biografia di Giulia Lazzarini, Franca Nuti e
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biografia di Giulia Lazzarini, Franca Nuti e
Premio Duse per la migliore attrice della stagione 1986: Giulia Lazzarini Giulia Lazzarini è la vincitrice della prima edizione del Premio "Eleonora Duse" istituito dalla Banca Popolare di Vigevano allo scopo di perpetuare il ricordo della illustre concittadina e destinato ad un'attrice che si sia distinta nella trascorsa stagione di prosa. La decisione è stata adottata all'unanimità dalla Giuria composta da Guido Davico Bonino, presidente, e Roberto De Monticelli, Gastone Geron, Maria Grazia Gregori, Ugo Ronfani e destinato ad un’attrice che si sia distinta nella precedente stagione teatrale. Con questa scelta la Giuria ha inteso riconoscere l'intelligenza poetica con cui Giulia Lazzarini ha reso il personaggio della maestrina Isabella nell'allestimento di "Intermezzo" di Jean Giraudoux, curato da Carlo Battistoni per il Piccolo Teatro di Milano. Tale interpretazione ha messo in luce, in una felice sintesi di vibrante sensibilità e di maturata professionalità, le eccezionali doti attorali di Giulia Lazzarini, persuasivamente confermate nella più recente prova offerta, accanto a Giorgio Strehler, in "Elvira o la passione teatrale". Di una passione intensa e determinata per la scena, mai dis- giunta da un applicato rigore, sempre in armonia con la concezione di una disciplina comunitaria nel lavoro teatrale, e capace di salvaguardare un giusto equilibrio fra arte scenica e vita, si deve invero parlare a proposito di Giulia Lazzarini. Tanto impegno le ha consentito, alla severa scuola del Piccolo Teatro, di realizzare in questi anni interpretazioni tutte esemplari a vario titolo, e su disparati registri: basterà ricordare l'acrobatico Ariele della “Tempesta”, la poetica Winnie di “Giorni Felici”, la tormentata divorziata di “Buonanotte, mamma”, presentato nell'84 a Spoleto accanto a Lina Volonghi. Destinata, come allieva del Centro Sperimentale, al Cinema, ma da questo scarsamente impiegata, Giulia Lazzarini ha con- dotto, negli anni degli esordi, una doppia carriera teatrale e televisiva. Mentre recitava in palcoscenico accanto ai più grandi attori del momento, dalla Gramatica a Randone, dalla Adani a Benassi, dalla Zareschi ad Albertazzi, dalla Volonghi a Calindri, e - dopo una decisiva audizione nel '54 con Strehler - entrava a far parte della famiglia attorale del "Piccolo", vestendo i panni di Clarice nel trionfale "Arlecchino servitore di due padroni", Giulia Lazzarini si faceva apprezzare, per la sua rara facoltà di esprimere e comunicare emozioni imme- diate, anche dal vasto pubblico di una televisione che matu- rava nei suoi modi espressivi e le affidava, accanto a ruoli in sceneggiati popolari come "Le due orfanelle", "I Miserabili" o "Capitan Fracassa", personaggi di rilievo nella versione televi- siva del "Mulino del Po" di Bacchelli, o testi di prosa come "Casa di bambola", "La pazza di Chaillot", "Piccola Città". Se la partecipazione a primarie compagnie private e pubbliche le hanno consentito di mostrare, in un repertorio senza soste ampliato, la sua versatilità interpretativa (basti ricordare una prima "Tempesta" con Enriquez a Verona; "L'ultima stanza" di Green e "Le notti Bianche" da Dostoevskij a Torino, con Bosetti, e "L'amica delle mogli" o "Edda Gabler" con De Lullo- Valli), è al "Piccolo Teatro", con il magistero di Strehler, che Giulia Lazzarini ha affrontato le prove più persuasive e felici: il nuovo "Arlecchino", portato anche negli Stati Uniti e in Unione Sovietica; la "Vita di Galileo" di Brecht; "Mercadet l'af- farista" di Balzac; "L'Egoista" di Bertolazzi; "L'Opera da