biografia di Giulia Lazzarini, Franca Nuti e

Transcript

biografia di Giulia Lazzarini, Franca Nuti e
Premio Duse per la migliore attrice della stagione 1986:
Giulia Lazzarini
Giulia Lazzarini è la vincitrice della prima edizione del Premio "Eleonora
Duse" istituito dalla Banca Popolare di Vigevano allo scopo di perpetuare il
ricordo della illustre concittadina e destinato ad un'attrice che si sia distinta
nella trascorsa stagione di prosa. La decisione è stata adottata all'unanimità
dalla Giuria composta da Guido Davico Bonino, presidente, e Roberto De
Monticelli, Gastone Geron, Maria Grazia Gregori, Ugo Ronfani e destinato ad
un’attrice che si sia distinta nella precedente stagione teatrale.
Con questa scelta la Giuria ha inteso riconoscere l'intelligenza poetica con cui
Giulia Lazzarini ha reso il personaggio della maestrina Isabella
nell'allestimento di "Intermezzo" di Jean Giraudoux, curato da Carlo
Battistoni per il Piccolo Teatro di Milano.
Tale interpretazione ha messo in luce, in una felice sintesi di vibrante
sensibilità e di maturata professionalità, le eccezionali doti attorali di Giulia
Lazzarini, persuasivamente confermate nella più recente prova offerta,
accanto a Giorgio Strehler, in "Elvira o la passione teatrale".
Di una passione intensa e determinata per la scena, mai dis- giunta da un
applicato rigore, sempre in armonia con la concezione di una disciplina
comunitaria nel lavoro teatrale, e capace di salvaguardare un giusto equilibrio
fra arte scenica e vita, si deve invero parlare a proposito di Giulia Lazzarini.
Tanto impegno le ha consentito, alla severa scuola del Piccolo Teatro, di
realizzare in questi anni interpretazioni tutte esemplari a vario titolo, e su
disparati registri: basterà ricordare l'acrobatico Ariele della “Tempesta”, la
poetica Winnie di “Giorni Felici”, la tormentata divorziata di “Buonanotte,
mamma”,
presentato nell'84 a Spoleto accanto a Lina Volonghi. Destinata, come allieva
del Centro Sperimentale, al Cinema, ma da questo scarsamente impiegata,
Giulia Lazzarini ha con- dotto, negli anni degli esordi, una doppia carriera
teatrale e televisiva.
Mentre recitava in palcoscenico accanto ai più grandi
attori del momento, dalla Gramatica a Randone, dalla Adani a Benassi, dalla
Zareschi ad Albertazzi, dalla Volonghi a Calindri, e - dopo una decisiva
audizione nel '54 con Strehler - entrava a far parte della famiglia attorale del
"Piccolo", vestendo i panni di Clarice nel trionfale "Arlecchino servitore di due
padroni", Giulia Lazzarini si faceva apprezzare, per la sua rara facoltà di
esprimere e comunicare emozioni imme- diate, anche dal vasto pubblico di
una televisione che matu- rava nei suoi modi espressivi e le affidava, accanto
a ruoli in sceneggiati popolari come "Le due orfanelle", "I Miserabili" o
"Capitan Fracassa", personaggi di rilievo nella versione televi- siva del "Mulino
del Po" di Bacchelli, o testi di prosa come "Casa di bambola", "La pazza di
Chaillot", "Piccola Città".
Se la partecipazione a primarie compagnie private e
pubbliche le hanno consentito di mostrare, in un repertorio senza soste
ampliato, la sua versatilità interpretativa (basti ricordare una prima
"Tempesta" con Enriquez a Verona; "L'ultima stanza" di Green e "Le notti
Bianche" da Dostoevskij a Torino, con Bosetti, e "L'amica delle mogli" o "Edda
Gabler" con De Lullo- Valli), è al "Piccolo Teatro", con il magistero di Strehler,
che Giulia Lazzarini ha affrontato le prove più persuasive e felici: il nuovo
"Arlecchino", portato anche negli Stati Uniti e in Unione Sovietica; la "Vita di
Galileo" di Brecht; "Mercadet l'af- farista" di Balzac; "L'Egoista" di Bertolazzi;
"L'Opera da tre soldi", "Il giardino dei ciliegi", "Il Balcone" di Genet, le nuove
edizioni della "Tempesta", anche sulle ribalte di Los Angeles durante i giochi
olimpici e del Teatro d'Europa a Parigi; non- ché quella "Minnie la Candida" di
Bontempelli che le fu straordinariamente congeniale.
