sembrano del tutto condivisibili. Proteine L’apporto proteico della dieta è meno variabile, e meno facilmente modificabile, di quello di grassi e di carboidrati. In quasi tutte le popolazioni occidentali, infatti, l’apporto calorico da proteine copre in media circa il 12-18% del totale. In generale, si ritiene che il paziente diabetico non necessiti di specifiche indicazioni relative all’apporto dietetico di questi macronutrienti rispetto alla popolazione generale. Diete con un lieve aumento del contenuto proteico (fino al 20% circa o poco più), in assenza di danno renale, possono peraltro aiutare la perdita ponderale, essenzialmente per l’elevato potere saziante delle proteine e per il “costo energetico” maggiore associato alla loro digestione(46,47) o, nel paziente diabetico anziano, anche per concorrere al controllo della sarcopenia. Come nella popolazione generale, il rapporto tra proteine di origine animale e proteine di origine vegetale può essere approssimativamente attorno a 1:1. Nel diabetico nefropatico l’apporto proteico va invece proporzionalmente ridotto(30). Fibra alimentare La fibra alimentare, com’è noto, rappresenta la quota dei carboidrati alimentari che, per la loro struttura molecolare (tipologia o sequenza dei monosaccaridi costitutivi, tipo di legame che li connette), non sono attaccabili dagli enzimi digestivi del nostro organismo, e che di conseguenza raggiungono immodificati i tratti più distali dell’intestino stesso. Gli effetti metabolici della fibra alimentare, e in particolare quelli che riguardano il metabolismo postprandiale di trigliceridi e zuccheri, sono conosciuti da tempo. Secondo la visione clas- sica, dominante fino a poco tempo addietro, la fibra (e particolarmente la fibra solubile) sarebbe in grado di adsorbire gli zuccheri semplici e i trigliceridi rilasciati dagli enzimi digestivi intestinali, rallentandone così l’assorbimento e modulando quindi l’aumento delle concentrazioni plasmatiche di questi composti nella fase postprandiale(48). A quest’effetto, di tipo sostanzialmente “fisico”, che si osserva soprattutto per apporti di fibra elevati o molto elevati, si è aggiunta recentemente la conoscenza degli effetti “prebiotici” della fibra alimentare, e cioè della sua capacità di influenzare la composizione del microbiota intestinale, selezionando di fatto i ceppi batterici in grado di metabolizzarla a scopo energetico. Il metabolismo batterico della fibra alimentare genera inoltre composti di varia natura, tra cui dominano gli acidi grassi a corta catena (butirrato, propionato), caratterizzati dalla capacità di svolgere un effetto trofico sulla mucosa del colon e significativi effetti metabolici (per esempio l’inibizione della sintesi del colesterolo a livello epatico)(49). Questi effetti della fibra spiegano probabilmente il motivo per cui, in numerose metanalisi, l’apporto alimentare di questi composti correla con una ridotta incidenza di molte patologie, tra cui le malattie cardiovascolari, le malattie metaboliche, lo stesso sovrappeso(50,51). L’apporto di fibra, nel nostro Paese, è peraltro basso, e ben lontano dalle raccomandazioni ufficiali. Secondo i più volte citati dati INRAN, esso si colloca in media attorno a 20 g/die (e quindi attorno a 10 g/1000 kcal)(2), mentre le indicazioni delle società di dietetica e diabetologia, a proposito, suggeriscono circa 15 g/1000 kcal(30). L’uso di alimenti prodotti a partire da cereali integrali può contribuire ad aumentare l’apporto di fibra incrementando al tempo stesso anche l’apporto di antiossidanti e altri fitocomposti di interesse nutrizionale. Alcol Gli studi epidemiologici di carattere osservazionale concordano nell’attribuire al consumo di alcol (sotto qualunque forma: vino, birra o liquori) effetti potenzialmente favorevoli sul rischio cardiovascolare del paziente (che è ridotto di un terzo circa tra i consumatori di non più di due-tre drink al giorno se di sesso maschile e non più di uno-due drink al giorno se di sesso femminile) e sulla mortalità per tutte le cause (che ha un nadir per livelli di consumo più bassi, pari a uno-due drink nei soggetti di sesso maschile e uno tra le donne)(52). Un drink, come è noto, è rappresentato da un bicchiere standard di vino (150 ml), oppure da una birra media (una lattina) o ancora da una dose standard di un superalcolico: in tutti e tre questi casi, infatti, l’apporto di alcol effettivamente introdotto nell’organismo, è compreso tra 10 e 13 g/die. Sul piano più strettamente metabolico, le stesse dosi di alcol sono in grado di aumentare i livelli del colesterolo HDL, di migliorare la sensibilità all’insulina, di ridurre i livelli dei marker di infiammazione come la PCR(52). A dosi più elevate l’alcol svolge invece un’azione sfavorevole sui livelli dei trigliceridi e della pressione arteriosa. L’effetto complessivo sull’indice di massa corporea, e in particolare sul grasso addominale, è complesso (non lineare), ma sembra mostrare, nonostante il Approccio nutrizionale nel paziente con diabete di tipo 2 suo non basso contributo calorico (7 kcal/g) un effetto favorevole – e cioè una riduzione di questi parametri – per valori di consumo attorno a uno-due drink al giorno(53). Anche il rischio di incorrere nella malattia diabetica sembra influenzato favorevolmente dal consumo di dosi moderate di alcol; la riduzione è sensibile (fino al 50%) per i livelli di consumo moderato prima definiti(54). Nel