tre soldi", "Il giardino dei ciliegi", "Il Balcone" di Genet, le nuove edizioni della "Tempesta", anche sulle ribalte di Los Angeles durante i giochi olimpici e del Teatro d'Europa a Parigi; non- ché quella "Minnie la Candida" di Bontempelli che le fu straordinariamente congeniale. Attrice con salde radici nella migliore tradizione della scena italiana e tuttavia aperta al movimento delle idee del teatro mondiale contemporaneo; capace come poche di cogliere in trasparenza la vera identità dei personaggi; contraria per naturale misura e innata modestia alle concessioni della spettacolarità, Giulia Lazzarini ha offerto al suo pubblico, che la ama e la stima, quelle emozioni profonde che soltanto nascono dalla verità interpretativa. Ed è oggi giunta a quelle vette, nella sua arte di dire il vero attraverso l'illusione teatrale, che rendono meritatissimo il conferimento del Premio intitolato alla memoria prestigiosa di Eleonora Duse. Premio Duse per la migliore attrice della stagione 1992: Franca Nuti Giunto oramai alla settima edizione, la giuria del Premio inti- tolato al nome della "Divina" per antonomasia assegna all'u- nanimità il "Duse 1992" a Franca Nuti. Il Premio è assegnato alla signora Nuti per la straziante magica interpretazione di "Donna di dolori" di Patrizia Valduga con la regia di Luca Ronconi, momento culminante di un itinerario d'arte, ormai quasi quarantennale, contrassegnato da un rigore raro, senza compromissioni. "Vi ricordate, sul palcoscenico dell'Olimpia, la moglie legittima di “Il seduttore” di Diego Fabbri, quella che non sapeva delle altre due, che le intrigavano il cuore del marito"? Una ragazza bionda, alta, con un profilo deciso ed una recita- zione fra pensosa e tenera; era Franca Nuti, un'altra delle giovani attrici sulle quali probabilmente si potrà contare". Così scriveva nel 1957, uno che di attori se ne intendeva: Roberto De Monticelli. Eccoci qui, stasera, a completare il Carro dell'Orsa Maggiore, cui mancava la settima stella: tra le splendide star del Premio Eleonora Duse, brilla, adesso, Franca Nuti. Altre attrici, è vero, sono ancora in lista d'attesa, per costrui- re una nuova costellazione; ne faranno prossimamente parte e ci rallegrerà, perché ciò sarà l'indicazione che la pianta attore seguita a mettere fiori. Soprattutto al femminile. La giuria, dunque, saluta e applaude Franca Nuti, al cui fasci- no squisito non si può anzitutto non rendere omaggio; non però attardandovisi, perché l'occasione invita a concentrarsi sui meriti, sui valori del mestiere che l'attrice possiede, incarna e governa in maniera sovrana. Dire mestiere non è stato insinuare una diminutio capitis. Mestiere ad alto livello conduce ad artigiano, termine che ha già in sé una parentela con l'arte, è presagio del gradino maggiore. La civiltà italiana, del resto, è stata per secoli tessuta in buona parte dagli artigiani: della pietra come del legno, della tela come del ferro. Ed esse- re attore è, per cominciare, imparare a dire, apprendere gesti, leggere testi, cogliere sfumature, fare provvista di segreti e (perché no?) di trucchi. Essere attore non è saper fingere. E' saper sentire, per saper vivere e conoscere come gli altri vivono. Essere attore è andare perennemente a scuola dalla vita anzi dall'uomo e da ogni sua tendenza, da ogni suo spessore; è capire che la vita è tutta un'ipotesi, uno sciorinare fantasie, è una fecondità di epifanie e di variazioni. E Franca Nuti ci ha fatto intendere che è lavoro, lavoro sotto il cerone e gli effimeri applausi. Un grande attore o attrice - quale essa è, lavora non per il successo ma, a fondo e meglio, per se stesso, per conoscersi meglio attraverso la penetrazione dei personaggi, dove