Attrice con salde radici nella migliore tradizione della scena italiana e tuttavia
aperta al movimento delle idee del teatro mondiale contemporaneo; capace
come poche di cogliere in trasparenza la vera identità dei personaggi;
contraria per naturale misura e innata modestia alle concessioni della
spettacolarità, Giulia Lazzarini ha offerto al suo pubblico, che la ama e la
stima, quelle emozioni profonde che soltanto nascono dalla verità
interpretativa.
Ed è oggi giunta a quelle vette, nella sua arte di dire il vero attraverso
l'illusione teatrale, che rendono meritatissimo il conferimento del Premio
intitolato alla memoria prestigiosa di Eleonora Duse.
Premio Duse per la migliore attrice della stagione 1992:
Franca Nuti
Giunto oramai alla settima edizione, la giuria del Premio inti- tolato al nome
della "Divina" per antonomasia assegna all'u- nanimità il "Duse 1992" a
Franca Nuti.
Il Premio è assegnato alla signora Nuti per la straziante magica interpretazione di "Donna di dolori" di Patrizia Valduga con la regia di Luca
Ronconi, momento culminante di un itinerario d'arte, ormai quasi
quarantennale, contrassegnato da un rigore raro, senza compromissioni.
"Vi ricordate, sul palcoscenico dell'Olimpia, la moglie legittima di “Il seduttore”
di Diego Fabbri, quella che non sapeva delle altre due, che le intrigavano il
cuore del marito"?
Una ragazza bionda, alta, con un profilo deciso ed una
recita- zione fra pensosa e tenera; era Franca Nuti, un'altra delle giovani
attrici sulle quali probabilmente si potrà contare". Così scriveva nel 1957, uno
che di attori se ne intendeva: Roberto De Monticelli.
Eccoci qui, stasera, a completare il Carro dell'Orsa Maggiore, cui mancava la
settima stella: tra le splendide star del Premio Eleonora Duse, brilla, adesso,
Franca Nuti.
Altre attrici, è vero, sono ancora in lista d'attesa, per costrui- re
una nuova costellazione; ne faranno prossimamente parte e ci rallegrerà,
perché ciò sarà l'indicazione che la pianta attore seguita a mettere fiori.
Soprattutto al femminile.
La giuria, dunque, saluta e applaude Franca Nuti, al cui fasci- no squisito
non si può anzitutto non rendere omaggio; non però attardandovisi, perché
l'occasione invita a concentrarsi sui meriti, sui valori del mestiere che l'attrice
possiede, incarna e governa in maniera sovrana. Dire mestiere non è stato
insinuare una diminutio capitis. Mestiere ad alto livello conduce ad artigiano,
termine che ha già in sé una parentela con l'arte, è presagio del gradino
maggiore. La civiltà italiana, del resto, è stata per secoli tessuta in buona
parte dagli artigiani:
della pietra come del legno, della tela come del ferro. Ed esse- re attore è, per
cominciare, imparare a dire, apprendere gesti, leggere testi, cogliere
sfumature, fare provvista di segreti e (perché no?) di trucchi.
Essere attore non è saper fingere. E' saper sentire, per saper vivere e
conoscere come gli altri vivono.
