Non farli sudare

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Non farli sudare
Non farli sudare
di Gianluca Iadecola
Giulia ha tre bambini, ma non un marito. Per poco lo ha avuto ma oggi l’ha perduto, non
ai dadi o nel bosco, come si perdono generalmente le cose, semplicemente Antonio se ne
è andato, via per sempre. Tutti e cinque vivevano in un sottoscala, non troppo lontano dal
centro, vicino al teatro. Due camere in tutto, una per i bambini, l’altra per mamma e papà,
l’angolo cottura a fianco al letto e dietro una porta marrone il gabinetto, tutto rosa.
Antonio è bassino, magro ed idraulico, sempre al lavoro, calloso quasi padroncino.
Quando se ne è andato ha nascosto sotto il cuscino di Giulia un biglietto con due righe,
mai scritto tanto in vita sua.
Chiara è la più grande, Andrea e Valentina sono arrivati un anno dopo, ex equo,
gemelli.
Al primo compleanno di Chiara, Giulia ha pianto per la gioia, da sola nel suo letto.
Quando Antonio rincasando l’ha trovata singhiozzante eccitato l’è entrato dentro senza
chiederle perché. Dopo, fumando, prese ad accarezzargli il seno e stretti l’un l’altro si sono
addormentati. Al mattino Antonio è uscito per primo, la cassetta degli attrezzi in spalla, la
sigaretta in bocca. Giulia ha aspettato che la balia arrivasse, alle sette, per andare a
prendere il 12 rosso sbarrato che l’ha portata fino a largo San Pietro dove pulisce le scale
dei condomini GESCAL.
Tutte le mattine rivolge alla balia le stesse raccomandazioni: provvedi che mangino
stai attenta che nessuno te li rubi
se gli fai il bagnetto non farteli scivolare coprili bene
non farli sudare. La balia come ogni mattina annuisce col capo, poi mischia i suoi
marmocchi con quelli di Giulia e appoggiata al davanzale della finestra fuma, legge il
futuro decifrando le nuvole azzurrine che le escono dalla bocca, accende un’altra sigaretta
mentre beve il caffè avanzato. Con l’alluminio del pacchetto costruisce fiori al profumo di
tabacco.
Giulia intanto è arrivata alle case GESCAL, afferra lo spazzolone sempre dallo stesso
lato, tanto che un incavo accoglie la pelle morbida tra indice e pollice, riempie il secchio
alla fontanella del giardino, poco fuori il portone, lo trascina sulle scale fin sopra al quinto
piano. Quando l’acqua diviene nera fa il percorso inverso, butta quella brodaglia
direttamente nella fogna attraverso un tombino e riempie nuovamente il secchio. Ogni
movimento è conosciuto a perfezione da Giulia, così come da tutte le donne che fanno la
pulizia scale nei condomini del mondo, non c’è il minimo spreco di energia, i gesti sono
stati nettati, ridotti, in modo da essere funzionali ed economici. Apre il rubinetto, l’acqua
fredda le ghiaccia le mani viola, risale le scale, al terzo piano si ferma un momento per
respirare, per pensare ai suoi bambini, specie Andrea che è malaticcio, nulla di grave ma
sempre presente. Il cuore si è calmato, il respiro torna regolare, riparte. Al quarto piano
posa il secchio, lo spazzolone è già lì ad attenderla appoggiato al muro o scivolato a terra,
lo raccoglie e comincia il suo numero. Prende lo strofinaccio, lo bagna bene nell’acqua
strizzandolo con energia, lo sbatte a terra
splasch
lo spazzolone compie geometrie
astrali, il pianerottolo torna a brillare ma l’acqua nel secchio deve essere cambiata,
nuovamente. E allora giù, uno scalino alla volta, senza contarli che è peggio, aspetta che
la fontanella compia il proprio dovere, solleva il secchio, questa volta troppo pieno, tanto
che dell’acqua gli cade sulle scarpe bagnandogli i piedi, e ritorna al terzo piano. Quando
ha finito di pulire le scale che vanno fino al secondo si siede e aspetta.
Le voci infantili dei bambini De Rossi arrivano come un sussurro, Giulia non muove un
muscolo, tutta tesa all’ascolto. Sono in ritardo, lo sono sempre. La concitazione dell’uscita
imminente è nell’aria, i bambini rispondono con mugolii e mezze frasi alle domande
perentorie della madre.
-
Hai preso il sussidiario?
-
Hmm…
-
La riga? Mettetevi il cappello e i guanti, svelti su.
La porta si apre, il signor De Rossi ingoia con le proprie mani quelle dei due figli, li deve
portare a scuola, sono le otto e venti. E’ tardi.
-
Sbrigati Aldo sono le otto e venti passate - gli urla la moglie che già segue
la seconda telenovela del mattino - oggi hanno matematica a prima ora,
chi lo sente poi il maestro Castrucci.
I bimbi tutti infagottati sembrano due cotechini e scendono giù col papà che ha il suo
bel da fare per tenere in equilibrio sulla schiena i due zainetti. A quest’ora nessun altro
esce dai piani alti così che le scale hanno il tempo di asciugarsi senza serbare impronte di
scarpe.
I piedi bagnati le fanno sentire freddo, li sbatte a terra
splasch
zuppi come lo
strofinaccio. Toglie le scarpe e i calzettoni di lana grossa, li scalda strofinando le mani
sulle palme e alitando, va già meglio ma dura poco. Otto e quaranta. Deve sbrigarsi,
l’aspettano in cinque altre palazzine. Rinfila le calze e le scarpe con un senso di dolore, lo
stesso che proverà a casa davanti alla stufa elettrica, togliendole.