si proietta l’insondabilità dell’uomo. Il mestiere dell'atto- re, così inafferrabile da chi attore non è, è gloria di grazia ricevuta e, nello stesso tempo, conquistata; d'altro canto, questa gloria non è spocchiosa bensì umilissima, perché costa tutte le lacrime dell'uomo e, di più, il rinunciarsi, il farsi laboratorio di altre identità, il servire con ogni fedeltà la parola voluta dal- l'autore. Franca Nuti ha esercitato alla perfezione queste virtù di dedizione, di immedesimazione con lucido e critico senso di responsabilità. I suoi traguardi sono il frutto di un lavoro senza compromessi. E' la qualità intrinseca di un animo naturaliter portato all'arte che le ha poi ottenuto i tanti riconoscimenti di cui il Duse è - per ora - coronamento e che sono andati ad un'attrice per sé, tutta riserbo, tutta equilibrio personale tra gli adempimenti della vocazione e quelli di una sposa e madre, che più volte l'hanno trattenuta lontano dalla scena. E vale allora la pena raccogliere, di Franca Nuti, la lezione esemplare che deriva dal suo metodo di lavoro, a sottolineare che fare l'attore è anche portare una croce e mettere ogni volta in gioco non solo la carriera, ma anche il proprio destino umano, la propria cultura identificante. Come lavora l’attrice, per dare vita ad un personaggio? Eccola radunare quante notizie può, d’ordine morale, ambientale, storico, eccola indagare nel quadro psicologico, verificarlo in attendibilità di comporta- menti; eccola porsi specularmente a lui, figura e persona, discuterne con lui - il personaggio sempre ritroso - silenziosa- mente i problemi, i modi, l’essere e il parere. La guida ansia di perfezione immedesimante in una verità fantastica attraverso un'interpretazione colta, oggettivata, interrogatrice e mai sazia dell'altro - il personaggio - e di sé - l'attrice, che vuole condur- re a termine una esperienza proficua delle suggestioni individuali. E il personaggio è reso non una bella parte, ma una epifania di verità. Questo ha voluto essere il mestiere per Franca Nuti - dopo gli studi all'accademia dei Filodrammatici, avendo a maestra Esperia Sperania partire dal suo esordio, nel 1953, nell'"Allodola" di Anouilh, che fu prodotta proprio dalla Compagnia del Teatro di via Manzoni, con la regia di Mario Ferrero. Fu subito "seconda donna", nella compagnia Ricci - Magni - Proclemer Albertazzi, che intraprese un "King Lear" (lei era Regana) diretto da Franco Enriquez. Abitò, dunque, appena sbocciata all'arte, le stanze nobili. E tra Renzo Ricci, Franco Enriquez ed Enzo Ferrieri e Giorgio Albertazzi e Orazio Costa e Sandro Bolchi e Mario Sciaccaluga in veste di registi, ella affermò, non essendo presto "inferiore a nessuno" - come ha scritto Eva Magni - la sua arte di "rara finezza". Un ricordo tutto milanese di quel tempo, ciò alla fine degli anni Settanta. Franca Nuti recitò al Filodrammatici, con la regia eccellente di Lorenzo Grechi, "Una strana quiete" di Renato Mainardi. Regista e autore prematuramente scomparsi. L'attrice era Gaia, la protagonista. Di lei, fu scritto "La sua Gaia è - nell'ascesa ad una smarrita e spoglia dichiarazione drammatica - una esemplare dimostrazione di come si costruisce e poi si vive un personaggio difficile per complessità di piani e contrastata esperienza". Tra i suoi compagni una "deliziosa" Eva Magni. Ebbe parti sempre più importanti, in "Riunione di famiglia" di Eliot, in "I sequestrati di Altona" di Sartre, in "Lavinia fra i dannati" del nostro Carlo Terron, e in testi di O'Neil, Moravia, Pirandello, Ibsen e Odets, a dire un rigore illuminato, costante anche nelle scelte. Non ha fatto mai nulla tanto per fare, ma in ogni ruolo ha assunto un impegno di conquista estetica. Una