Essere attore è andare perennemente a
scuola dalla vita anzi dall'uomo e da ogni sua tendenza, da ogni suo spessore;
è capire che la vita è tutta un'ipotesi, uno sciorinare fantasie, è una fecondità
di epifanie e di variazioni. E Franca Nuti ci ha fatto intendere che è lavoro,
lavoro sotto il cerone e gli effimeri applausi. Un grande attore o attrice - quale
essa è, lavora non per il successo ma, a fondo e meglio, per se stesso, per
conoscersi meglio attraverso la penetrazione dei personaggi, dove si proietta
l’insondabilità dell’uomo. Il mestiere dell'atto- re, così inafferrabile da chi
attore non è, è gloria di grazia ricevuta e, nello stesso tempo, conquistata;
d'altro canto, questa gloria non è spocchiosa bensì umilissima, perché costa
tutte le lacrime dell'uomo e, di più, il rinunciarsi, il farsi laboratorio di altre
identità, il servire con ogni fedeltà la parola voluta dal- l'autore.
Franca Nuti ha esercitato alla perfezione queste virtù di dedizione, di
immedesimazione con lucido e critico senso di responsabilità. I suoi traguardi
sono il frutto di un lavoro senza compromessi. E' la qualità intrinseca di un
animo naturaliter portato all'arte che le ha poi ottenuto i tanti riconoscimenti di cui il Duse è - per ora - coronamento e che sono andati ad un'attrice
per sé, tutta riserbo, tutta equilibrio personale tra gli adempimenti della
vocazione e quelli di una sposa e madre, che più volte l'hanno trattenuta
lontano dalla scena. E vale allora la pena raccogliere, di Franca Nuti, la
lezione esemplare che deriva dal suo metodo di lavoro, a sottolineare che fare
l'attore è anche portare una croce e mettere ogni volta in gioco non solo la
carriera, ma anche il proprio destino umano, la propria cultura identificante.
Come lavora l’attrice, per dare vita ad un personaggio? Eccola radunare
quante notizie può, d’ordine morale, ambientale, storico, eccola indagare nel
quadro psicologico, verificarlo in attendibilità di comporta- menti; eccola porsi
specularmente a lui, figura e persona, discuterne con lui - il personaggio
sempre ritroso - silenziosa- mente i problemi, i modi, l’essere e il parere. La
guida ansia di perfezione immedesimante in una verità fantastica attraverso
un'interpretazione colta, oggettivata, interrogatrice e mai sazia dell'altro - il
personaggio - e di sé - l'attrice, che vuole condur- re a termine una esperienza
proficua delle suggestioni individuali. E il personaggio è reso non una bella
parte, ma una epifania di verità.
Questo ha voluto essere il mestiere per Franca Nuti - dopo gli studi
all'accademia dei Filodrammatici, avendo a maestra Esperia Sperania partire
dal suo esordio, nel 1953, nell'"Allodola" di Anouilh, che fu prodotta proprio
dalla Compagnia del Teatro di via Manzoni, con la regia di Mario Ferrero.
Fu subito "seconda donna", nella compagnia Ricci - Magni - Proclemer Albertazzi, che intraprese un "King Lear" (lei era Regana) diretto da Franco
Enriquez. Abitò, dunque, appena sbocciata all'arte, le stanze nobili.
E tra Renzo Ricci, Franco Enriquez ed Enzo Ferrieri e Giorgio Albertazzi e
Orazio Costa e Sandro Bolchi e Mario Sciaccaluga in veste di registi, ella
affermò, non essendo presto "inferiore a nessuno" - come ha scritto Eva Magni
- la sua arte di "rara finezza". Un ricordo tutto milanese di quel tempo, ciò alla
fine degli anni Settanta. Franca Nuti recitò al Filodrammatici, con la regia
eccellente di Lorenzo Grechi, "Una strana quiete" di Renato Mainardi. Regista
e autore prematuramente scomparsi. L'attrice era Gaia, la protagonista.
Di lei, fu scritto "La sua Gaia è - nell'ascesa ad una smarrita e spoglia
dichiarazione drammatica - una esemplare dimostrazione di come si
costruisce e poi si vive un personaggio difficile per complessità di piani e
contrastata esperienza". Tra i suoi compagni una "deliziosa" Eva Magni.