Ogni pomeriggio tornando a casa ripensa ai bambini De Rossi, a come sono belli e
sani, mentre Andrea, sempre così, né bene né male, pallidino col naso arricciato. Con lo
sguardo cerca per strada bambini della sua età, ce ne sono pochi in giro. Quando ne trova
uno lo osserva avidamente, vorrebbe prendergli un sorriso e stamparlo sulla bocca di
Andrea, rubargli un mugolio, un grido, finanche il pianto ma mai le è venuto in mente di
fare a cambio, mai.
Tutto il suo amore parte da una consapevolezza: i suoi figli le appartengono
completamente. Non li condivide neanche con Antonio, se non geneticamente ma per il
resto sono suoi, solo suoi e di Dio, naturalmente. La sera, prima di coricarsi, siede a fianco
ai loro lettini e prega, li segna più volte con la croce, cantandogli una buffa ninnananna
che ha inventato. Dovrà alzarsi tre volte nella notte per le poppate dei gemelli.
Valentina mangia bene, vivace, urla fino a diventare paonazza per la fame mentre
Andrea sta lì, con gli occhi serrati, infastidito, disturbato dal chiasso prodotto dalla
rumorosa sorella. Non piange mai e anche alla nascita l’ostetrica ha avuto un bel da fare
per farlo respirare, colpendolo ripetutamente sul sedere ancora sporco di sangue. Quando
Giulia ha saputo che avrebbe partorito una coppia di gemelli per l’emozione ha avuto una
crisi isterica, sedata subito da Antonio con un paio di ceffoni terapeutici. Lucia, la mamma
di Giulia, ha immediatamente confezionato all’uncinetto due tutine, due tovaglioli per la
pappa, due paia di calze, due cappellini, due sciarpine, due paia di scarpine, insomma due
di tutto. La madre di Antonio giaceva in un letto d’ospedale, tumore, ed aspettava la notizia
della nascita dei nipotini come la propria. Giulia era in travaglio quando chiese ad una
infermiera di chiamare il marito, e quella sciagurata le rispose che Antonio non c’era, la
madre era appena morta, bisognava comporre il cadavere. Giulia urlò, scalciò, sputò ma i
suoi bambini volevano uscirle di grembo e lo fecero alla svelta.
Quando Antonio arrivò all’obitorio Giulia aveva appena partorito. La notizia era giunta
fulminea a tutti i parenti, un maschio e una femminuccia, bellissimi, sani. Nessuno sapeva
come rivolgersi al povero Antonio, fargli gli auguri, le condoglianze, lui piangeva,
solamente piangeva.
Il giorno del funerale i bambini uscirono dall’ospedale, Andrea e Valentina, come era
stato deciso se fossero stati un maschietto e una femminuccia. Antonio mise nel loculo,
sulla bara, tre mazzetti di fiori con un bigliettino su cui aveva scritto i nomi dei propri figli.
A Giulia sembra ingiusto avere una preferenza, vorrebbe che tutti e tre i suoi figli siano
uguali ma non è così. Andrea ha bisogno di lei, sente che morirebbe senza di lei, e la
stessa cosa le succederebbe senza Andrea. Quando Valentina piange di notte perché ha
fame, Giulia si alza assonnata, si veste come l’oscurità le permette, meccanicamente
porge il seno ad Andrea che mangia pigramente. Anche Chiara piange.
Antonio si agita nel letto, urla di farli star zitti. Ad un certo punto sembra che tutto il
condominio pianga, ci si mettono pure un’ambulanza che si allontana inghiottita dalla
notte, le gatte in calore, le canzonacce dei vecchi dai baffi ingialliti dal vino e Valentina e
Chiara e Antonio e l’ambulanza la notte e … Basta.
Giulia chiude la porta del bagno, siede sul bordo della vasca, guarda il suo bambino,
ne osserva le pieghe del collo, sotto il mento, e i buchini dei gomiti, assenti, precocemente
scomparsi in quel bimbo ossuto tutto spigoli. Gli prepara la medicina, da due flaconcini
ottiene un liquido lattescente dall’odore dolciastro, penetrante. Andrea lo ingurgita, un
pochino lo sputa, gli scende giù per un angolo della bocca fino al collo e entra dentro,
appiccicaticcio, tra i vestiti. Le torna alla mente il sogno appena fatto: il suo latte era
diventato nero. Mentre allattava Andrea si era accorta che il latte era nero, pieno di insetti,
insetti di tutte le forme e dimensioni che entravano nella boccuccia di suo figlio,
soffocandolo, mangiandolo da dentro. Ricorda di aver gridato o forse erano le urla di
Valentina, che l’avevano svegliata. Un brivido le sale su per la schiena.
E’ già quasi mattino quando finisce di accudire i bambini e deve cominciare con
Antonio, preparargli la colazione e il pranzo che porterà con sé insieme al termos per il
caffellatte. Non aspetta che suoni la sveglia, un minuto prima si avvicina al marito con un
bacio e una tazzina di caffè fumante. Si abbracciano. Antonio ha il viso segnato dalle
pieghe dei cuscini, i capelli schiacciati e alzati tutti su un lato, la bocca che sa di
sgabuzzino, perciò appoggiano solo le labbra con piccoli schiocchi. Antonio alle sei e
mezza esce con la cassetta degli attrezzi a tracolla, la sigaretta in bocca. Giulia aspetta la
balia, alle sette, per le solite raccomandazioni.
Sarà lei a trovare il biglietto lasciato da Antonio sotto il cuscino.