direttrice che, innestandosi con la curiosità per un palco- scenico moderno l'ha portata finalmente ad accasarsi con un maestro della regia, quale Luca Ronconi. Ma per arrivare a lui c'è un percorso con tappe particolarmente significative ed è da ricordare, soprattutto, tra le sue prime, lontane affermazioni, quella di Maria, la protagonista, nel primo Svevo rappresenta- to in Italia, cioè "L'avventura di Maria", che Aldo Trionfo allestì a Spoleto nel 1966. Nel non gremito - perché centellinato - cahier di Franca Nuti (sono meno di 40 gli spettacoli che vuole ricordati), ci sono altre tre significative avventure con Aldo Trionfo, regista di genio provocatorio, ed è "Tito Andronico" di Shakespeare, "Il piccolo Eyolf" e il "Peer Gynt" di Ibsen: chiara indicazione di una scelta culturale, di una estrosità acuta, di una modernità di concezioni veramente sorprendenti in una giovane attrice. Nel 1979 comincia, dunque, l'avventura con Ronconi: dapprima un assaggio, col ruolo di Gunhild, la moglie, in "John Gabriel Borkman" di Ibsen, e poi, a Prato, la strenua prova di "Ignorabimus" il terribile leggendario dramma naturalista di Arno Holz, dove vestì impavidamente i panni maschili del professore ed eccellenza Dufroy-Regnier, lasciando i naturali costumi a Edmonda Aldini, Delia Boccardo, Marisa Fabbri ed Annamaria Guarnieri. Negli intervalli, le attrici si accasciava- no e c'era un pronto soccorso solo per loro. Uno dei vertici d'arte raggiunti dalla Nuti fu la parte della Priora dei "Dialoghi delle Carmelitane" di Georges Bernanos, in cui la tragicità interiore della suora agonizzante in preda alla paura della morte si tradusse in spasimi d'agghiacciante potenza scenica. Ella sarà poi Mascia nelle cechoviane "Tre sorelle" e infine, rinnovando l'espressività estrema ed agghiacciante della Priora, trasse dalla morte la vita nel monologo di Patrizia Valduga "Donna di dolori": una prova michelangiolesca. Ella ha saputo trasmettere - come nessuna - tante volte quella "vibrazione nella voce" che Roberto De Monticelli ebbe a chiamare - con stupenda invenzione - "la raucedine dell'attore" ossia quanto "di fantasia, di tremore emotivo e di insondabile turba- mento del cuore un attore riesce a modulare con le sue parole", raccogliendolo con la sua ragionata sensibilità nell'ugola e dall'anima. E "rauca" in questo senso metaforico - cioè anche critica, denunciatrice - è davvero la voce della Nuti, così forte e intensa, densa e sicura, inimitabile per suono e appoggiature; così assorta, inflessibile e determinata è la sua calda pronuncia, in cui una sorta di lontananza fa intendere che la battuta è sol- tanto l'eco di un lavorio della mente e dello spirito. La "raucedine istrionica" è la verità consacrata di un'arte, è la voce che ci fa sondare la persona insieme col personaggio e identifica l'attore nella sua necessità d'essere tale. Come acca- de, ancora un esempio, a Franca Nuti, quando fu chiamata dalla RAI a dare voce all'elaborazione di Tosca dei gatti il noto romanzo di Gina Lagorio. Fu una Tosca assoluta, sua propria; fu un fantasma d'autore creativamente aderente. Questa è l'arte che la giuria ha voluto onorare: un'arte cristallina, una voce ferma e profonda, un'alterezza che è aristocrazia dell'anima, un recitare tutto sostanza e fede e sconvolgimento dell'io, un'imperiosità senza appoggi, un fluire di incantamenti visivi e tonali, un essere la verità vera del personaggio per l'effimera e pur memorabile ora del suo esistere. Così la Nuti pos- siede e supera il mestiere. E anche lo spettatore, quando Franca Nuti è in scena si smemora e si crede "altro". Ed è felice, perché è stato condotto al Bello, con occhi, con mano, con cuore, con intelligenza