Ebbe parti sempre più importanti, in "Riunione di famiglia" di Eliot, in "I
sequestrati di Altona" di Sartre, in "Lavinia fra i dannati" del nostro Carlo
Terron, e in testi di O'Neil, Moravia, Pirandello, Ibsen e Odets, a dire un rigore
illuminato, costante anche nelle scelte. Non ha fatto mai nulla tanto per fare,
ma in ogni ruolo ha assunto un impegno di conquista estetica. Una direttrice
che, innestandosi con la curiosità per un palco- scenico moderno l'ha portata
finalmente ad accasarsi con un maestro della regia, quale Luca Ronconi. Ma
per arrivare a lui c'è un percorso con tappe particolarmente significative ed è
da ricordare, soprattutto, tra le sue prime, lontane affermazioni, quella di
Maria, la protagonista, nel primo Svevo rappresenta- to in Italia, cioè
"L'avventura di Maria", che Aldo Trionfo allestì a Spoleto nel 1966. Nel non
gremito - perché centellinato - cahier di Franca Nuti (sono meno di 40 gli
spettacoli che vuole ricordati), ci sono altre tre significative avventure con
Aldo Trionfo, regista di genio provocatorio, ed è "Tito Andronico" di
Shakespeare, "Il piccolo Eyolf" e il "Peer Gynt" di Ibsen: chiara indicazione di
una scelta culturale, di una estrosità acuta, di una modernità di concezioni
veramente sorprendenti in una giovane attrice.
Nel 1979 comincia, dunque, l'avventura con Ronconi: dapprima un assaggio,
col ruolo di Gunhild, la moglie, in "John Gabriel Borkman" di Ibsen, e poi, a
Prato, la strenua prova di "Ignorabimus" il terribile leggendario dramma
naturalista di Arno Holz, dove vestì impavidamente i panni maschili del
professore ed eccellenza Dufroy-Regnier, lasciando i naturali costumi a
Edmonda Aldini, Delia Boccardo, Marisa Fabbri ed Annamaria Guarnieri.
Negli intervalli, le attrici si accasciava- no e c'era un pronto soccorso solo per
loro.
Uno dei vertici d'arte raggiunti dalla Nuti fu la parte della Priora dei "Dialoghi
delle Carmelitane" di Georges Bernanos, in cui la tragicità interiore della
suora agonizzante in preda alla paura della morte si tradusse in spasimi
d'agghiacciante potenza scenica. Ella sarà poi Mascia nelle cechoviane "Tre
sorelle" e infine, rinnovando l'espressività estrema ed agghiacciante della
Priora, trasse dalla morte la vita nel monologo di Patrizia
Valduga "Donna di dolori": una prova michelangiolesca.
Ella ha saputo
trasmettere - come nessuna - tante volte quella "vibrazione nella voce" che
Roberto De Monticelli ebbe a chiamare - con stupenda invenzione - "la
raucedine dell'attore" ossia quanto "di fantasia, di tremore emotivo e di
insondabile turba- mento del cuore un attore riesce a modulare con le sue
parole", raccogliendolo con la sua ragionata sensibilità nell'ugola e dall'anima. E "rauca" in questo senso metaforico - cioè anche critica,
denunciatrice - è davvero la voce della Nuti, così forte e intensa, densa e
sicura, inimitabile per suono e appoggiature; così assorta, inflessibile e
determinata è la sua calda pronuncia, in cui una sorta di lontananza fa
intendere che la battuta è sol- tanto l'eco di un lavorio della mente e dello
spirito.
La "raucedine istrionica" è la verità consacrata di un'arte, è la voce
che ci fa sondare la persona insieme col personaggio e identifica l'attore nella
sua necessità d'essere tale. Come acca- de, ancora un esempio, a Franca Nuti,
quando fu chiamata dalla RAI a dare voce all'elaborazione di Tosca dei gatti il
noto romanzo di Gina Lagorio. Fu una Tosca assoluta, sua propria; fu un
fantasma d'autore creativamente aderente.
Questa è l'arte che la giuria ha voluto onorare: un'arte cristallina, una voce
ferma e profonda, un'alterezza che è aristocrazia dell'anima, un recitare tutto
sostanza e fede e sconvolgimento dell'io, un'imperiosità senza appoggi, un
fluire di incantamenti visivi e tonali, un essere la verità vera del personaggio
per l'effimera e pur memorabile ora del suo esistere. Così la Nuti pos- siede e
supera il mestiere.