paziente diabetico sembra particolarmente rilevante anche la riduzione del rischio coronarico associata al consumo moderato di alcol(55). Queste informazioni di epidemiologia osservazionale (alle quali manca quindi il supporto di uno studio di intervento controllato) sono tuttavia temperate, nel paziente diabetico, dal possibile rischio di ipoglicemia (che suggerisce che il consumo di alcol sia sostanzialmente limitato ai pasti) nonché – come in tutta la popolazione generale – da possibili rischi di comportamenti d’abuso. Come descritto in un recente documento di consenso, sottoscritto da larga parte della comunità medica italiana e in particolare da ambedue le associazioni nazionali dei diabetologi, il consumo di alcol non va quindi proposto in un’ottica preventiva a nessun soggetto astemio, anche se non va disincentivato tra chi spontaneamente ne consumi in modo moderato e sia classificabile a basso rischio di abuso(52). Modelli dietetici specifici Molti studi sperimentali, ma anche osservazioni epidemiologiche di carattere osservazionale, suggeriscono che la dieta mediterranea possa essere utile nella prevenzione del diabete e nel controllo dell’evoluzione della malattia(56,57). Il concetto di dieta mediterranea, tuttavia, è ben poco definito, e frequentemente incorpora aspetti non tipici della dieta caratteristica delle aree meridionali del nostro Paese verso la metà del secolo scorso, ma piuttosto ormai caratteristiche di quella che potremmo definire “un’alimentazione equilibrata”. Il più tipico di questi aspetti è il consumo di pesce, che viene in genere collegato alla dieta mediterranea in quasi tutte le pubblicazioni sull’argomento, ma che era piuttosto basso (e comunque inferiore, in grammi/die, al consumo di carne) nelle popolazioni del meridione d’Italia, già a pochi chilometri dalla linea costiera(58). Con queste non banali limitazioni, il modello mediterraneo classico (una dieta a elevato apporto di vegetali, con un basso contenuto di carne rossa, un limitato apporto di latticini a basso tenore di grassi, con l’olio di oliva extravergine come base lipidica) sembra effettivamente associarsi a un migliore compenso metabolico e a un minore rischio delle complicanze tipiche della malattia. Lo stesso studio PREDIMED, prima ricordato, mostra che l’integrazione dietetica di una popolazione spagnola costituita per il 50% dei diabetici con un olio d’oliva extravergine (in sostituzione dell’olio di oliva normale), o con frutta secca (ricca di acidi grassi polinsaturi) riduce significativamente il rischio di eventi cardiovascolari (–30%) e specie di ictus (–36% nel gruppo supplementato con olio di oliva extravergine e –46% nel gruppo supplementato con frutta secca), rispetto a quanto 57 si osserva nel gruppo di controllo, che seguiva durante lo studio una dieta ipolipidica(15). L’effetto della dieta mediterranea nel paziente diabetico sembra in realtà solo in parte specifico. Una recente rassegna sull’argomento, di autori inglesi, ha comparato l’effetto di diete a basso tenore di carboidrati, a basso indice glicemico, a elevato tenore proteico o di tipo mediterraneo sul profilo lipidico, il compenso metabolico e il peso corporeo di soggetti diabetici(59). Gli effetti delle varie diete non si sono rivelati particolarmente differenti tra di loro. Le diete a basso tenore di carboidrati, a basso indice glicemico e le diete di tipo mediterraneo hanno significativamente migliorato il profilo lipidico, riducendo la colesterolemia LDL e la trigliceridemia e aumentando la colesterolemia HDL. L’effetto sul peso corporeo ha mostrato piccole differenze, che apparentemente fanno emergere un effetto blandamente più favorevole per le diete a basso tenore di carboidrati. Sostanzialmente analogo è l’effetto sul compenso glicemico. La rassegna sembra suggerire che siano numerosi i modelli dietetici che possono svolgere effetti favorevoli nel paziente diabetico, e lascia quindi ipotizzare una flessibilità, a proposito, che tenga adeguatamente conto anche delle preferenze del paziente. Conclusioni Pur nel contesto di un doveroso controllo dell’apporto calorico totale, specie in presenza di sovrappeso, la più recente ricerca nutrizionale tende a sottolineare soprattutto l’importanza delle differenze di tipo qualitativo, nell’apporto dei vari macronutrienti, rispetto a quelle di tipo meramente quantitativo. Una scelta adeguata dei grassi alimentari, che privilegi i monoe i polinsaturi (riservando all’olio d’oliva extravergine un ruolo di primo piano), e l’uso preferenziale di carboidrati a basso indice glicemico, con un adeguato apporto di fibra (per esempio da cereali integrali) rappresentano, sulla base delle conoscenze attuali, l’ossatura di un corretto approccio nutrizionale sia nel paziente diabetico sia nella popolazione generale. Conflitto di interessi Nessuno. Bibliografia 1. Howard BV, Van Horn L, Hsia J, Manson JE, Stefanick ML, Wassertheil-Smoller S et al. Low-fat dietary pattern and risk of cardiovascular disease: the Women’s Health Initiative Randomized Controlled Dietary Modification Trial. JAMA 2006;295:655-66. 2. Sette S, Le Donne C, Piccinelli R, Arcella D, Turrini A, Leclercq C; INRAN-SCAI 2005-6 Study Group. The third Italian National Food Consumption Survey, INRAN-SCAI 2005-06 - Part 1: nutrient intakes in Italy. Nutr Metab Cardiovasc Dis 2011;21:922-32. 58 A. Poli 3. 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