che hanno non superato, ma frantumato il mestiere, grazie ad un estro avvincente e prorompente, creativo d'ogni modulazione, pronto ad ogni fervore, duttile al rinnovarsi: voce inconfondibile di una persona votata agli accenti, alle sofferenze estreme del tragico. E alla comunicazione "rauca". Premio Duse per la migliore attrice della stagione 2004: Maddalena Crippa La ragione di essere del Premio Duse è nel richiamare con forza, in un teatro che cambia, il ruolo essenziale dell'interprete, mediatore insostituibile fra testo, interpretazione della regia e attesa del pubblico. Nel nome celebre di Eleonora Duse la Giuria sceglie annualmente l'interprete che si è imposta per eccellenza nel corso della stagione di Prosa, lungo l'arco di una carriera di esiti particolarmente positivi. Accingendosi a deliberare per l'edizione 2004 del Premio, la diciannovesima, la Giuria è stata lieta di constatare che la sua scelta sì indirizzava naturalmente, con voto unanime, verso un'attrice che - in un panorama teatrale dove non sempre, per identificati motivi, l'interprete può dare pieno corso alle proprie risorse - ha saputo costruire col tempo un percorso espressivo all'insegna della coerenza, della versatilità, di elevati livelli qualitativi, di una professionalità fuori discussione. Il tutto sostenuto da una passione teatrale di schietta vena, manifestatasi con precoci esordi, e condotto con alte, ambiziose sfide che l'hanno portata a frequentare i classici, ad accostarsi ad auto- ri poco frequentati, a misurarsi con testi contemporanei anche stranieri: tanto da presentarsi con l'immagine di un'interprete impetuosa, febbrile, smaniosa del nuovo come Colei cui il Premio è dedicato. Oltre ad affidarsi a queste doti di carattere e di sensibilità, scevra per modernità di sentire da atteggiamenti divistici di altri tempi, partecipe della cultura del teatro del nostro tempo, l'attrice prescelta ha saputo prediligere il lavoro di gruppo, considerare i rapporti con i compagni di scena e i registi come uno scambio vivificante di esperienze. Fino a costruire alla fine un saldo rapporto affettivo, oltreché professionale, con uno dei maestri della regia. Tale sodalizio artistico ed umano, fonte di reciproco arricchimento, l'ha portata a vivere in questi anni esemplari avventure artistiche dell'intelligenza e del cuore. Oggi nel pieno di una maturità solare, la nostra attrice è stata applaudita sempre più di frequente sulle scene europee, quel- le tedesche in particolare. E ha indirizzato il suo talento verso nuove forme di espressione, dal canto alla danza, tanto che oggi non soltanto spicca come la personalità del nostro teatro che più ampiamente si esprime, con estro italiano, nell'arte dell'interpretazione, ma sa anche offrirsi al pubblico con tutte le risorse, splendide, della voce, del corpo e dei gesti, molto contribuendo a definire la figura ideale dell' interprete di un teatro del nostro tempo. Questa attrice che unisce tradizione e modernità, che sa arri- vare a un pubblico di ogni età e ci è invidiata fuori dai nostri confini è Maddalena Crippa. Ha anche un significato che il Premio Duse le venga consegnato qui a Milano, dove cominciò la sua carriera sotto la stella propiziatrice del Piccolo Teatro dopo la prima giovinezza in Brianza, avviata adolescente, dal padre, alle prime emozioni del teatro amatoriale insieme agli altri quattro fratelli fra cui Giovanni, il maggiore, oggi attore famoso. Dopo un paio di provini di trascinante spontaneità in via Rovello, Giorgio Strehler volle che "il ragazzaccio dal cognome longobardo", come la chiamava, fosse una delle tre fanciulle, la vivace Lucietta, nel suo allestimento del “Campiello” di Goldoni, accanto a Pamela