E anche lo spettatore, quando Franca Nuti è in scena si smemora e si crede
"altro". Ed è felice, perché è stato condotto al Bello, con occhi, con mano, con
cuore, con intelligenza che hanno non superato, ma frantumato il mestiere,
grazie ad un estro avvincente e prorompente, creativo d'ogni modulazione,
pronto ad ogni fervore, duttile al rinnovarsi: voce inconfondibile di una
persona votata agli accenti, alle sofferenze estreme del tragico. E alla
comunicazione "rauca".
Premio Duse per la migliore attrice della stagione 2004:
Maddalena Crippa
La ragione di essere del Premio Duse è nel richiamare con forza, in un teatro
che cambia, il ruolo essenziale dell'interprete, mediatore insostituibile fra
testo, interpretazione della regia e attesa del pubblico. Nel nome celebre di
Eleonora Duse la Giuria sceglie annualmente l'interprete che si è imposta per
eccellenza nel corso della stagione di Prosa, lungo l'arco di una carriera di
esiti particolarmente positivi.
Accingendosi a deliberare per l'edizione 2004 del Premio, la diciannovesima,
la Giuria è stata lieta di constatare che la sua scelta sì indirizzava
naturalmente, con voto unanime, verso un'attrice che - in un panorama
teatrale dove non sempre, per identificati motivi, l'interprete può dare pieno
corso alle proprie risorse - ha saputo costruire col tempo un percorso
espressivo all'insegna della coerenza, della versatilità, di elevati livelli qualitativi, di una professionalità fuori discussione. Il tutto sostenuto da una
passione teatrale di schietta vena, manifestatasi con precoci esordi, e
condotto con alte, ambiziose sfide che l'hanno portata a frequentare i classici,
ad accostarsi ad auto- ri poco frequentati, a misurarsi con testi
contemporanei anche stranieri: tanto da presentarsi con l'immagine di
un'interprete impetuosa, febbrile, smaniosa del nuovo come Colei cui il
Premio è dedicato.
Oltre ad affidarsi a queste doti di carattere e di sensibilità, scevra per
modernità di sentire da atteggiamenti divistici di altri tempi, partecipe della
cultura del teatro del nostro tempo, l'attrice prescelta ha saputo prediligere il
lavoro di gruppo, considerare i rapporti con i compagni di scena e i registi
come uno scambio vivificante di esperienze. Fino a costruire alla fine un saldo
rapporto affettivo, oltreché professionale, con uno dei
maestri della regia. Tale sodalizio artistico ed umano, fonte di reciproco
arricchimento, l'ha portata a vivere in questi anni esemplari avventure
artistiche dell'intelligenza e del cuore. Oggi nel pieno di una maturità solare,
la nostra attrice è stata applaudita sempre più di frequente sulle scene
europee, quel- le tedesche in particolare.
E ha indirizzato il suo talento verso nuove forme di espressione, dal canto alla
danza, tanto che oggi non soltanto spicca come la personalità del nostro
teatro che più ampiamente si esprime, con estro italiano, nell'arte
dell'interpretazione, ma sa anche offrirsi al pubblico con tutte le risorse,
splendide, della voce, del corpo e dei gesti, molto contribuendo a definire la
figura ideale dell' interprete di un teatro del nostro tempo. Questa attrice che
unisce tradizione e modernità, che sa arri- vare a un pubblico di ogni età e ci
è invidiata fuori dai nostri confini è Maddalena Crippa.
Ha anche un significato che il Premio Duse le venga consegnato qui a Milano,
dove cominciò la sua carriera sotto la stella propiziatrice del Piccolo Teatro
dopo la prima giovinezza in Brianza, avviata adolescente, dal padre, alle prime
emozioni del teatro amatoriale insieme agli altri quattro fratelli fra cui
Giovanni, il maggiore, oggi attore famoso.
Dopo un paio di provini di trascinante spontaneità in via Rovello, Giorgio
Strehler volle che "il ragazzaccio dal cognome longobardo", come la chiamava,
fosse una delle tre fanciulle, la vivace Lucietta, nel suo allestimento del
“Campiello” di Goldoni, accanto a Pamela Villoresi e a Micaela Esdra. E fu per
la baruffante Lucietta brianzola, insieme all'anello di Anzoletto, l'incontro,
folgorante, con il grande teatro, con la ferrea disciplina di un maestro e con i
sogni di una ragazza che - ebbe a dire a cuore aperto - era stata allevata "a
pane e a teatro". Dopo la lunga tournée del “Campiello”, quattrocento repliche, che, Alice nel Paese delle meraviglie, la portò a Parigi e a Berlino, a
Varsavia e a Mosca, e dopo essere stata una giova- ne Lady ubriaca di potere
nel “Macbeth” allestito da Marcucci
a Roma, nell''85 è l'incontro con Luca Ronconi - da lei ammirato più per
l'acutezza delle analisi testuali - che la vuole nella “Commedia della
seduzione” di Arthur Schnitzler: e l'inversio- ne del rapporto seduttore-sedotta
le offre l'occasione per un ruolo, premiato dalla critica, di chiaroscuri
psicoanalitici.
C'è anche, in parentesi, un periodo in cui la ragazza prodigio Maddalena si
offre il divertimento di spettacoli meno impegna- ti, gioca a trasformarsi e a
provarsi in ruoli disparati, a reci- tare a briglia sciolta, a ballare e a cantare:
da “Italiani si muore” di Simonetta al Gerolamo a “Irma la dolce” di Bredford
per la televisione, con l'occhio supertruccato e l'abito charleston; e intanto
recita con Fo, va a scuola di danza e di canto, stupisce e si stupisce rivelando
una robusta voce di mezzosoprano dall'ampia tessitura che la recitazione ha
bene imposta- to. Queste ed altre incursioni nel repertorio più leggero non le
fanno perdere di vista, però, la strada maestra: rieccola nell’ 86, sulla scena
del Piccolo diretta da un altro maestro della regia europea, Antoine Vitez,
erede di Jean Vilar al parigino Théatre National del Palais Chaillot, in una
edizione smagliante del “Trionfo dell'amore” di Marivaux, dove il travestitismo
amoroso del personaggio di Leonide Focino, giocando su aspetti di androginia
teatrale, la porta a disegnare una di quel- le figure femminili insieme forti e
tenere che saprà altre volte riproporre.
Il lavoro con Massimo Castri - che di Pirandello è l'analista più sottile del
secondo Novecento - si concreta in un’ edizione del “Berretto a sonagli”,
accanto all'indimenticabile Tino Schirinzi come scrivano Campa: e qui
Maddalena dà inedito spessore alla figura di Beatrice, moglie tradita e pazza
secondo le apparenze ma in realtà liberata, nella sua dignità di donna,
quando denuncia il tradimento.
Sempre con Castri è la “Fedra” di D'Annunzio al Vittoriale: tra gli orpelli
linguistici del Vate la marcia di avvicinamento alle tragiche eroine che
solleciteranno le sue successive ambizioni di interprete. Con lo Stabile di
Sardegna è la fiera Nora in “Casa
191
di bambola” di Ibsen; con il Teatro di Parma porta al successo con Elisabetta
Pozzi, in ruoli alternati, “L'attesa”, tenera e straziante storia di maternità di
un autore italiano purtroppo prematuramente scomparso, Remo Binosi, e
occasione di un incontro con la giovane regista Cristina Pezzoli che proseguirà
con la ripresa di un testo vigoroso e misconosciuto del post realismo del
Novecento, “L'annaspo” di Raffaele Orlando e, a partire dal 2001, con la
comune e felice decisione di proporre - da “Sboom, canti e disincanti degli
anni 60” fino al recente “Canzonette vagabonde”, che ha chiuso la stagione al
Teatro Grassi - un'artista decisa a giocarsi sola in scena, con musici- sti
complici e amici, la carta del teatro canzone.
Intanto, tra qualche "vacanza" fra televisione e cinema, nel '90 è avvenuto
l'"incontro del destino" con Peter Stein, è una sensuale Tamora nella tragedia
dell'horror elisabettiano Tito Andronico che l'illustre regista tedesco deriva da
Shakespeare: "un modo nuovo - dirà lei - di vivere il teatro come lavoro di
gruppo, che mi ha aperto la mente".