Villoresi e a Micaela Esdra. E fu per la baruffante Lucietta brianzola, insieme all'anello di Anzoletto, l'incontro, folgorante, con il grande teatro, con la ferrea disciplina di un maestro e con i sogni di una ragazza che - ebbe a dire a cuore aperto - era stata allevata "a pane e a teatro". Dopo la lunga tournée del “Campiello”, quattrocento repliche, che, Alice nel Paese delle meraviglie, la portò a Parigi e a Berlino, a Varsavia e a Mosca, e dopo essere stata una giova- ne Lady ubriaca di potere nel “Macbeth” allestito da Marcucci a Roma, nell''85 è l'incontro con Luca Ronconi - da lei ammirato più per l'acutezza delle analisi testuali - che la vuole nella “Commedia della seduzione” di Arthur Schnitzler: e l'inversio- ne del rapporto seduttore-sedotta le offre l'occasione per un ruolo, premiato dalla critica, di chiaroscuri psicoanalitici. C'è anche, in parentesi, un periodo in cui la ragazza prodigio Maddalena si offre il divertimento di spettacoli meno impegna- ti, gioca a trasformarsi e a provarsi in ruoli disparati, a reci- tare a briglia sciolta, a ballare e a cantare: da “Italiani si muore” di Simonetta al Gerolamo a “Irma la dolce” di Bredford per la televisione, con l'occhio supertruccato e l'abito charleston; e intanto recita con Fo, va a scuola di danza e di canto, stupisce e si stupisce rivelando una robusta voce di mezzosoprano dall'ampia tessitura che la recitazione ha bene imposta- to. Queste ed altre incursioni nel repertorio più leggero non le fanno perdere di vista, però, la strada maestra: rieccola nell’ 86, sulla scena del Piccolo diretta da un altro maestro della regia europea, Antoine Vitez, erede di Jean Vilar al parigino Théatre National del Palais Chaillot, in una edizione smagliante del “Trionfo dell'amore” di Marivaux, dove il travestitismo amoroso del personaggio di Leonide Focino, giocando su aspetti di androginia teatrale, la porta a disegnare una di quel- le figure femminili insieme forti e tenere che saprà altre volte riproporre. Il lavoro con Massimo Castri - che di Pirandello è l'analista più sottile del secondo Novecento - si concreta in un’ edizione del “Berretto a sonagli”, accanto all'indimenticabile Tino Schirinzi come scrivano Campa: e qui Maddalena dà inedito spessore alla figura di Beatrice, moglie tradita e pazza secondo le apparenze ma in realtà liberata, nella sua dignità di donna, quando denuncia il tradimento. Sempre con Castri è la “Fedra” di D'Annunzio al Vittoriale: tra gli orpelli linguistici del Vate la marcia di avvicinamento alle tragiche eroine che solleciteranno le sue successive ambizioni di interprete. Con lo Stabile di Sardegna è la fiera Nora in “Casa 191 di bambola” di Ibsen; con il Teatro di Parma porta al successo con Elisabetta Pozzi, in ruoli alternati, “L'attesa”, tenera e straziante storia di maternità di un autore italiano purtroppo prematuramente scomparso, Remo Binosi, e occasione di un incontro con la giovane regista Cristina Pezzoli che proseguirà con la ripresa di un testo vigoroso e misconosciuto del post realismo del Novecento, “L'annaspo” di Raffaele Orlando e, a partire dal 2001, con la comune e felice decisione di proporre - da “Sboom, canti e disincanti degli anni 60” fino al recente “Canzonette vagabonde”, che ha chiuso la stagione al Teatro Grassi - un'artista decisa a giocarsi sola in scena, con musici- sti complici e amici, la carta del teatro canzone. Intanto, tra qualche "vacanza" fra televisione e cinema, nel '90 è avvenuto l'"incontro del destino" con Peter Stein, è una sensuale Tamora nella tragedia dell'horror elisabettiano Tito Andronico che l'illustre regista tedesco deriva da Shakespeare: "un modo nuovo - dirà lei - di vivere il teatro come lavoro di gruppo, che mi ha aperto la mente". E il cuore: due solide ragioni che nel 1994 la portano a interpretare in lingua tedesca al Festival di Salisburgo, la figura incandescente della Lussuria nel "mistero" allegorico, posta- sburgico, “Jedermann” di Hugo von Hofmannsthal e nel '94, questa volta con Peter Stein, ad essere una mutevole, tormentata Elena Andreevna in uno “Zio Vania” di Cechov di alto livello attoriale che da Roma conquista poi il pubblico di Mosca e quello del Festival di Edimburgo, dove è indicato come miglio- re spettacolo del Festival. Si devono qui richiamare soltanto, per brevità, le altre tappe di una inesausta, personale ricerca sotto l'occhio vigile di Stein, di sempre nuove esperienze che la collocano negli anni Novanta al centro della scena musicale “La morte di Lazzaro” in San Marco a Milano su testo di Saramago, l'audace “Pierrot Lunaire” di Schonberg prodotto a Parma e replicato anche all'estero; le “Canzoni italiane tra il '19 e il '39” portate anche in Europa, arricchitesi con il repertorio tedesco fra le due guerre fino alle più recenti rielaborazioni; l'amarcord di “Sboom, canti e disincanti degli anni 60”: tutti recitals con cui sfida e conquista, recitando e cantando in più lingue, gli spettatori del Messico, della Spagna, del Portogallo e, frequentemente, dell'Austria e della Germania. E arriviamo - in contemporanea e in alternanza con queste performances canore fra gioiosità italiana e rigore tedesco, che continuano "a furor di pubblico" - alla grande, recente prova della “Medea” per il quarantesimo ciclo delle rappresentazioni classiche al Teatro Greco di Siracusa. Quando Maddalena Crippa e Peter Stein, una volta di più in totale, organica, mirabile unità d'arte hanno ritrovato sul testo di Euripide, al fuoco di una passione che brucia le scorie di letture riduttive o fuorvianti, la grandiosità accecante del mito e, nello stesso tempo, offerto una fulgida prova di teatro per il tempo presente. Due anni prima, affrontando sempre a Siracusa un testo enigmatico, complesso, di lampi barbarici e di effusioni romantiche come la “Pentesilea” di Heinrich von Kleist, la Crippa e Stein avevano già mostrato a quali livelli di tensione umana e artistica può portare l'intesa fra una interprete e il suo regista. Negli schemi di una grecità disegnata dalle geometrie e dalle luci, la tragedia della regina delle Amazzoni, scandita dal gioco al massacro fra le vergini guerriere e gli eroi greci della guerra di Troia, si tendeva nella prova di Maddalena in un delirio d'a- more, tra l'orgoglio, il disprezzo e l'atroce epilogo che trasforma l'incontenibile passione per Achille in un rito di appropriazione cannibalesco. Si completa nella sua Medea - che ha unito il pubblico e la critica in un omaggio entusiastico, e ha determinato la decisione della Giuria - la figura ancestrale e moderna di una donna in cui si mescolano, fino alla follia del matricidio, il fuoco di una passione calpestata, il dolore per la fedeltà tradita e la durez- za di una razionalità in rivolta contro la realtà nemica. E' nei tormenti di questa straziata solitudine, in un crescendo di tensione che dalla lucidità impetuosa della rivolta sfocia nel mas- sacro dei figli come autodistruzione, che la Crippa percorre il suo tragico tragitto dalla sua piccola casa, nella terra che trema per l'orrore, fino alla luce accecante del Sole che la sot- trae a chiunque abbia sensi umani. Fra riflessi arcani della natura umana e schegge di angosciosi ricordi, impetuosa e smarrita, alla fine simbolo dell'orrore, la Maga della Colchide di Maddalena Crippa apre la serie delle memorabili prove di attrici del nuovo secolo, e il Premio Duse ne esalta l'eccezionalità.