E il cuore: due solide ragioni che nel 1994 la portano a interpretare in lingua
tedesca al Festival di Salisburgo, la figura incandescente della Lussuria nel
"mistero" allegorico, posta- sburgico, “Jedermann” di Hugo von Hofmannsthal
e nel '94, questa volta con Peter Stein, ad essere una mutevole, tormentata
Elena Andreevna in uno “Zio Vania” di Cechov di alto livello attoriale che da
Roma conquista poi il pubblico di Mosca e quello del Festival di Edimburgo,
dove è indicato come miglio- re spettacolo del Festival.
Si devono qui richiamare soltanto, per brevità, le altre tappe di una inesausta,
personale ricerca sotto l'occhio vigile di Stein, di sempre nuove esperienze che
la collocano negli anni Novanta al centro della scena musicale “La morte di
Lazzaro” in San Marco a Milano su testo di Saramago, l'audace “Pierrot
Lunaire” di Schonberg prodotto a Parma e replicato anche all'estero; le
“Canzoni italiane tra il '19 e il '39” portate anche in Europa, arricchitesi con il
repertorio tedesco fra le due guerre fino alle più recenti rielaborazioni;
l'amarcord di “Sboom, canti e disincanti degli anni 60”: tutti recitals con cui
sfida e conquista, recitando e cantando in più lingue, gli spettatori del
Messico, della Spagna, del Portogallo e, frequentemente, dell'Austria e della
Germania.
E arriviamo - in contemporanea e in alternanza con queste performances
canore fra gioiosità italiana e rigore tedesco, che continuano "a furor di
pubblico" - alla grande, recente prova della “Medea” per il quarantesimo ciclo
delle rappresentazioni classiche al Teatro Greco di Siracusa. Quando
Maddalena Crippa e Peter Stein, una volta di più in totale, organica, mirabile unità d'arte hanno ritrovato sul testo di Euripide, al fuoco di una
passione che brucia le scorie di letture riduttive o fuorvianti, la grandiosità
accecante del mito e, nello stesso tempo, offerto una fulgida prova di teatro
per il tempo presente.
Due anni prima, affrontando sempre a Siracusa un testo enigmatico,
complesso, di lampi barbarici e di effusioni romantiche come la “Pentesilea” di
Heinrich von Kleist, la Crippa e Stein avevano già mostrato a quali livelli di
tensione umana e artistica può portare l'intesa fra una interprete e il suo
regista.
Negli schemi di una grecità disegnata dalle geometrie e dalle luci, la tragedia
della regina delle Amazzoni, scandita dal gioco al massacro fra le vergini
guerriere e gli eroi greci della guerra di Troia, si tendeva nella prova di
Maddalena in un delirio d'a- more, tra l'orgoglio, il disprezzo e l'atroce epilogo
che trasforma l'incontenibile passione per Achille in un rito di appropriazione cannibalesco.
Si completa nella sua Medea - che ha unito il pubblico e la critica in un
omaggio entusiastico, e ha determinato la decisione della Giuria - la figura
ancestrale e moderna di una donna in cui si mescolano, fino alla follia del
matricidio, il fuoco di una passione calpestata, il dolore per la fedeltà tradita e
la durez- za di una razionalità in rivolta contro la realtà nemica. E' nei
tormenti di questa straziata solitudine, in un crescendo di tensione che dalla
lucidità impetuosa della rivolta sfocia nel mas- sacro dei figli come
autodistruzione, che la Crippa percorre il suo tragico tragitto dalla sua piccola
casa, nella terra che trema per l'orrore, fino alla luce accecante del Sole che la
sot- trae a chiunque abbia sensi umani.
Fra riflessi arcani della natura umana e schegge di angosciosi ricordi,
impetuosa e smarrita, alla fine simbolo dell'orrore, la Maga della Colchide di
Maddalena Crippa apre la serie delle memorabili prove di attrici del nuovo
secolo, e il Premio Duse ne esalta l'eccezionalità.